Avviso Registrazioni

Scusandoci per l'inconveniente, informiamo i nuovi utenti i quali desiderino commentare gli articoli che la registrazione deve essere fatta tramite Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

Login Form






Password dimenticata?
Nessun account? Registrati

Cerca


 
  SiteGround web hostingCredits
Umanitarismo strumento dell'imperialismo PDF Stampa E-mail

7 Febbraio 2020

Image

 

Da Rassegna di Arianna del 31-1-2020 (N.d.d.)

 

Si fa un gran parlare di umanità e di umanitarismo, in questa tarda modernità. Si parla di emergenze umanitarie, di interventi umanitari, perfino di guerre umanitarie. Ma cosa c’è dietro questo utilizzo ideologico del concetto di umanità? Secondo il filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt (Plettenberg, Vestfalia, 1888-ivi, 1985), una delle menti speculative più raffinate che l’Europa ha prodotto negli ultimi due secoli, l’utilizzo propagandistico del termine umanità e tutti gli strombazzamenti dell’umanitarismo, caratteristici della modernità, altro non sono che strumenti dell’imperialismo, e specialmente dell’imperialismo economico. Ci siamo già occupati altra volta di questo importante pensatore tedesco (vedi l’articolo: “Amico” e “nemico” nel pensiero politico di Carl Schmitt, già pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/12/07 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 12/01/18), il quale afferma che la categoria di amico e nemico è coessenziale alla politica, mentre il concetto di umanità non è di tipo politico, perché gli uomini appartengono tutti a una medesima specie e quindi non vi sono uomini più umani di altri, e neppure meno umani. Di conseguenza, secondo Schmitt, quando si bandisce una guerra in nome dell’umanità, in effetti lo si fa perché si vuol togliere al nemico la qualifica di umano e avocarla a sé soli, identificandosi come i campioni della natura umana contro delle forze non umane, bestiali, le quali minacciano, appunto, l’umanità. Infatti, muovere contro qualcuno in nome della difesa dell’umanità e dei valori umani equivale a negare che costui appartenga al genere umano e che alberghi in sé dei valori umani: e pertanto si tratta della forma più radicale, più violenta e brutale di guerra che sia dato concepire. Contro un simile nemico, non c’è arma che non sia o non divenga lecita, anche quella che, in circostanze normali, farebbe rabbrividire di orrore colui che si appresta ad usarla: e tale è stato il caso del lancio delle due bombe atomiche sulle città indifese di Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto del 1945. In quel caso, la giustificazione umanitaria era duplice: da un lato perché i giapponesi erano stati presentati all’opinione pubblica americana, fin dall’inizio, come dei nemici disumani, non solo i militari ma anche i civili (e infatti i cittadini americani di origine giapponese erano stati chiusi in campi di concentramento e vi rimasero per tutta la durata del conflitto, con gravi sofferenze per tutti loro); dall’altro lato perché, mostrando al Giappone la terribile potenza dell’arma atomica, si sarebbe affrettata la richiesta di armistizio da parte sua e così, ponendo fine alla guerra, si sarebbero risparmiate molte vite umane (ma di chi? non certo dei giapponesi): obiettivo di per se stesso, come ben si vede, altamente umanitario.

 

