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Genocidio o pulizia etnica PDF Stampa E-mail

7 Novembre 2023

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 Da Comedonchisciotte del 6-11-2023 (N.d.d.)

Mi sconvolge il fatto che, nelle mie discussioni, continuo ad imbattermi in varianti del seguente tweet: I palestinesi hanno la possibilità di sollevarsi contro Hamas per ritornare liberi. Oppure, Hamas potrebbe arrendersi volontariamente. Due scelte reali. Questa visione non viene promossa in malafede solo dagli apologeti di Israele. Sembra essere diffusa anche tra la gente comune che, presumibilmente, conosce molto poco la storia della Palestina o del colonialismo di ripopolamento, come il movimento sionista che aveva fondato Israele. Approfondiamo quindi brevemente entrambi gli aspetti.

In primo luogo, il colonialismo di ripopolamento si distingue dal colonialismo standard – come il dominio britannico in India – per il fatto che la popolazione dei coloni non vuole solo rubare le risorse della popolazione autoctona, ma sostituire la popolazione nativa stessa. Ci sono molti esempi di questo tipo: come i coloni europei, che avevano scacciato dalle loro terre le popolazioni native in quelli che oggi chiamiamo Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Nel diritto internazionale, la definizione di genocidio descrive esattamente ciò che gli europei avevano fatto a queste popolazioni: stragi; imposizione di condizioni calcolate per portare alla distruzione fisica di tutta o parte della comunità nativa; impedimento delle nascite all’interno della popolazione locale; trasferimento forzato di bambini indigeni alla popolazione dei coloni. I coloni europei, che oggi si chiamano americani, canadesi, australiani e neozelandesi, non hanno mai dovuto rendere conto dei loro crimini contro quelle popolazioni native. Questo forse spiega perché il tweet di cui sopra è così comune – e perché i Paesi europei e le loro propaggini coloniali si schierano oggi contro il resto del mondo per sostenere Israele, mentre intensifica il suo genocidio industriale su Gaza. La verità è che l’ordine mondiale “occidentale” è stato costruito sul genocidio. Israele sta solo seguendo una lunga tradizione.

Non sempre i movimenti coloniali finiscono per commettere genocidi. In Sudafrica, un insediamento coloniale in forte inferiorità numerica era arrivato ad un “accomodamento” con la popolazione nativa: il sistema conosciuto come apartheid. I bianchi si erano appropriati di tutte le risorse e di tutti i privilegi. Ai neri era stato permesso di vivere, ma solo nei ghetti e in condizioni miserabili. In queste circostanze, la pace è possibile solo quando il progetto coloniale viene abbandonato, il potere viene condiviso e le risorse distribuite in modo più equo. Questo era accaduto, in modo imperfetto, con la caduta dell’apartheid.

Il modello finale del colonialismo di ripopolamento è quello di spingere la popolazione nativa oltre il confine, in un atto di pulizia etnica. Questa era stata l’opzione preferita da Israele nel 1948, e di nuovo nel 1967, quando aveva deciso di espandere i propri confini occupando le rimanenti terre palestinesi in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza. I palestinesi di Gaza sono l’esempio lampante dei vari modi in cui una popolazione autoctona può essere maltrattata da un movimento coloniale di ripopolamento. La maggior parte [dei palestinesi] sono rifugiati, o discendenti di rifugiati, costretti a fuggire dalle operazioni di pulizia etnica di Israele del 1948. In altre parole, le case dove erano nati si trovano in quello che oggi chiamiamo Israele. Erano stati cacciati dalle loro terre e costretti in una minuscola enclave, governata per i successivi 19 anni dall’Egitto. Quando Israele aveva occupato Gaza durante la guerra del 1967, aveva dovuto ricorrere alla seconda opzione del colonialismo di ripopolamento: l’apartheid. Così aveva trasformato l’enclave in una prigione a cielo aperto o, se vogliamo essere più onesti, in un campo di concentramento a lungo termine. Gaza è una versione in grande – e, con i 16 anni di assedio israeliano, sempre più dura – delle township che ospitavano le popolazioni nere autoctone nel Sudafrica dell’apartheid. Quello a cui stiamo assistendo ora è l’ammissione da parte di Israele che il modello dell’apartheid non è riuscito a sottomettere il desiderio di libertà e dignità dei palestinesi. A differenza del Sudafrica bianco, Israele non sta cercando la pace e la riconciliazione. Sta rivedendo altre opzioni del colonialismo di ripopolamento. Nell’attuale attacco a Gaza, sta attuando un modello misto: genocidio per coloro che rimangono a Gaza, pulizia etnica per quelli che possono uscire (ammesso che l’Egitto finalmente ceda e apra i suoi confini).

