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Tifare per il caos PDF Stampa E-mail

7 Novembre 2024

Credo che sia un errore di valutazione, o nel migliore dei casi una speranza che sarà rapidamente delusa, credere che con Trump gli Usa cambieranno la propria politica estera e diminuiranno la propria tendenza a costituire un fattore di produzione di guerra e instabilità politica globale. La supremazia politica e militare globale è infatti, per gli Usa, un’esigenza sistemica oggettiva, una necessità di sopravvivenza di un sistema che vive al di sopra delle proprie possibilità a spese degli altri popoli del pianeta. Il complesso finanziario-militare-industriale, che garantisce all’élite occidentale la propria ricchezza, ha un’oggettiva necessità di controllo politico del pianeta e di produzione sistematica di guerre, a prescindere dalla guida politica degli Usa. 

Con Trump, con tutta probabilità, non avremo più l’afflato ideologico della civiltà superiore che ha il diritto / dovere di “esportare la democrazia” nel mondo, quindi l’imperialismo non sarà più colorato con le tinte del millenarismo liberal-progressista: tuttavia, l’imperialismo statunitense non diminuirà affatto e anzi ci sono valide ragioni per credere che ora con Trump si imporrà in modo più diretto e brutale, senza la mediazione della giustificazione ideologica. Non a caso dietro Trump si annida il sionismo più brutale e feroce, che vuole rimuovere ogni flebile freno - anche di semplice facciata - alla volontà di potenza israeliana che non è altro che la punta dell’iceberg della volontà di potenza e dominio delle oligarchie occidentali.  C’è da credere, penso, che con Trump si inasprirà anzi la lotta contro “l’antiamericanismo”, e cioè quelle variegate forme di critica alla supremazia imperialistica statunitense e le varie componenti del cuore del suo modello di civiltà (capitalismo, libertà economiche, antistatalismo, rifiuto feroce di ogni forma di socialismo) e per l’Europa si tratta di affrontare un periodo di rinnovata e potenziata restrizione degli spazi di autonomia politica. D’altra parte, il controllo dello spazio politico ed economico europeo è un’altra esigenza oggettiva del sistema-Usa, in questa fase storica, e la crescita dell’estrema destra in tutta Europa è funzionale allo scopo - con l’Italia che sta costituendo un caso di scuola, con il governo Meloni di estrema destra in salsa atlantista che svende il Paese ai fondi finanziari statunitensi. D’altra parte, e qui veniamo al lato positivo, Trump è un fattore di caos, e del caos c’è bisogno in una fase storica in cui la speranza deve essere quella di un’accelerazione del declino politico ed economico degli Stati Uniti, dove si sta aggravando la spaccatura politica interna e i contrasti feroci tra parti della società. Grama consolazione, tifare per il caos, me ne rendo conto, ma strategicamente parlando è dell’aumento del caos nel cuore dell’Occidente che, in questo momento storico, c’è bisogno per un’accelerazione della transizione al mondo multipolare, l’arretramento del modello liberal-capitalistico a livello globale, l’affrancamento dell’Europa nel medio-lungo periodo rispetto al controllo politico e militare statunitense.

Osservatorio Italiano sul Neoliberalismo


 
Assenza di progetti PDF Stampa E-mail

4 Novembre 2024

 Da Comedonchisciotte del 3-11-2024 (N.d.d.)

Ci risiamo: altra consultazione, altro giro di giostra, altra retorica della vittoria. I numeri sono numeri. Vince il centro destra. Il Pd esulta e lancia messaggi, per niente velati, ai compagni di avventura (o sventura), tra i quali quel tal Giuseppe Conte che si impuntò nel pretendere l’esclusione, nel fantomatico “campo largo”, di Matteo Renzi, e della sua manciata di voti, che forse avrebbero fatto la differenza. Forse. Anche perché l’apporto dei “centristi” alla Calenda non pare aver inciso un granché. Tutta da interpretare l’ulteriore perdita dei voti del M5S: colpa delle posizioni di Conte verso Renzi? Oppure ha influito lo scontro tra Conte e Grillo? Oppure i simpatizzanti del movimento non hanno digerito l’alleanza con il PD?