Quando Carl Schmitt svolgeva questo tipo di osservazioni, fra gli anni ’20 e ’30 del Novecento, questi ultimi fatti erano di là da venire, ma certamente egli ripensava al trattamento che era stato inflitto alla sua patria, la Germania, e alle nazioni sue alleate, dai vincitori della Prima guerra mondiale. Un trattamento non solo durissimo sotto ogni punto di vista: territoriale, economico e finanziario, ma altresì caratterizzato da un moralismo assolutamente inedito: ai rappresentanti del governo tedesco – un governo repubblicano, e dunque un governo diverso da quello che esisteva nell’agosto del 1914 - fatto unico nella storia, era stato imposto di firmare un documento nel quale era scritto, nero su bianco, che la Germania sola portava la responsabilità dello scoppio della guerra, e quindi di tutte le distruzioni e le perdite di vite umane che essa aveva causato. In tutte le guerre del passato, il vincitore si era limitato a imporre una certa quantità di risarcimenti per i danni e le perdite subite; ora il vincitore pretendeva di mettersi sul piedistallo della moralità e di far ammettere al vinto, sotto la minaccia di una ripresa immediata delle ostilità, che tutto quanto era avvenuto doveva attribuirsi esclusivamente a lui. La cosa dovette riuscire tanto più facile agli Alleati sotto il profilo psicologico, oltre che giuridico, in quanto per più di quattro anni essi avevamo effettivamente rappresentato i tedeschi come dei barbari crudeli, anzi dei sadici: nei loro manifesti di propaganda si vedevano i soldati del Kaiser tagliare le mani ai bambini del povero, piccolo Belgio, e innumerevoli altre atrocità venivano addebitate alla Germania e all’Austria-Ungheria (ma non, curiosamente, il solo, gravissimo e documentato crimine di guerra perpetrato dagli ottomani nel 1915-16: il genocidio del popolo armeno). Delle crudeltà e delle violazioni alle norme del diritto internazionale, beninteso, c’erano state, ma da entrambe le parti; però la propaganda dell’Intesa, più efficace, era riuscita a dipingere gli Imperi Centrali, agli occhi del mondo, come il regno del male. Pertanto l’opinione pubblica mondiale condivise l’opinione degli Alleati che la guerra sottomarina indiscriminata lanciata dai tedeschi, con l’affondamento di qualsiasi nave diretta verso i porti alleati, fosse una maniera criminale di condurre la guerra, ma nessuno si chiese se fosse moralmente lecito alla flotta britannica porre il blocco ai rifornimenti internazionali per la Germania, riducendo alla fame centinaia di milioni di persone, ossia l’intera popolazione degli Imperi Centrali, e provocando la morte di bambini e malati per mancanza di nutrimento sufficiente o di generi farmaceutici (cfr. i nostri articoli: Violando i diritti dei popoli la Gran Bretagna affamò gli Imperi Centrali, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 05/03/08 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 29/11/17; e Processare il Kaiser?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/17). Quando poi, nell’aprile del 1917, entrarono in guerra gli Stati Uniti (mentre la Russia zarista, alleato politicamente imbarazzante, ne usciva), e il presidente Woodrow Wilson sbandierò trionfante i suoi troppo celebrati 14 Punti, il gioco era fatto: la guerra era diventata non più una contesa fra due coalizioni imperialiste su scala mondiale, bensì una crociata della democrazia contro il militarismo e l’assolutismo (anche se la Germania e l’Austria erano in realtà delle monarchie costituzionali). È allora che si formò, per la prima volta, l’equazione fra democrazia e pace, da un lato, e fra governi non democratici e guerra, anzi guerra criminale, dall’altro, che si è andata gradualmente rafforzando e che oggi permea interamente il nostro immaginario, sino ad aver assunto lo statuto di verità auto-evidente e incontrovertibile. A quel punto, nel 1917, il nemico della coalizione alleata non era più un nemico “normale”, ma, essendo un nemico della democrazia, doveva essere considerato a tutti gli effetti come un nemico dell’intera umanità. E quando, per esempio, alla conferenza di pace, i rappresentanti del governo ungherese, i quali nulla avevano a che fare con l’Austria-Ungheria che nel luglio del 1914 aveva dato inizio alla guerra mondiale, attaccando la Serbia – si sentirono dire che il loro Paese avrebbe dovuto rinunciare ai due terzi del suo territorio e a una buona metà della sua popolazione, probabilmente pensarono di aver udito male o di aver avuto un’allucinazione collettiva. Che cosa avrebbero pensato i rappresentanti della Francia, della Gran Bretagna o degli Stati Uniti, se la sorte delle armi avesse visto la loro sconfitta e si fossero visti presentare delle condizioni di pace analoghe? E oltre al danno, la beffa: quella di vedersi trattare come i soli responsabili morali di tutto quanto era avvenuto, e di portare quindi la colpa della più grande tragedia che l’Europa avesse conosciuto da secoli e secoli. Scrive, dunque, Carl Schmitt in Le categorie del politico (edizione originale 1932; traduzione dal tedesco di P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 140):

 

 L’UMANITÀ in quanto tale non può condurre nessuna guerra, poiché essa non ha nemici, quanto meno non su questo pianeta. Il concetto di umanità esclude quello di nemico, poiché anche il nemico non cessa di essere uomo e in ciò non vi è alcuna differenza specifica. Che poi vengano condotte guerre in nome dell’umanità non contrasta con questa semplice verità, ma ha solo un significato politico particolarmente intenso. Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il suo avversario, di un concetto universale per potersi identificare con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso, civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’UMANITÀ è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno. Proclamare il concetto di UMANITÀ, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto – visto che non si possono impiegare termini del genere senza conseguenze di un certo tipo – la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev’essere dichiarato “hors-la-loi” e “hors-l’humanité” e quindi che la guerra deve essere portata fino all’estrema inumanità. Ma al di fuori di questa utilizzazione altamente politica del termine non politico di umanità, non vi sono guerre dell’umanità come tale. L’umanità non è un concetto politico e ad essa non corrisponde nessuna unità o comunità politica e nessuno “status”. Tutto quel che è successo dopo che queste parole furono scritte ha confermato in pieno la giustezza dell’analisi di Carl Schmitt. Sconfitta di nuovo nella Seconda guerra mondiale la Germania (insieme al Giappone) è stata tratta assai più duramente che nel 1919, non solo sul piano materiale – addirittura divisa in due metà, nemiche irriducibili! – ma anche, di nuovo, sul piano giuridico: con un processo spettacolare ai capi del Terzo Reich, quello di Norimberga, che non ha precedenti nella storia per la sua arbitrarietà e ipocrisia. Arbitrarietà, perché non si è mai visto un tribunale formato da quella che ritiene di essere la parte lesa; ipocrisia, perché i giudici-accusatori avevano commesso a loro volta atrocità e crimini di ogni tipo, e perché ricorsero al misero espediente d’incriminare il nemico per quelli che, all’epoca dei fatti, non erano contemplati come crimini dalle leggi internazionali: ad esempio, aver pianificato e scatenato la guerra. Un analogo processo farsa si tenne a Tokyo contro i capi politici e militari del Giappone sconfitto; all’Italia questa sorte fu risparmiata in virtù dell’armistizio dell’8 settembre 1943. E tutto ciò fu possibile, anzi, fu visto e presentato all’opinione pubblica internazionale come normale e pienamente legittimo, grazie all’opera propagandistica svolta in precedenza: ossia che quelli del Tripartito non erano nemici “normali”, bensì mostri assetati di sangue, criminali sadici e meritevoli di essere trattati non come uomini, ma come animali idrofobi, da abbattere senza pietà. Si badi: non stiamo dicendo che tedeschi, giapponesi e, in certi casi, anche italiani, non commisero dei crimini nel corso della guerra; stiamo dicendo che i loro nemici ne commisero, a loro volta, di gravissimi: e non solo i sovietici, ma anche le potenze democratiche. Tutti oggi parlano, e giustamente, dei campi di concentramento tedeschi; ma quanti sanno che esistettero anche i campi di concentramento britannici e americani, e che in questi ultimi furono lasciati morire di fame e di freddo milioni di prigionieri tedeschi, a guerra ormai conclusa? E che milioni di civili tedeschi delle province orientali furono sterminati o costretti a fuggire per sempre dalle loro case? Nei decenni successivi, e soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, questo stato di cose non ha fatto che rafforzarsi, come sono aumentate l’arbitrarietà e l’ipocrisia delle democrazie che si ergono a giudici e giustiziere di qualsiasi nemico esse decidano di abbattere, magari dopo averlo costruito a tavolino per i loro scopi inconfessati e inconfessabili. Lo abbiamo visto ormai troppe volte, dall’Iraq alla Serbia e dall’Afghanistan alla Libia. In Siria, poi, le cose sono giunte al punto che le democrazie sostengono di essere intervenute per difendere la libertà di quel popolo, e intanto forniscono supporto logistico e finanziario a dei gruppi terroristici, presentati però all’opinione pubblica come combattenti democratici; mentre il governo autoritario locale, che esse avrebbero voluto abbattere (e ci sarebbero certamente riuscite, se non fosse intervenuta con decisione la Russia di Putin) combatte contro i terroristi e paradossalmente difende alcune libertà fondamentali, come quella di continuare a esistere della minoranza cristiana in un Paese che è a larghissima maggioranza islamico. Ma tutto questa ipocrisia è insita nell’atteggiamento di fondo delle democrazie, le quali, nelle Convenzioni di Ginevra, istituendo i crimini contro la pace, sottintendono che la guerra sia di per se stessa un crimine; il che obbliga le democrazie a mentire e a chiamare operazioni umanitarie, o addirittura operazioni di pace, tutte le guerre che decidono di scatenare contro chi non si adegua all’ordine internazionale da esse voluto. E poiché tale “ordine”, se così lo possiamo chiamare, è essenzialmente quello stabilito nell’interesse dei grandi gruppi finanziari internazionali, i quali hanno le loro basi nelle democrazie, ma che non s’identificano con esse, perché la grande finanza non ha patria né ha bisogno di passaporto, anche da questo lato si rivela quanto avesse visto giusto Carl Schmitt, allorché sosteneva che l’umanitarismo sarebbe divenuto lo strumento dell’imperialismo, essenzialmente nella versione economica e finanziaria. Ecco perché si tratta di un pensatore di scottante attualità, che va letto, riletto e meditato a fondo…