Tutto questo non ha nulla a che fare con Hamas. Il massimo che si può dire è che la resistenza di Hamas ha forzato la mano a Israele. Lo ha costretto ad abbandonare il suo modello di assedio-apartheid – l’imprigionamento a lungo termine di una popolazione senza risorse, senza libertà di movimento, senza acqua potabile, senza lavoro. Invece, è tornato alle formule collaudate del genocidio e della pulizia etnica. Hamas è un sintomo dei decenni di soprusi che i palestinesi di Gaza hanno dovuto subire, non la causa di quei soprusi. Il rovesciamento di Hamas da parte degli stessi palestinesi, o la resa di Hamas, non trasformerebbe Gaza in una Dubai sul Mediterraneo. I palestinesi sarebbero ancora prigionieri, anche se [forse] in condizioni leggermente migliori. Se ne dubitate, guardate alla Cisgiordania, che non è governata da Hamas ma dalla supina Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas. Egli definisce la cooperazione di sicurezza con Israele – schiacciando per conto di Israele la voglia di libertà dei palestinesi – un dovere “sacro”. La sua più grande aspirazione è una soluzione diplomatica che crei un mini-Stato palestinese completamente circoscritto. Se Israele non può concedere la libertà alla Cisgiordania sotto Abbas, come potrà mai dare la libertà alla piccola Gaza, anche senza Hamas, soprattutto dopo che, nel 2020, le Nazioni Unite avevano dichiarato l’enclave praticamente “inabitabile”? Israele non potrebbe mai permettere ai palestinesi di uscire dalla loro prigione di Gaza perché la loro rapida crescita numerica è vista come una minaccia per la maggioranza ebraica di Israele. Ricordate: l’obiettivo del colonialismo di ripopolamento è quello di sostituire la popolazione nativa, non di fare pace con loro, non di condividerne le risorse, non di dare loro la libertà. Israele sta facendo l’unica cosa che sa fare: il genocidio, tra gli applausi dell’Occidente.

Jonathan Cook (tradotto da Markus)

 
Fanatismo messianico PDF Stampa E-mail

4 Novembre 2023 

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 Da Rassegna di Arianna del 31-10-2023 (N.d.d.)

Le parole di Benjamin Netanyahu su “asse del bene contro asse del male”, “popolo della luce contro popolo delle tenebre”, non dovrebbero sorprendere più di tanto quelli che si occupano di storia e geopolitica del Levante senza paraocchi ideologici. Queste, infatti, appartengono al retroterra culturale di quello che si pretende “Stato ebraico” ed hanno pure un loro corrispettivo nelle elucubrazioni pseudoteologiche del cosiddetto “sionismo cristiano” (a questo proposito si possono vedere gli articoli “Messianismo e imperialismo” e “Grandi risvegli e figli della luce”, pubblicati entrambi su www.eurasia-rivista.com). Purtroppo, in Occidente (per un misto di motivazioni ideologiche, geopolitiche e propagandistiche) si tende a sminuire il ruolo del fanatismo messianico che storicamente contraddistingue la società israeliana e che, almeno a partire dal 1967, è stato apertamente sdoganato (mentre prima rimaneva sempre sottotraccia, sebbene già Ben Gurion affermò che l'aggressione all'Egitto del 1956 fosse votata a ristabilire i confini dei Regni di Davide e Salomone). Ad esempio, subito dopo essere arrivato a Gerusalemme Est dopo l'occupazione israeliana (proprio nel 1967), il rabbino capo dell'Esercito sionista Schlomo Goren rilasciò una dichiarazione assai simile a quelle attuali di Netanyahu: “lo spirito di Dio cammina adesso di fronte all'esercito israeliano su una colonna di fuoco per illuminarci la strada verso la vittoria”. Sulla stessa linea d'onda furono le parole di un altro rabbino Zvi Yehuda Kook: “il Regno di Israele viene ricostruito. L'intero esercito israeliano è santo”. Yehuda Kook era figlio di Abraham Kook, migrato in Palestina nel 1904, il quale sosteneva la tesi che il sionismo, per quanto molti dei suoi esponenti fossero laici e socialisti, aveva natura sacra e la sua esistenza fosse segno di imminente redenzione. In altri termini, il sionismo era una “attivazione della storia” e, nello specifico, un'attivazione dell'era messianica: una preparazione all'avvento del Messia. Questo, dunque, significava “forzare la mano di Dio”: un approccio non molto dissimile dal “messianismo blasfemo” dei vari Sabbatai Zevi o Jacob Frank che, in epoca moderna, fecero dell'apostasia (la falsa conversione all'Islam o al Cristianesimo) uno strumento di “teologia del male” (diffondere impurità e caos nel mondo per costringere il divino ad un intervento).

