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Orgia di autorità PDF Stampa E-mail

15 Aprile 2020

 

Da Rassegna di Arianna del 13-4-2020 (N.d.d.)

 

Sappiamo tutti e molto bene che la questione non è soltanto di tipo sanitario ma anche di natura sociale, politica, culturale. Quello che sta accadendo è molto pericoloso perché si sta ridisegnando lo statuto dei corpi, di che cosa – spinozianamente – sia un corpo, che cosa può fare, che cosa non può fare, che cosa deve fare. La notizia che ho letto su Televideo è tanto consequenziale quanto pericolosa: «Google e Apple collaborano per un progetto di tracciamento del contagio del Coronavirus che può aiutare i governi. Lo annunciano insieme i due colossi. A maggio renderanno disponibili strumenti per gli sviluppatori che stanno progettando le App per le istituzioni mondiali e che consentiranno il dialogo e “l’interoperabilità tra i dispositivi Android e iOS”. E “nei prossimi mesi” sarà disponibile una piattaforma di “contact tracing” basata sul Bluetooth dando “massima importanza a privacy, trasparenza e consenso” degli utenti». Non sarà temporaneo, non sarà mirato. È uno dei più pericolosi cavalli di troia che il virus offre al controllo generale. Aveva ragione La Boétie: gli umani sono pronti alla «servitù volontaria». Molti che conosco lo stanno confermando. È su questo soprattutto che vorrei riflettere insieme a voi. ‘Molti’ non significa i disinformati, gli indifferenti, i conformisti. ‘Molti’ significa persone, amici, familiari, colleghi che sino a questa circostanza ritenevo critici verso l’esistente e che invece mi accorgo con relativo stupore che sono immersi dentro un paradigma di obbedienza e acriticità che mi sembra nascere fondamentalmente da due ragioni: – il panico per i rischi alla propria salute; – il fatto che guardano la televisione. Forse è una vecchia, ma ogni volta confermata, convinzione. Da vent’anni circa non possiedo un televisore, quando ho occasione di vederne acceso uno mi annoio anche per pochi minuti e rimango sbalordito dal livello di volgarità e di menzogna del mezzo televisivo, livello del quale credo possa accorgersi soltanto chi non guarda per mesi la televisione (evitando così il processo di mitridatizzazione). Sappiamo tutti, invece, che questo è lo strumento principe e spesso esclusivo dell’informazione per milioni di persone, per quelle persone che girano video dai loro balconi, chiamano vigili e polizia, urlano a chi cammina per le strade.

 

La visionarietà di Guy Debord viene ai miei occhi sempre confermata. Ciò che appare in televisione non solo esiste più di ciò che non appare ma è anche il bene per definizione, ciò che viene detto in televisione non solo è più verosimile ma diventa vero. Il monopolio dell’apparire è il monopolio dell’essere e del valore: «Le spectacle est le mauvaise rêve de la société moderne enchaîné, qui n’exprime finalement que son désir de dormir» (La Société du Spectacle, Gallimard 1992, § 21, pp. 24-25). I clienti dello spettacolo televisivo desiderano assopirsi da questo incubo sino a che la stessa televisione non li risvegli; oppure ne vengono esaltati nel loro desiderio di (auto)controllo sino a che la televisione continua ad aizzarli. […] Quella che ci può sembrare una metamorfosi del corpo collettivo è probabilmente soltanto una conferma. Perché è una metamorfosi non limitata a un periodo di emergenza ma destinata a permanere poiché in società complesse come le nostre tutti i provvedimenti di controllo una volta decretati rimangono. Un esempio che abbiamo tutti presente: quanti anni sono passati dall’11.9.2001? 19 anni. Ma il provvedimento di controllo occhiuto, grottesco e inutile (per tante ragioni) al metal detector degli aeroporti non è stato abolito. C’era anche prima, certo, ma assai più blando. Un provvedimento di emergenza per combattere il «terrorismo» che è rimasto a diffondere un sottile ma costante sentimento di terrore. Il virus passerà ma non passeranno le pratiche, le abitudini, le leggi, i controlli universali – tramite cellulari e droni – che il virus sta favorendo. E non passerà l’orgia di autorità che il potente di turno, piccolo (sindaco) o grande (ministro) che sia sfoggia nel decretare ogni giorno qualche divieto. La paranoia del potente, così ben descritta da Elias Canetti, si dispiega in modo mirabile davanti ai nostri occhi. E questo senza complotti, segreti, volontà occulte ed elitarie. Questa è da sempre la pratica del potere, che società tecnologiche favoriscono però in modo esponenziale. È il momento e l’occasione alla quale da sempre aspiravano. Porsi sopra la legge, diventare essi stessi la legge. Sentirsi nelle mani la vita e la morte di milioni di sudditi. Decretare ogni giorno nuovi divieti, pene, sanzioni, delazioni, cellulari spia, droni, a partire da Conte e i suoi ministri giù giù fino a scatenati incatenatori come i De Luca messinese e campano, come l’impresario di pompe funebri Fontana, come il musumecinonabbassiamolaguardia di Palermo. Tutti a imporre mascherine che non ci sono o, se ci sono, senza sapere se risultino davvero utili o invece dannose. Per i governatori analfabeti -e i loro sostenitori nell’informazione- esiste solo LA mascherina. Ma sono essi, questi paranoici canettiani, una maschera penosa della vita, la caricatura dell’autorità, il dominio dell’ignoranza. Carne televisiva. Lo racconteranno ai loro nipoti: «ci fu un tempo in cui la mia parola era legge per milioni di persone».

