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Sospettare sempre PDF Stampa E-mail

20 Gennaio 2020

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Da Rassegna di Arianna del 18-1-2020 (N.d.d.)

 

[…] In effetti, la diffusione di uno sguardo ondeggiante ai confini di una 'teoria del complotto' è divenuta oggi una precondizione, paradossalmente necessaria, per ottenere uno sguardo realistico sulla politica mondiale contemporanea. È naturalmente una forma mentis assai rischiosa, in cui la possibilità di cadere in atteggiamenti paranoidi è sempre latente. La necessità di questo atteggiamento di sistematico sospetto deriva da una riflessione fredda, e strettamente razionale, sui funzionamenti di base della politica internazionale contemporanea. La situazione è caratterizzabile sommariamente attraverso cinque considerazioni:

 

1) La diffusa presenza di democrazie, o comunque di sistemi in cui la popolazione vota, rende cruciale per qualunque attore politico di rilievo di curarsi attentamente dell'opinione pubblica, di influenzarla quando possibile, di definirne l'agenda delle priorità. 2) L'opinione pubblica contemporanea è formata prevalentemente da organismi mediatici la cui implementazione è estremamente costosa, ed è dunque controllabile solo da esigue minoranze. 3) Proprio il fatto che gli apparati mediatici (nel senso più esteso del termine) siano tendenzialmente assai costosi implica che chi è nelle condizioni per manipolarli appartenga a ceti che hanno di norma specifici interessi comuni. Con l'eccezione di eventuali emittenti di stato, di eventuali stati non governati da portavoce del capitale, nella stragrande maggioranza dei casi i 'produttori di informazione' appartengono a gruppi che, al netto di altre differenze, hanno interessi comuni nel prendersi cura dei profitti di capitale. 4) Sul piano tecnologico per moltissime notizie, soprattutto quelle che riguardano nazioni distanti, eventi di portata geopolitica, scontri armati, ecc. bisogna passare attraverso le forche caudine di apparati satellitari e installazioni militari. Tali informazioni sono, anche tecnicamente, infinitamente manipolabili: si può letteralmente costruire ciò che si vuole sia sul piano dell'immagine che (più importante ancora) su quello del contesto in cui sarebbe stata presa l'immagine, contesto che è noto solo a chi fornisce l'immagine stessa (nel caso in cui la fornisca, e non si limiti a dire di averla). 5) A parte la falsificabilità nel senso più diretto, esiste poi una seconda necessaria forma di falsificazione diffusa, che concerne la selezione delle notizie. Per ogni evento di ogni genere esistono continue istanziazioni nel mondo. L'operazione selettiva che si impone ad ogni 'produttore di informazione' è perciò drastica. Rispetto ai milioni di eventi, all'infinità di circostanze variegate e contesti intriganti, si deve ogni giorno operare una selezione di qualche decina di voci. E naturalmente solo le voci che avranno spazio e di norma anche qualche enfasi verranno a costituire una base per la discussione pubblica. Chiaramente una tale parzializzazione (necessaria) della verità segue criteri di scelta che sono di per sé definitori del tipo di verità che l'opinione pubblica andrà ad incontrare. Classi di notizie reiterate definiranno l'agenda. Eventi omessi o 'riportati per dovere di cronaca' rimarranno ai margini. La realtà nel suo complesso farà capolino solo come scusa per confermare tesi preesistenti. Ora, nei romanzi polizieschi, quando si cercano indizi di un delitto si cerca di determinare se c'è il movente, se c'è la possibilità concreta di commettere il misfatto, e se sia disponibile l'arma del delitto.

 

Qui moventi, capacità e mezzi materiali sono chiarissimi. Il correttivo immaginato dai teorici liberali è radicalmente inadeguato. Tale correttivo sarebbe rappresentato dalla pluralità di interessi contrapposti tra i vari agenti informativi, ma tale pluralità è largamente illusoria. Essa è illusoria in termini di interessi economici coinvolti (che competono solo su questioni di piccolo cabotaggio, mentre sono essenzialmente legate alla difesa dell'autoriproduzione del capitale). Ed è illusoria quanto ad impatto degli attori internazionali coinvolti. Gli USA hanno una capacità di influenza e controllo diretto ed indiretto incomparabilmente superiore ad ogni altro attore sulla scena internazionale, e dove una voce 'accreditata' (USA e amici) confligge con una non accreditata (resto del mondo) la seconda appare semplicemente come folclore. In questo contesto le possibilità aperte sono tre. Ci sono quelli che, nutriti a filmografia hollywoodiana, predecidono nel foro interiore che le versioni mainstream (approvate o approvabili dalle linee di interesse 'filooccidentali', cioè filoamericane) sono comunque comparativamente più credibili.

 

Ci sono poi quelli che, o per bastian contrario antiamericano o perché risiedenti in paesi con un forte apparato mediatico diversamente orientato (Cina, Russia, Iran, ecc.) tenderanno a dare per default maggiore credito a qualunque cosa smentisca le tesi mainstream. Infine, a quelli che cercano, con i poveri mezzi a disposizione, qualche scampolo di verità non resta che l'adozione di una sistematica politica del sospetto, cui si applica sistematicamente la domanda 'cui prodest?', a chi giova?

 

Ma è sin troppo evidente che sotto queste condizioni il massimo di richiesta di verità confini necessariamente, e in un equilibrio sempre precario, con il massimo di disponibilità a credere a versioni alternative, nascoste allo sguardo. Massima razionalità e rischio di paranoia danzano perciò pericolosamente su un confine impervio.