A loro volta i citati “sionisti cristiani” (in molti casi “reborn christians”, o “risvegliati”, prodotto della diffusione di teorie proprie al protestantesimo anglosassone) sostengono l'idea che il ritorno in potenza degli ebrei in Terra Santa acceleri in qualche modo il Secondo Avvento di Gesù Cristo. Va da sé che la stessa guerra del 1967 venne interpretata in termini messianici (sei giorni come quelli impiegati da Dio per la creazione). Una guerra che, è bene ricordarlo, come affermato da Yithzak Rabin (allora Capo di Stato Maggiore dell'esercito israeliano), fu una mera aggressione ai Paesi vicini. In un'intervista a Le Monde del febbraio 1968, questi dichiarò: “Nasser non voleva la guerra e noi ne eravamo al corrente”. Dello stesso avviso era Menachem Begin (New York Times, 1982), allora ministro del governo di unità nazionale: “le concentrazioni dell'esercito egiziano nel Sinai non implicavano un imminente attacco […] Fummo noi a decidere di attaccarlo”. Proprio Rabin, tra l'altro, fu assassinato da un fanatico religioso. La sua colpa era quella di aver intavolato un processo di pace che avrebbe reso ai Palestinesi una pur ridotta parte dei territori occupati (di “terra ebraica redenta”). Eppure, sempre Rabin dichiarò senza mezzi termini di “spezzare le braccia” ai ragazzi che durante la prima Intifada tiravano pietre ai blindati sionisti. Ciò non gli impedì di venir maledetto da alcuni rabbini che contro di lui pronunciarono la celebre “pulsa di nura” (“frustata di fuoco” in aramaico) che ne invocava la morte. Altri si limitarono a dibattere se Rabin fosse un “moser” (un ebreo che dà ai gentili illegalmente proprietà ebraiche e che, dunque, può essere ucciso dopo un processo) o un “rodef”(un ebreo che facilita l'omicidio di un altro ebreo e che, di conseguenza, può essere ucciso senza processo).

Niente affatto sorprendenti (quanto prive di fondamento) anche le tesi di Netanyahu sul presunto coinvolgimento del Gran Muftì Hajj Amin al-Hussein nella preparazione della “soluzione finale” con la Germania hitleriana. In realtà, l'influenza del Gran Muftì sui vertici nazionalsocialisti tedeschi è stata storicamente esagerata proprio per far ricadere sul popolo palestinese una parte della responsabilità per le politiche antigiudaiche del Terzo Reich. E nonostante i suoi sforzi per mobilitare arabi e musulmani alla causa nazionalsocialista, il Muftì ottenne assai poco in cambio  (fatta eccezione per qualche vaga promessa). Netanyahu, inoltre, non sembra ricordare il “Patto Haavara” con il quale i sionisti, nei primi anni di Hitler al governo della Germania, ottennero l'appoggio di Berlino per far migrare migliaia di ebrei tedeschi in Palestina. La stessa Berlino, così facendo, sperava sia di liberarsi del “problema ebraico” (nonostante personalità come Alfred Rosenberg considerassero il sionismo alla stregua di una “organizzazione a delinquere”), sia di indispettire gli inglesi (stesso errore compiuto in tempi diversi sia da alcuni esponenti del fascismo italiano che da Stalin). Interessante, infine, la figura di Vladimir Jabotinsky, ispiratore del sionismo revisionista di cui il Partito di Netanyahu è in qualche modo erede. Jabotinsky è stato a lungo considerato un “fascista”. Ad onor del vero, la sua mistica dell'“ebreo nuovo” (prono verso la violenza) da opporre all'“ebreo diasporico” si mescolava ad una dottrina apertamente liberale che portò il già citato Begin, una volta arrivato al potere nel 1977, ad implementare politiche economiche di stampo liberista ispirate da Milton Friedman e dalla Scuola di Chicago. Begin, dunque, con Thatcher e Reagan entra di diritto nel pantheon delle odierne destre “occidentali” imbevute di pseudoreligiosità e liberismo economico.

