Vacilla il trono del dollaro |
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8 Giugno 2025 Da Comedonchisciotte del 7-6-2025 (N.d.d.) “Credo che dobbiamo partire dall’idea che la sconfitta porti alla rivoluzione, per comprendere la rivoluzione di Trump”. “L’esperienza in corso negli Stati Uniti, anche se non sappiamo esattamente cosa sarà, è una rivoluzione. È una rivoluzione in senso stretto? È una controrivoluzione?” Così ha affermato lo storico e filosofo francese Emmanuel Todd nella sua conferenza di aprile a Mosca, “Dalla Russia con amore“. “Questa [rivoluzione di Trump] è, a mio avviso, legata alla sconfitta. Diverse persone mi hanno riferito di conversazioni tra membri del team di Trump, e ciò che colpisce è la loro consapevolezza della sconfitta. Persone come J.D. Vance, il vicepresidente, e molti altri, sono persone che hanno capito che l’America ha perso questa guerra”. Questa consapevolezza americana della sconfitta, tuttavia, contrasta nettamente con la sorprendente mancanza di consapevolezza – o meglio, di negazione – della sconfitta da parte degli europei: “Per gli Stati Uniti, si tratta fondamentalmente di una sconfitta economica. La politica delle sanzioni ha dimostrato che il potere finanziario dell’Occidente non è onnipotente. Agli americani è stata ricordata la fragilità della loro industria militare. Le persone al Pentagono sanno benissimo che uno dei limiti alla loro azione è la limitata capacità del complesso militare-industriale americano”. “Che l’America in questo momento sia nel mezzo di una seria rivoluzione – facilmente paragonabile alla fine dell’URSS – è compreso da pochi. Eppure, i nostri preconcetti – politici e intellettuali – spesso ci impediscono di vedere e assimilare la portata di questa realtà”. Todd, a suo merito, non ha difficoltà ad ammettere la difficoltà di percezione: “Devo ammettere che quando il sistema sovietico era effettivamente crollato, non ero stato in grado di prevedere l’entità della disgregazione e il livello di sofferenza che questa disgregazione avrebbe causato alla Russia. La mia esperienza mi ha insegnato una cosa importante: il crollo di un sistema è tanto mentale quanto economico… Non avevo capito che il comunismo non era solo un’organizzazione economica, ma anche un sistema di credenze, una quasi-religione, che strutturava la vita sociale sovietica e russa. La dislocazione delle credenze aveva portato a una disorganizzazione psicologica ben oltre la disorganizzazione economica. Oggi in Occidente stiamo raggiungendo una situazione di questo tipo”. Lo sconvolgimento psicologico causato dalla “sconfitta” può spiegare (ma non giustificare) la “curiosa” incapacità dell’Occidente di comprendere gli eventi mondiali: la dissociazione quasi patologica dal mondo reale che mostra nelle sue parole e azioni: la sua cecità – ad esempio, nei confronti dell’esperienza russa della storia e di tutto ciò che sta dietro alla ribellione sciita in Iran. Eppure, mentre la situazione politica si deteriora, non c’è segno che l’Occidente stia diventando più realista nella sua comprensione – ed è molto probabile che continuerà a vivere nella sua costruzione alternativa della realtà – finché non ne verrà espulso con la forza. Yanis Varoufakis ha sottolineato che la realtà della prospettiva di una “sconfitta” economica degli Stati Uniti era stata chiaramente espressa da Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve, quando aveva affermato che ciò che tiene insieme l’intero sistema globalista è l’enorme flusso di capitali dall’estero – oltre 2 miliardi di dollari ogni giorno lavorativo – che ha sostenuto lo stile di vita agiato e a bassa inflazione degli Stati Uniti. Oggi, con gli Stati Uniti in un’epoca di deficit di bilancio strutturali insostenibili, Trump è concentrato esclusivamente sul nucleo finanziario americano: il mercato dei titoli del Tesoro (la linfa vitale dell’America) e il mercato azionario (il portafoglio dell’America). Entrambi sono fragili. E qualsiasi pressione esterna potrebbe innescare una reazione a catena: “In breve, l’America non ha più fiducia nella propria fortezza finanziaria. E la Cina non gioca più secondo le vecchie regole. Questa non è solo una