 

Alberto Giovanni Biuso

 

 
Gendarmi di se stessi PDF Stampa E-mail

14 Aprile 2020

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Tutti sui balconi a salutare, cantare, sventolare bandiere, giurare che ce la faremo o, come dice uno striscione non so dove: “Tutto andrà bene!”. E nessuno che risponda STICAZZI! Dall’alto del Palazzo chierici e notabili approvano – “Bravi! bravi! Che patrioti!” - e benedicono. Nessuno che guardi oltre e s’incazzi ...

 

Mentre da certi giornali e schermi televisivi colano sciroppose stronzate su come è bella la vita in casa, da soli o in famiglia, quante affascinanti cose si possono fare tra tinello e angolo cucina; mentre gli italiani, non in villa con piscina, tennis e biliardo, si avviano a sbroccare, con il colesterolo a mille e deculturizzati dalla tv, imbambolati dalle intossicazioni di La7 e Sky, o in depressione per aver capito che ci hanno fregato definitivamente, degli psicoassediati, contenti di fare i gendarmi di se stessi e di avviarsi a un futuro di larve umane nel bozzolo che non sprigionerà mai più una farfalla, vanno a ballare, suonare, sventolare, cantare “fratelli d’Italia” sui balconi. Polli che festeggiano con i chicchirichì la volpe che gli dice “andrà tutto bene”.

 

Fulvio Grimaldi

 

 
Sull'idea di libertà PDF Stampa E-mail

13 Aprile 2020

 

Per “libertà” si intende la condizione di chi può decidere a suo piacere della propria persona, di chi può godere della propria autodeterminazione. È qualcosa che ha a che fare con l'ottenimento di ciò che si crede produca piacere, che è quindi proprio per questo desiderabile. Infatti la radice è la stessa di “libidine” e di “libare”, concetti connessi al raggiungimento del piacere. Libero è chi non è “servus” e nella Roma antica quando un servo raggiungeva la libertà diveniva, appunto, “Liberto”. Il liberto però non era libero nel senso odierno (o meglio, vedremo che lo era proprio in tal senso), ma pur potendo intraprendere attività economiche per suo conto, era sempre sottomesso al suo “patronus”, o protettore, al quale doveva comunque obbedienza, prestazione di lavoro gratuito, rimanendo a vivere nella stessa casa del patronus. Il liberto non era quindi realmente libero, anzi, diveniva ancora più utile al padrone poiché in questa nuova condizione poteva esplicare compiti e mansioni che ad uno schiavo non erano permesse. Poteva fargli da segretario o trattare affari, ad esempio. Ogni signore aveva in effetti decine se non centinaia di liberti e ciò, se non fosse stato questo un vantaggio per il signore rispetto ad avere semplici schiavi, non sarebbe potuto avvenire.  La libertà del liberto era più che altro parvenza, se non teniamo conto dell'aspetto economico. Infatti, pur potendo possedere beni e terreni, il liberto, oltre a dover lavorare gratuitamente per il patrono, non poteva denunciarlo in tribunale. La sua sudditanza era testimoniata poi dal fatto che, pur potendo egli votare, non poteva candidarsi. Ai liberti erano inoltre proibiti matrimoni con i liberi cittadini e venivano da essi disprezzati dal punto di vista delle relazioni sociali. Erano insomma galoppini di lusso o, se vogliamo azzardare un paragone, kapo'.

