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Hate speech PDF Stampa E-mail

3 Novembre 2019

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Da Comedonchisciotte dell’1-11-2019 (N.d.d.)

 

Qualche giorno fa è stata approvata dal Parlamento italiano una mozione, presentata dalla senatrice Liliana Segre sulla questione del cosiddetto “hate speech”, al fine di monitorare e limitare le manifestazioni d’odio in rete.

 

La senatrice è vittima da diverso tempo di attacchi e offese dettati dall’odio xenofobo in quanto ebrea ed è in prima fila in questa battaglia. La mozione riconosce la difficoltà di operare in questo senso in quanto non esiste una definizione univoca di hate speech ed intende affrontare in modo organico il problema, anche attraverso la consulenza di esperti, facendo tesoro della normativa precedente  Il punto di riferimento, temporalmente molto lontano, è la “raccomandazione n. 20 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 30 ottobre 1997,’’ che delimita la fattispecie dello hate speech differenziandola dal reato penale di crimine d’odio.  Questo termine “copre tutte le forme di incitamento o giustificazione dell’odio razziale, xenofobia, antisemitismo, antislamismo, antigitanismo, discriminazione verso minoranze e immigrati sorrette da etnocentrismo o nazionalismo aggressivo”. Dunque anche l’islamofobia è presa in considerazione e ce ne rallegriamo, nonostante l’impegno del Governo italiano in questo senso sia pari a zero.  La definizione del fenomeno è problematica perché occorre tutelare i cittadini ed in particolare giornalisti e bloggers, oltre a milioni di utenti dei social, la maggior parte dei quali non si rende conto di quali rischi corre; infatti potrebbero essere sanzionati per aver difeso un nazionalismo non particolarmente amico dell’Europa come potrebbe essere quello catalano (fino ad ora criminalizzato), anche quando si tratta di indipendentismo pacifico.  Analogamente alla lotta degli ucraini del Donbass o alla situazione dei turchi rispetto al PKK, considerato il livello di odio anti-turco promosso dal circo mediatico nelle ultime settimane quasi all’unisono. Criticando Rojava si può essere accusati di odio razziale contro i curdi? Chi critica Israele rischia l’incriminazione per antisemitismo? Se non si gradiscono i Gay Pride, pur non manifestando alcuna intolleranza verso gli omosessuali, si rischia egualmente l’accusa di omofobia? Se un poveraccio con la quinta elementare si disgusta e racconta su Fb che il suo vicino di casa straniero va in giro sporco o sputa per terra potrebbe essere accusato di razzismo?  Per meglio definire il fenomeno si ricorre alle tre categorie: “dell’incitamento, dell’istigazione o dell’apologia. Il termine incitamento può comprendere vari tipi di condotte: quelle dirette a commettere atti di violenza, ma anche l’elogio di atti del passato come la “Shoah”; ma incitamento è anche sostenere azioni come l’espulsione di un determinato gruppo di persone dal Paese o la distribuzione di materiale offensivo contro determinati gruppi”. Chi giudica offensivo cosa? Perché è ovvio che chi scrive che “i musulmani devono andare al rogo” o che “gli zingari devono essere sterminati” deve essere sanzionato, ma non è così facile stabilire il confine tra la libertà d’espressione e la censura.  La norma fondamentale che vieta ogni forma di odio deve essere considerato “il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966 e reso esecutivo nel nostro Paese dalla legge 25 ottobre 1977, n. 881, che, ex articolo 20, prevede che vengano espressamente vietati da apposita legge qualsiasi forma di propaganda a favore della guerra, ma anche ogni appello all’odio nazionale, razziale o religioso che possa costituire forma di incitamento alla discriminazione o alla violenza”. Sono quindi “vietate per legge le seguenti categorie di attività: ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza o incitamento a tali atti, rivolti contro qualsiasi gruppo di individui di diverso colore o origine etnica; andrà inoltre punita ogni assistenza ad attività razziste compreso il loro finanziamento”.  La punibilità dipende dal tipo di incitazione che viene messa in essere, dalle parole che vengono usate e dall’intenzione sottesa all’incitazione stessa; può essere di natura penale o una semplice multa ed in generale viene comminata in sede di causa civile e o penale promossa dalla parte lesa. C’è da chiedersi, allora, come siano stati possibili fenomeni di massa di suprematismo o razzismo, come quelli cui assistiamo tutti i giorni; al punto da far sorgere il dubbio se questa buona volontà sia veramente tale, dal momento che assai poco è stato fatto per anni, tranne sostenere alcune manifestazioni contro la discriminazione razziale, in particolare quella contro gli ebrei.  È con la prevenzione e l’educazione che si devono limitare questi fenomeni piuttosto che con la censura. […]