 

Francesco Lamendola

 

 
Resa in cambio di denaro PDF Stampa E-mail

6 Febbraio 2020

Image

 

Da Comedonchisciotte dell1-2-2020 (N.d.d.)

 

Quando i due vecchi marpioni della politica si sono presentati alla Casa Bianca con la tragicommedia più sgangherata e farsesca della storia del Medio Oriente, era difficile sapere se ridere o piangere. Il piano di “pace” di 80 pagine della Casa Bianca conteneva, nelle prime 60, 56 riferimenti alla “Visione,” sì, ogni volta con la V maiuscola, per suggerire, suppongo, come questo “affare del secolo” fosse una rivelazione soprannaturale. Non lo era, anche se magari era stato scritto da un super-Israeliano. In esso si dice addio ai rifugiati palestinesi, al famoso/famigerato “diritto al ritorno” e a tutti coloro che attualmente marciscono nei campi profughi del Medio Oriente; addio alla città vecchia di Gerusalemme come capitale palestinese; addio all’UNRWA, l’agenzia di soccorso delle Nazioni Unite. Ma si accoglie con favore l’occupazione israeliana permanente della Cisgiordania e l’annessione totale di quasi tutti gli insediamenti ebraici al suo interno, in spregio ad ogni diritto internazionale. È un dato di fatto, ovviamente, e lo è stato per giorni, che questa assurdità potrebbe semplicemente essere solo una spruzzatina di polvere magica sulle traversie dei leader d’America e di Israele. Mentre i due furfanti, Donald Trump sotto impeachment e Benjamin Netanyahu accusato di corruzione, sorridevano agli applausi dei loro sostenitori a Washington, era subito stato chiaro che questo mendace documento, pieno di assurdità, burlesque e tristi banalità in egual misura, aveva distrutto per sempre ogni speranza di un qualsiasi stato palestinese indipendente. Non è esattamente scritto così, ma basta dare un’occhiata al tipo di sproloquio: quando l’occupazione israeliana, la più lunga della storia moderna, viene descritta come una “impronta di sicurezza” e quando il Trattato di Oslo viene definito come un accordo che aveva causato “ondate di terrore e violenza.” In verità, tutti dovrebbero leggere queste 80 pagine. E ogni lettore dovrebbe leggerle due volte, casomai la prima volta si fosse perso una delle tante, bellissime porcherie inflitte ai Palestinesi. Questo documento non è solo un dono per Israele. Include ogni possibile richiesta israeliana mai fatta a Washington (più alcune altre) e ha effettivamente distrutto tutti gli sforzi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite sul ritiro israeliano e tutti i tentativi dell’UE e del Quartetto sul Medio Oriente per arrivare ad una giusta ed equa risoluzione del conflitto israelo-palestinese.

