26 Aprile 2025 Da Rassegna di Arianna del 25-4-2025 (N.d.d.) Negli ultimi giorni, su pagine di cui ho stima, sono comparsi alcuni testi il cui senso di fondo – senza fare giustizia delle argomentazioni differenti – può essere riassunto in questi termini: “Lasciamoci la vicenda pandemica alle spalle una volta per tutte. Sono stati commessi errori, certo, ma continuare ad ogni pie sospinto a tornarvi sopra finisce per nutrire il settarismo dogmatico di una minoranza, e ciò rende difficile occuparsi di altri temi, più urgenti e importanti.” Vorrei di seguito spiegare, nel mondo più conciso possibile, perché credo che questo appello, per quanto comprensibile, sia sbagliato. Parto dal perché lo ritengo comprensibile. È indubbio che nelle pieghe della critica alla gestione pandemica si sono incistati argomenti di livello molto diverso ed è emersa una tendenza al settarismo. È sicuro che, essendo stato per alcuni un forzoso “momento di sveglia politica”, esso è divenuto per quelli una sorta di paradigma con caratteri di unicità, il che è una forzatura. Ed è certo che la tendenza a vedere tutti gli eventi con occhiali forgiati dalla vicenda pandemica tende a creare, talora, una ripetitività fastidiosa (e anche controproducente per una stessa riflessione sul passato). Tutto questo lo condivido e dunque capisco il moto di impazienza che può aver alimentato quelle pagine. Ci sono però ragioni sostanziali per cui penso sia profondamente sbagliato ogni tentativo di “lasciarsi alle spalle” il problema. Nomino, senza pretese di esaustività, tre ragioni, nell’ordine. 1) C’è un elemento di carattere MORALE, profondo, che non solo non è stato mai affrontato pubblicamente, ma che è stato integralmente rimosso. Si dice “sono tati commessi degli errori”, restando nel vago, ma non si ricorda la miriade di vicende letteralmente schifose, di bullismo istituzionale e personale, denigrazione, character assassination, mobbing, ecc. di cui è stato investito quel 15% circa della popolazione italiana che si è trovata tra i renitenti alle inoculazioni (per sé o per i figli). Chi cerchi un po’ in rete potrà facilmente trovare una lista, che qualcuno si è peritato di raccogliere, di tutti gli improperi, le offese, le aggressioni verbali, gli auspici di morte violenta o malattia dolorosa formulati da rappresentanti delle istituzioni o figure pubbliche, spesso in prima serata, verso i renitenti (etichettati genericamente come “no-vax”). E senza che seguisse mai nemmeno un rimbrotto da parte di quel vasto mondo che si picca costantemente di essere “inclusivo” e “non stigmatizzante”. Ma quella era solo la punta dell’iceberg, perché l’autorizzazione dall’alto ha dato il via libera a chiunque, all’ultimo buono a nulla, che – per la prima volta nella sua vita, poteva dirsi dalla parte del giusto – di sentirsi in diritto di bullizzare chiunque fosse dall’altra parte, anche persone fragili, adolescenti, malati, donne in stato di gravidanza, ecc. Questa situazione fomentata dalle istituzioni ha portato alla rottura di famiglie, a divorzi, alla rottura di amicizie, ha spaccato durevolmente rapporti umani. Ecco, rispetto a tutto ciò, gran parte di quelli che erano dalla parte del “Bene con licenza di bullismo” non ha mai ammesso nulla, non è mai ritornato su quanto successo, ha preferito mettere tutto sotto il tappeto, in attesa che il tempo e l’oblio facciano il loro lavoro. È esattamente questo atteggiamento che spinge l’ampia minoranza dei renitenti, spesso, a ritornare con fastidiosa insistenza su quanto accaduto. Perché si tratta di una ferita morale aperta, che semplicemente è impossibile sia dimenticata fino a che non ci sarà una schietta rielaborazione, con ammissioni di colpe. 2) In seconda istanza c’è una questione parimenti priva di elaborazione che ha a che fare con la sfera delle CONSEGUENZE PRATICHE di tutta la vicenda. Oltre al piano delle questioni di ordine morale, che si riferiscono all’interpretazione di ciò che fu, c’è la questione della realtà emersa da quella vicenda. Per un breve momento all’inizio della pandemia si riconobbe che il sistema sanitario era stato condotto dai tagli precedenti ad una condizione di impotenza di fronte a qualunque sovraccarico di ricoveri. Si improvvisarono risposte raffazzonate, costosissime e fallimentari. Da allora il sistema sanitario pubblico ne è uscito clinicamente morto, con liste di attesa ingestibili e un passaggio sistematico di chi se lo può permettere