 

Nonostante l’entusiasmo di molti, non sembra che cambierà granché; si conferma, invece, il doppio standard che potrebbe diventare censura su contenuti non graditi al potere. Infatti, una Commissione parlamentare, istituita a questo fine da diversi anni, non ha soltanto compiti di monitoraggio o di studio ma proprio di segnalare certi contenuti da far rimuovere ai gestori dei motori di ricerca; e lo fa da anni. È stato stabilito che “entro il 30 giugno di ogni anno, la Commissione trasmette al Governo e alle Camere una relazione sull’attività svolta, recante in allegato i risultati delle indagini svolte, le conclusioni raggiunte e le proposte formulate; la Commissione può segnalare agli organi di stampa ed ai gestori dei siti internet casi di fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche, quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche, richiedendo la rimozione dal web dei relativi contenuti ovvero la loro deindicizzazione dai motori di ricerca”.  Già da anni il Governo italiano segnala a Google i contenuti sgraditi, per farli rimuovere. In circa 30-40% dei casi si tratta davvero di reati di odio razziale, spesso invece si va a colpire la libertà di opinione di chi la pensa come il nemico di turno: oggi Erdogan, domani i palestinesi, dopodomani chissà chi. Gli esperti del tema sono concordi nel segnalare il fatto che la censura mediatica non risolve il problema, ma si traduce in una cappa da regime dittatoriale che grava sulla libertà di espressione, mentre è assente un’opera di prevenzione all’interno della società dove questi fenomeni hanno origine; anzi si lascia che si espandano a macchia d’olio. “L’idea che il Governo debba controllare un organo di informazione, anche sui generis come Facebook, pone diversi problemi”, afferma Giulio Vigevani, professore di Diritto costituzionale e di Diritto dell’informazione e della comunicazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. “In primo luogo dimostra una certa impotenza da parte dei governi, ma demandare a Facebook il controllo della rete implicherebbe un potere censorio infinito ed incontrollabile. Attraverso algoritmi ed automatismi, potrebbe bloccare i contenuti a propria discrezione con effetti devastanti sulla libertà di espressione. Il secondo aspetto scardina il principio di fondo che i governi non devono interferire ed incidere sulla libertà di informazione.  Dare la possibilità ad autorità governative di entrare nei meccanismi di una società privata è pericoloso. Allora perché non può farlo anche Orban, Putin, Erdogan o Salvini? Se i governi democratici hanno questo atteggiamento, poi non si può essere censori con i regimi dittatoriali”. Una dittatura della maggioranza dove esiste un “politicamente corretto” da salvaguardare ad ogni costo ed il resto a discrezione è comunque una dittatura anche se formalmente si tratta di una democrazia.

 

Donatella Salina

 

 
Chi privatizzò l'industria pubblica PDF Stampa E-mail

2 Novembre 2019

 

Da Appelloalpopolo del 31-10-2019 (N.d.d.)