guerra commerciale, è una guerra per il futuro della finanza globale”, afferma Varoufakis. Ecco perché Trump minaccia di guerra chiunque cerchi di soppiantare o aggirare il monopolio commerciale del dollaro. I “dazi reciproci” di Trump non hanno mai avuto lo scopo di riequilibrare gli scambi commerciali. Sono praticamente un tentativo di ottenere maggiori contributi finanziari dai creditori. “È quello che si fa durante una bancarotta”, osserva ironicamente un commentatore. Le richieste di maggiori contributi da parte degli stati della NATO sono esattamente un tentativo di richiedere maggiori entrate dai creditori – come lo è stato il viaggio di Trump nel Golfo. Lo scopo della Nuova Guerra Fredda consiste essenzialmente nel soffocare l’ascesa della Cina. Questo obiettivo rappresenta di fatto un terreno comune tra tutte le fazioni dell’establishment: proteggere il sistema del dollaro dal collasso. L’idea che gli Stati Uniti stiano recuperando la loro precedente posizione di centro manifatturiero mondiale è in gran parte una narrazione diversiva creata a fini interni. Nel 1950, la forza lavoro manifatturiera statunitense rappresentava il 33,7% dell’economia nazionale, una cifra che oggi è scesa a meno dell’8,4%. Per invertire la tendenza ci vorrebbe un ricambio generazionale. Quindi, a parte il consenso sulla Cina, la classe dirigente è divisa: personaggi come JD Vance e il team economico di Stephen Miran e Russel Vought sono più preoccupati dal rischio che l’eccessiva espansione degli Stati Uniti possa minare il primato del dollaro, mentre i falchi propugnano il rafforzamento dell’egemonia del dollaro con chiare “dimostrazioni” della forza militare statunitense. La ristrutturazione dei creditori è anche alla base della fretta di Trump di raggiungere un “accordo” con la Russia, che potrebbe portare rapide opportunità commerciali e flussi di capitali positivi (e collaterali) sul conto capitale degli Stati Uniti. Un accordo con l’Iran potrebbe potenzialmente persino portare all’apoteosi di Trump per quanto riguarda il dominio energetico statunitense, con conseguenti nuovi afflussi di entrate che rafforzerebbero la fiducia nel dollaro. In breve, l’agenda di Trump non è strategica a lungo termine. Si tratta del contenimento a breve termine della domanda aggregata di dollari come unica valuta richiesta dai cittadini, sebbene non vogliano acquistare nulla dal Paese che crea i dollari. Il difetto cruciale è che il rozzo transazionalismo di Trump sta indebolendo la sua credibilità come attore geopolitico di rilievo e, di conseguenza, sta costringendo gli altri a diversificarsi per ridurre la dipendenza dal dollaro. In breve, il crollo di credibilità causato dal disprezzo di Trump per la lettura, per i briefing dell’intelligence e dalla sua dipendenza da chi gli ha sussurrato all’orecchio per ultimo, porta a inversioni politiche e a un desiderio generale di allontanarsi il più possibile dall’imprevedibile Trumplandia. Emmanuel Todd avverte che la risposta classica a un crollo del sistema di credenze e della particolare psiche che ne ha animato il paradigma economico “è l’ansia, piuttosto che uno stato di libertà e benessere. Le convinzioni che hanno accompagnato il trionfalismo occidentale stanno crollando. Ma, come in ogni processo rivoluzionario, non sappiamo ancora quale nuova convinzione sarà la più importante, quale emergerà vittoriosa dal processo di decomposizione”. Sebbene le rivoluzioni generalmente distruggano, il loro obiettivo è quello di imbrigliare energie sufficienti a sradicare le istituzioni troppo rigide per essere integrate nella richiesta di cambiamento che aveva provocato la rivoluzione in primo luogo. In questo contesto, la ricerca di una nuova guerra fredda contro la Cina è incentrata proprio sull’ansia degli Stati Uniti (come sostiene Todd), in primo luogo sul timore che la costruzione da parte della Cina di una “superstrada” monetaria digitale si riveli molto più avanzata della strada accidentata rappresentata dal dollaro americano. Oggi, quella superstrada potrebbe non essere ancora utilizzata in modo massiccio. Ma questo è il momento. C’è già una migrazione dalla vecchia strada alla Superstrada cinese, come