 

In breve, Israele con questo disgraziato “patto,” anche se era già stato condannato dopo pochi secondi, conquisterà per sempre tutta Gerusalemme, la maggior parte della Cisgiordania, possiederà praticamente la totalità degli insediamenti ebraici nei territori occupati e dominerà un popolo palestinese disarmato, monco e sterilizzato, che, a sua volta, dovrà promettere di chiamare Israele lo “stato nazionale del popolo ebraico,” (anche se quasi il 21% della sua popolazione è araba), censurare i propri testi scolastici, arrestare e interrogare chiunque abbia il coraggio di opporsi all’occupante israeliano e che avrà una manciata di villaggi al fuori dalle mura di Gerusalemme come propria capitale. È vero, questo parto della banda Trump (in particolare del genero, Jared Kushner), è un documento unico e storico, perché il credere che ai Palestinesi potrebbe anche solo venire in mente di accettare una serie così squilibrata e farsesca di richieste politiche è una cosa senza precedenti nel mondo occidentale. Ma quand’è che noi giornalisti dovremmo fare tutto il possibile, mi ero chiesto una volta finito di leggere tutte le 56 “Visioni” (ce ne sono altre, tra l’altro, in minuscolo, e anche diverse “missioni“) e l’elenco dei divieti imposti ai Palestinesi? Questi ultimi includono, dovremmo notare, istruzioni in base alle quali “lo Stato della Palestina non può aderire a nessuna organizzazione internazionale se tale adesione è in contrasto con gli impegni dello Stato della Palestina per la smilitarizzazione e la cessazione di azioni politiche e giudiziarie contro lo Stato di Israele.” Quindi addio anche alla protezione della Corte Penale Internazionale. A qualche mio collega è quasi venuto un colpo apoplettico, come a Marwan Bishara di Al Jazeera. Farsa, frode, furia, surrealista, opportunista, populista e cinico. Ha usato tutti questi aggettivi, ma sicuramente stava cercando di essere diplomatico. Gideon Levy, il mio eroe del quotidiano israeliano Haaretz, non è stato apoplettico. È stato apocalittico. Èl’ultimo chiodo nella bara di quel cadavere ambulante noto come soluzione dei due stati,” ha scritto, e [questo piano] ha creato una realtà “in cui il diritto internazionale, le risoluzioni della comunità internazionale e soprattutto le istituzioni internazionali sono prive di ogni significato.” Non esiste uno stato palestinese (quoto Levy) e non ci sarà mai. Dovrà esserci un’unica democrazia tra il Giordano e il Mediterraneo, pari diritti per Israeliani e Palestinesi, o Israele sarà uno stato di apartheid. Trump ha creato “un mondo in cui il genero del presidente degli Stati Uniti è più potente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Se gli insediamenti sono permessi, tutto è permesso.” Proprio così. Ma noi scrittori, giornalisti, “esperti” ed analisti possediamo ancora gli strumenti per affrontare uno sproloquio del genere? Questo è il momento non solo della fine della moralità, della giustizia, dell’integrità, della dignità, ma anche per porci una domanda sempre più importante: quando smetteranno i giornalisti di prendere sul serio queste cose (e loro stessi)? Anche solo descrivere questo spot pubblicitario di Trump come se fosse reale, praticabile o addirittura discutibile è comunque degradante, umiliante e assurdo. Non solo per quei conigli dei media, ma soprattutto per quelli che dovranno subire le conseguenze di questo terribile documento, i Palestinesi e tutti coloro che hanno sostenuto e hanno creduto in richieste perfettamente ragionevoli di libertà ed equità. Mi sono reso conto, poche ore dopo averlo letto, che, per ogni Musulmano anti-israeliano che crede nel fantasioso e folle concetto della “cospirazione sionista,” queste 80 pagine di un blocco per appunti della Casa Bianca non faranno altro che rafforzare quelle convinzioni. In casi come questo, forse dovremmo chiedere ai nostri comici di fare i giornalisti. Oppure incaricare i nostri vignettisti di scrivere la storia. O, per far passare il messaggio, forse dovrei fare come il vecchio Robert Ripley del “Credeteci o no!” Che ci crediate o no, un presidente degli Stati Uniti ha dato ad una potenza straniera il diritto di occupare in eterno la terra di qualcun altro. Per me, questo racconta tutta la storia; in 22 parole. Ma non dimentichiamo che, in cambio della loro umiliante resa, i Palestinesi otterranno denaro, denaro e ancora più denaro, milioni di bigliettoni verdi, tutto riportato in pagine di grafici e piani di finanziamento e di turismo “fast-track” (questa frase è veramente utilizzata nel documento) e ingenti investimenti, “miglioramento sociale” (sic), “autodeterminazione” (sic ancora una volta, immagino), e “un percorso verso una dignitosa vita nazionale, rispetto, sicurezza e opportunità economiche …” E il nostro Boris Johnson non ha forse detto a Trump che è stato “un positivo passo in avanti“? E il nostro Dominic Raab [Segretario di Stato per gli Affari Esteri e del Commonwealth] non l’ha forse definita “una proposta seria” degna di “una genuina ed equa considerazione“? Che ci crediate o no, veramente.

 

Robert Fisk

 

 
Coronavirus e teorie della cospirazione PDF Stampa E-mail

5 Febbraio 2020

Image

 

Da Comedonchisciotte del 3-2-2020 (N.d.d.)