 

Ora, proprio partendo da tale etimologia, potremmo sostenere che nelle attuali democrazie lo stato dei cittadini non sia quello di uomini liberi ma proprio quello di liberti. Che per uno schiavo di due millenni fa sia stato forse un passo avanti nella gerarchia dei tenori di vita potremmo anche comprenderlo, ma comprendere oggi come questa situazione di soggezione sia tollerabile proprio non è possibile.  Per capire meglio il senso di questo stato di “libertà” alla quale siamo sottoposti dobbiamo soffermarci sui due significati possibili di libertà: “libertà da” e “libertà di”. La prima è assenza della sensazione di costrizione, la seconda è coscienza dell'ampiezza delle proprie possibilità esistenziali. Sulla seconda non si è in grado di riflettere se non ci si rende conto dei condizionamenti che il sistema politico occidentale di oggi ci propina senza darceli a vedere.  Un bambino che può scegliere liberamente ogni giorno se giocare con i videogiochi, guardare la televisione o fare puzzle, conoscendo solo queste tre possibilità, è certamente “libero da”, ma un bambino a cui viene proibito, ogni giorno, di compiere alcune attività tra le mille che ha a disposizione, perché le conosce e ne ha fatto esperienza, è sicuramente più “libero di” rispetto al primo, anche se non è “libero da”. Quale condizione è da preferire?

 

Il concetto di libertà è stato, nella storia del pensiero politico, concepito in molte accezioni tra loro contrapposte: da una parte il liberalismo classico, centrato sulla nozione di un individuo impegnato nello sganciamento progressivo da ogni impaccio, che sia religioso, giuridico, sessuale, di costume; dall'altra l'idea hegeliana e gentiliana di libertà come adesione ad un modello di società statuale storicamente determinato e trasmesso tramite la bildung, all'interno del quale perseguire una progettualità più grande.

 

Soffermiamoci qui sull'idea di libertà propria del liberalismo. Di formulazione ottocentesca, essa sembra contrapporsi con forza ad una concezione che privilegi la collettività rispetto all'individuo, come quella socialista prima e comunista poi. La lotta per la libertà da parte dei liberali si basa non sulla difesa della “libertà da” e della “libertà di” ma esclusivamente della prima. Infatti Stuart Mill, il pioniere del liberalismo, mostra di comprendere tale differenza tanto da suggerire l'utilizzo di vocaboli diversi per questi concetti, rispettivamente “liberty” e “freedom”. Solo della prima idea si occupa il liberalismo, mentre della seconda non parla affatto. Lo stesso Mill parla infatti di “libertà negativa”, intendendo specificare quali catene intenda spezzare: il controllo dei governi sull'economia; le pastoie religiose; le idee di redistribuzione economica e di responsabilità sociale; i legami etnici. Il seguace di Hayek (tra i grandi del liberalismo) Philippe Nemo disse che “la giustizia sociale è profondamente immorale”. Proprio dal punto di vista morale si tratta di un approccio utilitaristico, quello liberale, di stampo moderno, e infatti la matrice  anglosassone li accomuna.

 

La lotta tra liberalismo e marxismo è però una lotta fittizia: entrambi sono creazioni del grande capitale a proprio vantaggio. Entrambi condividono una visione del mondo economicistica e materialista, entrambi si oppongono alla spiritualità, entrambi negano la realtà di una coesione sociale preesistente, arcaica, tradizionale, che vogliono distruggere in egual modo.  Marx fa suoi i contenuti degli economisti inglesi di stampo liberale, Adam Smith tra tutti, e ne porta alle estreme conseguenze i principi, mai rinnegandoli del tutto. Il comunismo non è contro il capitalismo, ne è semplicemente lo sviluppo, la fase successiva. Sappiamo senza ombra di dubbio che Marx spingesse all'estremo sviluppo del capitale industriale, teoricamente perché solo passando attraverso il suo completo dispiegamento, si sarebbe giunti alla fase della dittatura proletaria, ma praticamente e più verosimilmente perché egli era un ricco ed agiato signore che viveva di rendita coi soldi del padre e dell'amico ed industriale Engels, un comunista che giocava in borsa e che mai mise il piede in una fabbrica. Per questi motivi, ad esempio, si oppose ad una regolamentazione in senso umanitario del lavoro minorile. La matrice identica dei due movimenti non è visibile solo analizzandone l'origine, ma anche e soprattutto osservandone gli esiti. La sinistra marxista eterodossa, l'unica praticamente rimasta in piedi, è quella che nel '68 ha contribuito a spianare la strada del capitalismo e della globalizzazione, distruggendo ogni ordine, ogni identità e ogni sacralità, quella statuale, quella famigliare e quella etnica, suoi nemici giurati. Marx stesso mai si stancava di ringraziare l'operato della borghesia contro queste entità che egli considerava spauracchi da eliminare.  Oggi l'estrema sinistra si trova sulle stesse posizioni del liberalismo più spinto, il pensiero libertario, nel rivendicare la lotta contro le razze, i popoli, le religioni, e nel promuovere il sostegno alla legalizzazione delle droghe, alla scelta del proprio genere e orientamento sessuali, compresi incesto, perversioni e perfino pedofilia.