 

Andrea Zhok

 

 
L'entropia abbatte il totem del PIL PDF Stampa E-mail

19 Gennaio 2020

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Da Rassegna di Arianna del 17-1-2020 (N.d.d.)

 

Ha sostenuto qualcuno che abbiamo molte più cose in comune con un albero che con un transistor. Anche il neomarxista francofortese Ernst Bloch ha una lezione da impartire: la nostra tecnica sta alla natura come un esercito straniero di occupazione. Non c’è dunque che da seguire il consiglio di Martin Heidegger: colui che rispetta l’ambiente salva la terra, non la padroneggia né la assoggetta. Armati di questi principi basici, tentiamo di orientarci individuando un corpo di idee a sostegno di un’agenda ambientalista fondata sull’uomo. Innanzitutto una considerazione generale: l’attuale atteggiamento umano di sfruttamento intensivo delle forze della natura è in contrasto con le acquisizioni della fisica quantistica e della termodinamica. Ci comportiamo come se l’uomo-Titano non facesse parte della natura e del mondo. L’intera attitudine tecnoscientifica occidentale contemporanea ha scavato un fossato tra l’essere intelligente dotato di volontà di potenza- l’uomo- e l’ambiente in cui vive. Assurdo: lo dimostrò assai bene il principio di indeterminazione di Heisenberg. Nell’ambito della realtà, le leggi naturali non permettono una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo, ed ogni analisi è inficiata dalla presenza “interna” del soggetto calcolante.

 

Il modello industrialista e consumista, dunque, non è neutro neanche dal punto di vista scientifico. È sin troppo agevole citare disastri assoluti come la quasi totale scomparsa dell’immenso lago di Aral – la cui superficie originale era pari a quella complessiva del Piemonte, del Veneto e della Lombardia, per le improvvide politiche industriali ed energetiche dell’Unione Sovietica. Potremmo continuare, ricordando le devastazioni attuali in Cina e la pratica del fracking, l’estrazione del gas di scisto in Nord America attraverso l’immissione di enormi quantitativi d’acqua, la cui pressione provoca la frantumazione del terreno e il suo inquinamento, o la generalizzazione di OGM, organismi geneticamente modificati. Conviene fermarsi, registrando il paradosso di Easterlin, l’economista che dimostrò l’indipendenza della felicità individuale e collettiva dall’ aumento del reddito disponibile. Il totem del PIL e della cosiddetta “crescita”, legata esclusivamente al valore monetario delle attività umane, è falso, un’invenzione di economisti legati al sistema dominante. La bioeconomia e gli studi di Georgescu Roegen, poi, attraverso l’analisi del secondo principio della termodinamica, hanno confermato che nessuna scienza umana può evitare di tenere conto delle leggi della fisica, ed in particolare del Secondo principio della Termodinamica, secondo il quale, in un sistema chiuso, alla fine di ogni processo, la quantità di energia, dunque la possibilità di un suo successivo riutilizzo, è sempre inferiore rispetto all’inizio. L’ entropia, quindi, nega in radice la possibilità della crescita infinita e richiama le scienze economiche a tenere conto della finitezza del sistema-chiuso Terra. Uno dei padri della cibernetica, l’epistemologo Gregory Bateson va oltre, parlando dei “processi monotònici”, quelli cioè che procedono in una sola direzione. Gli alberi non crescono indefinitamente, gli animali e gli uomini neppure. I processi monotòni non esistono né in biologia, né nel funzionamento delle macchine e tanto meno possono funzionare nelle società umane. Un colpo durissimo all’idea di crescita indefinita, di determinismo, progresso lineare, del “dopo “e del “nuovo” sempre superiori, migliori, di “prima” e “vecchio”. Insomma, è del tutto evidente che procediamo spediti verso l’esaurimento delle risorse, con conseguenze inimmaginabili sulle specie, ivi compresa quella del superbo homo sapiens misura di tutte le cose. Se non vogliamo la distruzione dell’unica casa in cui possiamo vivere, non resta che tornare a un principio dimenticato, quello di bene comune. Un concetto filosofico ed etico da applicare innanzitutto alla Terra. Proclamare con solennità che il pianeta è il bene comune per eccellenza ci fa uscire dalle secche dell’arroganza tecnocratica, dal titanismo e dal prometeismo per cui ci convinciamo di essere in grado di padroneggiare, orientare, comandare i fenomeni naturali. Poi c’è il principio di prudenza, ovvero non mettere mano a nulla di cui non sappiamo prevedere le conseguenze. Ciò rimanda a una visione olistica della vita, che recuperi tanto la memoria del passato che l’aspettativa del futuro, mettendo finalmente da parte la centralità del presente, la sua assolutizzazione insensata, l’”odiernità” tematizzata da Marcello Veneziani. L’idea di progresso vive in un orizzonte lineare, al quale va contrapposta una visione circolare della vita, analoga al ciclo delle stagioni, che è quello della natura. Al breve termine, al “tempo reale” dell’informatica, vanno contrapposti i tempi lunghi, i ritmi naturali.  Si tratta, inutile ribadirlo, di sottrarsi alla logica invertita del Mercato e del consumo. Tutto e subito non fa parte del patrimonio “naturale”, ma occorre sconfiggere il pensiero calcolante, che vive dei bollettini di borsa, delle previsioni a breve termine, delle scadenze ravvicinate del profitto degli azionisti delle società anonime. Persone giuridiche da subordinare finalmente alle persone fisiche e ai viventi. La misura deve prevalere sulla dismisura, la realtà naturale sulla sola ragione economica, la cui prevalenza ha dimostrato la sua disumanità nutrita di indifferenza nei confronti di qualsiasi ostacolo. […]

 