alla sanità privata. Tutto questo è passato nel dimenticatoio. Viene letto come fatalità. Le persone che restavano in vigile attesa senza cure fino ad arrivare in ospedale spacciate non se l’è filate più nessuno. Rientra tutto tra gli “errori” e le “fatalità”. Pronti a far ripartire la stessa manfrina senza responsabili al prossimo giro. Tra le conseguenze pratiche c’è anche la semidistruzione psicologica di una generazione di preadolescenti e adolescenti che dalle brillanti soluzioni pandemiche è uscita con tassi di depressione, anoressia e bulimia, disagio mentale, abbandono scolastico, fuori controllo (chiedete agli psicologi giovanili che operano sul territorio). Anche qui il sistema del sostegno psicologico e psichiatrico pubblico è tracollato. Anche di ciò nessun parla, nessuno cerca di porvi rimedio. Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Vogliamo parlare delle sconcertanti e penose trafile dei danneggiati (o morti) dopo le inoculazioni? Gente che si è trovata a muoversi in un meccanismo costruito a tavolino per evitare qualunque responsabilità? Un meccanismo dove tutti, dalle case farmaceutiche ai medici vaccinatori erano coperti da varie forme di immunità, dove veniva chiesto di firmare un “consenso informato” che doveva fungere anche da liberatoria, solo che, se non apponevi liberamente la firma, ti toglievano il sostentamento (non era possibile venire inoculati senza firmare, senza inoculazione niente Green pass, senza Green pass niente stipendio). Qui la lista dei trucchi adottati per deresponsabilizzare le istituzioni e minimizzare le ammissioni di colpa è letteralmente infinita. Ma siccome di tutto ciò non si è mai voluto discutere pubblicamente, i più continuano a non avere idea di quel che è successo e sbambano di “pochi casi” (spiace, per fare un omelette si deve rompere qualche uovo no?). 3) C’è infine un elefante geopolitico nella stanza. La gestione pandemica ha rappresentato la prova generale di un “serrate le fila” del mondo occidentale a guida americana. Tutti e soli i paesi che rientravano nel cerchio magico delle alleanze militari americane hanno adottato la medesima lettura dei fatti, si sono affidati (obbligatoriamente) ai medesimi vaccini, hanno fornito dati coordinati, hanno bloccato e censurato centralmente le voci dissidenti. Questo fronte includeva Europa occidentale, Usa, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Israele. Al di fuori di questa cerchia le soluzioni e le lettura degli eventi sono state molto variegate, ma di tutto ciò noi non riuscivamo a sapere praticamente nulla. (In Europa l’unico paese che ha adottato soluzioni diverse, e alla fine nettamente migliori, è stata la Svezia, che era fuori dall’eurozona e, allora, fuori dalla Nato.) Noi oggi sappiamo che sin dall’inizio la gestione della strategia pandemica ha visto la presenza attiva di esperti militari, rappresentanti della Nato che assistevano alle riunioni dei “comitati scientifici”. La motivazione, naturalmente, può essere del tutto comprensibile: poteva trattarsi di un attacco batteriologico e il coordinamento in ottica militare era una reazione sensata. Solo che, al netto del buon senso e anche al netto dell’origine del virus (che oggi sembra oramai accertato essere un prodotto di laboratorio), ciò che è avvenuto davanti ai nostri occhi è stato un cambiamento di paradigma geopolitico epocale, in cui oggi siamo immersi. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale la società occidentale è stata subordinata a meccanismi di sorveglianza, inquadramento e controllo di tipo militare, coprifuoco, lockdown, patentini, sistemi di videosorveglianza. Per la prima volta il controllo sull’informazione è stato capillare, con pressioni ai più alti livelli sulle agenzie di stampa e sui social media per bloccare la diffusione di informazioni contrarie alla “ragion di stato”. E che dire delle riviste scientifiche, dove come denunciato da quei pochi che hanno cercato di sottrarvisi (tra le maggiori l’unica eccezione è stata il British Medical Journal) era divenuto virtualmente impossibile pubblicare alcunché che potesse ostacolare lo “sforzo bellico” dell’inoculazione di massa. Che dire degli ordini dei medici e del loro utilizzo disciplinare con sanzioni pesantissime nei confronti di quei medici che, esercitando in scienza e coscienza, ritenevano di dover dissuadere alcuni tra i loro pazienti all’assunzione di un farmaco sperimentale? (Non entro neppure