 

Annunziata: «Draghi si è caratterizzato in una prima fase come un grande privatizzatore, se si ricorda c’è stato anche tutto un…». Romano Prodi: «Erano obblighi europei! Erano obblighi europei. Scusi, a me che ero stato a costruire l’IRI, a risanarla, a metterla a posto, mi è stato dato il compito da Ciampi, che era un compito obbligatorio per tutti i nostri riferimenti europei, di privatizzare. Quindi si immagini se io ero così contento di disfare le cose che avevo costruito, ma bisognava farlo per rispondere alle regole generali di un mercato in cui noi eravamo. E questo non era sempre un compito gradevole ma l’abbiamo fatto come bisognava farlo». Fino a poco tempo fa, lui e il centrosinistra se ne prendevano il merito di aver smantellato l’IRI. Omettendone i motivi. Ora ammettono anche questo.

 

C’è un nesso non solo diretto, ma di causa/effetto tra Unione Europea, libero mercato e smantellamento dell’industria pubblica italiana. Era una condizione imposta dal “vincolo esterno”. Una condizione non negoziabile. Un po’ come le offerte che non si possono rifiutare…

 

Una pietra tombale, l’ennesima, su coloro che, ancora oggi, negano la palese matrice liberale, quindi antisociale, dell’Unione Europa. Ovviamente Prodi, uno dei protagonisti assoluti della peggior stagione politica della storia italiana, adesso l’ammette – l’esistenza e la ragion d’essere del vincolo esterno – nell’improbabile tentativo di ricostruirsi un’immagine. E infatti arriva anche a mentire spudoratamente affermando di aver costruito e risanato l’IRI. «Eseguivo soltanto gli ordini». Non mi sembra una linea difensiva originale… D’altronde la trasmissione era dedicata alla beatificazione di San Mario Draghi. Romano Prodi e Mario Draghi. Cioè i due che potremmo ritrovarci – in un futuro purtroppo non così improbabile come dovrebbe essere – rispettivamente Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio. Proprio due di quelli che, più di altri, consapevolmente e per i loro interessi, nell’ultimo trentennio hanno contribuito a ridurre il Paese in una condizione simile a quella di una colonia. Molto più di quanto non lo fosse già dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Cedendo quasi tutta la sovranità che ci era rimasta. E con essa il lavoro, i salari dignitosi e, soprattutto, una società più giusta e in cui era possibile immaginare un futuro. Spesso anche un futuro migliore.

 

Gilberto Trombetta

 

 
Puntualizzazione doverosa sulla guerra siriana PDF Stampa E-mail

1 Novembre 2019

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Da Rassegna di Arianna del 30-10-2019 (N.d.d.)

 