Daniele Perra

 
La più grande mistificazione della storia PDF Stampa E-mail

2 Novembre 2023

 Da Rassegna di Arianna dell’1-11-2023 (N.d.d.)

I bambini mutilati e morti nel campo di Jabalya saranno certamente compiaciuti dall'essere stati maciullati da "l'Unica-Democrazia-Del-Medio-Oriente". Figurati come soffrirebbero se fosse stato un dannato governo teocratico.

Prima o poi, ma temo più prima che poi, capiremo che la condotta delle liberaldemocrazie filoamericane in questi anni ha screditato in maniera duratura, forse permanente, l'idea stessa di democrazia, ridotta a burletta per gonzi, a specchietto per allodole consumiste. Alla fiaba ripetuta pappagallescamente ovunque che "le democrazie non fanno la guerra con altre democrazie" è subentrata la consapevolezza internazionale che le liberaldemocrazie a stelle e strisce sono un'associazione di sfruttamento neocoloniale di tutto il resto del mondo, disponibili a qualunque imbellettata atrocità pur di continuare a farlo.

E per non vedere quanto succede le oligarchie che realmente governano le liberaldemocrazie occidentali stanno coltivando la più straordinaria mistificazione delle coscienze della storia, martellando nelle menti ipocrisia e doppi standard come le tabelline.

Non finirà bene.

Andrea Zhok

 
Senza giovani liberi e forti l'Europa è già morta PDF Stampa E-mail

31 Ottobre 2023

 Da Rassegna di Arianna del 27-10-2023 (N.d.d.)

Ormai siamo in un'Europa stragista, che solidarizza con gli stragisti. Ai giovani di valore, a quelli liberi e forti, è assegnato un compito: dire al mondo che l'Europa e gli europei sono un'altra cosa, che esiste un'altra Europa. Degli altri, di quelli viscidi e servili non bisogna curarsi. Non servono a niente, ci sono stati sempre. Ma ai giovani liberi e forti è affidato un compito enorme oggi: salvare la dignità dell'Occidente.

Siamo in mano a una classe politica di vecchi, vecchi culturalmente, che sono rimasti indietro rispetto al cammino della storia, che credono di potere affrontare le sfide del mondo attuale come se fossimo negli anni ‘80 o nel periodo delle cannoniere. La retorica tradisce l'inceppamento del pensiero. Non si sta capendo che siamo arretrati, che siamo rimasti indietro rispetto agli eventi e al corso della storia. Che tutto il nostro apparato concettuale non tiene il passo.

Il tramonto dell'Occidente non è un destino inesorabile. Ma lo diventa se non riscopriamo un altro modo di stare nel mondo multipolare, se non riscopriamo che cosa vuol dire essere europei oggi. L'Europa non ha più un primato, da nessun punto di vista, né economico, né militare né culturale, ma questo non significa che non abbiamo un futuro e un ruolo nella storia mondiale. Dobbiamo solo abbandonare la supponenza dei valori occidentali e disporci a vivere con gli altri in un mondo multipolare. Creando una filosofia della contaminazione e non dello sterminio culturale e di ogni alterità. Pensare di essere la guida e la punta avanzata ci sta rendendo ridicoli. Oramai è sotto gli occhi di tutti la nostra ipocrisia, i due metri, l'uso dei diritti umani a mero scopo di dominio. Rischiamo di restare ai margini della storia, a raccontarci tra noi quanto sono belli i nostri valori e che bel giardino abbiamo costruito, a trastullarci nei miti della von der Leyen, credendo di essere il futuro ed essendo invece scorie di un passato che non torna.

Soprattutto dai giovani deve venire uno scatto di coraggio, magari pagando qualche prezzo, ma obbedire a degli ufficiali che fanno affondare la nave può essere un prezzo più salato. Non so se ci sono questi giovani liberi e forti. Se non ci sono allora l'Europa, la sua cultura e la sua tradizione è giusto che crollino, perché è già morta, e non ha più alcuna funzione nella storia del mondo. La storia ha la sua saggezza. Ciò che è morto se lo lascia alle spalle.

Vincenzo Costa

 

 
Attenti all'Argentina PDF Stampa E-mail

30 Ottobre 2023

 Da Comedonchisciotte del 27-10-2023 (N.d.d.)