Noi intendiamo restare sul terreno dell’umanesimo, ma per riuscirci dobbiamo sgomberare il campo dal senso di onnipotenza che ha pervaso la nostra civilizzazione. L’uomo è parte della natura; per la sua intelligenza ha dei diritti sul creato, ma non quello di disporne a piacimento, tanto meno di disprezzarlo o considerarlo un giardino di cui cogliere i frutti senza riguardo per le altre specie, per i viventi, per l’equilibrio del sistema e, infine, per la sua stessa sopravvivenza.  […] Una società che considera l’uomo una cosa tra le altre, vive in un’incultura del rifiuto che, nel campo ambientale, va di pari passo con l’incultura dei rifiuti, in cui diventa scarto tutto ciò, uomo, animale, vivente o prodotto, non più utile al circuito mortale “produci, consuma, crepa.” L’idea di misura e di prudenza, dicevamo all’inizio, non può essere disgiunta da quella di bene comune. Nel mondo contemporaneo, la conoscenza, ovvero la sapienza, è un fastidio non sopportato, in nome della “prassi”, nel nostro caso la corsa a scoprire, inventare per produrre e consumare, sinonimo di esaurire, gettare via. […]  Serve un salto logico, un cambio di paradigma, che possiamo paragonare alla metafora del cane di Crisippo, filosofo stoico greco. Per rintracciare i comportamenti logici elementari, Crisippo indicava una triplice alternativa, simboleggiata dal cane da caccia che, arrivato a un fosso nella ricerca della lepre, dopo aver annusato invano a destra e sinistra lungo la riva, non esita a saltare al di là del fosso. Nel nostro caso, significa reagire dinanzi all’alternativa inconcludente tra immobilismo e rincorsa distruttiva. Il consumismo produttivista, osserva Serge Latouche, ha colonizzato l’immaginario. Noi pensiamo in termini di consumo, di novità continue, di apparati tecnici e modalità esistenziali che disseccano le fonti dell’esistenza. Il cane di Crisippo salta il fosso, noi umani, come Amleto ricorda ad Orazio, dobbiamo rammentare che ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne può contenere il nostro falso progresso. La forma merce come immagine del mondo va respinta. Decolonizzare l’immaginario significa molte cose: una è accogliere la distinzione cruciale proposta da Maurizio Pallante tra beni e merci. I beni sono tutto ciò- cose, comportamenti, modi di essere- che soddisfano bisogni; le merci sono ciò che viene scambiato con denaro, e possono sia soddisfare bisogni, nel qual caso sono anche beni, sia non soddisfarne alcuno.  La distinzione è capitale; basta da sola a definire una visione “ecologica” della vita, nel senso ampio di compatibile con la nostra natura migliore e con l’ambiente circostante. Se pensiamo, negli atti quotidiani, a creare, produrre ed usare beni e non solo merci, avremmo decolonizzato l’immaginario dal mito incapacitante del consumo che diventa compulsione e si trasforma in modus vivendi e, concretamente e rapidamente, in rifiuto da smaltire per l’irruzione di nuove merci definite “migliori”, più “avanzate” e progredite, che dobbiamo assolutamente possedere e presto dimenticare. L’ambientalismo, inoltre, rifiutando la distruzione e la riduzione del creato e dei viventi a semplici strumenti, possiede una dimensione spirituale a cui attingere per allontanarci dai materialismi e determinismi che hanno riconfigurato comportamenti e visioni dell’esistenza ad immagine del mercato. La cultura del bene comune ci allontana dall’idea cui accennavamo, quella del rifiuto e dei rifiuti, materiali e morali. L’entropia è dissipazione, l’ecologia è conservazione, tradizione, trasmissione, responsabilità liberamente assunta. La “crescita” non può essere un dogma economicista da misurare in denaro, reddito, distribuito in maniera sempre più moralmente perversa. Non sappiamo dire se la decrescita sia un’opzione valida o uno slogan invitante, ma è evidente che, al di là del nome che si è data, il progetto di spezzare un cortocircuito dello scambio misurabile in denaro e della ragione del profitto unica legge, è l’unica via per sottrarsi al colonialismo mentale e materiale che subiamo. L’idea di progetto, il pensare altrimenti ci libera dalla dittatura del presente, dall’indifferenza per gli altri e per il domani. Che cosa hanno fatto per noi i posteri, si domandava Groucho Marx, ripreso da Woody Allen? Nulla, naturalmente, ma abbiamo il doppio dovere di non consegnare loro un deserto le cui oasi sono cumuli di spazzatura, oltreché di consentire la nascita di nuove generazioni. Ecco dunque i primi “beni comuni”: la Terra, ciò che contiene, le sue diversità – umane, animali, vegetali e il suo futuro, per la parte che dipende da noi. Quindi, bisogna decolonizzare un altro immaginario: quello del possesso e della prevalenza dell’interesse privato. La privatizzazione del mondo, i padroni universali che ci espropriano di tutto, materialmente e spiritualmente, devono essere combattuti sul terreno etico, poi ideologico e infine politico. Alcuni elementi centrali delle società umane vanno riconquistati alla sfera pubblica, restituiti alla dignità di bene comune. Lo Stato, argine all’iperpotere delle oligarchie, le comunità locali, la cui prossimità al territorio è la garanzia di conoscenza dei problemi e capacità di risolverli, e poi alcune strutture economiche essenziali. Non si può lasciare in mani private l’acqua, altro bene da dichiarare patrimonio comune, né permettere il controllo oligarchico delle reti di telecomunicazione, delle fonti energetiche, delle cure sanitarie, delle sementi agricole. Vasto programma nel quale dovremmo includere la libertà e la pluralità della Rete, dei mezzi di informazione e molto altro. A ben guardare, si tratta invece di un programma ecologico e politico minimo, centrato sull’idea di bene comune, un principio da trasformare in vera e propria bussola, perimetro indispensabile, la cornice minima per uomini di buona volontà decisi ad agire e a non lasciarsi dominare da una macchina tecnica, produttiva ed economica amorale, ingiusta, distruttiva. Uscire, per ecologia morale, da un sistema la cui unica ragione è strumentale e la cui unica regola è il profitto non è una scelta politica, ma un’urgenza esistenziale. L’alternativa è semplice, la deriva verso una distruzione che è, per alcuni, fonte di profitti e perfino di prestigio. L’industrialismo sedicente ecologico che ci preparano affigge il cartellino del prezzo su ciò che una volta era gratis. Aria pulita, silenzio, suolo fertile, vengono commercializzati come se dovessero essere espressamente prodotti da una particolare progettazione e tecnologia. Esiste ancora, sul pianeta Terra, un bene comune, qualcosa di puro, gratuito, privo di codice a barre, non compravendibile sul mercato?