Varoufakis sottolinea ai cinesi. Per l’establishment americano, la “superstrada” cinese rappresenta un pericolo “chiaro e reale” per la sua egemonia. La preoccupazione non riguarda tanto la proprietà intellettuale cinese o il “furto di proprietà intellettuale”. È il timore che gli Stati Uniti non riescano a tenere il passo con i nuovi ecosistemi finanziari costruiti dalla Cina o con la sofisticatezza dello yuan digitale. Questa preoccupazione è aggravata – non da ultimo – dal fatto che i padroni della Fintech della Silicon Valley sono ai ferri corti con le grandi banche di compensazione di Wall Street (che vogliono preservare i loro antiquati sistemi). In questo la Cina è in vantaggio, poiché i suoi settori finanziario e tecnologico sono fusi in un tutt’uno. Il timore è evidente: se la Cina avesse successo, gli Stati Uniti perderebbero la loro “arma magica” del dominio monetario: “Ed ecco la ‘rivoluzione’: niente fuochi d’artificio, niente titoli sui giornali occidentali. Solo un’alba silenziosa a Pechino, dove la corona del dollaro è scivolata. Il sistema finanziario mondiale ha appena cambiato rotta: attraverso la Cina [superstrada]”. “Per la prima volta in assoluto, il CIPS (Cross-Border Interbank Payment System) cinese ha superato lo SWIFT in termini di volume di transazioni giornaliere. Un cartello rosso ha illuminato la sede centrale della Banca di Cina all’1:30 del mattino del 16 aprile 2025”. “il CIPS [secondo Zerohedge] ha elaborato la sbalorditiva cifra di 12,8 trilioni di RMB in un solo giorno, ovvero circa 1,76 trilioni di dollari. Tale volume, se verificato, supererebbe il sistema SWIFT, dominato dal dollaro, in termini di volume di transazioni transfrontaliere giornaliere”. Sì, è tutta una questione di soldi. Alastair Crooke (tradotto da Markus)
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Netanyahu non ha inventato nulla |
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5 Giugno 2025 Da Rassegna di Arianna dell’1-6-2025 (N.d.d.) C'è un paradosso tragico che accompagna l’attuale guerra contro Gaza: se c’è un “merito” — e sia chiaro che lo mettiamo tra molte virgolette — da riconoscere al governo Netanyahu, è quello di aver tolto ogni illusione residua sulla vera natura del progetto sionista. L’assedio prolungato, l’uso sistematico della fame come arma, il bombardamento di scuole e ospedali, le dichiarazioni disumanizzanti di membri dell’esecutivo israeliano: tutto questo ha mostrato al mondo ciò che milioni di palestinesi vivono da generazioni. Ma guai a cedere alla narrazione secondo cui questa brutalità sarebbe una deviazione recente, frutto dell’estremismo di destra o dell’attuale leadership. Il dramma della Palestina non nasce con Netanyahu. Al contrario, ha radici profonde e strutturali che attraversano l’intera storia dello Stato di Israele, anche nei suoi governi “progressisti”. La Nakba del 1948, la pulizia etnica sistematica che ha espulso oltre 700.000 palestinesi dalle loro terre, fu condotta sotto il governo di David Ben Gurion, padre fondatore dello Stato e leader del partito laburista Mapai. Poco dopo, la Legge sulla proprietà degli assenti legalizzò l’esproprio delle case e dei villaggi palestinesi, creando una categoria giuridica pensata per cancellare il diritto al ritorno e cristallizzare la spoliazione. Dal 1948 al 1966, gli arabi palestinesi rimasti all’interno di Israele vissero sotto un regime militare che limitava la libertà di movimento, confiscava terre e imponeva una sorveglianza capillare. Anche questa fase fu gestita da governi laburisti. La Nakba del 1967, con l’occupazione della Cisgiordania, di Gaza, di Gerusalemme Est e del Golan, fu un altro passo in avanti nel consolidamento dell’ideologia coloniale. I primi insediamenti nei territori occupati non furono voluti da Netanyahu, ma da Levi Eshkol, Golda Meir, Yigal Allon: figure storiche della sinistra israeliana. E ancora oggi, il regime di apartheid denunciato da organizzazioni come Human Rights Watch, Amnesty International e perfino da giuristi israeliani, è frutto di decenni di politiche trasversali che hanno sempre privilegiato la supremazia ebraica a scapito dei diritti palestinesi. E vale la pena ricordare che molti