Non manca la “preoccupazione” per il poderoso peso dell’astensione (ma davvero?). Anche qui si consuma il solito copione: manifesto disappunto, dispiacere, per quanti non hanno sentito la necessità di consumare il rito democratico delle urne. Ma giusto il lasso di tempo in cui ci si incupisce e ci si indigna in Italia: più o meno la durata di un orgasmo (maschile). Già dell’astensione non si parla più: da molto tempo nel paese chi dissente, e ritiene inaccettabile il basso livello cui è giunta la politica, discute e si confronta sulla efficacia del rifiuto di recarsi alle urne. L’evidenza dei numeri è impietosa: prevale un sentimento diffuso di inutilità del proprio voto, un disgusto per l’assenza di una “normale” coerenza tra le promesse profuse in campagna elettorale e i comportamenti parlamentari. L’astensione ha molteplici sfaccettature: può essere legittima protesta per chi sente di non aver altri strumenti di difesa, di ribellione verso un sistema opprimente. O può essere semplice indifferenza; il “virus” dell’ipocrisia, ha infettato tanto la destra quanto la sinistra. Quello che dovrebbe essere un segnale forte inviato alla classe dirigente, viene, di fatto, impunemente ignorato. Così il cittadino medio vede nel “politico” solamente più un mercenario interessato a occupare una poltrona: un burattino nelle mani di poteri “altri”, oscuri, non dichiarati, inconfessabili.

Le rivoluzioni, storicamente, han sempre visto una “classe” sociale come promotrice. Insoddisfatti, o contestatori, oppure oppositori, di una data situazione: nella maggioranza dei casi di natura economica. Da lì comincia un processo, dapprima intellettuale, sino a giungere al progetto politico, alla lotta per il cambiamento. La questione reddituale è sempre lo stimolo primario, per coloro che “soffrono” economicamente, o temono di perdere benefici e diritti acquisiti. […] Gli anni ’60 e ’70 han visto fiorire lotte sociali per conquistare diritti e maggiore retribuzioni per i lavoratori. Le crisi petrolifere hanno posto fine allo sviluppo economico e sociale dei “Trenta gloriosi”, riportando in auge le teorie economiche neoclassiche, con i suoi mantra sullo Stato cattivo e sprecone, avverso al privato virtuoso ed efficiente. Comunque gli anni ’80 e parzialmente ‘90, hanno diffuso un benessere materiale indiscutibile. E sulle lotte operaie calò inesorabile la “marcia dei quarantamila”  quadri della Fiat.

Il Filosofo Nicola Donti, in uno dei suoi acutissimi interventi riprodotti sul web, parlando di cambiamento, di crescita personale, di mutamenti della società, sottolinea: ma quando io, a casa mia, ho il televisore a 50 pollici, l’abbonamento a  tre canali per vedere film, cartoni, calcio, spettacoli di varietà discutibili, più tutti gli altri comfort… ma chi me lo fa fare di impegnarmi nella rivoluzione?!? Qui lambiamo uno degli aspetti “pratici” (e psicologici) del problema “astensione”. La società che fonda il proprio benessere sull’individualismo spinto, nella quale l’irrazionalità del “mercato” promuove (attraverso una pubblicità martellante) il “paese dei balocchi”, in cui la tua unica preoccupazione è di “avere”, e non di “essere”, per poter esprimere sempre di più con forza la tua megalotimia (il sentirsi “superiore” agli altri, ovvero il contrario della isotimia democratica), difficilmente può produrre dei “rivoluzionari”. Annullata così la “tensione morale” verso il rinnovamento, il cambiamento, il miglioramento della comunità – affogata questa nella melma del consumismo personale, dell’ambizione a-morale -, cosa resta, se non la visione limitata del proprio ombelico?