Italiani ed argentini sono da sempre due popoli culturalmente simili ed in particolar modo legati tra loro da numerose storie di vita familiare provenienti dal massiccio fenomeno di immigrazione, che dal 1850 al 1959 ha portato molti nostri connazionali a trasferirsi nella terra del tango e del pallone: il calcio, altra profonda passione che lega i nostri due popoli. Con una liaison parentale così stretta ed il conseguente formarsi di centri di potere affini nei due paesi, non dobbiamo certo meravigliarci se con il passare del tempo, anche le figure politiche risultano del tutto assimilabili nel modo di agire. Come, ad una attenta analisi, non può sfuggire la linearità di certe ricette di politica economica che i governi di Roma e Buenos Aires hanno messo in atto in questi anni. Insomma, tanto per arrivare subito al sodo, ad entrambi i popoli è stata somministrata la medesima ricetta che i poteri profondi sono soliti impiegare per i loro fini predatori: con la solita scusa di prevenire o far fronte ai vari fenomeni inflattivi, costringono i paesi ad usare una moneta che non controllano, dentro la ben nota gabbia dei cambi fissi e conducendoli ad uno status precostituito di una perenne scarsità di moneta che li catapulta direttamente nelle sabbie mobili di un debito infinito.

Non stiamo certo qua a ricordare i vari default argentini, tutti ricondotti appunto all’errata politica (sopra menzionata), applicata ad una moneta, il pesos, più volte costretto ad un peg con il dollaro per poi correre a sganciarlo, onde evitare l’escalation del dramma sociale provocato appunto da questa parità monetaria. Questo per controllare una inflazione da sempre galoppante, causata però dalle stesse politiche fiscali messe in atto negli anni dai governanti di stanza alla Casa Rosada, poi spesso risultati corrotti. In questi giorni, gli argentini come gli italiani – costretti da decadi a vivere in una pessima economia e con una inflazione che ha superato il 120% – sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente. Il 22 ottobre scorso si è conclusa la prima tornata, che ha visto prevalere l’attuale ministro dell’Economia Sergio Massa (36,68%) sul candidato di destra Javier Milei (29,99%); ma non avendo superato il 50 per cento, la parola fine sarà messa al ballottaggio tra i due che si terrà il prossimo 19 novembre. Pare proprio, in linea con quanto ormai avviene da anni nel belpaese, che chiunque vinca dei due, non porterà a migliorare di un pesos la già precaria situazione economica in cui versa da sempre la maggioranza del popolo argentino. Anzi, a sentire le proposte più volte ribadite in campagna elettorale dal candidato ultraliberista Javier Milei, il dramma sociale nella terra di Diego Armando Maradona, potrebbe raggiungere vette ancora più drammatiche. Milei, propone tutte cose a noi ben conosciute e già sperimentate: dalla privatizzazione di settori e monopoli pubblici, ai tagli drastici nella pubblica amministrazione, fino a prospettare addirittura l’eliminazione della Banca Centrale. “El Peluca”, “il parrucca” – così come viene chiamato in Argentina Milei, per via della folta capigliatura e diciamo poco ordinaria che lo accomuna, colore a parte, a Donald Trump – non ha bisogno di una banca centrale, visto che intende farsi fornire la moneta da usare dentro il paese, direttamente dalla Federal Reserve. Sì! avete compreso bene, il sosia del mago Silvan, senza mezzi termini né la minima vergogna, vuole che il dollaro prodotto negli Stati Uniti diventi la moneta a corso legale in Argentina. E pensare che tale follia monetaria, viene proprio da chi – prima di diventare un volto noto, con un’impennata di ospitate in programmi di radio e TV – era un docente universitario di macroeconomia.

Insomma, il percorso di El Peluca, per arrivare a scalare le poltrone della politica ricorda molto da vicino, tanto per fare un esempio, quello del professor Alberto Bagnai, oggi senatore nelle file della Lega. Anche lui esperto di macroeconomia e moneta che dalle verità televisive in materia, è passato all’accettazione delle frodi propinate dal pensiero neoliberal, non appena appoggiato il posteriore sulle comode poltrone parlamentari. Milei, che per anni in Tv attaccava tutti – dal presidente conservatore Mauricio Macrì prima e poi il suo successore peronista Alberto Fernandez, erigendosi a rottamatore della vecchia classe politica – in salsa Renzi, tanto per intendersi – non a caso, proviene da una famiglia con avi italiani, seppur di origini modeste. Tanto per acchiappare i voti del dissenso, Milei, come un Salvini qualsiasi, si dichiara vicino a Trump e nemico di ogni casta politica, negazionista sul cambiamento climatico, contrario all’aborto e all’educazione sessuale, vista come una specie di complotto contro la famiglia tradizionale. In compenso, tanto per mantenere fede alle politiche di austerità estrema ed al progetto politico di una Sanità totalmente privata, è persino favorevole alla vendita di organi per risolvere il problema delle liste d’attesa per i trapianti. Anche lui, come i vari Grillo, Renzi, Meloni e chi più ne ha più ne metta, non appena vinte le primarie ha esultato gridando a gran voce: «metteremo fine alla casta parassitaria, ladra e inutile di questo Paese»