dei pilastri dell’attuale sistema di dominazione sono stati costruiti proprio sotto governi considerati “moderati” o “progressisti” agli occhi dell’Occidente. Il partito laburista, che per decenni ha goduto di prestigio internazionale come forza “di pace”, è stato il principale artefice dell’ingegneria etnica, della colonizzazione territoriale e dell’architettura giuridica della disuguaglianza. Fu il governo Rabin (laburista) che, mentre negoziava gli Accordi di Oslo, aumentava il numero di coloni nei Territori Occupati. Nel 1993 erano 110.000; nel 1996, al termine del processo di pace che avrebbe dovuto portare alla nascita di uno Stato palestinese, erano diventati quasi 150.000. Oslo non fu la premessa della fine dell’occupazione, ma la sua normalizzazione sotto altra forma, con l’Autorità Palestinese ridotta a braccio amministrativo dell’occupazione stessa. Fu anche sotto governi “centristi” come quello di Ehud Barak (1999–2001) che venne stroncata con il fuoco la Seconda Intifada, causando migliaia di vittime palestinesi. Barak è lo stesso che affermava che “non c’è partner per la pace”, legittimando così il ritorno alla forza bruta. E ancora: la costruzione del muro di separazione — giudicato illegale dalla Corte internazionale di giustizia — iniziò sotto il governo “centrista” di Ariel Sharon, ex generale, ma sostenuto da ampi settori liberali israeliani e da una comunità internazionale pronta a chiudere un occhio in nome della “lotta al terrorismo”. L’Occidente ha spesso coccolato questi leader, accogliendoli nei salotti diplomatici e assegnando loro premi per la pace, ignorando che dietro il linguaggio del compromesso si nascondevano politiche di esproprio, apartheid, disumanizzazione e gestione coloniale della popolazione palestinese. Dunque, sì: Netanyahu ha alzato il livello della violenza, ha fatto precipitare la retorica in forme apertamente genocidarie, ha reso palese ciò che prima era mascherato da “sicurezza” o “processo di pace”. Ma non ha inventato nulla. Il suo governo è la continuazione — più nuda, più brutale, forse più onesta — di un progetto coloniale nato con lo Stato stesso e sostenuto, per decenni, anche da governi che si proclamavano democratici, socialisti, illuminati. Il mondo oggi vede. E questo non è poco. Ma ora che la verità è sotto gli occhi di tutti, resta la domanda decisiva: abbiamo ancora il coraggio di far finta di niente? Gabriele Mariani
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Inclusione o dissoluzione? |
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4 Giugno 2025 Da Rassegna di Arianna del 2-6-2025 (N.d.d.) Negli ultimi decenni il termine inclusione è diventato parola d’ordine in ogni documento ministeriale, progetto scolastico, formazione docente. L’inclusione è presentata come un principio indiscutibile, un valore assoluto, una conquista civile. E in parte lo è: l’idea che la scuola debba accogliere ogni studente, valorizzare le differenze, garantire pari dignità a tutti rappresenta uno dei capisaldi dell'idea democratica. Ma quando questo principio viene trasformato in ideologia e applicato in modo burocratico e semplificato i suoi effetti possono diventare controproducenti. In nome dell’inclusione, infatti, si è spesso svuotato il rigore, abbassato il livello di apprendimento, evitata la fatica, sacrificato il merito, fino a trasformare la scuola in una zona franca in cui nessuno deve sentirsi messo in discussione, dove la valutazione è sostituita dalla conferma, e l’ignoranza è scambiata per diversità da tutelare. Andiamo, al solito, per punti. 1) Inclusione come rifiuto della selezione. Uno degli assi portanti della retorica inclusiva è l’abolizione di ogni forma di “selezione”, considerata per definizione escludente, discriminatoria, “violenta”. In questa visione chiedere troppo, pretendere rigore, giudicare le prestazioni degli studenti è visto come un atto di sopraffazione. Il risultato è che la scuola ha smesso di porre limiti, obiettivi ambiziosi, traguardi difficili: ha smesso, cioè, di essere un’istituzione formativa e si è trasformata in un contenitore consolatorio. Si pretende che tutti siano “inclusi”, ma per farlo si abbassa il livello, si semplifica, si toglie ogni ostacolo: non si eleva chi è più fragile, si abbassa la scuola per farlo rientrare. 