nella serie infinita di schiette idiozie dal punto di vista scientifico che sono state fatte passare per “la Voce della Scienza”, come i mix di vaccini diversi – del tutto privi di sperimentazione – o l’utilizzo raccomandato per donne in stato di gravidanza – laddove le stesse case farmaceutiche affermavano non essere stata condotta alcuna sperimentazione.) Questo straordinario accentramento del controllo, questo disciplinamento autoritario di quasi un miliardo di persone, utilizzando una chiave di lettura per definizione inaccessibile all’accertamento del grande pubblico – la minaccia di un virus – ha oliato meccanismi di straordinaria pericolosità per tutto ciò che riteniamo essere democrazia. Questo meccanismo ha dato prova di sé così eccellente che a tutt’oggi una maggioranza della popolazione pensa che non sia successo niente, che sia tutto come prima, che viviamo in festose liberaldemocrazie – opposte a quei luoghi di oscurità retriva in cui vivono gli altri sette ottavi del pianeta. Ecco, mi sono dilungato sin troppo, anche se non ho detto neanche un centesimo di tutto quello che si potrebbe dire. Quello che mi preme sottolineare in conclusione è solo una cosa. Le ragioni per cui la vicenda pandemica non solo non deve, ma non può essere lasciata dietro le spalle sono ragioni fondamentali. Esse hanno a che fare con ferite morali non sanate, con conseguenze pratiche lasciate cadere in un oblio senza colpevoli e soprattutto con uno straordinario cambiamento di paradigma nella gestione del potere di quella parte di mondo che ci compiacciamo di chiamare “liberaldemocratico”. Con un potenziale orizzonte bellico che oscura sempre di più l’orizzonte dell’Europa – spiace dirlo – ma ciò di cui avremmo bisogno non è affatto di “lasciarci dietro le spalle” quello che è accaduto, ma, semmai, di renderlo finalmente oggetto di un’aperta e diffusa analisi pubblica. Andrea Zhok
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24 Aprile 2025 Con grande rispetto verso la sensibilità di tutti, ma con altrettanta onestà, mi permetto alcune personalissime riflessioni sul pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Bergoglio: un Papa che la narrazione ufficiale ha elevato a paladino degli ultimi, dei poveri, degli emarginati e dei fragili. Una figura dipinta come rivoluzionaria, in particolar modo per la sua vicinanza agli esclusi, ma che merita un’analisi più lucida e meno compiacente. A mio avviso, consapevolmente o meno, il suo pontificato, più che proteggere ed elevare i ceti più poveri e tutelare i fragili, ha finito per danneggiare la classe media, allineandosi di fatto con le strategie delle élite globaliste e finanziarie, orientate alla dissoluzione dei corpi intermedi e alla precarizzazione generalizzata. In sostanza, ciò che fragili e poveri hanno davvero ottenuto è stata una compagnia più numerosa: un’espansione della loro condizione soprattutto in Occidente. Il suo stile comunicativo è stato contraddittorio, strategicamente aporetico, soprattutto su questioni controverse e delicate: un continuo colpo al cerchio e uno alla botte, che ha disorientato i fedeli e reso ineffabile ogni orientamento dottrinale. Rivelandosi, alla fine, un boomerang probabilmente inaspettato. Si è dichiarato contro l’aborto, mentre manteneva un dialogo oserei dire compiacente con i suoi più accesi sostenitori. Ha criticato le ideologie di genere e la diffusione dell’omosessualità nella Chiesa, mantenendo tuttavia posizioni ambigue e spesso concilianti verso le teorie più controverse sulle relazioni e la sessualità. Questa ambivalenza ha generato confusione, non chiarezza. Ha mostrato un’attenzione ossessiva per i migranti, arrivando a colpevolizzare interi popoli per la loro presunta incapacità di accogliere, empatizzare e celebrare la diversità. Tuttavia, è rimasto cieco – o volutamente silenzioso – sulle cause profonde delle migrazioni: guerre, sfruttamento economico, ingerenze geopolitiche, e soprattutto i piani delle élite tese alla destabilizzazione e frammentazione delle società. Molte volte ha persino legittimato i principali attori di queste malate geometrie di potere. Ha promosso una spiritualità dal sapore globalista, una religione civile del “volemose bene”, che ha finito per svuotare di ogni contenuto trascendente la fede cristiana, pur dichiarandosi radicata in Cristo e nei Vangeli. Un paradosso che rivela tutta la crisi dell’identità cattolica occidentale. Più impegnato