È chiaro come sia sufficiente mettere in fila questo tipo di identici comportamenti per comprendere come dietro alle figure politiche argentine ci siano gli stessi presupposti ed i medesimi fili che muovono anche quelle italiane. Ma la cosa che più ci deve stupire e far comprendere come l’ipocrisia del potere stia facendo un ulteriore balzo in avanti in quella che è la strategia di perenne inganno del popolo, è che ormai non esiste più alcun tipo di remora da parte dei vari politici a mettere in gioco la propria faccia. Il tweet dei giorni scorsi, con il quale il deputato leghista Claudio Borghi stigmatizza le proposte di Javier Milei, credo sia da classificare ai massimi livelli in quella che può essere rappresentata come una ipotetica scala che va oltre ogni limite all’ipocrisia: eppure, pochi mesi fa attraverso fatti esposti in due miei articoli, avevo ritenuto di dare fiducia a Claudio Borghi – per le verità espresse sugli annosi temi riguardanti le nostre cessioni di sovranità alla UE, a partire da quella monetaria – promettendomi naturalmente di verificare il percorso pratico di questa sua apparente onestà intellettuale, che pareva essere il primo squarcio di sole dentro la perenne tempesta del pensiero unico a cui tutta la nostra classe politica si è allineata in questi anni. Ed invece, ahinoi! ho dovuto ricredermi abbastanza velocemente… Già con le dichiarazioni post-Pontida, sul presunto effetto benefico che l’inflazione avrebbe – secondo il deputato leghista – sul nostro debito pubblico, i dubbi su un Borghi che si distacca dal canonico allineamento trasversale al Sistema che guida la nostra classe politica, erano venuti fortemente a galla. Adesso con questo tweet dove l’economista della Lega addebita a Milei esattamente tutto il peggio che la classe politica stessa ci ha fatto ingoiare in questi anni a livello di scelte in tema di economia e moneta, la sua credibilità, per quel che mi riguarda, è tornata pari a zero. Tagliare la spesa pubblica ed usare una moneta straniera che non controlli, è esattamente quello che tutti i nostri governi indistintamente hanno messo in atto da quando è stata presa la decisione di entrare nell’euro. Quindi, le accuse che Borghi rivolge al candidato alla presidenza dell’Argentina, il quale afferma di voler usare il dollaro (una moneta straniera per il suo paese esattamente come l’euro per noi) e tagliare la spesa pubblica, sono figlie della più idiota ipocrisia che un politico possa esprimere. Tutto questo per il solito fine ricondotto ad una eterna campagna elettorale per accaparrarsi quel consenso che permetta loro di mantenersi la calda posizione raggiunta. Se un professore  esperto in temi macroeconomici e monetari come lo è Claudio Borghi, si riduce a questo tipo di esternazioni, atte esclusivamente a buttare fumo negli occhi ai suoi elettori poco esperti in materia, significa che veramente la nostra classe politica nell’esprimersi, sta andando oltre ogni livello di pensiero moralmente consentito.

Per concludere, consiglio di tenere d’occhio le vicende argentine, proprio perché Milei, in caso di vittoria, oltre a garantire la legalizzazione delle droghe e la prostituzione, abolire tutti i sussidi statali e la rete di sicurezza sociale, promette anche di ritirare l’Argentina dai BRICS+; una mossa, questa, che pare proprio essere finalizzata a rompere il fronte di questo gruppo di paesi – capitanati da Cina e Russia – che stanno portando fuori il mondo dall’influenza geopolitica del dollaro e dell’euro.

Fabio Bonciani

 
Il caos regna sovrano PDF Stampa E-mail

28 Ottobre 2023

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 Da Rassegna di Arianna del 24-10-2023 (N.d.d.)