Il pensiero economico dominante è fossilizzato sulla crescita del PIL, con la messa in stato d’accusa del debito pubblico (mentre promuove il debito privato), incurante della ripartizione sociale della ricchezza, indifferente alla povertà (assoluta, relativa, potenziale), considerata come un male inevitabile, o frutto di colpe individuali (“la società non esiste…” sentenziava la Thatcher!): un prezzo da pagare per agevolare il benessere dei più. Dove sono quei borghesi intellettuali che promuovevano il dibattito sociale, politico, economico, nutrimento fondamentale per costruire visioni del futuro, che non si accontentavano di un eterno presente? Non possiamo certo confonderli con il ciarpame mediatico salottiero, proposto quotidianamente dalla TV degli ultimi 30 anni, seppur con le dovute nobili (e rare) eccezioni. All’assenza di una visione intellettuale, segue, di conseguenza, quella progettuale. La sinistra che vuol essere realmente alternativa alla destra… quale progetto di cambiamento individua? Dove sono i programmi realmente alternativi alla destra? Quelli che sanno dire i NO!, belli e corposi, alla sudditanza americana, alla Nato, a una Unione Europea neoliberista, a una idea di occidente che più nessuno vede come riferimento? Quelli che sanno riconoscere il linguaggio orwelliano che si appella alla Pace con la bocca, mentre foraggia di armi i contendenti, riempiendosi il portafoglio di denaro sporco del sangue dei civili bombardati dalle bombe “intelligenti”? In quali cassetti si nascondono quei programmi che puntano al ribaltamento di un sistema economico e finanziario incancrenito sulle disuguaglianze, sull’austerità (espansiva! Sic!), e sulla precarietà? Un modello che relativizza la vita di ciascuno, rendendola potenzialmente “povera” al mutare della situazione finanziaria globale, oppure aziendale, o bancaria? E dove sono i “leader” veri, autentici, quelli che non guardano al proprio ombelico, o solo a quello dei propri sostenitori, ma sanno cogliere la visione d’insieme della pluralità degli “ombelichi”, della inevitabile poliarchia sociale,  per costruire un progetto comunitario spendibile e condivisibile? Il Deserto dei Tartari era più popolato.

In mezzo alla sabbia rimangono, come velenosi scorpioni in agguato, i cupi interessi individualistici, spettri di una collettività che non si vergogna più di garantire impunità (anche elettorale) al reo di malefatte, di complicità, di interessi privati, menzogne e tradimenti, che prevaricano quelli della comunità tutta. L’astensione non è un solamente numero: è tante cose, è legittima e consapevole protesta, ma è anche l’identità di una società che ha smarrito se stessa tra le pieghe della propria opulenza e indifferenza diffusa. Dove gli esclusi, i “perdenti”,  rimangono marchiati con l’emblema scarlatto dell’insuccesso, in una visione sociale americanizzata, drogata di neoliberismo, di darwinismo sociale, ben lontana dalla filosofia impressa tra le righe della nostra Costituzione.

Davide Amerio 


 
Il nuovo capo di Hezbollah PDF Stampa E-mail

1 Novembre 2024

 Da Rassegna di Arianna del 31-10-2024 (N.d.d.)

Punti salienti del discorso di "investitura" di Naim Qassem come Segretario Generale di Hezbollah:

1) Il Partito di Dio non ha iniziato questo conflitto (così come non l'ha iniziato Hamas - la Palestina subisce l'oppressione da 75 anni e oltre), ma è pronto a una guerra prolungata con Israele. 2) Rimangono aperte le porte della diplomazia se Israele ritira le sue truppe. Qualora ciò non avvenga subirà perdite senza precedenti (le notizie dal campo di battaglia non sono esattamente rosee per Tel Aviv). 3) Tel Aviv sta investendo tutto nel conflitto, mentre la Resistenza ha risorse nascoste ed ancora inutilizzate. Soprattutto ha il tempo dalla sua parte (qualcosa che Netanyahu e soci non hanno, essendo in forte bisogno di risultati concreti ed immediati). 4) Hezbollah non combatte per conto di nessuno. Hezbollah combatte per il Libano. A questo proposito è bene sottolineare che Qassem è stato, con Abbas al-Musawi, il fautore della "libanizzazione" di Hezbollah. Con loro - Musawi (predecessore di Nasrallah) è stato ucciso da Israele nel 1992 - il Partito ha assunto un carattere prettamente nazionalista-conservatore, superando gli accenti ideologici volti all'esportazione della rivoluzione del khomeinismo. In questo senso risulta fondamentale la lettura del testo di Qassem "Hezbollah. La storia dal suo interno" del 2002 (il libro è stato tradotto in inglese e francese). 5) Il sostegno a Gaza era (ed è) necessario per frenare la minaccia che Israele rappresenta per la regione (anche alla luce delle affermazioni degli esponenti del governo Netanyahu). 6) La minaccia non è rivolta solo contro la Palestina ed il Libano ma contro tutti gli Stati arabi (dall'Egitto all'Arabia Saudita). Per questo, Qassem, storicamente filo-arabo, si augura un aiuto degli stessi Stati arabi (che difficilmente arriverà, nonostante tutto). 7) Questa guerra non è solo una guerra di Israele contro il Libano e la Palestina ma è anche una guerra degli Stati Uniti e dell'Europa (forse il punto più interessante, perché sottolinea come Israele, senza il loro supporto, non potrebbe sostenere in alcun modo il peso del conflitto).