2) Differenziare tutto per non insegnare a nessuno. La logica inclusiva ha portato con sé una moltiplicazione di strumenti “compensativi”, “dispensativi”, “personalizzati”: PEI, PDP, PAI, BES, DSA, strumenti extra-ordinari pensati per garantire equità. Ma la proliferazione di percorsi paralleli, adattamenti e semplificazioni ha prodotto una scuola a geometria variabile, dove ogni studente ha il “suo” programma, le “sue” verifiche, la “sua” valutazione. In questo scenario non esiste più un sapere comune, un orizzonte condiviso, un metro uguale per tutti. La scuola perde la sua funzione culturale e si dissolve in una serie di prestazioni soggettive, non comparabili, non esigenti. L’unico criterio che resta è “far stare bene” lo studente. Che poi bisogna vedere se ci sta davvero. 3) Valutare senza giudicare: l’erosione del merito. Nel nome dell’inclusione, anche il concetto di valutazione è stato svuotato. Si parla oggi di “valutazione formativa”, “narrativa”, “descrittiva”: formule che spesso evitano il confronto col giudizio reale. Valutare troppo severamente può “demotivare”, può “escludere”. Meglio allora premiare l’impegno, il percorso, l’emotività, piuttosto che la preparazione. Così, anche chi non studia, chi non si applica, chi rifiuta le regole, viene promosso. Ma se tutti passano, se tutti hanno diritto al successo, il sapere perde valore, e chi davvero si impegna non trova riconoscimento. L’inclusione, in questa forma distorta, uccide la giustizia, confondendo l’equità con l’appiattimento. 4) Il silenziamento del conflitto come prassi educativa. La retorica inclusiva tende a rimuovere ogni forma di conflitto. Il conflitto è visto come pericoloso, e va evitato: nessuno deve sentirsi frustrato, nessuno deve provare fatica o insicurezza. Ma imparare è sempre un atto faticoso, conflittuale: con sé stessi, con i limiti, con l’ignoranza. La scuola dovrebbe essere il luogo dove si impara ad attraversare questo conflitto, non a rimuoverlo. Eppure oggi molti insegnanti, per paura di “traumatizzare” gli studenti, evitano di correggere severamente, di interrogare in modo esigente, di affrontare i nodi reali. L’inclusione diventa la scorciatoia per evitare la verità. 5) Una scuola “buonista” in funzione del sistema. Infine, va notato un paradosso: questa inclusione, apparentemente progressista, è in realtà perfettamente funzionale al modello neoliberale. Una scuola che non giudica non seleziona, non forma spirito critico, produce individui deboli, adattabili, flessibili: perfetti per un mercato che vuole soggetti obbedienti e precari. L’inclusione non emancipa, ma neutralizza. Fa sparire la dimensione politica e sociale del fallimento scolastico, trasformandolo in problema individuale, da affrontare con strumenti psicologici. Così, la scuola si svuota di ogni conflittualità, si appiattisce su standard minimi, e perde ogni forza trasformatrice. In buona sintesi: contro l’inclusione ideologica, per una scuola esigente e giusta. Non si tratta di negare il valore dell’inclusione, ma di liberarla dalla retorica che l’ha trasformata in un grimaldello per la resa educativa. Una scuola inclusiva non è quella che abbassa il livello per non lasciare indietro nessuno ma quella che fornisce a tutti gli strumenti per elevarsi, anche a costo di fatica, di giudizi severi, di prove difficili. Una scuola giusta è esigente, selettiva nel senso nobile: distingue, riconosce, valorizza le capacità. Solo così può davvero includere, cioè rendere protagonisti anche i più fragili. Altrimenti l’inclusione si riduce a una forma sofisticata di esclusione per cui si partecipa tutti ma si impara poco o nulla. Martin Venator