Il progetto di un nuovo ordine mondiale a guida americana, teorizzato alla fine della “Guerra Fredda”, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, appare miseramente fallito. Il modello di un villaggio globale, pacificato e senza frontiere, regolato dal mercato con i gendarmi USA a vigilare, si sta rivelando inapplicabile nella realtà. Le crisi si moltiplicano in varie zone del pianeta sfociando sempre più spesso in guerre che, inizialmente limitate ad alcuni attori, rischiano di espandersi con conseguenze che nessuno può prevedere. Sono tante le aree dove una scintilla può innescare incendi devastanti. Tuttavia, per le cancellerie occidentali, non tutte assumono la stessa rilevanza. Poca attenzione merita infatti la sanguinosa disputa tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh così come la drammatica situazione dell’Etiopia con oltre 600 mila civili morti e 2 milioni e mezzo di sfollati, che vive una calma solo apparente. Per il mancato rinnovo dell’accordo sul cessate il fuoco, sembra giunta al termine la fragile tregua nello Yemen, tra il governo ed i ribelli Huthi, in un conflitto che dura da 8 lunghi anni. Divampano, nel silenzio dei media, le violenze e gli scontri nella regione dei Grandi Laghi, nella parte orientale del Congo, tra i ribelli ruandesi che hanno assunto il controllo di numerose città e villaggi e le truppe regolari del Governo di Kinshasa. In Sudan da 5 mesi è scoppiata una guerra civile oscurata, con scontri tra le Forze armate sudanesi fedeli al capo di stato maggiore, generale al-Burhan, e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Fsr), guidati da Mohammed Dagaloche si contendono il potere con sempre maggiore violenza. Gli sfollati interni sono più di quattro milioni, ed oltre un milione e 130mila sono i profughi fuggiti nei paesi confinanti. C’è da segnalare poi la tragica condizione in cui versa il Sahel subsahariano, afflitto da una gravissima crisi alimentare che, grazie anche all’indifferenza dei paesi ricchi interessati soltanto alle enormi quantità delle pregiate materie prime presenti nel sottosuolo, ha contribuito a fare di quella regione l’epicentro mondiale di reclutamento del terrorismo jihadista. I predicatori islamici sfruttano la povertà della popolazione, la fragilità e la corruzione dei governi per ingrandire sempre più le loro schiere. Da Mali, Burkina Faso, Mozambico parte uno sciame sismico di violenze che, attraversando tutto il continente, si estende fino al Maghreb con ripercussioni sulla stabilità dei paesi dell’Africa mediterranea dalle cui sponde si dipanano i flussi migratori sempre più massicci ed incontrollati che rappresentano i maggiori pericoli per l’Europa, minacciata nella sua identità e sicurezza. I politici europei dimostrano di curarsi poco delle turbolenze che scuotono il Continente Nero e fanno male perché questi sommovimenti sono destinati a provocare lo spostamento di masse di milioni di uomini, pronti a riversarsi sulle nostre coste con un’invasione che solo inizialmente potrebbe sembrare pacifica.

L’Occidente, viceversa, mostra di preoccuparsi solo ed esclusivamente di Ucraina e Medio Oriente. La guerra scoppiata al centro del Vecchio Continente, dopo un anno e otto mesi non sembra destinata a concludersi in tempi brevi. Zelensky continua a chiedere armi sempre più sofisticate per ottenere quella vittoria di cui ha enormemente bisogno ma la tanto pubblicizzata offensiva volta a riconquistare i territori perduti non sembra aver ottenuto i risultati sperati e l’inizio della stagione invernale rallenterà, se non azzererà del tutto, le operazioni militari. A questo punto se i due contendenti non accetteranno di avviare trattative diplomatiche rischiamo di ritrovarci, la prossima primavera, con la ripresa dei combattimenti di una guerra senza fine, costosissima in termini sia umani che economici. È auspicabile che il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese possa almeno far scendere a più miti consigli l’intransigente presidente ucraino. Questa nuova situazione esplosiva nella delicatissima area mediorientale è destinata a distrarre inevitabilmente l’attenzione dei paesi suoi protettori aderenti alla NATO che, tra l’altro, già avevano cominciato a lanciare segnali di insofferenza per la sua chiusura verso ogni forma di trattativa oltreché per le continue e sempre più pressanti richieste di aiuti a fronte dei quali non si mostra mai pienamente soddisfatto.