 

Si capisce quindi che il liberalismo non è per la libertà in sé, ma solo per la propria idea di libertà e che verso quelle diverse si comporta da regime autoritario, progettando come un totalitarismo qualsiasi il destino dei propri sudditi. Il liberalismo dice di difendere l'individuo ma l'individuo che il liberalismo intende difendere è ridotto ad una monade sganciata da ogni appartenenza sociale. C'è un errore di fondo o si tratta di una volontà? La seconda, a mio parere. Sia i liberali che i marxisti infatti non possono non sapere che l'identità di un uomo è in gran parte determinata da contesti e costrutti relazionali, sociali, sia orizzontale (nel presente) che verticali (col passato) che poco o niente hanno a che vedere con l'economia e la libertà di possedere ed acquistare oggetti. Ogni tentativo di rimozione di tali legami si scontra con la loro permanenza a livello di inconscio o di volizioni arcaiche o di atteggiamenti antieconomici e con la loro potente riemersione ciclica. La negazione di tale volto dell'uomo, portata avanti in nome di una sua liberazione, è un'opera di ingegneria sociale volta al fallimento.  Qual è l'origine di tale atteggiamento comune? La fede irrazionale nel progresso, una visione messianica della storia, l'incapacità di godimento estetico dell'esistente. Ciò accumuna marxismo e liberalismo.  Se la fede irrazionale nel progresso dal punto di vista marxista si è infranta nelle tante previsioni non azzeccate da parte del guru di Treviri, dal punto di vista liberale l'esito nefasto è un po' più difficile da scorgere. Sostanzialmente il riscatto del singolo liberato dall'oppressione comunitaria - il sogno dei liberali, e dal punto di vista economico dei liberisti - si basa anch'esso su un'utopia: che l'individuo possa ergersi a fautore del proprio destino una volta recuperata l'autonomia economica all'interno di uno Stato minimo. Perché si tratta di una visione utopica? Perché l'individuo, ammesso che possa gestire le sue proprietà e il suo tempo e che non sia un novello liberto al servizio dei potentati elitari che hanno creato entrambe le suddette ideologie, vive comunque la maggior parte della propria vita come un essere sociale. In tale ambito che, ripeto, è il preponderante, è costretto a subire ciò che pochissimi (100, 1000 famiglie?) decidono per lui. Non troverà i libri che saranno banditi, non avrà accesso a culti e mitopoiesi alternative perché esse abbisognano di condivisione, non avrà accesso alle critiche del sistema, non avrà a disposizione alternative dal punto di vista culturale, si scioglierà insomma nella esistenza inautentica regolata dal “si impersonale”, per dirla con Heidegger. Se anche pochi singoli individui perverranno ad una “illuminazione”, gli scampoli di verità a cui avranno accesso saranno slegati, disomogenei e così sparuti da rendere impossibile un cambiamento dello stato delle cose. Anzi, la presenza discretissima di tali dissidenti non avrà altro scopo che fungere da testimonianza della tolleranza del sistema, che invece è tollerante solo finché scorge che il dissidente non ha alcuna possibilità di incidere. È per questo che oggi i libertari, i liberisti e i liberali non fanno altro che il gioco della globalizzazione, poiché opponendosi allo Stato, identificato magari anche a ragione come un presupposto della creazione dei potentati economici, non fanno altro che spianare ad essa la strada. Quale altro ostacolo infatti potrebbe avere?  Il carattere utopico del cosiddetto anarco-capitalismo si scontra oggi con la verità della proprietà unica di immensi imperi nel campo della comunicazione. Auspicando una deregolamentazione, la cancellazione di ogni antitrust, di ogni salvaguardia del bene comune, tali cartelli avrebbero totalmente mano libera nella distruzione di ogni resistenza. Anche ove i liberisti potessero dire che l'individuo rimane libero di scegliere il proprio bene e penalizzare un cartello, essi si mostrano massimamente superficiali proprio nel non capire come il concetto di “proprio bene” oggi, nell'epoca della post-verità, è improponibile. Il “proprio bene” è quell'idea che viene ripetuta più volte e dai rappresentanti più autorevoli, che oggi sono quelli maggiormente presenti nei media di proprietà degli stessi che dalla diffusione di quel concetto specifico di “proprio bene” hanno tutto da guadagnarci, dal punto di vista economico e da quello, più importante, del mantenimento del potere.  Anche partendo da un ipotetico punto zero di sostanziale eguaglianza tra gli individui, l'equilibrio che i cultori della “libertà da” sperano di ottenere, avrebbe sì e no la durata di un soffio, poiché subito si stabilirebbe una gerarchia che la natura ha sempre evidenziato. Figuriamoci allora quale esito potrebbe avere questo anelito alla deregolamentazione, al ritirarsi dell'azione della collettività, in un mondo in cui la ricchezza e la capacità di offendere sono già distribuite in maniera così poco equa! Lo dicano allora questi liberisti che non sono altro che darwinisti sociali e neo malthusiani! Le varie reti di cui un uomo è composto sono ciò che nei secoli lo hanno protetto da un totale assoggettamento al potere di turno. La mania di “liberare da” propria del liberalismo e la corsa alla dissoluzione della famiglia, solo per fare un esempio, trasformata in un ordine meramente contrattuale, non fa altro che menomare l'uomo, rendendolo il succube perfetto, perché disancorato, del totalitarismo democratico. Specularmente il marxismo, intendendo ridisegnare i legami arbitrariamente, ad esempio con il legame di classe, ha condotto la stessa lotta per la dissoluzione dell'uomo, preparando anch'esso il campo per la globalizzazione totalitaria.