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1 Giugno 2025 Da Rassegna di Arianna del 22-5-2025 (N.d.d.) Il colonialismo classico ha sempre funzionato nello stesso modo: una nazione forte invadeva una nazione più debole, ne prendeva il controllo, e restava lì a comandare per sfruttarne le risorse economiche. Ma lasciava in loco tutti i suoi abitanti, i quali diventavano semplicemente nuovi schiavi/sudditi dell’impero. È successo così per l’India, colonizzata dagli inglesi, per il Brasile, colonizzato dai portoghesi, per il resto dell’America Latina, colonizzata dagli spagnoli, o per varie nazioni africane e asiatiche, colonizzate nel tempo da francesi, portoghesi, olandesi, ecc. Solo in tre casi, nella storia recente, i colonialisti invasori hanno sistematicamente rimosso la popolazione locale, prendendo fisicamente il suo posto. Gli Stati Uniti, l’Australia e Israele. Negli Stati Uniti, i bianchi hanno sterminato la popolazione locale, rinchiuso nelle riserve i sopravvissuti, e preso fisicamente il loro posto. In Australia, i bianchi hanno sterminato la popolazione locale, rinchiuso nelle riserve i sopravvissuti, e preso fisicamente il loro posto. In Palestina, i sionisti hanno sterminato buona parte della popolazione locale (1948), rinchiuso in campi di concentramento / campi profughi i sopravvissuti, e preso fisicamente il loro posto. Progressivamente, dal ’48 in poi, i nomi delle città e dei villaggi arabi sono stati cambiati in nomi ebraici, mentre l’intera terra di Palestina veniva ridenominata Israele. Oggi restano ancora due zone da integrare, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Una volta incorporati questi territori, la terza operazione coloniale integrale della storia moderna sarà completata. Non si può non notare che all’origine di queste particolari operazioni di sostituzione etnica ci siano sempre gli inglesi. Inglesi erano i conquistatori/colonizzatori dei futuri Stati Uniti, inglesi erano i conquistatori/colonizzatori dell’Australia, e inglesi sono stati, fin dall’inizio, coloro che hanno permesso e favorito in tutti i modi la conquista/colonizzazione della Palestina da parte dei sionisti. Fu sotto il mandato britannico (1922) che gli inglesi implementarono leggi particolari in Palestina, per permettere agli ebrei di acquisire con estrema facilità territori appartenenti agli arabi. Furono gli inglesi (1929 -1936) a reprimere con ferocia le rivolte arabe in Palestina, in modo da favorire l’espansione territoriale dei sionisti. Furono gli inglesi (Orde Wingate) ad insegnare ai sionisti le tecniche di guerriglia e attacco militare ai villaggi arabi. Furono sempre gli inglesi ad insegnare ai sionisti la tecnica di distruzione sistematica della case del palestinesi fuggiti, per impedire un loro eventuale ritorno. Furono gli inglesi ad introdurre il concetto di “punizione collettiva” che ancora oggi (Gaza) viene usato dai sionisti contro i palestinesi. Furono infine gli inglesi a voltare lo sguardo altrove, nel ’48, quando tutte queste tecniche vennero messe in atto in modo sistematico dai sionisti, i quali sterminarono ed evacuarono 700.000 palestinesi dalle loro case e dai loro villaggi (Nakba). Poi, con le operazioni in corso, gli inglesi se ne andarono dalla Palestina, lasciando ai sionisti il controllo militare completo di tutto il territorio. In tutto e per tutto, la conquista della Palestina da parte dei sionisti fu una complessa operazione coloniale iniziata, favorita e controllata interamente dagli inglesi. È chiaro che dietro a queste tre operazioni di “colonialismo sostitutivo” - Stati Uniti, Australia e Israele – ci debba essere la stessa mentalità comune di dominio e di superiorità dell’uomo bianco sulle razze inferiori. Questa mentalità, profondamente razzista, è stata sintetizzata al meglio da un pensiero di Winston Churchill, espresso dopo la nascita dello Stato di Israele: “Io non mi scuso per il fatto che gli ebrei hanno tolto il controllo della regione ai palestinesi, così come non mi scuso per il fatto che i bianchi hanno tolto l’America ai pellerossa, o per aver tolto l’Australia ai neri. È normale che una razza superiore domini quella inferiore.” Con un maestro del genere, figuriamoci se mai dovrà sentire il bisogno di scusarsi il suo discepolo più fedele ed esemplare che la storia abbia mai prodotto, Benjamin Netanyahu. Massimo Mazzucco
