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Dovremo trarre le conseguenze PDF Stampa E-mail

12 Marzo 2020

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Da Rassegna di Arianna del 10-3-2020 (N.d.d.)

 

Travolti, in tempo reale, dalle notizie sul Coronavirus, con il suo corollario di norme comportamentali e di regole igienico-sanitarie, il rischio è di perdere di vista il senso profondo, antropologico, che l’emergenza virale porta con sé. Ci sono certamente le vittime ed i contagiati. C’è il dramma delle realtà locali, rinchiuse nelle “zone rosse”. C’è la crisi economica, incalzante e pesantissima: crollano i fatturati, vanno giù le borse.  Emergono numeri drammatici, a tratti contraddittori: crescita non esponenziale del contagio si dice da un lato (Ardenio Galletti, docente di calcolo numerico e statistico), pericolo pandemia, con 300.000 mila morti si prevede dall’altro (Luca Ricolfi, sociologo e docente di analisi). Nell’inconscio collettivo a venire meno è quel senso appagante di libertà senza confini, che ci faceva muovere senza limiti di spazio e di tempo: connessi con il mondo, liberi di delocalizzarci e di delocalizzare produzioni, idee, sentimenti. Proprietari di un mondo peace and love, in cui tutto ci pareva concesso, ubriachi di benessere, con in pugno una carta di credito passepartout, che oggi, con l’emergenza, appare inesorabilmente “scaduta”.

 

Gli apostoli della globalizzazione continuano a celebrare un mondo (immaginario) senza barriere. Poi però, alla prova dei fatti, sono sempre le frontiere a rimarcare le differenze. E per una volta non c’entra il sovranismo in agguato. Contano poco gli schieramenti e le appartenenze ideologiche. L’emergenza ha i colori delle bandiere nazionali, pronte a selezionare gli arrivi, a respingere gli indesiderati, a selezionare i sani dai contagiati. Tornano i ponti levatoi, retaggio di un Medioevo “oscuro” per definizione: navi respinte, aerei dirottati nel nome della salute pubblica, la quarantena come arma estrema di difesa, che pensavamo appartenere a storie lontane (anche qui vecchi strumenti, utilizzati per le zone colpite dalla peste nel XIV secolo).  Vengono meno le piccole e grandi certezze intorno a cui avevamo costruito i nostri equilibri esistenziali e sociali: l’idea di avere strumenti tecnici e metodologici in grado di affrontare qualsiasi emergenza, di esserci dotati di algoritmi imbattibili, di utilizzare intelligenze, perfino artificiali, capaci di sbrogliare anche le matasse più aggrovigliate. Ora dobbiamo fare i conti con gli ospedali “sold out”. Scopriamo che mancano medici (56.000) ed infermieri (50.000). Negli ultimi anni sono stati soppressi 758 reparti. Ed è doveroso chiedere: di chi sono le colpe se non delle politiche di rigore, targate Ue, che hanno prosciugato i bilanci e le politiche sociali?

 

Ed ancora: a che cosa è servita, in questo frangente, l’Europa? Politiche di sicurezza divise e contraddittorie, norme interpretate diversamente da Paese a Paese. Giusto due settimane fa da Bruxelles i commissari per la Salute (Stella Kyriakides) e per la Gestione delle crisi (Janez Lenarcic) dichiaravano: “I virus non hanno confini e possiamo contenere questa epidemia solo se agiamo in maniera coordinata e globale”. Qualcuno se n’è accorto? Ci auguriamo che l’onda di piena del virus passi presto. Ma dopo? Dopo certamente scopriremo di essere tutti un po’ cambiati: più consapevoli dei “contesti”, costretti a fare i conti con i nostri limiti, ma anche con le nostre, spesso inconsapevoli, potenzialità. Spinti, nella crisi, a “fare sistema” dovremo forse tirare le dovute conseguenze, anche politiche, magari ripensando i nostri assetti istituzionali.  Parole come competenza, decisione, integrazione sociale non sono solo buone per rispondere all’emergenza. Sono piuttosto fattori essenziali per ricostruire il Sistema Paese e per dare nuove prospettive all’Italia. Se quella del Covid-19 è una “guerra”, la “ricostruzione” dovrà essere adeguata.