P. S. Faccio notare che, ad oggi, la strategia israeliana di assassinio mirato contro i vertici delle organizzazioni ostili non ha portato grossi vantaggi. Come affermato in precedenza, nel 1992 Musawi venne sostituito da Nasrallah. Con Nasrallah alla guida, Hezbollah ha conosciuto diverse vittorie strategiche contro il nemico sionista. Dopo che, tra 2004 e 2005, Israele ha assassinato Ahmad Yasin e al-Rantisi, Hamas si è rapidamente trasformato nella prima forza politica palestinese.

Daniele Perra

 
La globalizzazione è reversibile PDF Stampa E-mail

29 Ottobre 2024

 Da Appelloalpopolo del 23-10-2024 (N.d.d.)

Quanti asseriscono l’irreversibilità del processo denominato globalizzazione, affermano come corollario la velleitarietà di aspirazioni “sovraniste”. In realtà è proprio il processo di integrazione economica mondiale a rendere necessario il recupero di forme, se non autarchiche, quantomeno tendenti all’autosufficienza. Finché la reciproca dipendenza veniva infatti perseguita unilateralmente dall’Occidente, che prima costringeva gli altri ad aprire i porti con le cannoniere e poi imponeva loro di produrre per le sue esigenze e infine si faceva arbitro e gestore dei traffici intercontinentali, unico acquirente delle esportazioni e unico fornitore di importazioni, allora poteva delegare agli altri l’agricoltura, l’industria, l’approvvigionamento energetico, terziarizzandosi sempre di più. Ma dal momento che gli altri si emancipano dall’invadente tutela e iniziano a commerciare direttamente tra loro, magari senza neanche più utilizzare la moneta occidentale, allora diventa giocoforza necessario riportare a casa almeno parte delle attività delocalizzate per non essere tremendamente vulnerabili.

Per intendersi, finché i cinesi acquistano materie prime e vendono manufatti in Sud America pagando e facendosi pagare in dollari, l’egemonia si regge in piedi, ma nel momento in cui cinesi e sudamericani cominciano a regolare le loro transazioni nelle rispettive valute, il dollaro progressivamente si svaluta mettendo in crisi la sostenibilità del debito estero, pubblico e privato, statunitense. Quando questo processo sarà giunto a compimento, gli Usa dovranno scegliere tra rinunciare alla supremazia militare mondiale o utilizzarla. E se sceglieranno questa seconda ipotesi sarà pianto e stridor di denti.

Se invece si vuole perseguire la prima, occorre iniziare a lavorare all’indipendenza economica dal resto del Mondo. Poi se un giorno saranno gli altri a bussare ai tuoi porti con le loro cannoniere, potrai valutare l’opzione militare, ma fino a quel giorno, se ami la vita, è meglio fare il “sovranista”. Trump da questo punto di vista non si era inventato nulla, si era limitato a rilevare una necessità impellente. Più a parole che a fatti in realtà.

Biden a parole ha voluto riprendere la postura imperiale, il che ha causato una pesante controffensiva delle civiltà extra-occidentali, dall’Ucraina all’Africa passando per il Medio Oriente, ma nei fatti ha iniziato a perseguire la reindustrializzazione.

L’Italia farebbe bene a fare lo stesso.

Andrea Alquati

 
La vera divisione PDF Stampa E-mail

25 Ottobre 2024

 Da Rassegna di Arianna del 23-10-2024 (N.d.d.)

L'Italia non è un Paese sovrano. Gli staterelli del Sei e Settecento erano più autonomi dell'attuale stato nazionale. Siamo soggetti a una triplice autorità: degli Stati Uniti, della Commissione Europea e dei mercati internazionali. Padre, Figlio e Spirito santo. È a questa nuova santissima trinità che gli uomini di potere sono tenuti a far professione di fede.  Corollario ad essa è una ideologia ufficiale che ha ugualmente tre capisaldi: la religione dei diritti umani, che serve a giustificare l'ingerenza dell'Occidente  in tutti i paesi del globo ;   il culto metafisico della Shoa,  che serve a mantenere l'Europa in un perpetuo stato di dipendenza, imputandole eternamente la responsabilità dei crimini contro gli ebrei; il sionismo, che serve a giustificare qualsiasi nefandezza dello stato di Israele, visto come avamposto e cane da guardia occidentale in Medio Oriente.