Il racconto mediatico del conflitto cambia in continuazione, con alleati che all'improvviso scompaiono dalla scena e ondate di indignazione popolare montate ad arte Dopo essere stata lasciata in sonno per un lungo periodo, l’attenzione dell’opinione pubblica sulle vicende siriane è stata recentemente ridestata a seguito dell’intervento turco contro i curdi. Un’efficace campagna mediatica ha fatto sì che da destra a sinistra tutti abbiano preso a cuore il destino del popolo curdo, il quale ha combattuto - anche per noi, si sottolinea - contro l’Isis e ora si trova sotto attacco di un malvagio tiranno. Purtroppo le cose non sono così lineari come questa rappresentazione un po’ manichea dei fatti vorrebbe farci credere. Chiariamo subito che non ci sono buoni e cattivi in questa guerra che dura ormai da oltre otto anni e nella quale sono risultati coinvolti numerosi Paesi: Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Turchia, Iran, Libano e Israele. Sono inoltre accorsi in appoggio alle varie fazioni in lotta “volontari” provenienti dall’Europa, dal Medio Oriente e dall’Asia. Così tanti attori con interessi contrastanti hanno reso la Siria un campo di battaglia in cui si sono scaricate le tensioni e le competizioni geopolitiche che attraversano l’area, nella totale noncuranza delle terribili conseguenze per il popolo siriano. Nessuno dei paesi citati può dirsi innocente rispetto agli orrori di questa guerra che è stata combattuta non solo sul terreno bellico, ma anche su quello dell’informazione, con un uso massivo e selettivo dei social network volto a manipolare l’opinione pubblica. Le colpe della Turchia datano da ben prima dell’intervento contro i curdi. Inseguendo un suo sogno imperiale nell’area, essa fu la prima ad intervenire in Siria nel 2011, pochi mesi dopo le prime manifestazioni antigovernative, armando e fornendo supporto logistico ai militanti islamici di matrice sunnita, compreso il gruppo Al Nusra patrocinato da Al Qaeda, i quali poi confluirono nel cosiddetto Esercito Siriano Libero (FSA). La radicalizzazione settaria della guerra richiamò poi jihadisti da tutto il mondo, in una sorta di internazionale salafita. Successe così che decine di migliaia di foreign fighters (gli stessi di cui oggi ci preoccupa il ritorno) entrarono in Siria, passando tranquillamente per il confine turco. La cosa era sotto gli occhi di tutti, ma la narrativa dominante fu che si trattava di “moderate rebels” che combattevano contro un dittatore sanguinario. È singolare che solo oggi, quando lo stesso Esercito Siriano Libero ha affiancato i turchi nell’operazione contro i curdi, i media si siano accorti che esso è composto soprattutto da jihadisti. La rappresentazione dei militanti islamici come combattenti per la libertà costituì l’inizio di una campagna mediatica di disinformazione che si è sviluppata sino ai giorni nostri. Le stesse tecniche di condizionamento dell’opinione pubblica erano state utilizzate con successo in Libia, quando la rivolta contro Gheddafi fu descritta come un movimento di popolo per la democrazia. Sappiamo come è finita. Dopo che Gheddafi venne trucidato nell’ottobre del 2011, fu soprattutto Hillary Clinton, allora Segretario di Stato, a sollecitare con successo un riluttante Obama a cogliere il “momentum” per ridisegnare la mappa del Medio Oriente. L’obiettivo era quello di rimuovere la presenza e quindi l’influenza nell’area della Russia, che possedeva un’importante base navale a Tartus. Ma forse ancor più importante era l’obiettivo di assecondare e condividere gli interessi e i progetti geopolitici del potente e influente alleato israeliano. Israele vedeva infatti con favore la dissoluzione del confinante stato siriano in una condizione non difforme da quella libica, non tanto perché lo considerasse una minaccia diretta, quanto piuttosto per i suoi stretti legami con l’Iran, che consentivano a quest’ultimo di estendere la propria influenza sulla regione.  Esso non ebbe pertanto remore ad appoggiare i militanti islamici che si battevano contro Assad, fornendo loro supporto logistico e di intelligence e soprattutto una copertura mediatica di favore. Alla fine del 2012 gli Stati Uniti ruppero gli indugi e, in accordo coi Paesi del Golfo e la Turchia, lanciarono il programma, all’epoca segreto, “Timber Sycamore” con cui venivano forniti armi, denaro e addestramento ai ribelli antigovernativi. Obama non era inizialmente convinto dell’iniziativa, ma poi diede il suo assenso sotto le pressioni di Israele e della Clinton. Al programma aderirono anche Francia e Regno Unito, i quali facevano leva sul loro passato coloniale nella regione per precostituirsi un posto a tavola nel banchetto postbellico. Molte delle armi provenivano dagli arsenali libici rimasti incustoditi dopo la caduta di Gheddafi e vi sono importanti indizi che portano a ritenere che l’assassinio dell’ambasciatore USA in Libia nel settembre 2012 sia legato al coinvolgimento degli americani in questo traffico di armi. Da parte sua, il governo siriano cominciò a ricevere aiuti dall’Iran, dalla Russia e dagli Hezbollah libanesi. Lo scenario cambiò radicalmente con la nascita dell’Isis. Supportato finanziariamente dai sauditi che intendevano contenere l’influenza della Turchia nell’area, l’ascesa in Siria e Iraq di questo gruppo ancor più radicale di Al Qaeda sembrò inizialmente inarrestabile. Sorprendente fu in particolare la conquista senza colpo ferire di Mosul, seconda città dell’Iraq, dove il gruppo si rifornì del denaro e dell’oro depositati nella sede della banca centrale e, soprattutto, di un’enorme quantità di armi incredibilmente abbandonate dall’esercito