 

Utilizzando i dati cinesi più recenti sull’infezione e i tassi di mortalità del Coronavirus rilevati dagli scienziati indiani, “Moon of Alabama” conclude che la “pandemia” ha raggiunto il suo apice e si concluderà tra circa un mese. Se è così, allora Jon Rappoport aveva ragione fin dall’inizio nell’affermare che questo Coronavirus è solo un’altra grande campagna pubblicitaria del terrore. Speriamo sia così e che il Coronavirus sia solo una minaccia grave quanto una normale epidemia di influenza. Tuttavia, anche un esito felice lascia ancora molte domande sconcertanti. Eccone alcune:

 

1. Perché uno sforzo così enorme da parte del governo cinese, con l’utilizzo di draconiane misure di quarantena che colpiscono milioni di persone e il blocco dei voli internazionali da e verso la Cina, per una minaccia molto meno grave di una normale influenza? 2. Perché tutta questa fretta di sviluppare un vaccino? 3. Perché gli esperti prevedono una pandemia mondiale? 4. Perché il virus ha avuto origine in una città cinese nota per ospitare laboratori per lo studio di virus pericolosi? 5. Perché i virus più paurosi arrivano dalla Cina: SARS, influenza suina, influenza aviaria, Coronavirus? 6. Perché un team di scienziati indiani ha trovato nel genoma del Coronavirus elementi dell’HIV che si ritiene siano in grado di aumentare il potenziale infettivo, una scoperta che, se corretta, implicherebbe l’ingegnerizzazione di un’arma bioterroristica?

 

I ricercatori indiani potrebbero aver preso un abbaglio, ma non hanno formulato una teoria della cospirazione. Hanno pubblicato il loro articolo in via provvisoria, per avere dei riscontri da parte di altri scienziati. Non ho idea se i loro risultati saranno convalidati o meno e, qualunque cosa ci venga detta, potremmo anche non sapere mai la verità. Se il virus mostra di essere bioingegnerizzato, il governo cinese saprà se è qualcosa che era sfuggito dalle loro mani. Se non sono loro i responsabili lo prenderanno come un attacco da parte degli Stati Uniti. Questo genere di informazioni confermerebbe i sospetti cinesi: “Le ricerche condotte dal Pentagono, e in particolare dalla DARPA [Defense Advanced Research Projects Agency], hanno continuamente sollevato preoccupazioni, non solo [per il loro interesse] nel campo delle armi biologiche e della biotecnologia, ma anche nei settori delle nanotecnologie, della robotica e molti altri. DARPA, ad esempio, ha sviluppato una serie di inquietanti progetti di ricerca, che vanno dai microchip in grado di creare ed eliminare i ricordi dal cervello umano ad un problematico software per il voto elettronico. Ora, mentre la paura per l’attuale epidemia di Coronavirus sta arrivando all’apice, alcune aziende legate direttamente alla DARPA sono state incaricate di sviluppare un vaccino, i cui effetti a lungo termine sull’uomo e sull’ambiente sono sconosciuti e tali rimarranno fino quando, tra qualche settimana, questo vaccino non sarà disponibile sul mercato. Inoltre, DARPA e l’interessamento di lunga data del Pentagono per le armi biologiche e i loro recenti esperimenti sulle tecnologie di alterazione ed estinzione genetica, nonché sui pipistrelli e sui Coronavirus, eseguiti in prossimità della Cina, sono stati in gran parte tenuti fuori dalla narrativa, nonostante il fatto che le informazioni fossero pubblicamente disponibili. Sono stati inoltre esclusi dalla narrativa dei media i legami diretti tra la Duke University e l’USAMRIID [Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito degli Stati Uniti], partner della DARPA, con la città di Wuhan, incluso il suo Institute of Medical Virology. Anche se molte delle informazioni sulle origini dell’epidemia di Coronavirus rimangono sconosciute, i legami delle forze armate statunitensi con le suddette istituzioni e centri di ricerca meritano un esame più approfondito, in quanto una tale ricerca, anche se giustificata per la causa della ‘sicurezza nazionale,’ ha lo spaventoso potenziale di provocare conseguenze, magari non intenzionali, ma in grado di cambiare il mondo. La mancanza di trasparenza su questa ricerca, come la decisione della DARPA di tenere segreta la sua controversa ricerca sull’estinzione genetica e l’uso di questa tecnologia come arma da guerra, aggrava queste preoccupazioni. Sebbene sia importante evitare il più possibile speculazioni sconsiderate, è opinione dell’autore che le informazioni contenute in questo rapporto siano di interesse pubblico e che i lettori debbano utilizzare tali informazioni per trarre le proprie conclusioni sugli argomenti discussi in questa sede.”

 

Se i risultati dei ricercatori indiani sono corretti, dovremmo aspettarci che vengano smentiti dagli scienziati sostenuti dal governo. Per salvare le loro carriere, [questi ricercatori] dovrebbero poi riconoscere di aver commesso errori nel loro studio. Se il virus fosse stato sintetizzato negli Stati Uniti, la Cina sarebbe ugualmente incentivata a coprire le malefatte di Washington, perché il renderlo pubblico scatenerebbe una guerra, e la Cina non è pronta per una cosa del genere.