Mario Bozzi Sentieri

 
Abbiamo rifiutato la cultura del limite PDF Stampa E-mail

11 Marzo 2020

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Da Rassegna di Arianna del 9-3-2020 (N.d.d.)

 

Siamo stati di nuovo attraversati da una Grande Paura. Magari è un falso allarme, magari un bluff. Ma comunque, com’è che noialtri, cosi fieri nelle Magnifiche Sorti E Progressive e nei Domani Che cantano, così consapevoli della nostra superiorità (democratica, naturalmente…) rispetto alle altre culture, al momento di certe prove ci riveliamo così tremebondi? Che cos’abbiamo perduto? Che cosa ci manca? Non è forse il nostro il Migliore dei Mondi Possibile?

 

Parliamone: senza superbia e senza ironia. Quella del nostro Occidente è una storia magnifica. Siamo dei viaggiatori, degli scopritori, degli esploratori, degli inventori, dei conquistatori, degli imprenditori, dei vincenti. Pico della Mirandola ha chiamato l’uomo “divino camaleonte”, capace di assumere qualunque forma: pur ritenendo di pensare all’umanità in generale in realtà alludeva a noi, agli homines occidentales, che siamo non già la regola storico-antropologica, bensì l’eccezione. Le altre culture, nessuna esclusa, si sono sempre fondate su un’Arché, un passato da venerare e al quale conformarsi. Noi abbiamo riscritto di continuo anche il nostro passato per adeguarlo a un futuro che abbiamo preteso di plasmare giorno per giorno con le nostre forze. Unusquisque faber fortunae suae. I nostri eroi sono Prometeo, Odisseo, il dottor Faust. Siamo nati per scalare l’Olimpo, per sfidare gli dèi. Perfino l’Onnipotente Dio di Abramo, se ha voluto conquistarci, ha dovuto assumere veste umana: e alla fine, sia pur con affetto e rispetto, abbiamo nella pratica congedato anche lui. Per noi, qualunque limite è una frontiera da abbattere: è la “cultura del limite” in quanto tale che abbiamo rifiutato. Questa è la vera forza, questa la sostanza di quell’Occidente moderno che ormai è diventato la koinè diàlektos del mondo. Siamo noi soli la misura di noi stessi e di tutte le cose. Ma il trono glorioso sul quale siamo assisi ha un costo stratosferico. Ciascuno di noi è in concorrenza con tutti i suoi simili. Ciascuno di noi – e noi tutti, homines occidentales – siamo soli nella nostra grandezza. Abbiamo decapitato gli dèi e i re. E adesso sopra di noi c’è solo un cielo vuoto; davanti a ciascuno di noi c’è il Nulla. Abbiamo rinunziato fino dal Cinquecento a dare un senso al mondo del quale ci siamo impadroniti, e alla vita che non è più finalizzata se non a se stessa; con la fine delle “ideologie” classiche, abbiamo perfino rinunziato a dare un senso alla storia; ed era tutto quello che ci rimaneva. E ora, davanti al mistero del destino che ci aspetta, ci troviamo soli e tremanti. Agli europei, che da settantacinque anni non provano più il tallone di ferro della guerra (salvo, negli ultimi tempi, l’eco lontana di quelle ch’essi hanno contribuito a provocare), è bastato l’arrivo di una malattia della quale ancora non conosciamo la gravità per metterli in ginocchio. Ma che cosa c’è al fondo di questa paura probabilmente eccessiva e irragionevole? La disperazione. Preferiremmo le pene eterne del vecchio Inferno alla prospettiva della fine di tutto alla conclusione della vita fisica, alla prospettiva della scomparsa irreversibile nel Nulla. Ed è solo il Nulla il futuro che nel nostro pervicace ottuso materialismo individualistico sentiamo nostro. E ci fa paura, e non osiamo confessarlo ad alta voce. Ecco perché negli ultimi decenni abbiamo fatto sparire dai nostri rituali sociali la morte che un tempo giganteggiava signora e padrona. I nostri riti servivano a esprimere il nostro timore, ma anche la nostra certezza – che allora avevamo – ch’essa non era la fine di tutto. Anche Le Danze Macabre e i Trionfi della Morte, la paurosa arte sacra dei tempi di peste, ci riconducevano a una ritualizzazione che equivaleva ad addomesticare la Signora del Mondo, a ricordarle che non era lei la Padrona né del Cosmo, né dell’Eternità. I nostri riti erano potenti mezzi usati per tenerci al sicuro dalla paura. E così la Regina del Mondo diventava semplicemente la nostra austera compagna nel viaggio della vita, in attesa della Resurrezione. Oggi non è più così. La paura della morte è silenziosa, non espressa, negata: ma incombente. Con la secolarizzazione e l’immanentizzazione della vita, essa è tornata selvaggia e feroce. Lo è nei nostri sogni, nel nostro inconscio. La psicanalisi ce lo insegna. E basta a tenerla a bada la stessa fede religiosa, per chi ancora la conserva? Abbiamo per secoli costruito la nostra libertà, e ora la possediamo: è la libertà del marinaio che, in un mare calmo e infinito ma in una notte senza stelle, si aggrappa a un relitto e non sa dove dirigere le sue bracciate perché ignora se e dove sia la terraferma.