regolare in fuga senza combattere. Le armi pesanti e l’ingente materiale bellico acquisiti consentirono all’Isis di conquistare rapidamente tutto l’est della Siria, sino ad allora rimasto poco coinvolto, per poi riversarsi a ovest dell’Eufrate, occupando fra l’altro Palmira e le periferie di Aleppo. Impegnate severamente su più fronti, le truppe governative erano sul punto di collassare quando la Russia accolse la richiesta di Assad e intervenne direttamente nel conflitto, ovviamente anche per salvaguardare i propri interessi strategici nella regione. L’intervento dei russi, in particolare della loro aviazione, cambiò il corso della guerra. La riconquista di Aleppo da parte dei governativi segnò il punto di svolta cui seguì la progressiva perdita da parte dei ribelli di gran parte dei territori in precedenza occupati. I successi di Assad e la preoccupazione che con il supporto russo egli fosse in grado di riconquistare tutti i territori occupati dall’Isis indussero gli Stati Uniti a intervenire più direttamente. Alla ricerca di soldati da mandare all’assalto dell’Isis sotto la copertura dei bombardieri, gli Usa, dopo aver preso in considerazione, per poi scartarla, l’ipotesi perorata dalla Turchia di appoggiarsi all’Esercito Libero Siriano, ripiegarono sui curdi. Sino a quel momento, i curdi avevano tenuto una posizione ambigua nel conflitto; avversari delle milizie islamiste, essi cercarono comunque di mantenere per quanto possibile uno stato di non belligeranza con esse. Formalmente, riconoscevano il governo di Damasco, ma nei fatti riuscirono ad approfittare della guerra per allargare la propria area di insediamento storico e per acquisire maggiore autonomia. Nel 2017 essi, con una popolazione inferiore al milione e pari a circa il 6% di quella complessiva siriana, presidiavano una vasta regione nel nord della Siria che si estendeva lungo quasi tutto il confine con la Turchia. Fu allora che la Turchia, che come è noto ha un contenzioso secolare con i curdi, decise un’operazione militare nell’area del nord ovest della Siria occupata dai curdi, del tutto simile a quella avviata pochi giorni fa nel nord est. I curdi furono rapidamente battuti e costretti a riparare in una ridotta a nord di Aleppo. La Turchia occupa ancora oggi quell’area, ma stranamente quell’operazione non ebbe particolare risalto sui media e tutti coloro che oggi si stracciano le vesti per le sorti dei curdi rimasero silenti. Quando poi gli Stati Uniti proposero ai curdi di partecipare all’iniziativa contro l’Isis, questi vi colsero un’opportunità per la costituzione di uno stato indipendente, di dimensioni pari al 30% della Siria che si sarebbe esteso dal confine con la Turchia a quello con l’Iraq e che avrebbe beneficiato delle rendite petrolifere dei pozzi concentrati in quell’area. Un progetto simile era peraltro stato abortito dai loro cugini iracheni, con i quali, per inciso, intrattengono pessimi rapporti. Nel 2014, infatti, i curdi iracheni, che dopo l’invasione americana del 2003 già godevano di un’ampia autonomia, approfittarono della rotta dell’esercito di Baghdad attaccato dall’Isis e ampliarono la loro zona di storico insediamento, occupando diverse città, come Kirkuk, abitate da arabi, ma ricche di pozzi petroliferi.  Al contrario di quanto ci è stato raccontato, quindi, essi non solo non contrastarono l’avanzata dell’Isis, ma di fatto addivennero a una sorta di patto di desistenza e di spartizione del territorio iracheno con esso. Un analogo atteggiamento opportunistico è stato tenuto, come abbiamo visto, dai curdi siriani. Quando poi nel 2017 l’esercito dell’Iraq, con il supporto dell’aviazione americana, riuscì a respingere l’avanzata dell’Isis, il Kurdistan si affrettò a proporre un referendum per la costituzione di uno stato indipendente che avrebbe compreso anche le ricche province occupate nel 2014. L’iniziativa del referendum fu bocciata da tutti, compresi gli Usa, e non ebbe seguito. L’unico Paese che sostenne il diritto dei curdi iracheni ad avere un proprio Stato indipendente fu Israele che non a caso è stato anche il più forte sostenitore dell’indipendenza dei curdi siriani. Ora, pur con tutta la buona volontà, è difficile credere che Israele abbia sinceramente a cuore il diritto del popolo curdo a uno stato indipendente mentre lo nega al popolo palestinese di cui occupa i territori. In realtà, l’obiettivo di Israele era quello di creare, con questo nuovo Stato “amico”, una zona cuscinetto in grado di interrompere il corridoio territoriale che dall’Iran, passando per l’Iraq sciita e la Siria, giunge fino al Libano e quindi ai propri confini.  Alle stesse finalità va ricondotto il forte appoggio di Israele alla costituzione di uno stato curdo nei territori siriani confinanti con l’Iraq. Per chiudere il cerchio, la minore risonanza nei media del primo intervento turco contro i curdi trova infine una spiegazione nel fatto che esso si svolgeva in una zona di scarso interesse strategico per Stati Uniti e Israele. D’altra parte, quando Trump ha deciso il ritiro delle (poche) truppe statunitensi dalla Siria, era consapevole che ciò avrebbe causato le ire del potente alleato israeliano. Egli si è pertanto affrettato a rassicurarlo, garantendo il mantenimento dell’importante base militare costruita ad Al Tanf, nello strategico punto di confine della Siria con la Giordania e l’Iraq, allo scopo di presidiare i pozzi petroliferi (“we secured the oil” ha recentemente twittato Trump) e tutto il territorio circostante come appunto chiedeva Israele. Dopo queste rassicurazioni, i curdi sono divenuti meno importanti, come ciascuno può constatare sui media.