L’esplosione della guerra tra Hamas ed Israele ha colto tutti di sorpresa, rimettendo in discussione alleanze e strategie ed il Cremlino ha subito intuito come questo rinnovato scontro potesse rappresentare una grande fortuna. Oltre alle dirette conseguenze, in termini di riduzione di rifornimenti e di attenzione mediatica, nel conflitto con l’Ucraina, la Russia godrebbe di altri due importanti vantaggi: il primo un’impennata dei prezzi di petrolio e gas che porterebbero notevoli benefici alla sua economia, il secondo proprio quello di mandare all’aria i piani americani per il Medio Oriente. Hamas ha già servito gli interessi russi ed iraniani rinviando a tempo indeterminato il ventilato accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita, per il quale l’America ha speso molto tempo e sforzi, ora, con questa azione, lo ha fatto definitivamente fallire. Malgrado gli ottimi rapporti personali tra Netanyahu e Putin – Netanyahu era solito chiamare Vladimir Putin “caro amico”- la Russia si è chiaramente schierata dalla parte dei palestinesi. Il decisivo aiuto concesso alla Siria del legittimo presidente Assad contro le milizie ribelli finanziate e foraggiate dall’esterno e le relazioni sempre più calde con l’Iran avevano già creato tensioni con Israele ora, naturalmente, i rapporti sono destinati a peggiorare.

Finora la Cina si è limitata a esprimere preoccupazione per l’attuale escalation di tensioni e violenza tra Palestina e Israele, ma non dubitiamo che sarà ben felice di vedere l’America impantanata nella regione e la sua autorità messa in discussione. All’inizio di quest’anno, Pechino aveva contribuito a mediare per un riavvicinamento tra l’Iran e l’Arabia Saudita, coltivando la speranza di minare l’ordine mondiale guidato dagli americani. Forse non era a conoscenza dei piani di Hamas, ma è improbabile che sia dispiaciuta dello scompiglio che questo attacco ha provocato.

Biden annaspa, apparentemente spiazzato dell’azione di Hamas che, ci dicono, inaspettata anche se appare poco credibile che i servizi di sicurezza israeliani e le diverse agenzie di intelligence USA non abbiano avuto il minimo sentore di quanto si stesse preparando. Sembra invece più probabile che abbiano sottovalutato la fondatezza delle informazioni giunte. Naturalmente non lo ammetterebbero mai in quanto aver saputo e non aver fatto nulla, risulterebbe ben più grave della semplice inettitudine. In astratto, poi, ci sarebbe anche una terza ipotesi: aver saputo e non aver “voluto” fare nulla… Tra i primi atti di Biden, dopo l’iniziale disorientamento, c’è stato l’appello, lanciato dallo Studio Ovale, agli americani ed al Congresso, affinché si continuasse nell’azione di sostegno nei confronti di Ucraina ed Israele battendo sul solito tasto: la pace è in pericolo e bisogna combattere con la massima determinazione tutti coloro che attentano all’ordine mondiale di cui gli Stati Uniti sono garanti. Il suo discorso è stato chiarissimo: sostenere Ucraina e Israele è nel nostro interesse, è vitale per la “nostra” sicurezza nazionale. Ha ripetuto il solito cliché di accuse a Putin e Hamas di rappresentare minacce diverse ma con un obiettivo in comune: annientare le democrazie che sono loro geograficamente vicine condito con l’accorato appello finale: non possiamo lasciarli vincere! Nei prossimi giorni, si appresta a chiedere al Congresso 100 miliardi di dollari per finanziare le necessità di sicurezza nazionale americana e sostenere Kiev e Tel Aviv. Intanto mostra i muscoli inviando due portaerei nella regione per mostrare a tutti che sono disposti, come sempre, a ricorrere all’uso della forza quando i loro interessi vengono minacciati.

Malgrado questo sfoggio di potenza militare, l’influenza USA nel mondo sembra molto meno solida ed estesa rispetto al passato e la recente, disastrosa fuga dall’Afghanistan, non ha certamente contribuito a mantenere alto il prestigio statunitense. La Cina continua a farla da padrona in Africa e tiene costantemente sotto pressione Taiwan; i paesi che aderiscono al BRIC sono sempre più numerosi e molti di loro stanno crescendo sempre di più come potenze regionali sia in Asia che in Sud America e mostrano di tollerare sempre meno l’ingerenza di Washinton nei loro affari.

Il progetto del nuovo ordine mondiale sembra essersi decisamente arenato, gli Stati Uniti hanno perso la loro funzione di garante e gendarme ‘planetario. Il caos sembra regnare sovrano. E non è detto sia un male!

Mario Porrini

 
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