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30 Maggio 2025 Da Rassegna di Arianna del 24-5-2025 (N.d.d.) […] I problemi degli adulti vengono imposti ai bambini, mentre gli adulti vengono infantilizzati. Un tempo lo Stato diceva ai cittadini cosa non dovevano fare. Ora dice loro cosa devono fare in tutti gli ambiti, compresi i più intimi. Lo Stato balia ha preso il posto dello Stato sociale in un contesto di aumento dei valori femminili e del matriarcato. È un mondo di “cura”, di spensieratezza noncurante, di “marce bianche” e luci di candela, di immersione generale nell’emotività, di permanente sovraccarico lacrimogeno. È lo Stato terapeutico di cui parla Christopher Lasch: la “cultura della terapia” come rimedio per la vita. Il confinamento per “combattere il Covid” ci ha offerto l’opportunità di regolamentare le “piccole cose che facciamo ogni giorno” per massimizzare il nostro “capitale di salute”. In tempo di canicola lo stato terapeutico ci dice, come ai bambini ritardati, che “è importante bere regolarmente”. Tra poco ci dirà che d’inverno è meglio uscire coperti e che giocare con i fiammiferi finirà per bruciarci. L’ideologia dominante non educa più, rieduca. L’obiettivo finale è trasformare la società in un centro di rieducazione permanente… Il nostro tempo è adesso come l’infanzia. In un mondo che ha perso la bussola, il narcisista immaturo pensa solo al proprio ego. Con il liberalismo di libero mercato, il consumo diventa l’unico orizzonte dell’individuo. Il soggetto postmoderno è ludico e libidinale. È l’Homo Festivus a cui si riferiva il defunto Philippe Muray. La libertà individuale, che prima si limitava a resistere al controllo eccessivo delle autorità pubbliche, è ora diventata il mezzo per affermare qualsiasi tipo di scelta di vita, anche la più delirante. L’ideologia dei diritti umani moltiplica le esigenze degli individui (“ne ho diritto”) che, come i bambini, sbattono i piedi quando i loro desideri non vengono immediatamente soddisfatti. La Generazione Z (i nati tra il 1997 e il 2010) è composta da rammolliti piagnucolosi che non sopportano le contraddizioni e hanno deciso una volta per tutte che tutto è loro. Totalmente ignoranti ma assolutamente intolleranti, prodotti in serie da una scuola dove regnano “l’insegnamento dell’ignoranza” (Jean-Claude Michéa) e la “fabbricazione di imbecilli” (Jean-Paul Brighelli), ossessionati da se stessi, dipendenti dagli schermi, iniettati di Netflix e realtà virtuale, alla continua ricerca di “luoghi sicuri” che li proteggano dalle “molestie”, e dai “mi piace” che aumentano i livelli di dopamina nel cervello. Per loro, come ha scritto Jeremy Stubbs, “qualsiasi problema nella vita normale viene rappresentato come minaccia al benessere emotivo dell’individuo, un trauma per la sua autostima e una potenziale fonte di traumi duraturi che richiedono un intervento terapeutico”. La maggior parte dei messaggi pubblicitari sembra essere rivolta a persone con un coefficiente intellettuale a due cifre (con una virgola in mezzo). Nei media non ci sono più né madri né padri, solo “papà” e “mamme”, “zietti” e “bacini”. Per le strade, i progressisti alla moda circolano in monopattino. La correttezza politica, spinta dal desiderio di “non offendere la sensibilità di nessuno”, sta alimentando la letteratura e il cinema più sciocchi, incoraggiata dalla polizia del pensiero del cinema e della narrativa. Questa è l’era della casa trasformata in bozzolo (il cosiddetto cocooning) , del sofà davanti alla TV e della distrazione in senso pascaliano: lo svuotamento di ogni vita interiore. Costanzo Preve una volta disse: “Non puoi affrontare il mondo così com’è con un cuore come un carciofo”. L’immaturo narcisista odierno ha perso ogni senso della realtà, della storia e della tragedia, diventando così una preda condannata in anticipo. L’”ultimo uomo” di Nietzsche è l’uomo del crepuscolo: per vivere felici, restiamo a letto. In un momento in cui il mondo è sull’orlo di un immenso sconvolgimento, i nostri concittadini discutono di “scrittura inclusiva” e di “mascolinità tossica”. Sarà un brusco risveglio. Alain de Benoist (Traduzione di Roberto Pecchioli)
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Due facce della stassa moneta |