In questa situazione, l'intero dibattito politico e culturale, quello almeno che si svolge entro il perimetro della stampa e delle televisioni di regime,   tende ad assumere un carattere meramente teatrale. Nel momento in cui qualsiasi decisione del parlamento e del governo può essere ribaltata da uno starnuto di un presidente americano,  da un pronunciamento della Commissione di Bruxelles o da un soffio di vento dei mercati finanziari, a venir meno è la politica. Di conseguenza, concetti come destra, sinistra, anticomunismo, antifascismo perdono ogni significato. Diventano parole a cui non corrispondono cose. Servono solo a mantenere artificialmente in vita le divisioni del passato. Non a caso, quando queste parole vengono pronunciate nei dibattiti a qualsiasi livello e magari usate come armi contundenti, si assiste a un precipitare della discussione, che scade al livello del pettegolezzo o del litigio tra isterici.

Oggi la vera divisione passa tra chi accetta lo stato di dipendenza dell'Italia (e dell'Europa) e chi no.

Silvio Dalla Torre

 
Creare o replicare PDF Stampa E-mail

24 Ottobre 2024

La tensione a voler cambiare il registro della cultura, affinché l’assolutismo materialista e razionalista smorzi il suo potere per lasciare spazio a un’educazione capace di formare più persone compiute, cioè creative, e meno individui dipendenti, cioè replicanti, passa anche sui cavalcavia emozionali del linguaggio. Persona compiuta, sta per emancipata dal potere dell’io, dalle ideologie, dall’individualismo, dalle consuetudini, cioè in grado di fare riferimento al proprio sé per distinguere il bene e il male, nelle piccole e grandi circostanze della vita. Ciò implica l’accettazione della realtà, l’astensione dall’interpretarla, quale enorme riduzione della dispersione energetico-creativa di cui possiamo disporre quando disinquinati dall’atteggiamento egocentrico e dai saperi cognitivi. È anche l’assunzione di responsabilità di tutto, a sua volta base e centro di benessere materiale e spirituale, cioè di miglior salute fisica e serenità. Prodromo necessario per la realizzazione di comunità organiche, non affette da patologie cancerogene, consapevole che il bene comune sgorga dall’individuo, che la tolleranza nei confronti del prossimo non sta in una legge ma in un sentimento, in una visione del mondo destinata a creare bellezza, cioè nell’amore. Uomini compiuti, sta anche per persone all’altezza di riconoscere l’origine delle proprie emozioni e dei propri sentimenti, tanto nella pena, quanto nella gioia. Uomini che hanno incarnato – non solo capito, saputo o legiferato – e che quindi possono esprimere nel loro vivere, che le loro emozioni e i loro sentimenti non costituiscono diritto alcuno sull’altro. Cosa che non vuol dire non possano esserci più soprusi, ma che di questi l’autore se ne può assumere serenamente la responsabilità. Il meccanicismo, figlio del materialismo e del razionalismo ha impregnato di sé la cultura in cui siamo immersi dalla nascita. Essa non è funesta di per sé, anzi, ha reso e continua a rendere una molteplicità di servizi di cui tutti godono. Tutto il mondo fisico, per essere organizzato, ne richiede i servigi. Il problema insorge – ed è insorto – quando la sua longa manus si è estesa alla dimensione umanistico-relazionale. Non a caso la psicoanalisi degli albori ne è campione esemplare. Sta di fatto che tutti ne abbiamo subito il dominio a partire dai pensieri che formuliamo anche, appunto, in circostanze relazionali umane, dove il principio causa-effetto, proprio del meccanicismo, quando è inconsapevolmente affermato, fa più danni che bene. L’ubriacatura ha comportato che è ordinario per chiunque adottare un linguaggio che ne esprime l’immanenza, fino al punto di sentir dire che la scienza – fortificazione intorno al meccanicismo – ha dimostrato che il cane ha un olfatto più raffinato di quello umano; che riteniamo che il linguaggio razionalmente affermato, contenga sempre comunicazione; che la meritocrazia sia democratica; che non esiste o non è vero quanto non può essere dimostrato; che il criterio di valutazione debba essere uno per tutti. Da queste considerazioni, penso possa emergere anche il potere del linguaggio e della parola. Del resto i miracoli avvengono attraverso le parole. Esse creano in chi crede e accredita la fonte. Sono innocue e vuote nel miscredente. E altrettanto fanno per gli oracoli, in cui, sempre ad accredito dato ed esigenza personale, non sono che catalizzatori di realtà, alla stregua di un campo quantico che diviene una cosa o un’altra in funzione