 

Matteo Simonetti

 

 
Vittoria per l'Italia? PDF Stampa E-mail

12 Aprile 2020

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Da Rassegna di Arianna del 10-4-2020 (N.d.d.)

 

Vediamo se ho capito. L'intero parlamento italiano, salvo PD ed ex PD, e incluso il presidente del consiglio, si sono espressi contro la firma del MES e a favore degli eurobond. Dopo acerrima battaglia diplomatica, il ministro Roberto Gualtieri, PD, infine ottiene un grande risultato: firma del MES (dice senza condizionalità, ma non è vero, perché si rinvia al trattato in vigore) e nessuna traccia degli eurobond. Poi ritorna lieto in patria per spiegarci che "E' una vittoria per l'Italia". La sconfitta immagino contemplasse il sacrificio dei primogeniti. Ora, in questa trattativa il punto non era: "Ma tanto non sei mica costretto a chiederlo l'aiuto del MES." Questo lo si sapeva dall'inizio. Il punto era: come giocheremo le nostre carte, visto che l'unica buona carta che abbiamo è che tutti ora hanno bisogno di un supporto, e noi possiamo porre un veto ad ogni soluzione insoddisfacente? E dunque, quale forma di aiuto adotteremo? Quella che aggrava il debito pubblico dei paesi in maggiore difficoltà e li mette sotto tutela (MES). Quella che mutualizza il debito alleviando l'onere per interessi ai paesi più in difficoltà (Eurobond). O quello che consente di fornire liquidità senza interessi, o con interessi modulabili a piacimento (monetizzazione del debito)?

 

L'ultimo punto, pur essendo stato menzionato anche da voci autorevoli e non sospettabili di antieuropeismo (es.: Prodi), non è mai neppure comparso in tavola.

 

Il secondo punto è stato cassato senza se e senza ma dalla Germania, perché "in contrasto con la loro costituzione" (scusate, dimenticavo che gli unici che devono modificare la propria costituzione a comando, battendo i tacchi, siamo noi - vedi art. 81.) Dunque resta il primo. Però Gualtieri ci assicura che "abbiamo vinto". Glielo ha garantito la Merkel, insieme alla cittadinanza tedesca.