 

Roberto Pecchioli

 

 
La green economy non cambia niente PDF Stampa E-mail

18 Gennaio 2020

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Si sente parlare molto spesso di cambiamento, svolta epocale, green economy, “nuovo modello di sviluppo”, e simili. Ma in realtà non si vuole cambiare niente: infatti in queste espressioni è sottinteso che ogni modifica dovrà avvenire mantenendo ben saldi i principi e i valori della civiltà industriale, che non si vogliono assolutamente toccare.  Non si rinuncia mai a quella parola magica: “sviluppo”. Anni fa, ai tempi della pubblicazione del famoso rapporto del Club di Roma “The Limits to Growth” (1971-72), ci furono diverse polemiche sulla traduzione del vocabolo inglese growth, reso nel titolo italiano come “sviluppo” anziché “crescita”. Comunque in séguito i due termini furono di fatto usati come sinonimi. Da alcuni anni i mezzi di comunicazione (in particolare la TV) usano sempre la parola “crescita”, così fanno capire senza ambiguità che il sistema non propone uno sviluppo spirituale o conoscitivo ma vuole un aumento dei consumi, un aumento del fluire materiale-energetico nel processo produrre-vendere-consumare, con conseguenti rifiuti finali. Cioè vuole far aumentare all’infinito quel maxiprocesso che sostituisce materia inerte a sostanza vivente: città, fabbriche, impianti, macchine, strade, “grandi opere”, al posto di foreste, praterie, paludi, savane, barriere coralline. È il processo che sta divorando la Terra e distruggendo la Vita, con la pretesa di rifare il mondo. Oltre che immorale (non consente una vita degna agli altri esseri senzienti), è anche impossibile, se non per tempi brevissimi, che stanno per scadere.

 

Che cos’è un processo “sostenibile”? È un processo “che può durare a tempo indefinito senza alterare in modo apprezzabile il funzionamento (o la Vita) del sistema più grande di cui fa parte”. Il Sistema molto più grande è il Sistema biologico terrestre, o meglio la Terra stessa, cioè l’Organismo di cui facciamo parte. Nessun processo della civiltà industriale rientra in questa definizione di sostenibilità. Per manifestare un vero cambiamento, si dovrebbe dire che dobbiamo gestire il transitorio non verso “un nuovo tipo di sviluppo”, ma verso nuovi modelli culturali: sulla Terra ce ne sono stati circa cinquemila. La civiltà industriale deve finire in toto e trascinare nella sua fine tutta l’economia, che sta distruggendo il Complesso degli esseri senzienti e la bellezza del mondo. Forse la fine in toto della civiltà industriale e dell’economia non sarebbe una disgrazia, dato che “lo sviluppo” ha portato con sé anche l’aumento di psicopatie, depressioni, infelicità, disagio sociale. Quindi la fine dello sviluppo economico non va vista come una “rinuncia”. Occorrono modelli con una non-economia, come erano gran parte delle 5000 culture di un tempo, spesso battezzate come “primitive” dall’Occidente, anche se molte erano di matrice “orientale” più che “primitiva”. In realtà la fine della civiltà industriale sarebbe la fine di una forma di pensiero, scambiata ancora una volta per una fine del mondo, dato che nessun modello culturale umano è capace di concepire la propria fine. Ma si può vivere senza i concetti di ricchezza e povertà e anche senza il denaro. Bisognerà modificare profondamente anche il concetto di lavoro, probabilmente abolire le distinzioni fra lavoro pagato e lavoro volontario e fra lavoro e tempo libero. Anche queste distinzioni non esistevano in moltissime culture umane.Tutto questo senza bisogno di “tornare” a vivere come “i primitivi” (tutti concetti dell’Occidente). Resta il fatto che oggi siamo comunque in grossi guai, per l’incompatibilità di questo modello con la Vita della Terra. Abbiamo solo il dubbio sui tempi, cioè possiamo pensare che i gravi problemi di oggi siano iniziati:

 

   con il sorgere dell’agricoltura, 10.000 anni fa, come accennato nel “Manifesto per la Terra” di Mosquin e Rowe (www.ecospherics.net), dove si afferma che l’inizio dell’agricoltura è stato il momento in cui l’umanità ha cominciato a “vivere a spese della Natura” e quindi ha dato il via a quel modello che oggi possiamo dichiarare fallito; -  con la nascita dell’Occidente, 2-3000 anni fa; - con l’inizio dell’éra industriale, 2-300 anni fa.