 

Ci sono altre preoccupazioni. Ad esempio, in concomitanza con l’annuncio del nuovo virus, ci sono state accuse secondo cui lo stesso laboratorio di virologia cinese sarebbe il responsabile della minaccia pandemica e che avrebbe persino potuto diffonderlo di proposito fra la propria popolazione. Moon of Alabama ha ragione nel definirla una teoria della cospirazione. È una teoria della cospirazione per screditare il governo cinese agli occhi della popolazione cinese e del resto del mondo. Il governo cinese non ha alcun interesse a danneggiare la propria economia e a screditare se stesso mentre sta cercando di governare con il guanto di velluto, ma è nell’interesse di Washington causare danni economici alla Cina. Penso sia positivo che ci si chieda se il Coronavirus possa essere un virus ingegnerizzato. In tutto il mondo esistono numerosi laboratori segreti ad alta sicurezza che fanno cose spaventose. Come scrive Whitney Webb, “La mancanza di trasparenza su queste ricerche, così come la decisione della DARPA di classificare la sua controversa ricerca sull’estinzione genetica e la relativa tecnologia come arma di guerra, aggrava queste preoccupazioni.” C’è un trattato (o c’era perché Washington potrebbe averlo ripudiato, come ha fatto con gli accordi con la Russia per il controllo degli armamenti) che dovrebbe impedire ai vari paesi di produrre armi biologiche. Tuttavia, indipendentemente dal fatto che si stiano fabbricando o meno tali armi, si stanno compiendo ricerche che potrebbero essere rapidamente militarizzate. Forse sarebbe una buona cosa se ci fosse una discussione pubblica mondiale che chiarisca se il beneficio della ricerca è maggiore del rischio di una pandemia mortale. La mancanza di trasparenza rende possibile ogni malizia. Ricordate, dopo l’11 settembre, le lettere all’antrace che, come si era scoperto, contenevano un tipo di antrace disponibile solo in un laboratorio del governo degli Stati Uniti? Per nascondere questo fatto, la colpa delle lettere era stata data ad un morto che non aveva nessun motivo di inviare le lettere e nessun accesso all’antrace. Una cosa pericolosa come [fare esperimenti con] germi patogeni bioingegnerizzati richiede molta trasparenza. Non vi è alcun motivo per cui gli scienziati dovrebbero essere autorizzati a fare esperimenti su tutto ciò vogliono. Pensateci per un minuto, qual è il vantaggio delle armi nucleari? Forse, se la Terra fosse invasa da alieni supertecnologici, le armi termonucleari potrebbero essere una difesa. Forse, se un asteroide fosse in rotta di collisione con la Terra, i missili nucleari potrebbero frantumarlo in piccoli pezzi che brucerebbero nell’atmosfera o in pezzi ancora più piccoli che farebbero meno danni. A cosa servono le armi nucleari se non per portarci all’Armageddon? È necessario riflettere molto anche sulla robotica e sull’intelligenza artificiale. Sono utili robot come quelli in grado di resistere alle alte pressioni sottomarine e alle radiazioni. Ma i robot che sostituiscono le persone possono lasciare la gente senza lavoro e senza scopo nella vita. E vogliamo davvero macchine intelligenti o più intelligenti degli esseri umani o magari armate? Le sfide poste da queste tecnologie possono essere molto interessanti per gli scienziati, ma le conseguenze indesiderate e sconosciute possono essere terrificanti. Una domanda ovvia è: se le persone con la pelle bianca non possono usare determinate parole o espressioni consolidate, non possono leggere, studiare o insegnare determinati argomenti che alcuni ritengono offensivi e non possono organizzarsi o magari segregarsi, come altri sono autorizzati a fare, perché gli scienziati e i governi possono studiare e produrre cose che potrebbero porre fine alla vita stessa? Questo non ha senso. Se non inizieremo presto ad usare il buonsenso, le teorie della cospirazione diventeranno assai realistiche. Non possiamo fare affidamento sull’etica e sulla moralità dei governi. Non ne hanno. Prendete come esempio gli Stati Uniti e i loro vassalli europei. Per 20 anni hanno bombardato, invaso, assassinato e devastato sette paesi, distruggendoli completamente o in parte, il tutto sulla base di palesi bugie. E non si fa nulla al riguardo. In effetti, il processo omicida continua. Sulla base di queste trasparenti menzogne, il presidente George W. Bush aveva violato la Costituzione degli Stati Uniti e incarcerato a tempo indefinito dei cittadini americani sulla base del semplice sospetto, e il presidente Obama aveva violato il diritto ad un giusto processo assassinando dei cittadini americani, anche lui sulla base del semplice sospetto. Nessuno dei due è stato messo sotto accusa. Il Congresso, la magistratura e il pubblico hanno accettato questa distruzione della Costituzione degli Stati Uniti e ci hanno fatto entrare in uno stato di polizia. Quando non ci sono media onesti che proteggono la gente, la trasparenza del governo diventa ancora più critica. Dal 2009, il governo degli Stati Uniti ha rovesciato i governi di Honduras, Ucraina, Bolivia, Brasile, Argentina, ha invertito il processo di riforma in Ecuador, ha rovesciato temporaneamente Chavez in Venezuela e continua a cercare di rovesciare il suo successore, Maduro. Cuba, la Corea del Nord, la Siria, l’Iran, la Russia e la Cina rimangono nella lista di Washington dei paesi da rovesciare. Questa straordinaria arroganza è facilmente in grado di utilizzare come false flag un patogeno ingegnerizzato per scatenare disordini che facciano cadere un governo. Per questo motivo, la trasparenza nella ricerca è della massima importanza.

 

Paul Craig Roberts

 

 
Un nuovo socialismo PDF Stampa E-mail

4 Febbraio 2020

Image

 

Da Rassegna di Arianna dell’1-2-2020 (N.d.d.)