ad accogliere ideologicamente l'altro che a difendere il proprio: la propria fede, la propria cultura, la propria tradizione. Un altro aspetto particolarmente ambiguo del suo pontificato è stata la sua palese accettazione della manipolazione operata dal sistema mass-mediatico dominante sulle sue parole. Quando ha osato criticare alcuni capisaldi della retorica del potere – come le politiche anti-umane di Israele o l’atteggiamento ipocrita e bellicista dell’Occidente nel conflitto russo-ucraino – i media lo attaccavano con ferocia o relegavano le sue dichiarazioni a trafiletti irrilevanti. Al contrario, quando pronunciava anche solo mezza frase utile a rafforzare il racconto dominante, veniva amplificato con ogni mezzo e la massima enfasi. Per un orecchio attento, questa strumentalizzazione è risultata sfacciata, puerile, spesso grottesca e caricaturale. La Santa Sede non ha mai denunciato con chiarezza e forza questa abnorme manipolazione. Anzi, ha sguazzato in quella melma, ma così facendo ha tradito uno degli elementi più sacri del messaggio evangelico – la verità e la coerenza – finendo per affondarci. Forse il punto più basso, e imperdonabile, è stato raggiunto quando, insieme al potere politico del tempo, si è reso protagonista di una delle più gravi e dolorose fratture del corpo sociale nella storia recente: l’appoggio totale alla narrazione dell’obbligo vaccinale. Sfruttando nel modo più vile la residua autorità morale della Chiesa, Bergoglio ha fatto leva sul senso di colpa e quindi sul peccato. Nulla di nuovo per la Chiesa, starà dicendo qualcuno. Vero. Ma la novità è consistita nell’abbraccio mortale tra una visione fintamente liberale, e progressista, e l’uso strumentale di un retaggio dogmatico tradizionalista per scopi puramente biopolitici. In sintesi, Bergoglio è stato l’espressione coerente di una Chiesa allo sbando, fatta di templi vuoti e anime disorientate, che ha rinnegato le sue radici sacre nel tentativo di rincorrere il mondo, anziché tentare eroicamente di esserne faro in un’epoca sempre più crepuscolare. Una Chiesa che ha perso ogni autorevolezza spirituale per chi cerca sinceramente senso e verità, e che oggi raccoglie solo l’applauso sterile di chi rifiuta ogni idea di spirito. Un applauso che sa di derisione e compiacimento per una sorta di scacco matto al Re dei cieli, giocato con la complicità del suo stesso vicario in terra. L’idea di un nuovo Papa, che pare eccitare molti in queste prime ore dalla morte di Bergoglio, personalmente mi inquieta. Perché, se è vero che il suo pontificato è stato segnato da molteplici errori e veri e propri vizi sostanziali, la responsabilità – come per ogni dialettica del potere – non ricade solo sul vertice. Va analizzata e condivisa anche con chi quel potere lo ha legittimato con il proprio consenso o il proprio silenzio. Non esiste potere che operi senza riflettersi nella società; così come non esiste potere che non sia, almeno in parte, espressione dell’intero corpo sociale. Da ciò, per pura meccanica sociale, osservando lo stato della coscienza collettiva, il futuro Pontefice potrebbe persino far rimpiangere il precedente o trovarsi con un magistero sostanzialmente impedito. L’unica cosa buona che mi porto a casa da tutta questa desolazione, da questi terribili anni, è che mai come oggi chi cammina veramente lungo la via della verità e della libertà ha compreso che la casa di Dio è nei propri cuori. E che nessuno, più della propria sacra coscienza, può condurre fin lì. Pierluigi Dadrim Peruffo
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23 Aprile 2025 Da Rassegna di Arianna del 21-4-2025 (N.d.d.) Siamo alla frutta, o forse al momento del conto, se dobbiamo registrare con soddisfazione che il massimo tribunale britannico abbia stabilito che un uomo è un uomo e una donna è una donna e così devono essere chiamati. La follia del mondo capovolto è tanto avanzata che credere ai propri occhi diventa un atto di coraggio, o, come scrisse George Orwell, che in tempo di inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario. Non possiamo dire altrettanto della Corte costituzionale italiana – un sinedrio di ottimati fedeli al sistema – che ha recentemente aperto la strada alle adozioni gay e ad altri spropositi affermando che le parole padre e madre nei documenti sono discriminatorie e vanno sostituite dal neutro “genitore”. Il commento più impressionante del mondo invertito è venuto da Laura Boldrini