 

C’è poi l’immane problema della mostruosa sovrappopolazione umana che affligge il Pianeta: quasi nessuno ne parla. Un piccolo esempio: si parla di Africa e Medio Oriente senza considerare minimamente che le popolazioni di quelle terre sono aumentate di 40 volte rispetto alla metà dell’Ottocento, per il madornale errore dell’Occidente di aver portato i medicinali senza i corrispondenti anticoncezionali. Si parla di “accoglienza” e “integrazione” senza mettere in evidenza che questo significa far diventare occidentali i nuovi arrivati e indirizzarli verso le ineffabili gioie delle periferie urbane e i piaceri del proletariato. Intanto l’80-90% della Natura dell’Africa è già stata distrutta e si fa il possibile per continuare l’opera. Gli elefanti e tutti gli altri esseri senzienti vengono massacrati sempre per i dannati motivi economici. È il denaro che deve sparire, non bastano le modifiche delle fonti energetiche e dei mezzi di trasporto o qualche altro accorgimento di dettaglio. Alla radice, c’è l’errore di fondo della mentalità giudaico-cristiana-islamica, l’errore antropocentrico, l’aver considerato la nostra specie come al di fuori e al di sopra della Biosfera. Se esaminiamo i problemi dal punto di vista quantitativo e sistemico, vediamo subito che andare avanti con le premesse della civiltà industriale solo cambiando le fonti energetiche, i mezzi di trasporto, il tipo di fitofarmaci, il riciclo e altri dettagli di questo genere è assolutamente impossibile. Spesso ci troviamo di fronte a ordini di grandezza 1000 volte più grandi rispetto a quelli realizzabili in pratica con le novità proposte dalla green economy. In conclusione, il modello culturale che ha invaso il mondo e si è autonominato “il progresso” deve essere integralmente sostituito da modelli completamente diversi, il cui andamento deve consentire a tempo indefinito la Vita del Sistema Complessivo, la Terra. Non ci resta altro che il coraggio dell’utopia.

 

Citazioni

 

L’ideologia industriale è alle corde. Il tragico ecologico l’ha sconfitta.  (Guido Ceronetti, 1992) La battaglia del futuro sarà la battaglia contro l’economia. (Tiziano Terzani) Vorrei un capo di governo o di azienda che facesse precedere da un purtroppo le frasi consuete: “dobbiamo aumentare la produzione”, “la ripresa è imminente” Neppure questa libertà gli è data. Sono costretti anche ad adularlo, il Maligno: se aggiungono un purtroppo li scaraventa in basso come birilli. Questo non è più avere un potere, tanto meno corrisponde a qualcuno dei sensi profondi di comando. L’asservimento all’economia dello sviluppo, senza neppure un accenno di sgomento, dice l’immiserimento, la perdita di essenza e di centro, della politica. Se il fine unico è lo sviluppo, la politica è giudicata in base alla sua bravura (che è pura passività) nello spingerlo avanti a qualsiasi costo…Non c’è nessuna idea politica dietro, sopra o sotto: c’è il Dio dell’economia industriale geloso del suo culto monoteistico.  (Guido Ceronetti - La Stampa del 9 marzo 1993)

 

 

 

Guido Dalla Casa

 

 

 
Aggressioni al personale sanitario PDF Stampa E-mail

17 Gennaio 2020

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Da Appelloalpopolo del 15-1-2020 (N.d.d.)

 

Il 2020 si è aperto con l’ennesimo episodio di aggressione al personale sanitario. La violenza sugli operatori è solo il riflesso di un problema ben più ampio e complesso. Gli infermieri pagano adesso sulla propria pelle il malcontento dei cittadini dopo decenni di mala gestione politica della sanità. I camerieri dell’UE, per far fronte alla presunta insostenibilità finanziaria del sistema, hanno depotenziato progressivamente e inesorabilmente l’offerta di salute del SSN. Tutto ciò ha causato la congestione di migliaia di utenti, in fila per accedere alle cure di un SSN ridotto all’osso che sta via via disconoscendo i suoi valori fondanti. Gli infermieri sono i professionisti più esposti poiché, sempre in prima linea, assorbono le frustrazioni dei cittadini che scalpitano per ottenere ciò di cui hanno diritto: una risposta di salute dignitosa. Quando la risposta manca, spesso si sfocia in episodi di aggressione conseguenti ad una vera e propria opera di macelleria sociale sui diritti dei cittadini, architettata da altri. Ho fondato il movimento “Infermieri In Cambiamento” per inaugurare una rivoluzione culturale che crei consapevolezza dei problemi interni alla professione infermieristica così da collegarli ai problemi esistenti a livello sistemico. Come dice qui Andrea Bartalini (FSI Firenze), occorre inquadrare il vero nemico per fare in modo che quei sentimenti di indignazione e collera, precursori dell’aggressione, possano essere verticalizzati dai cittadini, insieme ai professionisti del SSN, verso i veri responsabili di questo sfacelo, che però se ne stanno lontani, nascosti, al riparo e godono quando il conflitto assume la dinamica orizzontale tra gli ultimi (cittadino vs infermiere, inconsapevoli però di essere entrambi vittime dello stesso carnefice). La maggior parte dei casi di aggressione avviene in Pronto Soccorso, che rappresenta il front office del SSN, di cui riflette tutte le criticità. I cittadini, non trovando risposte sul territorio, sono costretti ad utilizzare il PS per ricevere prestazioni di salute di routine, non urgenti o differibili; non solo: il PS è ormai anche diventato un luogo di prima accoglienza per senzatetto, migranti e indigenti in genere, non essendovi adeguate risposte sociali sul territorio. Il sovraffollamento dei PS è un’emergenza sanitaria e sociale; e se a questa si unisce la carenza di personale per farne fronte, ecco servito un bel mix esplosivo che aumenta il rischio che gli episodi di aggressione da potenziali divengano reali.

