25 Ottobre 2024 Da Rassegna di Arianna del 23-10-2024 (N.d.d.) L'Italia non è un Paese sovrano. Gli staterelli del Sei e Settecento erano più autonomi dell'attuale stato nazionale. Siamo soggetti a una triplice autorità: degli Stati Uniti, della Commissione Europea e dei mercati internazionali. Padre, Figlio e Spirito santo. È a questa nuova santissima trinità che gli uomini di potere sono tenuti a far professione di fede. Corollario ad essa è una ideologia ufficiale che ha ugualmente tre capisaldi: la religione dei diritti umani, che serve a giustificare l'ingerenza dell'Occidente in tutti i paesi del globo ; il culto metafisico della Shoa, che serve a mantenere l'Europa in un perpetuo stato di dipendenza, imputandole eternamente la responsabilità dei crimini contro gli ebrei; il sionismo, che serve a giustificare qualsiasi nefandezza dello stato di Israele, visto come avamposto e cane da guardia occidentale in Medio Oriente. In questa situazione, l'intero dibattito politico e culturale, quello almeno che si svolge entro il perimetro della stampa e delle televisioni di regime, tende ad assumere un carattere meramente teatrale. Nel momento in cui qualsiasi decisione del parlamento e del governo può essere ribaltata da uno starnuto di un presidente americano, da un pronunciamento della Commissione di Bruxelles o da un soffio di vento dei mercati finanziari, a venir meno è la politica. Di conseguenza, concetti come destra, sinistra, anticomunismo, antifascismo perdono ogni significato. Diventano parole a cui non corrispondono cose. Servono solo a mantenere artificialmente in vita le divisioni del passato. Non a caso, quando queste parole vengono pronunciate nei dibattiti a qualsiasi livello e magari usate come armi contundenti, si assiste a un precipitare della discussione, che scade al livello del pettegolezzo o del litigio tra isterici. Oggi la vera divisione passa tra chi accetta lo stato di dipendenza dell'Italia (e dell'Europa) e chi no. Silvio Dalla Torre
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24 Ottobre 2024 La tensione a voler cambiare il registro della cultura, affinché l’assolutismo materialista e razionalista smorzi il suo potere per lasciare spazio a un’educazione capace di formare più persone compiute, cioè creative, e meno individui dipendenti, cioè replicanti, passa anche sui cavalcavia emozionali del linguaggio. Persona compiuta, sta per emancipata dal potere dell’io, dalle ideologie, dall’individualismo, dalle consuetudini, cioè in grado di fare riferimento al proprio sé per distinguere il bene e il male, nelle piccole e grandi circostanze della vita. Ciò implica l’accettazione della realtà, l’astensione dall’interpretarla, quale enorme riduzione della dispersione energetico-creativa di cui possiamo disporre quando disinquinati dall’atteggiamento egocentrico e dai saperi cognitivi. È anche l’assunzione di responsabilità di tutto, a sua volta base e centro di benessere materiale e spirituale, cioè di miglior salute fisica e serenità. Prodromo necessario per la realizzazione di comunità organiche, non affette da patologie cancerogene, consapevole che il bene comune sgorga dall’individuo, che la tolleranza nei confronti del prossimo non sta in una legge ma in un sentimento, in una visione del mondo destinata a creare bellezza, cioè nell’amore. Uomini compiuti, sta anche per persone all’altezza di riconoscere l’origine delle proprie emozioni e dei propri sentimenti, tanto nella pena, quanto nella gioia. Uomini che hanno incarnato – non solo capito, saputo o legiferato – e che quindi possono esprimere nel loro vivere, che le loro emozioni e i loro sentimenti non costituiscono diritto alcuno sull’altro. Cosa che non vuol dire non possano esserci più soprusi, ma che di questi l’autore se ne può assumere serenamente la responsabilità. Il meccanicismo, figlio