che, a proposito della dicitura padre e madre, ha parlato di bullismo politico. Giove toglie il senno a chi vuol rovinare. La guerra delle parole – su cui abbiamo scritto un libro – è uno dei principali campi di battaglia della rivoluzione cognitiva voluta dai padroni del disgraziato occidente. Il pronunciamento inglese, in questo senso, è assai importante nel mondo in cui i pazzi guidano i ciechi. Confucio disse che il suo primo atto di governo sarebbe stato rettificare le denominazioni, poiché solo nella chiarezza si persegue il bene comune. Viceversa, la confusione verbale è il primo segnale della decadenza civile. Distorcere il dizionario significa distorcere la nostra vita. Il giudice britannico ha semplicemente creduto alla natura e ai suoi occhi, ristabilendo una verità elementare, chiarissima agli uomini di ogni tempo e civiltà tranne la nostra. È semplice e primordiale definire le cose con il loro nome: donna a una donna, rosa a una rosa. La sentenza della Corte Suprema del Regno Unito si basa su una qualificazione semantica che mira a ripristinare il rigore delle parole, giacché senza rigore non c’è giustizia. E nemmeno un’etica coerente. Dare un nome sbagliato a un oggetto, sosteneva Albert Camus, aumenta l’infelicità del mondo. Poche cose dovrebbero preoccuparci più dell’arbitraria imposizione di significato alle parole. “La decisione unanime di questa corte è che i termini donna e sesso nell’Equality Act del 2010 (la legge britannica sull’uguaglianza N.d.R.) si riferiscono a una donna biologica e al suo sesso biologico”, ha affermato Patrick Hodge, vicepresidente del tribunale, annunciando la sentenza. Alla fine, non è che un fondamentale monito dello stesso Sigmund Freud: l’anatomia è un destino. Esattamente ciò a cui vuole sfuggire la folle ideologia postmoderna (e post umana). Dall’amor fati, amore, accettazione del destino, all’odium fati, il suo contrario. La legge – e con essa la logica e il senso comune – deve attenersi al criterio imposto dal destino: definire e classificare ciò che è e sarà per sempre. Il lessico, fotografia della realtà, classifica le configurazioni genitali, ossia i destini. Il testo giuridico inglese li chiama “sesso biologico”. In termini clinici, il nome proprio è anatomia. Il giudice Hodge ha precisato ciò che avrebbe dovuto essere superfluo. Ma è giusto che lo abbia fatto, data l’estrema confusione che un dibattito contaminato dall’ideologia sta imponendo all’opinione pubblica. La precisazione lessicale della corte britannica non lede i diritti di alcuno. “Sconsigliamo di interpretare questa sentenza come un trionfo di uno o più gruppi della nostra società a scapito di un altro: non è così. La sentenza non crea alcuno svantaggio per le persone trans, protette dalle leggi antidiscriminazione e dalle norme che tutelano l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini”. Verità e realtà contro autopercezione, capriccio, volontà soggettiva. Chiamare ogni cosa con il suo nome ci protegge dal trivializzarla. E di mettere la tragedia al posto della commedia, col pretesto che entrambe, come insegna Aristotele, sono scritte con le stesse lettere... Chiamare “riassegnazione autodeterminativa” l’amputazione di organi o la pretesa di essere per legge ciò che non si è per natura significa giocare con l’inferno. Occorre proteggere da se stesse – e da interessati stregoni – personalità fragili e innanzitutto ripristinare il primato della natura sul desiderio di negarla, oltrepassarla o relativizzarla. L’uomo è uomo, la donna è donna. Una mela è una mela e chi non ci crede esca dall’aula, diceva agli studenti della Sorbona Tommaso d’Aquino. Il monito di Camus non è mai stato tanto convincente: dare un cattivo nome a qualcosa aumenta l’infelicità. Roberto Pecchioli
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20 Aprile 2025 Da Rassegna di Arianna del 19-4-2025 (N.d.d.) Quando gli eventi accelerano, assai più di quanto vorrebbero i protagonisti, è segno che la situazione sfugge al loro controllo. Ed è precisamente questo che sta accadendo, in questo momento, agli Stati Uniti d'America. I segnali ci sono tutti. La fretta di Trump di portare a casa risultati, che però non arrivano. L'apertura di una guerra daziaria, che aveva come obiettivo il disaccoppiamento dalla Cina, che si sta infrangendo contro la fermezza di Pechino. L'emergere di divisioni all'interno dell'inner circle trumpiano, a soli tre mesi dall'insediamento. L'incapacità