 

In conclusione, il fenomeno delle aggressioni al personale sanitario, come tutti le questioni aperte in ogni ambito della società, è da configurare non come un problema confinato a sé ma come una piaga sociale inscritta in un orizzonte di questioni sistemiche di carattere politico che riconosce nelle culture e nelle istituzioni neoliberiste la vera causa e il vero nemico da sconfiggere.

 

Raffaele Varvara

 

 
Il sistema politico iraniano PDF Stampa E-mail

14 Gennaio 2020

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Da Rassegna di Arianna del 12-1-2020 (N.d.d.)

 

Insomma, che tipo di sistema è quello oggi vigente in quella che da quarant’anni si denomina “Repubblica islamica dell’Iran”? È diventato ormai fondamentale orientarsi al riguardo: mentre purtroppo le notizie forniteci dai media e da certe pubblicazioni divulgative sono scarse e pessime. Si parla di “dittatura” e addirittura di “tirannia”: ma chi ha acquisito qualche esperienza in materia, o magari ha fatto qualche esperienza di viaggio, si è reso conto che in Iran vige tutt’altro che un sistema totalitario e monopartitico: le formazioni politiche sono numerose, l’affluenza alle urne durante le elezioni molto alta, la discussione pubblica accesa e a tratti accanita, i giornali e i periodici parecchi e ben seguiti. […] Certo, esistono i tribunali politico-religiosi, le pene corporali, le condanna a morte. Poi c’è il disagio sociale ed economico, conseguenza dei lunghi anni dell’embargo imposto dagli Stati Uniti d’America, anche se l’Iran ha aderito al trattato di non-proliferazione nucleare e le sue centrali lavorano solo in funzione dell’energia atomica a scopi civili: il che è stato riconosciuto dalla stessa IAEA, l’organizzazione internazionale per il controllo dell’energia atomica. Inoltre, l’Iran ha un ottimo sistema scolastico e universitario, è uno dei paesi che ha il più alto numero di laureati al mondo (e si tratta di laureati di buona qualità) ed è all’avanguardia in alcuni servizi sociali, soprattutto quello sanitario. Ma sono il sistema politico e la vita sociale dell’Iran poco conosciuti in Occidente: e capita spesso, soprattutto in momenti di crisi come quello che oggi attraversiamo, che al riguardo si diffondano imprecisioni ed errori quando non addirittura calunnie. L’ignoranza è accompagnata dalla malafede. Vediamo dunque di chiarire alcuni punti.

 

L’Iran è una repubblica dotata di un presidente, di un parlamento, di un sistema giuridico, e ognuno di questi organi è indipendente dagli altri; essi legiferano in accordo con la costituzione che il paese si è dato nel dicembre del 1979, ossia all’indomani della rivoluzione, e che è stata riformata dieci anni dopo. È una repubblica islamica di confessione sciita poiché nell’Islam sciita si riconosce oltre il 90% della popolazione, ma non conosce nessun tipo di repressione confessionale. Il cristianesimo, l’ebraismo e lo zoroastrismo sono riconosciuti come religioni ufficiali e legittime e rappresentati in parlamento. L’articolo 13 della Costituzione iraniana riconosce gli appartenenti a queste tre fedi come Popoli del Libro e ad essi viene concesso il diritto di esercitare la libertà religiosa; vi sono infatti luoghi di culto incluse chiese cristiane e sinagoghe, contrariamente a ciò che si sente ripetere spesso (uno dei principali luoghi di culto ebraici del mondo, il santuario di Esther, si trova in Hamadan). Cinque dei 270 seggi in parlamento sono riservati a ciascuna di queste tre religioni. I membri del parlamento e il presidente sono eletti; le ultime elezioni si sono svolte nel 2017 e hanno mostrato il prevalere del partito moderato di centro, guidato da Hanna Rohani, che conta sul 50% circa dei voti complessivi. Rispetto a quanto siamo abituati a considerare “democrazia”, esiste, tuttavia, un organo considerabile come autoritario, il Consiglio dei Guardiani della Costituzione, un organo costituito da 6 teologi nominati dalla Guida Suprema dell’Iran (dal 1989, l’Ayatollah Khamenei) e da 6 giuristi nominati dal potere giudiziario (dipendente anch’esso dalla Guida Suprema) e approvati dal Majles (il parlamento monocamerale). La Guida Suprema è eletta da un’assemblea di 88 esperti, anch’essi nominati dal Consiglio dei guardiani della Costituzione. È quindi evidente che il ruolo di quest’ultimo risulta centrale, soprattutto perché esercita uno scrutinio preventivo sui candidati alle elezioni, eliminando i poco graditi per motivazioni spesso politiche; soprattutto, il Consiglio favorisce i candidati militari a scapito dei candidati riformisti, il che assicura che il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, i Pasdaran  (un corpo separato rispetto all’esercito iraniano, ma considerato parte delle forze armate ufficiali), abbia un’influenza dominante sulla vita politica, economica e culturale dell’Iran.  Forse, allora, proprio in un momento di crisi come quello che si è aperto con l’assassinio del generale Suleimani, ma che in realtà in fasi alterne va avanti dalla rivoluzione del 1979, ci si deve chiedere se un atteggiamento differente rispetto all’Iran non avrebbe consentito al paese uno sviluppo diverso, con una prevalenza minore delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche: un paese costantemente sottoposto alla minaccia militare non potrà che sviluppare poteri militari a scapito di quelli civili. A tale proposito è impossibile non pensare al peso rivestito dalla guerra mossa dall’Iraq di Saddam Hussein, armato e spalleggiato dagli Stati Uniti, contro l’Iran, durata dal 1980 al 1988. I partiti che costituiscono la coalizione moderata, stretti attorno a Rohani, hanno in mano la metà circa dei suffragi: una politica distensiva da parte dell’Occidente li farebbe senza dubbio aumentare, perché il paese attende con ansia la fine del blocco economico. Una politica occidentale ostile, viceversa, favorisce gli estremisti. Quello che Trump vuole è che l’Iran divenga preda delle forze antioccidentali più accese: ciò gli offrirebbe l’alibi per colpire ancora più duramente. 