 

[…] Si è detto che oggi non esiste un soggetto rivoluzionario definibile apriori, in base alla presunta contraddizione oggettiva fra i suoi interessi e quelli del capitale, che si tratta, piuttosto, di costruire un blocco sociale in cui far convergere l’insieme dei soggetti sociali più colpiti dal processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia; si è aggiunto che questa coalizione non è identificabile solo in base ai differenziali di reddito e di status ma anche a quelli di mobilità e appartenenza territoriale, e che la lotta di classe tende a fondersi con i conflitti fra nazioni dominanti e nazioni periferiche, Sud contro Nord, Est contro Ovest, Occidente contro Asia, Africa e America Latina anche se ogni Paese ha al proprio interno le sue periferie e i suoi centri, i suoi nord e i suoi sud, i suoi ovest e i suoi est.

 

Questo scenario complesso non giustifica esitazioni e ambiguità nel tracciare il confine amico/nemico sia a livello nazionale che a livello globale. Politica e geopolitica devono rispecchiarsi nello sforzo di definire uno schieramento mondiale delle forze che si oppongono alle élite mondialiste, sfruttando le contraddizioni interimperialistiche che aumentano a mano a mano che il processo di globalizzazione perde inerzia e crescono le controtendenze al conflitto fra potenze mondiali, regionali e locali. Questo vuol dire che chi si propone di lottare per il socialismo non deve solo ridefinire cosa significa socialismo nell’attuale contesto storico, ma anche prendere in considerazione la possibilità che, per vincere nella lotta contro il capitalismo, occorra allearsi con culture anche molto lontane dalla nostra. Provo a spiegarmi con alcuni esempi concreti. Le rivoluzioni bolivariane (Venezuela, Ecuador e Bolivia) non sono state rivoluzioni socialiste, in quanto, pur avendo riconquistato il controllo sulle risorse naturali per finanziare politiche sociali avanzate, neowelfariste, nazionalizzato alcuni settori strategici, condotto politiche redistributive a favore delle classi subalterne e tentato di riconquistare la sovranità nazionale sganciandosi dai diktat del Washington consensus, non sono andate oltre un orizzonte riformista radicale che potremmo genericamente definire postneoliberista. Dalla loro esperienza, malgrado le recenti sconfitte, emergono tuttavia importanti insegnamenti. Da un lato, come spiega bene nei suoi scritti il vicepresidente boliviano Linera, la forza trainante di queste rivoluzioni sono state le comunità indigene, portatrici di una visione comunitaria che si è opposta alla colonizzazione capitalista in nome dei principi e valori di culture tradizionali e non di una modernizzazione di tipo occidentale. Dall’altro a condurre le controrivoluzioni sono stati quei ceti medi urbani (ivi compresi i movimenti orientati a sinistra) che, ancorché beneficiati dalle riforme dei nuovi regimi, hanno voltato loro le spalle non appena richiesti di affrontare sacrifici per sostenere le politiche sociali anche quando la pressione dei mercati globali sulla rivoluzione si è fatta più incalzante.

 

Passiamo all’esempio cinese. Gli studiosi marxisti hanno pareri discordanti sulla natura del regime cinese. C’è chi pensa si tratti di una Paese compiutamente tornato nell’ambito del sistema capitalistico, che compete con Stati Uniti, Giappone ed Europa per spartirsi il mercato mondiale, e c’è invece chi (Amin, Arrighi e altri) lo considera piuttosto come un sistema socialista con presenza di mercato o un’economia non capitalista con capitalisti. Senza addentrarci in questa diatriba teorica vediamo i dati di fatto: 1) per universale ammissione anche da parte degli economisti liberisti, il boom cinese non è frutto di una piena conversione al capitalismo quanto del persistente ruolo di intervento, coordinazione e organizzazione dei flussi di capitale da parte del partito-stato; 2) le privatizzazioni sono state graduali e parziali mentre lo stato mantiene il controllo su settori strategici e sistema bancario; 3) i servizi fondamentali continuano a essere pubblici; 4) le imprese statali non seguono le regole del massimo profitto ma tengono conto dell’esigenza di garantire elevati livelli di occupazione; 5) lo sviluppo e la crescita appaiono orientati in misura crescente a privilegiare l’espansione dei consumi interni; 6) malgrado la presenza di forti disuguaglianze i redditi salariali sono quelli che crescono più rapidamente; 7) anche dopo l’abolizione delle comuni l’accesso alla terra continua a essere garantito a centinaia di milioni di contadini; 8) la logica degli investimenti esteri è orientata alla creazione di infrastrutture che favoriscono lo sviluppo dei Paesi periferici e non alla speculazione finanziaria di tipo occidentale. Ma soprattutto: la borghesia cinese accumula ricchezze ma non è riuscita almeno finora a ottenere il controllo sullo stato, che resta saldamente nelle mani del partito, per cui la politica continua a comandare sull’economia. Insomma, non socialismo secondo la definizione della tradizione occidentale ma una peculiare forma di socialismo che mescola principi e valori confuciani a quelli marxisti.

 