di uscire (bene) dalla sconfitta in Ucraina. La corsa ai tagli della spesa, che in pochissimo tempo ha già prodotto centinaia di migliaia di disoccupati. Il progressivo impantanarsi mediorientale. L'insistenza su una narrazione conflittuale e divisiva interna, nel momento di massima crisi dell'impero. E si potrebbe continuare, ovviamente, ancora a lungo. Ciò che emerge sempre più, quindi, è la difficoltà statunitense a gestire la propria crisi imperiale, e la caotica situazione internazionale che la propria crisi alimenta e acutizza. Il tentativo di coprirla con una narrazione arrogante, non solo complica le cose proprio per il suo essere urticante in sé, ma si rivela una coperta troppo corta per nascondere l'impasse. Ed il rischio di passare da questo al cacciarsi in un cul-de-sac si fa di giorno in giorno più probabile. Marco Rubio, calato in Europa per cercare di convincere i paesi europei a cedere sulla questione delle sanzioni alla Russia (passaggio fondamentale per sbloccare i negoziati con Mosca), dichiara che, se le trattative sull'Ucraina non producono risultati "entro pochi giorni", gli Stati Uniti si disimpegneranno perché hanno altre priorità. Il punto è che tornare alla retorica inziale di Trump ("risolvo in 24 ore") non è d'aiuto; e certo Washington può anche cercare di mantenere in piedi il dialogo con Mosca a prescindere dalla questione ucraina, ma ci sono solo due modi per provarci. O smettere di mediare, e però smettere anche qualsiasi aiuto a Kiev, aspettando che la Russia risolva il conflitto sul campo di battaglia - il che significa perdere un altro po' di credibilità (ad est come ad ovest), incassare una sconfitta più bruciante, e comunque allungare considerevolmente i tempi per un 'appianamento' delle relazioni russo-americane. Oppure continuare a sostenere l'Ucraina, ma chiamandosi fuori dai negoziati - il che significa una maggiore perdita di credibilità agli occhi del Cremlino, e un rinvio sine die di qualsiasi accordo con la Federazione Russa. Perché la questione fondamentale è che per gli USA l'Ucraina non conta nulla, al più è tenuta in considerazione come un potenziale debitore da spremere, ma per la Russia è un nodo nell'ambito della sua esigenza strategica di assicurarsi quegli accordi di sicurezza (europea e globale), che cerca di ottenere da almeno quindici anni. E se non c'è quella, il resto non ha molto interesse. La capacità - o meno - di esercitare il proprio potere egemonico, sull'Europa e sull'Ucraina, è in ultima analisi il metro con cui Mosca valuta la serietà statunitense. Ed è sempre Rubio che, sull'altro fronte problematico, quello mediorientale, assume il ruolo di maggior falco all'interno dell'amministrazione. Nonostante Trump sia dipinto come assolutamente appiattito sulle posizioni israeliane, la realtà dei fatti dice qualcosa di diverso; non perché sia un pacifista, o non sia abbastanza amico di Israele, ma semplicemente perché ha chiaro quale sia l'interesse strategico degli USA nella regione (che va oltre lo stato ebraico), così come ha chiari i rischi del seguire passivamente l'avventurismo di Netanyahu. La scommessa di Trump è chiaramente un rospo assai difficile da ingoiare, per l'estrema destra israeliana, perché si fonda sulla ricerca di un accordo con l'Iran. Accordo non facile da raggiungere, ma che viene visto come l'unica via percorribile, essendo l'alternativa una guerra durissima, prolungata, e potenzialmente sconvolgente per l'intero sistema geopolitico globale, nella quale gli Stati Uniti si ritroverebbero quasi certamente da soli, e quasi sicuramente contro non solo l'Iran ed i suoi alleati regionali, ma anche Russia e Cina. Probabilmente non schierate in prima linea con le proprie forze armate, ma di sicuro pienamente impegnate a impedire la caduta della Repubblica Islamica; in poche parole, l'intera strategia americana (guadagnare tempo, dividere le forze nemiche) andrebbe gambe all'aria. Anche in Medio Oriente, comunque, ad essere foriera di sbandate pericolose è l'assenza di una vera strategia USA, che tenga conto dei reali rapporti di forza e delle posizioni dei vari attori coinvolti. Aggravata proprio dall'influenza nefasta che Israele non cessa di esercitare sulla politica statunitense, e che oggi significa il condizionamento da parte di un governo a sua volta alle prese con una crisi di portata storica, alla quale risponde con una strategia massimalista del tutto priva di qualsiasi senso