 

Ma, si ripete, l’Iran “non è una democrazia”. Un argomento sul quale spesso i critici dell’Iran si soffermano è quello dei diritti delle donne: che, tuttavia, sono superiori rispetto a quelli di molte realtà limitrofe (soprattutto di alcuni stretti alleati del presidente Trump, quali i sauditi). Alcune dei dati risultano addirittura sorprendenti. Dopo la rivoluzione, le donne hanno avuto maggiori opportunità in certi campi, minori in altri. Ma ci sono molte donne negli alti gradi della magistratura e dell’esercito, nell’università, nel mondo della scienza e della ricerca Bisogna anche ricordare come nella rivoluzione l’elemento femminile è stato rilevante, con una partecipazione soprattutto delle donne colte. Chiaro che l’immediato periodo post-rivoluzionario è stato una delusione per molte: soprattutto perché, pur presenti ad esempio nell’esercito e anche nelle forze paramilitari, furono escluse da alcune professioni, senza contare l’obbligo del chador dal 1981. Grave anche la proibizione della contraccezione femminile. Tuttavia, oggi, questi divieti sono stati in parte rimossi e il ruolo delle donne della repubblica iraniana è cresciuto: per esempio, la contraccezione è accettata e anzi resa gratuita, il che ha portato a un maggiore controllo delle nascite oggi attestate su medie di poco superiori a quelle di molti paesi occidentali. Le donne sono state reintrodotte nelle professioni giuridiche, e in alcuni campi sono ormai la maggioranza all’interno delle università: secondo l’UNESCO, le facoltà d’ingegneria hanno, in percentuale, rispetto alla popolazione, il numero più alto di iscritte al mondo. A partire dal 1989, le allieve nell’educazione superiore hanno superato il numero dei maschi; anche in quella di base si è passati dal 54% di analfabetismo femminile nel 1970 al 17,30% del 2000, e le percentuali continuano a migliorare: il che pone l’Iran attualmente al decimo posto mondiale nella scolarizzazione delle donne. Se ancora soltanto il 30% di esse lavora, è probabile che il loro numero crescerà notevolmente, dato l’alto numero di iscritte alle università; ma anche per questo settore bisogna riflettere sul fatto che una normalizzazione nei rapporti internazionali e la fine dell’embargo che è durato tanti anni, che era stato eliminato dopo gli accordi sotto la presidenza di Obama ed è ripreso con quella di Trump, porterebbe a un miglioramento economico e a una diminuzione della disoccupazione, oggi molto alta tanto per gli uomini quanto per le donne. Una prova di ciò è, ad esempio, il lavoro nel tessile, che tradizionalmente in Iran impiegava molte donne soprattutto nelle aree rurali: ma l’embargo imposto dagli USA nel 1979 ha portato al crollo della domanda e, dunque, della produzione, lasciando proprio le donne prive di impiego. Una ripresa della produzione, connessa all’esportazione e al turismo, gioverebbe alla causa dell’ulteriore democratizzazione: ma sembra che, con azioni come quella dell’assassinio di Suleimani (un uomo ch’era molto popolare tanto per i suoi meriti nella lotta contro i fanatici dell’ISIS quanto per la sua fama di equilibrio politico) si sia voluto rallentare proprio questo processo di maturazione civile. Chi a ogni costo vuole la guerra contro l’Iran ha tutto l’interesse che gli iraniani si mostrino ostili all’Occidente: ciò legittimerebbe il suo progetto aggressivo.  Lungi dall’essere una democrazia perfetta (esistono, le “democrazie perfette”?), l’Iran non è quindi nemmeno un “regime”. Nella vita civile e politica restano molti problemi: però è lecito chiedersi, già in base ai pochi esempi forniti, se una storia diversa dal 1979 a oggi, soprattutto una minore aggressività da parte delle amministrazioni Bush jr. e ora Trump (su tale strada si era messo Obama) non avrebbe potuto portare a miglioramenti più rapidi e a una normalizzazione post-rivoluzionaria che ai tempi del governo del riformista Khatamy era stata avviata ma che si arrestò con Ahmedinejad e che oggi, in un paese che si sente minacciato da Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita e che è assediato da un assurdo embargo, manca. L’assassinio del generale Suleimaini non può che rafforzare anche internamente le forze tradizionaliste, attorno alle quali, nei momenti di paura, si compatta anche l’intera società civile. È questo il disegno dell’amministrazione Trump e di chi la sostiene, in modo che la “crescita della minaccia iraniana” divenga un alibi credibile per un’aggressione vera e propria? Alla luce degli eventi è lecito domandarselo.

 

Franco Cardini

 

 
L'Italia non esiste PDF Stampa E-mail

12 Gennaio 2020

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Da Rassegna di Arianna del 10-1-2020 (N.d.d.)