 

Le altre culture non sono così: e, per occidentalizzate che siano, mantengono la loro diversità. Se riuscite a parlare sul serio con un montanaro afghano, con un contadino del Kerala, con un monaco buddhista, ve ne rendete conto. A noi che ne abbiamo fatto la nostra nuova trinità sembra che la gente di altre culture non disponga né di Tecnica, né di Potere, né di Ricchezza. Quel che avevano glielo abbiamo strappato pretendendo in cambio d’insegnar loro a vivere e magari perfino a pensare come noi. Eppure essi posseggono, sia pur ormai appannata e adulterata, una consapevolezza spirituale che male si esprime col nostro vocabolario occidentale, e che ci sfugge, e che ormai magari non è più chiara neanche a loro. Una Forza che somiglia molto a quella che i nostri teologi chiamavano Speranza. Ricordate Dante? “Fede è sustanza di cose sperate – ed argomento delle non parventi”. Noi, che la Speranza l’abbiamo perduta insieme con la Fede e con la Carità (della quale l’umanitarismo è solo un ridicolo succedaneo), abbiamo smarrito la chiave del senso profondo di questi due versi. E allora, come al solito da almeno un secolo e mezzo, ci restano solo due vie: o il Cristo, o Nietzsche. O vi convertite tornando sinceramente all’umiltà della Fede, o vi specchiate con lucido e indifferente orgoglio nella vostra Disperazione affrontandola ad occhi spalancati. A meno che non riscopriate Epicuro e sappiate sombrer nel Nulla con serena consapevolezza.

 

Franco Cardini

 

 
Un messaggio immaginario PDF Stampa E-mail

10 Marzo 2020

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Da Appelloalpopolo del 9-3-2020 (N.d.d.)

 

Lettera di un Presidente della Repubblica che ancora non c'è...

 

Cari italiani di sesso maschile, cari italiani di sesso femminile, cari italiani di sesso, vi chiedo scusa a nome della classe politica che rappresento, perché vi abbiamo mentito. Avremmo dovuto dirvi subito che la situazione era grave ma non seria, che non ci trovavamo di fronte a una banale influenza ma neanche di fronte alla peste, che avremmo certamente affrontato mesi difficili ma che li avremmo superati.