della realtà. La strategia mediorientale di lungo periodo, per gli Stati Uniti, resta quella di una normalizzazione più o meno egemonica della regione. Portare cioè i paesi arabi ad instaurare rapporti stabili e pacifici con Israele. Per conseguire questo obiettivo, cercano intanto (ed in vario modo) di smantellare il network degli alleati di Teheran; ridurre l'influenza iraniana significa essenzialmente rassicurare sia Israele che i paesi arabi. Ma quanto questo obiettivo sia praticabile è tutta un'altra faccenda. E di certo Israele non è d'aiuto, con le sue continue mire espansionistiche - per quanto folli ed insensate, comunque reiterate di continuo, e perseguite manu militari. La grande contraddizione americana è che si trova oggi in questa situazione perché il mondo è cambiato (sono cambiati gli equilibri di potenza, e su vari livelli), ma ha difficoltà ad affrontare il cambiamento; non solo perché, ovviamente, non lo vuole accettare, ma anche perché stenta anche solo a prenderne atto. È come un vecchio leone che non ha più la forza di un tempo, per tenere a bada i giovani che ambiscono a prenderne il posto nel branco, ma che continua a ruggire e menare zampate come se l'avesse ancora, esponendosi al rischio di una fine precoce. Ma se per quanto riguarda il conflitto in Ucraina c'è sempre, alle brutte, la possibilità di un chiamarsene fuori (magari poco edificante, ma comunque possibile), scaricando oneri e colpe su altri - Biden, Zelensky, gli europei… - questa possibilità non c'è nel conflitto mediorientale. Il vincolo mortale con Israele non lo rende possibile. La partita con l'Iran, quindi, diventa un passaggio cruciale, non soltanto per il Medio Oriente, per l'intera amministrazione Trump. Gli Stati Uniti devono portare a casa un risultato di una qualche stabilità e spendibilità, ed essere capaci di tenere a bada l'irragionevole alleato. Già il primo passaggio è tutt'altro che facile, perché Teheran è consapevole delle proprie forze (e delle proprie debolezze), ma è anche estremamente determinata, e sta dimostrando una notevole capacità tattica e strategica nella gestione della crisi. I ripetuti incontri trilaterali Iran-Russia-Cina, incentrati sul tema, il viaggio a Mosca di Araghchi (con una missiva di Khamenei per Putin), la visita del ministro della difesa saudita a Teheran (e l'annuncio di un viaggio in Iran del principe Mohammed Bin Salman), sono tutti segni della rete che l'Iran sta intrecciando, per rafforzare la sua posizione negoziale. La divisione che si sta manifestando all'interno dell'amministrazione USA - con Trump, l'inviato Witkoff, e in parte il capo del Pentagono Hegseth, che insistono sulla via negoziale, ed il segretario di stato Rubio che propende per l'opzione militare - testimonia non solo la difficoltà della strategia statunitense, ma anche, appunto, come questa si rifletta criticamente sul governo stesso. L'impossibilità di tenere insieme capre e cavoli si rivela ancora una volta un limite insormontabile. Per certi versi, siamo dinanzi all'ennesima similitudine tra Zelensky e Netanyahu (ma ovviamente la questione non è 'personale'). Quando l'intreccio delle relazioni tra una grande potenza e un piccolo alleato (o proxy) si fa troppo duraturo e profondo, ciò finisce per mutare la natura del rapporto, e l'equilibrio tra i due si sposta, mette in mano al piccolo delle leve che il grande non pensava si sarebbero manifestate. Ed è questo che oggi rende il passaggio estremamente complesso - ma anche cruciale. Gli USA non possono 'mollare' Israele, né possono forzarlo ad accettare qualunque soluzione appaia praticabile per Washington. Al tempo stesso, trovare una mediazione possibile con l'Iran significa fare delle concessioni, che appariranno comunque inaccettabili a Tel Aviv. Tenere insieme il diavolo e l'acqua santa non è possibile. Se, almeno per il momento, è probabile che una grande guerra sia stata scongiurata in Europa - al prezzo di una sconfitta strategica dell'occidente - il rischio aumenta di molto nel Levante. Perché l'America non può permettersi un'altra sconfitta strategica, ma non sembra capace di trovare un'altra via d'uscita. Enrico Tomaselli