del materialismo e del razionalismo ha impregnato di sé la cultura in cui siamo immersi dalla nascita. Essa non è funesta di per sé, anzi, ha reso e continua a rendere una molteplicità di servizi di cui tutti godono. Tutto il mondo fisico, per essere organizzato, ne richiede i servigi. Il problema insorge – ed è insorto – quando la sua longa manus si è estesa alla dimensione umanistico-relazionale. Non a caso la psicoanalisi degli albori ne è campione esemplare. Sta di fatto che tutti ne abbiamo subito il dominio a partire dai pensieri che formuliamo anche, appunto, in circostanze relazionali umane, dove il principio causa-effetto, proprio del meccanicismo, quando è inconsapevolmente affermato, fa più danni che bene. L’ubriacatura ha comportato che è ordinario per chiunque adottare un linguaggio che ne esprime l’immanenza, fino al punto di sentir dire che la scienza – fortificazione intorno al meccanicismo – ha dimostrato che il cane ha un olfatto più raffinato di quello umano; che riteniamo che il linguaggio razionalmente affermato, contenga sempre comunicazione; che la meritocrazia sia democratica; che non esiste o non è vero quanto non può essere dimostrato; che il criterio di valutazione debba essere uno per tutti. Da queste considerazioni, penso possa emergere anche il potere del linguaggio e della parola. Del resto i miracoli avvengono attraverso le parole. Esse creano in chi crede e accredita la fonte. Sono innocue e vuote nel miscredente. E altrettanto fanno per gli oracoli, in cui, sempre ad accredito dato ed esigenza personale, non sono che catalizzatori di realtà, alla stregua di un campo quantico che diviene una cosa o un’altra in funzione dell’interlocutore/osservatore. Mentre le parole hanno potere oracolare, le immagini sono un modello. Hollywood lo sa, e così la lobby delle armi, del tabacco prima, degli alcolici ancora. È un potere che non agisce intellettualmente su noi, ma emozionalmente. E, come sappiamo, dentro un’emozione, si fa quello che dice lei. Non si può giocare la carta del nuovo paradigma inconsapevoli della dimensione emozionale, energetico-magnetica e alchemico-quantica del linguaggio. Chiunque, nella propria biografia, può trovare più momenti in cui ha cambiato il registro personale delle cose. In ognuno di quei frangenti di scoperta c’erano di mezzo parole che ci hanno interrotto uno stato, che ci hanno infranto l’emozione in cui eravamo incapsulati, creando intorno a noi una nuova navicella entro la quale vagolare nell’oceano infinito del mondo. Se così è, diviene conseguente condividere che per cambiare il mondo è necessario cambiare il linguaggio, il verbo, il soffio vitale. Tutto ciò, significa che ogni aspirante rivoluzionario che non vede l’ora di immolarsi sull’altare del cosiddetto nuovo paradigma, dovrebbe, prioritariamente a tutta la sua probabile erudizione a sostegno del nobile intento, prendere coscienza di quanto il linguaggio sia una specie di laterizio con il quale costruiamo il mondo. Non avere consapevolezza del dominio culturale del meccanicismo, non riconoscerne la matrice nel linguaggio logico-razionalista, fiore del principio del causa-effetto, quale sola spiegazione della realtà, avrebbe una sola conseguenza, quella di perpetuare, in forma nuova, quanto voleva superare. I nuovi paladini, come tutte le rivoluzioni ci dimostrano, realizzeranno la loro ideologia e replicheranno quanto ripugnavano. Così accadrebbe anche in contesto evolutivo, quello tendenzialmente opportuno per generare società composte da uomini compiuti, consapevoli di sé, capaci di assumersi la responsabilità di tutto. Da avanguardia, diverrebbero bigotti della propria ideologia e vanità, incapaci di maieutica nei confronti dei miscredenti radicali materialisti, ma pronti a mettere in campo la garrota, autoreferenzialmente legalizzata, per ogni non convertito