 

Avremmo dovuto dirvi che l'epidemia ci sarebbe stata, che sarebbe stato impossibile bloccarla e complicato contenerla, che in molti vi sareste ammalati ma che quasi tutti sareste certamente guariti, e che le persone più esposte sarebbero state le stesse a cui, ogni anno, somministriamo gratuitamente il vaccino antinfluenzale. Ma avremmo anche dovuto dirvi che siamo stati stupidi e criminali, perché i tagli che abbiamo operato in questi anni alla spesa pubblica per adempiere ad assurde regole contabili sovranazionali, volute dai grossi gruppi imprenditoriali che ci finanziano le campagne elettorali per sottrarre allo Stato la "cura" della vostra salute e molte altre immense fonti di profitto, hanno messo in ginocchio il Servizio Sanitario Nazionale. Avremmo dovuto quindi ammettere che, per nostra irresponsabilità, abbiamo chiuso ospedali e ci troviamo senza un numero adeguato di strutture per curarvi, abbiamo abdicato al compito supremo dello Stato di fornire servizi essenziali e creare lavoro, e ci troviamo adesso senza il personale necessario a fronteggiare adeguatamente la situazione.  Avremmo dovuto inoltre, e probabilmente dovremmo, fermare il Paese per tutto il tempo necessario, esonerandovi da tutti i vostri oneri, fiscali e non, e provvedendo a fornirvi tutto ciò di cui avete bisogno, ma anche ad indennizzarvi adeguatamente per consentire al Paese di ripartire. Quest'ultima cosa però non potevamo proprio farla, non possiamo farla, perché non ci è consentito.

 

Abbiamo (avete) barattato un "sogno" con uno Stato sovrano, per cui ora, anche per fronteggiare l'emergenza, dobbiamo chiedere il permesso all'Europa e ai Mercati... e all'Europa e ai Mercati, si sa, di voi non frega proprio un cazzo!

 

Lorenzo D'Onofrio

 

 
Esiste solo l'interesse nazionale PDF Stampa E-mail

9 Marzo 2020

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Da Rassegna di Arianna del 7-3-2020 (N.d.d.)

 

Comunque, persino per un euroscettico, la prova che sta dando di sé l'Unione Europea è inferiore alle più pessimistiche aspettative. Rispetto all'emergenza sanitaria ogni paese agisce in ordine rigorosamente sparso, ciascuno cerca di ottenere qualche piccolo vantaggio per sé e di guadagnare un po' di tempo, sperando di capitalizzare questi vantaggi comparativi a crisi passata. (La situazione emergenziale viene peraltro sfruttata come fattore di distrazione per cercar di far passare iniziative letali come il MES 2). Una volta di più il motto dell'Unione si dimostra essere "mors tua vita mea".

 

Il tentativo di addossare la "colpa" al vicino e di mostrarsi più affidabile (ai 'mercati') è praticato sistematicamente (qui il gioco giocato dalla Germania è oramai scoperto: ad oggi con 670 infetti ufficiali il sistema tedesco non ha dichiarato alcun decesso. A occhio e croce o i malati gravi vengono giustiziati un po' prima del decesso, oppure le autorità mentono come se non ci fosse un domani). Neppure la gestione di cose banali come il materiale sanitario necessario per il contenimento, come le mascherine, è minimamente coordinata e ciò palesa plasticamente a tutti (tranne al nostro ceto politico) che esiste solo l'interesse nazionale. Nel frattempo, i problemi relativi agli spostamenti migratori vengono trattati secondo un format oramai classico: accusando di inumanità chi regge l'urto, e stanziando un po' di fondi sottobanco per continuare a reggere l'urto esattamente come prima. L'essenziale è che il casino e la sporcizia restino lontani dagli occhi della borghesia benpensante centroeuropea, consentendole di continuare a sentirsi moralmente superiore. Lo specifico caso della Grecia, peraltro, grida vendetta al cielo. Il paese, dopo essere stato sottoposto a waterboarding finanziario per dieci anni, dopo aver visto la sua classe media scomparire, i pensionati raccattare nell'immondizia, la mortalità infantile esplodere, il sistema sanitario collassare, ora, mentre a tutto ciò si aggiunge un'epidemia globale, si trova ad affrontare un'invasione di centinaia di migliaia di disgraziati di varia provenienza, forse infiltrati da islamisti, e con dietro i corpi speciali turchi. In sostanza si tratta di un atto di guerra non dichiarata. E in questo contesto, l'Unione Europea, dopo aver spolpato la Grecia per 'dare l'esempio' (bisognava scoraggiare il 'moral hazard' diceva Schauble), dopo averla messo in ginocchio e alla mercé del nemico storico (formalmente Grecia e Turchia non hanno mai stipulato un trattato di pace), ora pensa di discuterne l'emergenza in termini di ammonimenti morali, magari tirando fuori qualche articolo dell'UDHR. (Spero per voi che non ci sia un Dio, altrimenti non vi vedo bene a fornire spiegazioni.)