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16 Aprile 2025 Da Comedonchisciotte del 14-4-2025 (N.d.d.) Perché siamo capaci di descrivere e analizzare il vecchio che si dissolve e non riusciamo invece a immaginare il nuovo? Forse perché crediamo più o meno inconsapevolmente che il nuovo sia qualcosa che viene – non si sa da dove – dopo la fine del vecchio. L’incapacità di pensare il nuovo si tradisce così nell’incauto uso del prefisso post: il nuovo è il post-moderno, il post-umano – in ogni caso qualcosa che viene dopo. È vero precisamente il contrario: il solo modo che abbiamo di pensare il nuovo è di leggerlo e decifrarne i tratti nascosti nelle forme del vecchio che passa e si dissolve. È quanto Hölderlin afferma con chiarezza nello straordinario frammento su La patria che tramonta, in cui la percezione del nuovo è inseparabile dal ricordo del vecchio che va a fondo e deve anzi in qualche modo assumerne amorosamente la figura. Ciò che ha fatto il suo tempo e sembra dissolversi perde la sua attualità, si svuota del suo significato e ridiventa in qualche modo possibile. Benjamin suggerisce qualcosa del genere quando scrive che nell’attimo del ricordo il passato che sembrava compiuto ci appare incompiuto e ci fa così dono della cosa più preziosa: la possibilità. Veramente nuovo è solo il possibile: se fosse già attuale e effettivo, esso sarebbe già sempre deciduo e invecchiato. E il possibile non viene dal futuro, esso è, nel passato, ciò che non è stato, che forse non sarà mai, ma che avrebbe potuto essere e che per questo ci riguarda. Percepiamo il nuovo soltanto se riusciamo a cogliere la possibilità che il passato – cioè la sola cosa che abbiamo – per un attimo ci offre prima di scomparire per sempre. È in questo modo che dobbiamo riferirci alla cultura occidentale che ovunque intorno a noi oggi si disfa e dissolve. Giorgio Agamben
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Quando i mezzi diventano fini |
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13 Aprile 2025 Da Rassegna di Arianna del 5-4-2025 (N.d.d.) Il soggettivismo egolatrico moderno ha trasformato la libertà individuale da un mezzo importante (senza libertà è impossibile compiere cose buone) a un fine ultimo. Cioè, in un assoluto. Ha fatto la stessa cosa col denaro, con le merci, con la tecnologia. Ha trasformato tutte queste cose da mezzi che possono migliorare le umane condizioni di vita, a fini ultimi, cioè assoluti ipertrofici. Che ovviamente hanno relativizzato e infine oscurato completamente quelli che erano i fini ultimi nella civiltà cristiana premoderna: Dio e la cura dell'anima. Che la libertà individuale sia un mezzo e non un fine lo dimostra una semplice constatazione: posso usarla tanto per fare cose buone quanto per cose cattive. Come tutti i mezzi, è dunque neutra, è il fine per il quale essa è impiegata che la rende volta per volta buona o cattiva. Posso usarla tanto per fare del bene quanto per nuocere agli altri, tanto per elevare me stesso quanto per abbrutirmi nei modi più svariati. Infatti tutti i più grandi spiriti antichi e medioevali non diedero al problema della libertà un grande rilievo. Come non enfatizzarono, anzi molto spesso minimizzarono l'importanza dell'economia e della tecnica. È la modernità che ha cambiato completamente le cose, con l'umanesimo e il Rinascimento, con Lutero (il libero esame), con il liberalismo, con le Rivoluzioni, i cambiamenti di costume. La sete insaziabile di libertà, prevalentemente individuale, atomistica, è dunque tipicamente moderna. Come l'economicizzazione capitalistica del mondo e lo scientismo tecnolatrico. E se questa sete ha avuto anche qualche conseguenza apprezzabile (pensiamo all'abolizione della schiavitù), perché nessun fenomeno è completamente unilaterale, le maggiori conseguenze sono state distruttive, distruggendo nel profondo ogni appartenenza e identità collettiva. Giungendo fino all'attuale dirittismo folle, al gender, al woke e persino al postumanesimo. Lo stesso dicasi per l'uguaglianza, altra idea cristiana impazzita, come la definisce Chesterton. È in grado l'attuale mondo occidentale e moderno (o postmoderno che dir si voglia) di comprendere l'errore dell'avere sostituito i mezzi con i fini, e di tornare alla saggezza premoderna, classica e cristiana? Lo spero, ma sinceramente non lo credo. L'ignoranza spirituale dell'Occidente e delle sue classi dirigenti (compresa quella ormai subalterna del clero modernista) accecate dal risentimento, dall'avidità, dal nichilismo, si è spinta troppo oltre, come constatiamo ogni giorno, e ormai soltanto Dio, se e quando vorrà, ci può salvare. Occorre però testimoniare. Sempre. Martino Mora
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