al nuovo paradigma. Senza un’emancipazione dal linguaggio a sfondo meccanicista, che sia più assertivo, non più proiettivo, giudicativo, separatorio, misurativo, antropocentrico, non definitivo, in quanto la realtà non è oggettiva in campo aperto relazionale, né carico di pretese di comunicazione e tronfio della propria logica stringente, nonché predisposto a rimodulare se stesso in funzione della risposta che ottiene, nessun cambiamento di paradigma potrà tenere fede alle proprie nobili intenzioni. Un linguaggio che, in ambito relazionale-umanistico, non impieghi – e se lo fa, lo faccia consapevolmente – formule deterministe e meccaniciste, che invece esprima tendenza e contenga la parzialità del proprio punto di vista, piuttosto che certezza e assoluti. Per un aggiornamento del linguaggio è necessario vedere dove si annida il determinismo ordinariamente e inconsapevolmente impiegato, né mai messo in discussione, la concezione meccanicistica dell’altro e della realtà, la convinzione di comunicazione nel linguaggio logico-razionale, valido solo in ambito chiuso, cioè in quelle circostanze tecnico-specialistico- amministrative dove tutti i partecipanti allo scambio sanno tutto, sono pari grado o di pari competenza, esperienza ed erudizione. Un linguaggio perciò, che esprima la consapevolezza che capire non conta nulla se non per un voto in pagella, che ricreare è necessario, che l’altro è tendenzialmente sempre in un universo emozionale differente dal nostro, che senza realizzare nei confronti del prossimo il rispetto e la dignità che chiediamo per noi, nessun nuovo paradigma può compiersi. Il linguaggio è il medium della comunicazione. Se esso si esprime a mezzo di modi meccanicistici, come se il prossimo fosse l’elemento di un meccanismo o un oggetto che ci ascolta, subliminalmente passerà la comunicazione che quel modo di impiegare le parole, sia il mondo da imitare, da replicare. Per alcuni si tratta di banalità note e stranote. In particolare per i potentati del mondo che attraverso l’introduzione nel linguaggio delle loro emittenti e dei loro politicanti, di parole e concetti ex novo, fanno esistere quanto prima non c’era. Così oggi c’è realmente un popolo che si crede risvegliato e un altro che pensa serva la guerra per ottenere la pace e che pensa si possa avere un centro d’equilibrio senza identità. Lorenzo Merlo
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20 Ottobre 2024 Da Rassegna di Arianna del 18-10-2024 (N.d.d.) A Piazza Pulita – durante una trasmissione che ha raccontato in modo tutto sommato veritiero le nefandezze genocidarie commesse dallo Stato di Israele - ho notato un fenomeno che si ripete presso alcuni dei giornalisti esperti che parlano della crisi in Medio Oriente. Sono diversi da quei loro colleghi che nelle redazioni costituiscono una maggioranza complice, ignorante e priva di dignità, totalmente appiattita sulle veline di TeleNetanyahu. Se osservate un Corrado Formigli, così come una Monica Maggioni, o una Lilli Gruber, essendo stati a lungo nella “Serie A” dei corrispondenti di guerra (bravi o non bravi, non importa), non vedrete quelle negazioni dell’evidenza terrificanti di un Maurizio Molinari o di un qualunque parassita de “Il Foglio”. Sentirete analisi in cui le ragioni del popolo palestinese e le responsabilità del suprematismo israeliano totalmente egemonizzato dalle correnti più fosche del sionismo appaiono chiare e senza i soliti trucchi triviali. Hanno in un certo senso una reputazione da difendere presso la comunità internazionale dei colleghi e anche presso una parte non residuale del pubblico. Tuttavia, riservano lo stesso una quota significativa della loro narrazione alla salvaguardia dello status quo. Evidentemente, frequentare le riunioni del Club Bilderberg fa diventare protettivi verso le cricche al potere. Maggioni, ad