 

L'Unione Europea si è dimostrata in questi anni e, tragicamente, continua a dimostrarsi anche oggi, politicamente utile quanto un frigorifero al Polo nord. Quanto alla dimensione economica, l'utilità sociale dell'UE invece è chiara, ed è quella dell'usuraio, di chi quando sei in difficoltà si mostra disponibile a "dare una mano", purché possa metterti una catena al collo e toglierti pian pianino tutto quello che hai.

 

Andrea Zhok

 

 
Un virus che salva PDF Stampa E-mail

8 Marzo 2020

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Da Rassegna di Arianna del 6-3-2020 (N.d.d.)

 

In soli due mesi l'emergenza coronavirus ha abbattuto drasticamente le emissioni di biossido di carbonio (CO2) e di biossido di azoto (NO2) in tutta la Cina. Considerando che si stima che solo in Cina l'inquinamento dell'aria sia responsabile di circa 1 milione di morti premature all'anno, ci troviamo di fronte a un evidente paradosso: molto probabilmente il coronavirus "salverà" molte più vite di quante non ne reclamerà.

 

Insomma, passata l'emergenza coronavirus sarebbe il caso di pensare alla vera emergenza della nostra epoca: la "normalità" di un sistema - quello produttivista e liberoscambista - che si regge in piedi solo al costo di distruggere le basi stesse della vita: l'aria, l'acqua, la terra. E che oggi, forse non a caso, viene messo in ginocchio proprio da un virus, cioè da uno di quegli organismi che vivono "ai margini della vita".

 

Thomas Fazi

 

 
Il principio di prossimità PDF Stampa E-mail

7 Marzo 2020 

 

Da Rassegna di Arianna del 5-3-2020 (N.d.d.)

 

 […] Amare la propria patria, coltivare l’identità e le radici, tenere alla sovranità, riconoscere valore alla tradizione, non significa negare che in tutti noi ci sono radici plurime, esperienze varie, attraversamenti, sintesi e tutto il resto. Folle e impraticabile ogni rigida autarchia, ogni idea del patriottismo come tribù, etnia chiusa. Ma ciascuno di noi si riconosce in un’origine, come si riconosce in una paternità e una maternità. Può rielaborarla, ridiscuterla, vivere esperienze diverse, ma quel fondamento resta. E proprio in una società globale e spaesata come la nostra si avverte il bisogno di un luogo protettivo, comunitario, caldo ed evocatore. Non per negare il globale ma per darvi un solido contrappeso, per bilanciare il divenire con l’essere, la fuga con la radice. Non andrò più in fondo nel tema, a cui ho dedicato saggi. L’amor patrio è un bene, una virtù, non è una malattia, non è un crimine, non è un atto ostile verso nessuno. È senso comunitario, diritto/dovere civico ma anche amore per la storia e la memoria, per l’infanzia e il paesaggio, per la cultura e per l’arte, a partire da quella del tuo paese. E questo vale sempre, ma ancor più vale in epoca di globalizzazione. E non solo: vale ancor più nel tempo della pandemia, del contagio globale. È una forma di sicurezza, un rifugio affettivo non infettivo, comunitario non immunitario. La nostra umanità passa da quei legami naturali e culturali, civili e religiosi, territoriali e linguistici, come ci hanno detto fior d’autori, poeti e pensatori. Proteggere un’identità, una società, un’economia, seguendo il principio di prossimità, è un atto positivo, pensato a fin di bene.

 

Il dialogo tra ciechi finisce qui. Resta vivo il dialogo con chi ascolta, pensa, dubita. Ognuno ha bisogno di un luogo che sente come la sua casa, la sua patria, la sua origine. Non mi convincerà nessuno che quel delicato eppur intenso amore sia un male da sradicare o un virus da isolare.

 

Marcello Veneziani

 

 
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