Potremmo aggiungere qualche riflessione sul ruolo dei valori egualitari della religione islamica – in particolare degli sciiti e dei fratelli musulmani – nell’ispirare la resistenza di alcuni Paesi del Medio oriente e dell’Africa settentrionale nei confronti della penetrazione dei valori occidentali. Il che ci riporta alle riflessioni critiche sui limiti del modernismo progressista che, come detto in precedenza, ha agito da canale di penetrazione dell’egemonia capitalista nella cultura del movimento operaio. Il che non significa che l’obiettivo sia quello di riesumare modi di produzione e di vita precapitalistici, ma piuttosto che è quello di immaginare un socialismo del secolo XXI che sappia favorire un progresso autentico, misurabile in termini di crescita civile e non di potenza tecnologica, economica e militare. Un socialismo che non pretenda di abolire il mercato, inseguendo utopie che si sono rivelate fallimentari, ma impari a farne buon uso (per usare un’espressione di Arrighi) imbrigliandone gli spiriti animali e tenendolo sotto stretto controllo politico. Un socialismo rispettoso dell’ambiente e orientato allo sviluppo basato sulla domanda interna e la piena occupazione. Un socialismo che miri alla creazione di un sistema economico mondiale equilibrato e rispettoso delle identità nazionali (comprese quelle culturali e religiose). Per avanzare in tale direzione credo occorra rispettare prioritariamente due imperativi: 1) sul piano interno, lavorare alla costruzione di un blocco sociale anticapitalista che eviti di sacrificare gli interessi degli ultimi a quelli delle classi medie, restando consapevoli che queste non ricambiano mai tali attenzioni con la moneta della fedeltà politica; 2) sul piano internazionale, imboccare la via di una politica estera che rompa la dipendenza da Berlino e Washington e privilegi i rapporti con Cina, Russia, Brics e Paesi mediterranei.

 

Carlo Formenti

 

 
Album di famiglia PDF Stampa E-mail

3 Febbraio 2020

 

Da Rassegna di Arianna dell’1-2-2020 (N.d.d.)

 

La foto dei leader delle sardine insieme a Benetton credo che sciolga qualsiasi dubbio sulla vera natura di questo movimento. Certo, chi voleva vedere, chi cioè ha rifiutato di auto illudersi, aveva tutti gli elementi per capire e prendere le distanze. L'attitudine postideologica (no alle bandiere), l'esaltazione della disintermediazione (no ai partiti), la totale assenza di contenuti (vedi alla voce "bambino autistico che gioca a basket"), il giovanilismo ("siamo tanti, siamo giovani, abbiamo organizzato una mega festa") e il rifiuto di mettersi accanto ai soggetti sociali della sinistra erano segni inequivocabili. Solo la falsa coscienza di un'élite di giornalisti poteva vederci qualcosa di veramente nuovo. Solo la protervia delle solite mosche cocchiere che pensano di saperla lunga poteva spingere a credere che tra quella gente ci fosse qualcosa da pescare. Non vedrete mai le Sardine accanto agli operai, ai disoccupati, agli immigrati che si spezzano la schiena nei campi. Le Sardine sono l'espressione del capitalismo italiano e della cultura neoliberale che ancora imperversa nel paese. Nell'album di famiglia delle sardine non ci sono grandi leader della sinistra, ma ci sono Benetton, Renzi, Calenda e se fosse vivo anche Marchionne. La loro filosofia è quella delle startup, della competizione, della piena accettazione del capitalismo, non quella delle lotte sociali e del progresso collettivo.

 

Paolo Desogus

 

 
Rivoluzione culturale PDF Stampa E-mail

1 Febbraio 2020

 

Da Appelloalpopolo del 30-1-2020 (N.d.d.)

 

Il vuoto politico del blocco socialista e la restaurazione del finto bipolarismo del partito unico neoliberale fanno crescere la voglia di chi crede che alla restaurazione bisogna rispondere con la rivoluzione. Il concetto di “rivoluzione” sta tornando sempre più attuale, infatti ricorre frequentemente nei nostri dibattiti e, non a caso, a vari livelli sociali, sono indetti gli “Stati Generali”, della medicina, del M5S. Proprio come gli stati generali furono precursori della rivoluzione francese, gli attuali stati generali sono il segno di una latente quanto forte e magmatica voglia di riscatto che aspetta soltanto di essere teorizzata, organizzata e incanalata in un percorso di rivoluzione culturale. La rivoluzione contemporanea si conduce su un piano culturale poiché lo strapotere neo-liberista, con la sua sovrastruttura culturale, ha occupato l’inconscio di ciascuno di noi ed ha invaso il nostro pensiero che risulta sbriciolato, frammentato in una visione egoica ed individualistica fondata sulla competizione. La rivoluzione contemporanea deve prima di tutto disinnescare queste forme di pensiero suicidario con un pensiero nuovo, rivoluzionario fondato su solide basi etiche e valoriali, che persegua l’interesse collettivo in luogo del mero interesse individuale, che inauguri un nuovo umanesimo. Urge l’energia travolgente di nuova cultura per far uscire un popolo dall’anestesia, per costruire la coscienza di classe, per formare il soggetto rivoluzionario che ad oggi non c’è o fa fatica ad esprimersi in modo adeguato; una rivoluzione culturale allo scopo di aumentare la massa critica, che ci darà la forza necessaria, in termini di consenso, per attuare la rivoluzione sul piano politico. La rivoluzione contemporanea è allegra e non violenta poiché si gioca su un piano culturale, sostenuta da un uomo non bellico; la rivoluzione non è qualcosa che si “combatte” al di fuori di noi ma è straordinariamente connesso a un livello interiore, profondo, spirituale oserei dire perché è lì che il dominio ultra-liberale si è imposto ed è a partire da lì che “ci libereremo”!

 

Infine, ringraziando il maestro Marco Guzzi, filosofo e teorico della rivoluzione culturale, aggiungo che, come un fuoco ha sempre bisogno di legna per essere alimentato, la rivoluzione sul piano politico deve essere alimentata ripercorrendo costantemente e incessantemente i processi rivoluzionari che si verificano a livello interiore e a livello culturale. Abbandoniamo la panchina, prepariamoci e cominciamo il riscaldamento: tra un po’ si scende in campo!

 

Raffaele Varvara

 

 
<< Inizio < Prec. 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 Pross. > Fine >>

Risultati 1105 - 1120 di 3745