esempio, ha detto a un certo punto: «non vedo complicità da parte dei governi occidentali con Israele, c’è semmai il non sapere che pesci prendere». A Washington, a Berlino, a Roma, sarebbero dunque solo paralizzati dalla sorpresa, inerti per banale inettitudine. Io credo invece che continuare a fornire miliardi di dollari in armamenti micidiali, reprimere con misure poliziesche i movimenti di opposizione al genocidio e bloccare qualsiasi iniziativa diplomatica (non sto nemmeno a parlare di sanzioni) che possa minimamente intralciare i guerrafondai di Tel Aviv, tutte queste cose siano complicità piena, connivenza conclamata. L’Occidente c’è dentro fino al collo. E se qualcuno fischietta sperando di passare inosservato, come l’uomo del Colle che non dice nulla nemmeno quando Israele spara verso i suoi soldati, non è perché non sappia che pesci prendere. Ha scelto eccome la sua parte, a dispetto della coscienza di interi popoli. Pino Cabras
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16 Ottobre 2024 Da Rassegna di Arianna dell’11-10-2024 (N.d.d.) Mi chiedo a volte se sia giusto prendere posizioni così nette, come spesso mi capita di fare, sulle guerre in Ucraina e nel Medio Oriente. In fondo, le ragioni e i torti, nelle vicende umane, non si dividono mai con l’accetta. Inoltre, quando un conflitto si strascina per molto tempo, i contendenti tendono sempre più a rassomigliarsi. Al riguardo non dobbiamo farci molte illusioni: chi ha ragione può commettere, durante una guerra, brutalità simili o anche peggiori a quelle di chi ha torto. E allora, se le cose stanno così, non sarebbe preferibile assumere un atteggiamento più defilato, simile a quello, per esempio, della sinistra pacifista, che non sta né con Putin né con Zelensky, né con Israele né con Hamas? Mi sono posto più volte una tale domanda e sono giunto alla conclusione che questa posizione salomonica, che in passato è stata anche la mia, serva a salvarsi la coscienza ma sia politicamente sbagliata. Talvolta finisce persino col portar acqua al mulino del bellicismo. Purtroppo il momento storico in cui ci è capitato di vivere obbliga tutti a prendere posizione. Non si tratta - su questo voglio essere chiaro - di scegliere i buoni contro i cattivi. I buoni non esistono: Putin non è un agnellino; la Russia, la Cina e l’Iran non sono un paradiso in terra né modelli a cui ispirarsi, ma dei regimi colmi di difetti. La questione però è un’altra. L’Occidente sta vivendo una crisi drammatica. Le sue classi dirigenti sono in preda a un delirio nichilistico che le porta ad assumere una postura aggressiva verso tutto e tutti. Stati, religioni, ideologie, comunità, famiglie vengono ridotti ad involucri senza sostanza. Anche la democrazia politica è ormai diventata un puro nome. L’oligarchia dominante instaura una nuova forma di dispotismo che, diversamente dalle dittature novecentesche, non si rivolge alle grandi masse, ma agli individui isolati. Laddove il vecchio totalitarismo puntava a un’unità artificiale attorno al leader carismatico, il nuovo totalitarismo mira alla parcellizzazione estrema del corpo sociale. Incapace di costruire esso sa solo distruggere e censurare. La cancel culture è ciò che meglio lo rappresenta. Questi gruppi dirigenti sono numericamente esigui (a livello globale si tratta al massimo un milione di persone) ma dispongono di risorse economiche illimitate. Sono radicati soprattutto nei paesi anglosassoni, ma hanno importanti ramificazioni in ogni angolo del mondo. Non sono in grado di fornire alcuna risposta credibile ai problemi del nostro tempo, ma, pur di conservare il potere, sono pronti ad aprire in continuazione nuovi fronti di guerra. Sarebbe stato auspicabile che dal seno stesso dell’Occidente fossero sorte delle forze capaci di opporsi con efficacia a questa perversa oligarchia, ma purtroppo non è