 

Andrea Zhok

 

 
La vendita della sicurezza PDF Stampa E-mail

11 Aprile 2020

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L’8 aprile 2020 è crollato il ponte Caprigliola sul fiume Magra della Strada provinciale 70. Ad agosto 2019 gli esperti dell’Anas avevano rassicurato il sindaco di Aulla (Ms) che aveva richiesto il loro intervento: “Non presenta al momento criticità tali da compromettere la sua funzionalità statica, sulla base di ciò non sono giustificati provvedimenti emergenziali”. Nel novembre successivo, cioè due mesi dopo, alcuni automobilisti denunciano un’evidente crepa che non induce gli esperti a interrompere la viabilità. Il viadotto tiene. Viene facile, pare ovvio e sembra doveroso e giusto, dare contro alla perizia dell’esperto ingegnere. Ma anche, e forse più, dare contro alla sua incompetenza e superficialità. Pare necessario punirlo con una pena. Non si può soprassedere a fatti di questa portata dove, presumibilmente a causa del fermo della maggioranza delle attività commerciali e di tutti i privati cittadini, solo due furgoni sono stati coinvolti, fortunatamente senza nessuna morte di mezzo. Salvo negligenze, non aveva l’ecoscandaglio idoneo a riconoscere le condizioni dell’imminente crollo. Ovvero la stima effettuata non corrispondeva alla verità. Significa che l’evento si ripeterà. La realtà è più ampia della stima che ne può fare la scienza e la sua tecnologia. L’esperto dell’Anas e i suoi equipollenti di tutti i campi dove c’è di mezzo la sicurezza delle persone, dopo fatti come questo della Sp70, sono destinati – salvo scappatoie d’ordine vario dalle cavilliche, alle burocratico-prescrizionalistiche – alla crocifissione professionale e personale. È la regola del gioco. Ogni ambito ha la sua. Essa detta e dichiara dove sta il giusto e lo sbagliato, dove sta la verità. Uno degli ambiti, con le sue regole autoreferenziali è quello della cosiddetta scienza. Ma per comprendere la questione dell’ambito e sufficiente considerare la pallamano o la briscola. In questa materia è valido solo quello che può misurare, purché solo con le sue unità di misura. L’egemonia razionalistica delle menti costringe i pensieri e la vita entro il tondino, come quello per la doma dei cavalli. Ne escono soldatini addestrati a reiterare ciò che hanno appreso, con ferocia da guerra santa. La domanda è, può un ingegnere dell’Anas dire, o fare qualcosa di estraneo all’universo che ha appreso nel tondino? Entro l’ambito culturale nel quale sono nate e cresciute le ultime generazioni dal secondo dopoguerra in qui, si è assistito alla rincorsa verso la sicurezza. È nuovamente l’ambito del tondino del razionalismo. Professionisti e specialisti lavorano per delineare attrezzature e decaloghi necessari alla sicurezza. A nessuno di loro può nascere l’idea che più garantisci la sicurezza, più crei le condizioni per abbassare il livello di attenzione individuale necessario a realizzarla. La sicurezza alla quale si dedicano gli specialisti è di tipo tecnico-meccanico. Che colpa ne hanno? È la sola che riconoscono. Ricordate il tondino unico? Sono ciechi nei confronti di quella che possiamo realizzare attraverso la relazione con l’ambiente e l’assunzione di responsabilità. Si dedicano a quella che presumono oggettiva e tralasciano quella soggettiva o meglio, relazionale o quantica. Entro questa cultura meccanicistica devitalizzata, mortificata nel suo spirito umanistico, trafitta dalla logica positivista, tutti abbiamo progressivamente portato l’attenzione sulla responsabilità esogena. Ciò ha comportato una modalità di concepire il reale come composizione di elementi diversi, sostituibili e con caratteristiche precise e definite. Ecco allora, gli specialisti, soli detentori della verità ai quali ci si deve rivolgere per ogni aspetto della vita. Ecco la delega, l’affidarsi. È un processo culturale ben rappresentato dalle acque bianche di un torrente che si avvia alla cascata esiziale. Comporta infatti aver ceduto il timone di noi stessi. Aver dimenticato l’intelligenza creativa che l’assunzione di responsabilità invece fa germogliare. Sentirsi la responsabilità di tutto è una matrice di miglioramento di sé e quindi sociale. Matrice, al momento ben soggiogata dalla favola della sicurezza garantita dagli esperti, e venduta. La sicurezza è diventata una merce in senso stretto: paghi e te la compri. Almeno così credi. Come l’ingegnere è un frutto di una cultura positivistica, così