 

Un’ultima notazione. Durante gli scontri fra i curdi e l’esercito turco sono ricomparsi, dopo lungo silenzio, i famosi “caschi bianchi”, i quali in una serie di tweets hanno denunciato dei presunti massacri compiuti dai curdi ai danni della popolazione civile. Stranamente, questa volta la loro denuncia non ha avuto alcuna eco sui media. In realtà, l’epopea dei caschi bianchi è stata forse la più grossa mistificazione informativa che ha accompagnato la guerra civile siriana. Vi sono innumerevoli documenti che testimoniano la loro contiguità con Al Qaeda e che svelano che i famosi salvataggi di civili colpiti dai bombardamenti dell’esercito siriano erano in realtà delle messe in scena, peraltro di modesta fattura. Non a caso i curdi li avevano messi al bando dai propri territori. Eppure, siamo stati inondati dai filmati che mostravano questi salvataggi e addirittura le loro gesta sono divenute oggetto di un film. Senza vergogna erano anche stati proposti per il Nobel della pace. Invece, ora che Al Qaeda ha appoggiato la Turchia nella sua iniziativa contro i curdi, sono stati silenziati. Ma i nostalgici non si devono preoccupare. L’esercito siriano si sta infatti preparando per riconquistare la zona di Idlib che costituisce l’ultimo bastione occupato da Al Qaeda e altre milizie islamiche. In vista di questa battaglia, i caschi bianchi tornano di nuovo buoni e quindi Trump ha deciso di versare 500 milioni alla loro organizzazione. Prepariamoci alla nuova campagna mediatica sulla prossima crisi umanitaria a Idlib.

 

Marco Ambrogi

 

 
Silenzio colpevole PDF Stampa E-mail

31 Ottobre 2019

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Da Rassegna di Arianna del 29-10-2019 (N.d.d.)