avvenuto. La sorte ha fatto sì che a svolgere questa funzione siano stati la Russia, la Cina e l’Iran. Per ragioni che risalgono alla loro storia, i popoli di questi paesi, diversamente dagli europei e dagli americani, non sembrano disposti a farsi cancellare. La sconfitta della Russia, della Cina e dell’Iran significherebbe una vittoria per l’oligarchia. Forse quella definitiva. Il mondo verrebbe finalmente unificato azzerando tutte le identità culturali e rendendo gli uomini degli atomi isolati in competizione coi loro simili. Una sconfitta dell’Occidente aprirebbe la strada ad un mondo multipolare pieno di problemi e ingiustizie, ma dove si danno ancora dei margini di manovra per il cambiamento. Può non piacere, ma le cose stanno così. Bisogna decidere da che parte stare. Per quanto mi riguarda, io ho fatto la mia scelta. Silvio Dalla Torre
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14 Ottobre 2024 Da Rassegna di Arianna del 12-10-2024 (N.d.d.) L’Occidente ha distrutto le basi su cui è poggiato: la cristianità, lo Stato sovrano, la civiltà del diritto, il pensiero critico e la storia. Non è più la guida del mondo, è disfattista al suo interno e bellicoso all’esterno, crede di salvarsi con la forza delle armi e l’uso intermittente dei diritti dei popoli e delle nazioni. Ha perso l’intelligenza del reale, la capacità di capire il mondo e la vita, abdicando in favore di un individualismo radicale asservito alla tecnica e alla finanza. Ha perduto il pensiero critico che sa distinguere e il pensiero fondativo che sa generare. Ho letto e condiviso La sconfitta dell’Occidente di Emmanuel Todd, edito da Fazi, e ricaverò dalla sua impietosa analisi alcuni spunti decisivi per comprendere lo stato delle cose. Todd è uno storico, antropologo e sociologo francese, autore di libri importanti. Infilarsi nel conflitto russo-ucraino e anzi favorirlo, appoggiarlo, parteciparvi è stato per Todd l’errore fatale dell’Occidente; la Russia è rimasta stabile, non cederà sull’Ucraina, che sta perdendo, come ha avuto il coraggio di dire Viktor Orban al Parlamento europeo. Appiattita sulla Nato e sugli Stati Uniti l’Europa sta offrendo lo spettacolo di “un suicidio assistito”. Mentre il resto del mondo preferisce sempre più chiaramente la Russia all’Occidente ai piedi degli Usa. Todd fa un paragone storico interessante: “la Russia comunista aveva trovato un alleato nel proletariato occidentale, quella divenuta oggi conservatrice troverebbe ancora i propri alleati nelle classi operaie dell’Occidente, divenute anch’esse conservatrici (più che populiste o di estrema destra)”. L’asse Washington-Londra-Varsavia-Kiev è oggi la direttrice principale del potere americano in Europa. Inoltre, a suo parere, l’opera di macelleria compiuta a Gaza dallo Stato d’Israele, soprattutto con armi americane, e accettata dall’Europa, ha spinto l’intero mondo islamico, Turchia e Iran inclusi, dalla parte dei russi. Per non dire degli altri fronti aperti. Todd sottolinea che “l’immoralità dell’Occidente di fronte alla questione palestinese non ha fatto altro che rafforzare l’ostilità del Resto del mondo”. L’Ucraina che l’Occidente vorrebbe adottare, con la sua indipendenza nel 1991 – dopo secoli di appartenenza alla Russia prima zarista e poi sovietica- aveva perduto già prima della guerra milioni di abitanti per via dell’emigrazione, dominata dagli oligarchi e dalla corruzione, al punto da sembrare un paese in vendita con un potere che elimina il dissenso, la stampa non allineata e i gerarchi caduti in disgrazia con metodi non migliori di quelli russi. La scomparsa della nostra capacità di concepire la diversità del mondo, nota, ci impedisce di avere una visione realistica della Russia. Osserva Todd che l’ipotesi di una ripresa militare-industriale degli Stati Uniti è da escludersi in forza della scarsità di ingegneri a