il crollo di un ponte è un pomo di quella speculativa, per sua natura positivistica all’ennesima potenza. Che poteva fare di più quel povero ingegnere del ponte Albiano o quell’altro del Morandi; e quello che doveva presiedere alla sicurezza del tratto d’autostrada Torino-Savona il 24 novembre 2019 che ha ceduto a causa di una frana; quello che il 9 marzo 2017 si occupava di un ponte crollato del tratto marchigiano dell’autostrada A14; o quello che il 29 ottobre 2016 presiedeva alla sicurezza del cavalcavia caduto sulla provinciale 49 Molteno-Oggiono; nonché l’ingegnere in carica il 7 luglio 2014 quando crollò il viadotto Lauricella lungo la strada 626 in provincia di Agrigento; ma anche l’addetto al controllo dell’efficienza del ponte sulla provinciale Oliena-Dorgali, che il 18 novembre 2013 è precipitato per una frana; o il suo parigrado in merito al crollo di un ponte sul torrente Sturia, a Carasco, il 22 ottobre 2013; nonché il poveretto che il 15 dicembre 2004, aveva garantito la sicurezza del ponte sul torrente Vielia a Tremonti Sopra, in provincia di Pordenone, precipitato durante il collaudo? Niente. Secondo il gioco della tecnologia tutto era certamente stato fatto, salvo che dichiarare quei disastri come possibili, piuttosto che come impossibili. Entro la concezione di una realtà strutturata come sarebbe la cassettiera di un burocrate, non si riesce a comprimere l’infinito che siamo. E i risultati lo dimostrano. Se non si segue la pista che porta all’uomo e alla sua personale responsabilità non possiamo uscire dal gorgo nero i cui frutti non possono che essere avvelenati. Ma il laureato non è un lupo solitario. C’è altro. Quello che lo laurea, che organizza università e corpo docente, ci sono forme-pensiero solide come pietra. E poi ci sono Istituzioni e la politica, abnormemente stratificata verticalmente, e i suoi interessi, quelli che scivolano via come sabbia dalle mani del popolo e dell’ingegnere. Sovrastrutture ben controventate con le quali lo specialista è inconsapevole connivente e contro le quali servirebbe un po’ di forme di quella sabbia probante scivolata via: corruzione, controllo degli appalti, concessioni, e via così.  Lo sfascio delle infrastrutture dichiarato dall’elenco di ponti e strade disastrate, non è figlio di nessuno. È prole di un sistema gonfiato di cosiddetto progresso, coltivato a colpi di steroidi anabolizzanti, assunti da economisti e politici, sociali. Gli stessi che promuovono la scienza e il suo sortilegio. Senza contare che quella lista di danni è da allungare a piacimento con dighe, palazzi, tunnel, ospedali, scuole, eccetera; che a tutto ciò, un paese indebitato non può porre rimedio se non con pecette provvisorie come è accaduto sul ponte crollato ieri. Già da solo basterebbe per sedersi ad organizzare la rivoluzione. Un cane che si morde la coda; una ruota del criceto dalla quale non si riesce a scendere ci ha portato a credere che la sicurezza esista, che qualcuno possa realizzarla, che la lobotomizzazione che abbiamo subito sia giusta e doverosa. Lo dicono gli esperti. Poi c’è la giustizia. Non c’entra niente con il giusto ma lasciamo perdere. È un altro equivoco che sarebbe meglio sciogliere fin dalle elementari. Sarebbe opportuno aggiungerle sempre l’aggettivo qualificativo amministrativa. Almeno ci si capirebbe meglio. Si capirebbe che si tratta di un ambito, con le sue regole e il suo tondino. Un altro, in quanto ad essa, si affianca alla scienza. Meglio sarebbe chiamarla ricerca tecnologica. Che fa la giustizia? Condanna l’ingegnere. A volte lo assolve. In pratica potrebbe anche non esserci, visto che anch’essa è solo uno dei frutti della bacata cultura meccanicista. Chi non è d’accordo, può seguitare a credere che un giudice non sia parte integrante della realtà che crede di poter oggettivare e scomporre per arrivare al vero, come si fa coi petali della margherita.Nonostante le controindicazioni al vetriolo la corrente che trascina a valle tutto il sapere attraverso la relazione con l’ambiente e la relativa intelligenza animale che implica, non rade al suolo soltanto il terreno sociale ma anche quello naturale. Da anni ormai vediamo leggi e decreti atti a regolamentare i comportamenti umani in natura. Aiuto. Se la massificazione lo induce, nessuno dedica energie per diffondere le consapevolezze opportune per realizzare da sé la miglior sicurezza. Il solo modo per buttare a mare la smania legiferifera.