 

Il senatore Alberto Bagnai ha organizzato a Montesilvano un convegno euro critico (“Euro, mercati, democrazia“)  che ha  avuto notevole successo: due giorni con più di 700 partecipanti, 16 relatori, 9 sessioni, molto seguito anche sul web. Speciale successo ha riscosso l’intervento del professor Carlo Galli, filosofo ed economista, docente di DOTTRINE POLITICHE all’università di Bologna (Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà dell’Università di Bologna). Uomo della cultura di sinistra (è stato nel PD, anche parlamentare, poi in LEU), situato nei piani alti di quella cultura (Il Mulino, Fondazione Gramsci, edizioni Laterza) ha espresso idee come queste – che raccolgo dai commenti degli ascoltatori. Frasi da scolpire nel marmo.

 

 “Descrivere il mondo globalizzato come un mondo privo di centri di potere sovrano è mentire” […]  “Senza la sovranità si è ampiamente esposti alla guerra. ”Il liberismo negli anni 90 era tutto un “segui il tuo sogno“. Dopo il 2008 ha preso un’altra piega, è diventato un “come ti sei permesso di fare dei debiti”.  “Parlare di #sovranità vuol dire parlare di democrazia, cioè essere signori del proprio destino. Che non vuol dire vivere in una bolla, senza vedere che cos’è il mondo e come funziona. Ma non introiettare l’idea che tutto è già stato deciso” “Sposando l’euro sposi il concetto che i salari devono essere bassi. Ti sei chiuso dentro e hai buttato via la chiave” “Noi non abbiamo mai avuto nella nostra storia un vincolo così cogente come l’euro. Mai” “chi parla di Europa ti vuole dominare” “Si esiste politicamente solo per far tornare i conti, i conti pubblici, ed incrementare a dismisura gli introiti privati ​​di pochi che ci stanno guadagnando”. […] “Il neoliberismo è un’ideologia che nega di esserlo […].

 

 Il titolo della conferenza del professor Galli è stato “Perché non possiamo non dirci sovranisti”.  Galli è l’autore di un saggio, pubblicato dal Mulino, che ha titolo: Sovranità.  Ecco il risvolto: Sovranità: disprezzarla, o deriderla: è l’imperativo politicamente corretto delle élite intellettuali mainstream. Chi evoca quel concetto che sta al cuore della dottrina dello Stato, del diritto pubblico, della Costituzione e della Carta dell’Onu, è ormai considerato un maleducato, un troglodita: compatito e schernito come chi cercasse di telefonare in cabine a gettoni, quando non demonizzato come fascista. Sovranità è passatismo o tribalismo, nostalgia o razzismo, goffaggine o crimine. E sovranismo è sinonimo di cattiveria. Queste pagine autorevoli ci mostrano che le cose non stanno così, che per orientarsi si deve uscire dai luoghi comuni e dalle invettive moralistiche. E che il ritorno della sovranità è il segno dell’esigenza di una nuova politica.

 

Questo organizzato da Bagnai è esattamente il tipo di convegni che dovrebbero essere organizzati continuamente, per alzare il livello politico-culturale della istanza popolare e sovranista, e non abbandonarla agli insulti della sinistra che l’accusa di tribalismo o crimine.  Quando la Lega di Salvini era al governo, avrebbe dovuto organizzare un convegno simile, in veste ufficiale, a cui avrebbe dovuto invitare la dozzina e di grandi economisti stranieri di indiscusso prestigio che hanno scritto libri e articoli a dimostrare che l’euro è un disastro anti-umano: da Ashoka Mody a Paul Krugman a Paul de Grauwe ad Adam Tooze.  Questo avrebbe costretto i media a registrare che la critica all’euro non viene dalle pance dei bruti salviniani, non è un rigurgito di tribalismi, ma ha una dignità culturale e un fondamento nel diritto (anzi “é” il fondamenbto del diritto) e solida giustificazione anche sul piano economico-scientifico.