dell’interlocutore/osservatore. Mentre le parole hanno potere oracolare, le immagini sono un modello. Hollywood lo sa, e così la lobby delle armi, del tabacco prima, degli alcolici ancora. È un potere che non agisce intellettualmente su noi, ma emozionalmente. E, come sappiamo, dentro un’emozione, si fa quello che dice lei. Non si può giocare la carta del nuovo paradigma inconsapevoli della dimensione emozionale, energetico-magnetica e alchemico-quantica del linguaggio. Chiunque, nella propria biografia, può trovare più momenti in cui ha cambiato il registro personale delle cose. In ognuno di quei frangenti di scoperta c’erano di mezzo parole che ci hanno interrotto uno stato, che ci hanno infranto l’emozione in cui eravamo incapsulati, creando intorno a noi una nuova navicella entro la quale vagolare nell’oceano infinito del mondo. Se così è, diviene conseguente condividere che per cambiare il mondo è necessario cambiare il linguaggio, il verbo, il soffio vitale. Tutto ciò, significa che ogni aspirante rivoluzionario che non vede l’ora di immolarsi sull’altare del cosiddetto nuovo paradigma, dovrebbe, prioritariamente a tutta la sua probabile erudizione a sostegno del nobile intento, prendere coscienza di quanto il linguaggio sia una specie di laterizio con il quale costruiamo il mondo. Non avere consapevolezza del dominio culturale del meccanicismo, non riconoscerne la matrice nel linguaggio logico-razionalista, fiore del principio del causa-effetto, quale sola spiegazione della realtà, avrebbe una sola conseguenza, quella di perpetuare, in forma nuova, quanto voleva superare. I nuovi paladini, come tutte le rivoluzioni ci dimostrano, realizzeranno la loro ideologia e replicheranno quanto ripugnavano. Così accadrebbe anche in contesto evolutivo, quello tendenzialmente opportuno per generare società composte da uomini compiuti, consapevoli di sé, capaci di assumersi la responsabilità di tutto. Da avanguardia, diverrebbero bigotti della propria ideologia e vanità, incapaci di maieutica nei confronti dei miscredenti radicali materialisti, ma pronti a mettere in campo la garrota, autoreferenzialmente legalizzata, per ogni non convertito al nuovo paradigma. Senza un’emancipazione dal linguaggio a sfondo meccanicista, che sia più assertivo, non più proiettivo, giudicativo, separatorio, misurativo, antropocentrico, non definitivo, in quanto la realtà non è oggettiva in campo aperto relazionale, né carico di pretese di comunicazione e tronfio della propria logica stringente, nonché predisposto a rimodulare se stesso in funzione della risposta che ottiene, nessun cambiamento di paradigma potrà tenere fede alle proprie nobili intenzioni. Un linguaggio che, in ambito relazionale-umanistico, non impieghi – e se lo fa, lo faccia consapevolmente – formule deterministe e meccaniciste, che invece esprima tendenza e contenga la parzialità del proprio punto di vista, piuttosto che certezza e assoluti. Per un aggiornamento del linguaggio è necessario vedere dove si annida il determinismo ordinariamente e inconsapevolmente impiegato, né mai messo in discussione, la concezione meccanicistica dell’altro e della realtà, la convinzione di comunicazione nel linguaggio logico-razionale, valido solo in ambito chiuso, cioè in quelle circostanze tecnico-specialistico- amministrative dove tutti i partecipanti allo scambio sanno tutto, sono pari grado o di pari competenza, esperienza ed erudizione. Un linguaggio perciò, che esprima la consapevolezza che capire non conta nulla se non per un voto in pagella, che ricreare è necessario, che l’altro è tendenzialmente sempre in un universo emozionale differente dal nostro, che senza realizzare nei confronti del prossimo il rispetto e la dignità che chiediamo per noi, nessun nuovo paradigma può compiersi. Il linguaggio è il medium della comunicazione. Se esso si esprime a mezzo di modi meccanicistici, come se il prossimo fosse l’elemento di un meccanismo o un oggetto che ci ascolta, subliminalmente passerà la comunicazione che quel modo di impiegare le parole, sia il mondo da imitare, da replicare. Per alcuni si tratta di banalità note e stranote. In particolare per i potentati del mondo che attraverso l’introduzione nel linguaggio delle loro emittenti e dei loro politicanti, di parole e concetti ex novo, fanno esistere quanto prima non c’era. Così oggi c’è realmente un popolo che si crede risvegliato e un altro che pensa serva la guerra per ottenere la pace e che pensa si possa avere un centro d’equilibrio senza identità.

 

Lorenzo Merlo

 
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