 

Non si tratta di non controllare i ponti, tanto allora è lo stesso, si tratta di non dare per possibile la sicurezza. Ma in questa cultura così apparentemente attenta a noi ma, di fatto disumana, disumanizzata, la vedo grigia come la nube di Chernobyl o limpida come il cielo pulito di questi giorni liberi dallo smog a causa di un laboratorio (per ora) che ha chiuso male la porta supersicura del virus. Assicurazioni, banche, istituti mangiano sulla paura indotta delle persone. Speculano, si arricchiscono e comandano. La vendita della sicurezza ci ha affascinato e ci ha condotti dove ci troviamo. Ora il popolo la pretende. Intanto lo stato – o chi per esso – controlla. A breve la vaccinazione obbligatoria, microchip e 5G. Naturalmente per la nostra sicurezza. La Société sicuritaire i cui albori parevano così innocui, crescendo ha mostrate il suo vero principio e scopo, mezzo di controllo e di inebetimento. Resterà la libertà entro la regola. Almeno per chi si vorrà sottomettere.

 

Lorenzo Merlo

 

 
Virologocrazia PDF Stampa E-mail

10 Aprile 2020

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Da Comedonchisciotte dell’8-4-2020 (N.d.d.)

 

Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Norvegia, sono solo alcuni dei Paesi che hanno già deciso di riaprire tutto o quasi (persino i parrucchieri!) intorno a Pasqua. In Germania si pensa al 20 aprile, mentre la Francia, ancora in piena e grave epidemia, ha già nominato un ministro per la ripartenza. Si vede che lì decide il governo. In Italia invece, in una specie di romanzo distopico alla Huxley, “decidono gli scienziati”. Quegli stessi scienziati che imperversano in tv dicendo tutto e il suo contrario contraddicendosi tra loro, o che pontificano dalle pubbliche gazzette offrendo i loro preziosi consigli su tasse, export, medie imprese e casse integrazione. Siamo in piena virologocrazia. D’altronde, ed è sempre più evidente, l’Italia è l’unico Paese che si sia lasciato commissariare dall’OMS. Siamo fin dal mese di gennaio un laboratorio a cielo aperto dove non solo si stanno sperimentando gli effetti di una pandemia, ma si sta anche conducendo uno stress test sulla resistenza di una popolazione occidentale alla clausura ad oltranza. Il governo è totalmente prono ai diktat di questi signori che, per loro stessa ammissione, non sanno nulla e non capiscono nulla del virus, e quindi nel dubbio ci impongono di stare rinchiusi “finché non ci sarà un vaccino” che potrebbe non esistere mai.

 

Dal fronte economico, i nostri vicini non solo riapriranno prima di noi, ma lo faranno con le tasche piene. I Paesi con cui siamo affratellati in UE hanno elargito fior di miliardi a lavoratori ed imprese: non sto a riepilogare, basti pensare che la Germania ha sovvenzionato persino gli artisti con 5mila euro cash già nel conto corrente. Non promesse televisive, delle quali non se ne è realizzata neanche una (cassa integrazione per i “piccoli” compresa), ma soldi sui conti e vero sostegno alle imprese. Capite come si configura il quadro alla *loro* riapertura, vero? L’Italia ancora schiacciata sotto demenziali restrizioni OMS e con l’economia alla canna del gas, mentre la concorrenza galoppa alla faccia nostra (e magari ci contagia, perché i confinanti saranno tutti riaperti). Aziende altrui che ci fregano l’export, o peggio fanno shopping delle nostre imprese che abbandonate a se stesse chiudono a raffica. Esagero? Gli aiuti tedeschi alle proprie aziende servono a questo: guardate le cifre in ballo. Il governo intanto, in UE, sta ginocchioni supplicando il permesso da quegli stessi concorrenti che si preparano a farci fuori. Più demente di così è difficile immaginare. Non capiterà mai più un’occasione come questa per mollare la UE al proprio destino e rialzarci da soli: ma tra le tante virtù nazionali, il coraggio non è mai stato ai primi posti. Così ci faremo ancora comandare da OMS e UE, i lupi alla porta, che tutto hanno in mente fuorché il nostro interesse. Buona quarantena infinita a tutti.

 

Debora Billi

 

 
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