loro disposizione, rispetto ai russi (e ai cinesi) e per la loro predilezione per la produzione di denaro anziché di macchinari. Il collasso morale e sociale deriva a suo dire dal collasso del protestantesimo, che rende irreversibile il declino americano e apre gli Usa e l’intero occidente al destino del nichilismo. Da allievo di Max Weber osserva che, se il protestantesimo è stato la matrice del decollo dell’occidente e del capitalismo, ora è la sua morte a causarne la dissoluzione. Intanto lo stato-nazione si dissolve e trionfa la globalizzazione; gli individui sono ormai privi di qualsiasi credenza collettiva. Il collasso della religione ha spazzato via il sentimento nazionale, l’etica del lavoro, il concetto di una morale sociale vincolante, la capacità di sacrificarsi per la comunità. Todd distingue altre fasi prima di giungere allo “stadio zero” della religione dove i valori non contano più e ne attesta l’avvento attraverso l’osservazione di pratiche cadute velocemente in disuso nei battesimi, nei decessi, nella partecipazione alle funzioni domenicali, ma soprattutto con l’equiparazione tra i matrimoni omosessuali e quelli tra uomo e donna. Ci era stato prospettato che l’individuo sarebbe stato più grande una volta liberato dal collettivo e dai legami sociali; invece è accaduto il contrario: l’individuo, dice Todd, può essere grande solo all’interno e attraverso una comunità. “Stiamo diventando una moltitudine di nani mimetici che non osano più pensare con la propria testa ma che si dimostrano capaci di intolleranza tanto quanto i credenti di un tempo”. Ci è rimasto il bigottismo intollerante, non l’uso dell’intelligenza critica. Attualmente, rileva Todd, l’Europa si trova impegnata in una guerra contraria ai suoi interessi e autodistruttiva; l’Unione Europea è scomparsa dietro la Nato, oggi più che mai asservita agli Stati Uniti, con un tasso di ubbidienza prossimo al 100%, in un clima totalitario. La Russia, nota, non rappresenta alcuna minaccia per l’Europa occidentale: in quanto potenza conservatrice, oggi come ai tempi del Congresso di Vienna, nel 1815, il suo desiderio è di creare una partnership economica con l’Europa, in particolare con la Germania. È nel suo interesse avere una sponda europea. L’Unione appare a Todd un sistema pesante e complesso, ingestibile e letteralmente irreparabile; “il lato oscuro del desiderio sarebbe che la guerra liberasse l’Europa da se stessa”. Del resto, una nazione è un popolo reso cosciente da un credo collettivo e una élite che lo governa in base a tali convinzioni. Restano solo i popoli. E conclude notando che nell’era della religione zero, cresce un bisogno primario di violenza. Da qui la diagnosi che ho inevitabilmente riassunto: l’Occidente è affetto da nichilismo che è rifiuto della realtà, bisogno di distruzione di sé e degli altri, negazione della verità e di ogni comprensione ragionevole del mondo. L’analisi è tranchant, forse troppo, anche se supportata da molti dati e da argomentazioni convincenti. A mio giudizio non si tratta di tornare indietro, impresa impossibile, e nemmeno di arrendersi ai regimi autocratici, teocratici e dispotici, e adattarsi ai loro inaccettabili modelli. Si tratta, invece, di pensare il nuovo, il sacro, la sovranità, il legame sociale, a partire dal rapporto tra élite e popolo, con le prime ormai ridotte a oligarchie autoreferenziali e i secondi a massa globale. E di darsi una missione, compatibile con la realtà e le eredità della civiltà. “La sconfitta dell’occidente” di Todd rischia di rientrare nel fiorente filone apocalittico che da un secolo a questa parte annuncia il tramonto dell’Occidente. Ma aiuta al risveglio brusco dal sonno della ragione, che genera mostri e spinge l’avanzata del nulla in Occidente. Il nulla armato. Marcello Veneziani
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