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29 Maggio 2025 Da Rassegna di Arianna del 26-5-2025 (N.d.d.) Il declino del centro destra può essere rapido o lento, ma è inevitabile. Non per il fascismo, ma perché non rappresenta alcuna istanza di cambiamento. Come il centro sinistra ha deluso gli elettori di sinistra così il centrodestra ha deluso quelli di destra. Ha problemi che non può risolvere, non ha una classe dirigente con un progetto per il paese. Quasi tutti sono privi di cultura, di capacità di analisi, e chi ha queste capacità esprime interessi precisi, riconoscibili. Lo si vede nella politica nazionale, lo si avverte nelle realtà locali. In Lombardia, nonostante un fiume di denaro, le prestazioni sanitarie sono davvero misere. La sanità serve più per fare arricchire che per dare servizi ai cittadini. Il centrodestra ha trasformato la difesa della tradizione e dei valori conservatori in una macchietta. Un pessimo servizio, che trasforma cose serie in barzellette. La famiglia tradizionale non può essere difesa dalla famiglia Adams. Non sono riusciti ad avere egemonia culturale perché hanno difeso e difendono una classe politica impresentabile, la Santanché vale per tutti. Ma poi il familismo più bieco. Hanno creduto che la cultura fosse una sciocchezza della sinistra, che alla fine conta il potere e le clientele. E non è più così. La difesa della sovranità si è risolta in un servilismo imbarazzante, che fa vergognare chiunque abbia a cuore questo paese. Il silenzio su Gaza, anzi la complicità, ha reso inguardabile la stessa Meloni. La ha privata di autorevolezza. Sono infinite gocce, che portano ciò che resta dell'elettorato votante a cambiare prospettiva, in maniera più o meno disperata. Il processo è inesorabile: non sono stati capaci di costruire egemonia, e la storia non dà le occasioni per più volte. Hanno avuto un'occasione e l'hanno sprecata. Inizierà un passaggio obbligato: il centro sinistra tornerà a governare, prima il territorio poi il paese. Sarà un altro disastro, ma almeno gli antifascisti estetici non avranno più un giocattolo con cui trastullarsi per nascondere la loro mancanza di progetto e anche di idealità. Qualche amico, di quelli che stimo e che pensano, dice che sarà una ruota continua, da questi a quelli, poi di nuovo i primi e così via all'infinito. Un infinito passare dalla famiglia Fratoianni e dal PD a Fratelli di Italia, cosmetica, senza che cambi niente. Può essere, ma io penso si stia esaurendo un combustibile essenziale: la credibilità. La Meloni ha perso ogni credibilità. La perderà ogni giorno che passa. Il centro sinistra l'ha persa ma ci sono quelli che non hanno niente da proporre al paese tranne l'antifascismo e l'antiqualcosa (l'antiberlusconismo, la destra becera) che ancora si muovono. Basteranno a riportare al governo il centro sinistra. Si può prevedere quello che farà, dall'esercito europeo alla riforma delle pensioni, alla richiesta di sacrifici. I sacrifici tra poco li dovrà chiedere del resto chiunque sia al governo. Il PNRR è soprattutto un prestito che dovremo iniziare a restituire. Ognuno darà la colpa all'altra. Ma io credo che la crisi sistemica si allargherà. Ogni mossa per bloccarla aumenterà le criticità. Il 7% di aumento per la sanità sarà dimenticato in fretta. Il resto sarebbe una lista inutile: però le urla scomposte di alcuni amici cesseranno. Senza la destra perderanno il giocattolo da attaccare, dovranno dire che cosa vogliono per la scuola, la sanità, l'università, vedremo le decisioni su Gaza, sulla pace. Io penso che faranno un disastro, e la crisi di credibilità si radicalizzerà. La meloni, se la guardiamo da un punto di vista sistemico, è ancora un modo per risolvere una crisi di credibilità e di struttura con le risorse interne al sistema. Ma ha fallito. Ma stiamo bruciando tutte le risorse interne. Non abbiamo rappresentanti apicali autorevoli, o che rappresentano l'unità del paese. Sono divisivi anche loro, e questo non è un giudizio, è una descrizione sociologica. Stiamo bruciando tutte le risorse interne per reagire a una crisi crescente. Bisogna rassegnarsi: Forse non ci sono cambiamenti epocali senza una crisi devastante. Resta indeciso se questa verrà prima dall'interno o dall'esterno. O in tutti e due i modi. Ma che verrà, che è già in cammino, su questo io penso non ci siano dubbi. Vincenzo Costa
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