 

Quattro grandi potenze giocano la loro partita a due passi da casa nostra ma né l’Europa né l’Italia sono in grado di esercitare il benché minimo ruolo, di qualunque tipo. Stati Uniti, Russia, Iran e Turchia, e sullo sfondo la Cina, si contendono i loro spazi in Africa e in Medio Oriente, polveriera del mondo, e arrivano a lambire il nostro mare, ma l’Italia non esiste, non gode neanche di una copertura europea, conta quanto il due di coppe a briscola anche laddove dovrebbe avere un ruolo importante, come la Libia. La repubblica italiana è sempre stata a sovranità limitata, sotto la protezione americana, rispetto a cui siamo stati servili e inaffidabili al tempo stesso. Totalmente sdraiati ma capaci di trattare sottobanco con gli arabi o i sovietici. L’unico personaggio che perseguì gli interessi nazionali italiani senza appiattirsi sugli Usa e le sue multinazionali fu Enrico Mattei, non un politico ma un manager di stato che probabilmente pagò caro il suo ruolo. E l’unico episodio governativo di dignità nazionale che si ricorda in 75 anni fu a Sigonella, quando l’Italia di Craxi seppe dire di no all’America di Reagan, e pure lui ne pagò probabilmente lo scotto. Abbiamo scontato per troppi decenni la nostra sconfitta militare, e quando pareva che potessimo finalmente emanciparci grazie alla caduta del bipolarismo Usa-Urss e all’ombrello europeo, siamo ricaduti in una posizione marginale perfino più subalterna che in passato. Prima dovevamo ubbidire agli americani e non scontentare i sovietici, ora la scala delle nostre servitù si è allargata alla Germania, alla Francia e a tutte le potenze internazionali citate, nonché ai paesi limitrofi perché non ci mandino caterve di migranti. Il colpo di grazia finale è stato avere uno sprovveduto e inattendibile ministro degli esteri di proverbiale ignoranza, accompagnato da un premier spuntato dal nulla, indicato dal ministro medesimo, mai legittimato dalle urne o da un ruolo autorevole precedentemente coperto. Non abbiamo una linea di politica estera, non sappiamo che dire su nessun argomento, tra pareri approssimativi e orecchiati in materia internazionale; ci troviamo così muti, balbettanti, incapaci di assumere una posizione se non quella di chi ripete: però non passate alle mani, non sparate, fate la pace, non fatevi male o perlomeno non fateci del male, noi non c’entriamo, prendetevi la Libia, il Medio Oriente, vedetevela voi col nucleare, noi non ce l’abbiamo con nessuno, stiamo zitti e buoni per i fatti nostri. Davanti a questo quadro, purtroppo, non ci pare un rimedio né un’accorta scelta strategica e tantomeno uno scatto di dignità l’appiattimento di Salvini e di alcuni settori del centro-destra sulle posizioni americane-israeliane e anti-iraniane. Parlo a titolo personale, ma reputo sciagurata l’uccisione di Soleimani e pericolosamente falsa la tesi di chi attribuisce all’Iran un ruolo nel terrorismo internazionale. Sappiamo che il terrorismo che si è accanito contro l’occidente ha matrice sunnita e non sciita, le complicità internazionali sono negli stati arabi, non in Iran che anzi ha combattuto l’Isis, e altre formazioni terroristiche in Siria e in Libano. Certo, c’è un odio ideologico e militante dell’Iran nei confronti degli Usa e di Israele, totalmente ricambiato; le milizie che combattono dalla parte dell’Iran non sono da meno quanto a fanatismo e ferocia, gli ayatollah come i pasdaran. Ma gli Usa, considerando l’Iran uno Stato canaglia e nemico principale – così come ritiene Israele – lo sta spingendo a radicalizzare la propria posizione e a rompere ogni possibile patto anche in tema di disarmo nucleare. Ho reputato preferibile Trump ai democratici alla Hillary Clinton e all’Establishment radical e liberal; e considero vergognoso il tentativo di impeachment da quando si è insediato alla Casa Bianca solo perché è un outsider politically uncorrect. Ritengo che Trump abbia ridato slancio e vitalità all’economia americana e al sentimento nazionale. Ma in politica estera ha preso pericolose cantonate, cavalca posizioni tranchant per assecondare la pancia degli americani ed è disposto a una guerra rovinosa se serve a garantirsi la rielezione. Non si tratta però, come tanti lo presentano, di un forsennato populista perché in queste posizioni Trump ricalca la sciagurata politica mediorientale dei suoi predecessori inglesi e americani che tanti lutti e rovine ha generato, tanto fanatismo islamista ha scatenato. Si rivedono come in un film a rovescio la sciagurata guerra del Golfo, l’invasione dell’Iraq e la sanzioni, i bombardamenti che distrussero grandi testimonianze di civiltà; e poi il processo a Saddam per un presunto e mai trovato arsenale nucleare; e via via quel che è successo dall’11 settembre del 2001 in poi. A cui si è aggiunta la sciagurata responsabilità dei francesi, dei tedeschi e di altri partner europei per quel che riguarda la Libia, la primavera araba e il dissennato appoggio a ribelli e a tribù che produssero instabilità, terrorismo, profughi e clandestini. Fa male pensare che dobbiamo sperare nello zar Putin e in certi casi perfino nell’autocrate Erdogan per ristabilire l’equilibrio d’area, a che prezzo poi non sappiamo. La posizione di Salvini su questi temi ricalca su scala ridotta le posizioni e i moventi di Trump; più equilibrata mi è parsa la posizione della Meloni. Ma da noi l’unico tema internazionale che desta interesse e interventi, dal Papa ai magistrati, è l’accoglienza dei migranti e la condanna per razzismo di chi vi si oppone… Stiamo seduti sull’orlo di una polveriera e continuiamo a ripetere: prego, accomodatevi, ingresso libero, pace pace.

 

Marcello Veneziani

 

 
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