 

Ora, Salvini né la Lega, al governo, hanno fatto nulla di simile.  Anzi di più: mi sembra di capire che questo convegno, che il senatore Bagnai ha fatto dietro casa sua, l’ha fatto a sua cura e a spese sue e dei suoi estimatori, con i fondi raccolti dalla sua associazione A/simmetrie, a cui si invita a versare il 5 per mille. Ovvio che del convegno di Montesilvano i media abbiano potuto tacere, come di un fatterello locale: con 700 partecipanti.  Gli stessi giornalisti che si accalcano uggiolando alla Leopolda, quando chiama Renzi. La cosa non mi stupisce più di tanto, anche se non cesso di scandalizzarmi, da vecchio giornalista: nella mia generazione “bucare” una simile notizia sarebbe stata comunque una cosa di cui vergognarsi, e di cui si sarebbe stati derisi dai colleghi. Ma questo non è il peggio. Non solo non mi pare di aver visto la Lega aderire a questa iniziativa –  il cui decisivo valore politico  dovrebbe saltare all’ occhio    ma  mi pare  che nessun leghista ne  abbia  nemmeno preso atto, dalle  potenti  regioni  che governano.  In fondo, forse, è meglio così, per il buon nome dell’iniziativa, anche se   i leghisti dirigenti, e specie il gruppo chiamato “La Bestia” da cui Salvini si fa dettare le strategie – avrebbero imparato molti argomenti e idee ad ascoltare.   Voglio dire soprattutto se, prossimamente, una Lega con il 38 % dei voti potrà andare davvero al governo: con quale preparazione? Con quali idee? Con quali progetti? Dai facebook di Salvini non ne risulta mai una. Bravissimo a fare le campagne elettorali (ho appreso che in Umbria ha fatto 56 comizi!)  titillando “la pancia del paese”, se va al governo, lui e la Lega devono rendersi conto della responsabilità che si assumono, e della forza dei nemici che hanno – e di cui hanno già clamorosamente sottovalutato forza, astuzia, potere in tutti gli apparati pubblici e mediatici, in Europa come in Italia. Devono imparare, per situarsi al disopra delle pance. Altrimenti, la prossima “vittoria” sarà un’altra occasione clamorosamente persa.

 

Maurizio Blondet

 

 
Nessun autentico ripensamento PDF Stampa E-mail

30 Ottobre 2019

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Da Comedonchisciotte del 28-10-2019 (N.d.d.)

 

I risultati delle elezioni in Umbria mi sembrano emblematici su più fronti. In primo luogo, sono una risposta piuttosto chiara a quella parte di commentatori di genio che scrollano il capo sconsolati di fronte al ‘cripto-fascismo’ degli Italiani. Che in una regione governata ininterrottamente da sinistra o centrosinistra per decenni la Destra vinca con 20 punti di distacco (e affluenza al 65%) dovrebbe mettere a tacere queste letture di comodo. Temo però che ciò sia un’illusione. Quei soggetti sinistro-liberali, ‘astuti come cervi’ (cit. Amici Miei), hanno infatti come stabile chiave di lettura politica della storia la Sfiga. Capita, ahimé, che il destino ti mandi una generazione di malvagi in terra, e quando succede non c’è niente da fare. Così, a fine ‘800 compaiono dal nulla i malvagi imperialisti, dopo la prima guerra mondiale compaiono dal nulla i malvagi fascisti, ed oggi (in Italia, come in tutto l’Occidente) compaiono dal nulla le malvagie Destre Populiste. Nel frattempo noi, quelli buoni, amanti del mercato e del progresso, avevamo fatto tutto giusto e non possiamo rimproverarci nulla. Ma contro il Destino che vuoi fare?

 

Purtroppo la sclerotizzazione politica del centrosinistra (che siano il PD o il M5S di Fico è uguale) è una sclerotizzazione ideologica profonda, che ostacola ogni autentico ripensamento, ogni tentativo di riformulazione delle basi (perché di questo si tratta). Come gli Scolastici davanti alle scoperte di Galileo, temono che se metti in discussione un mattone l’intero edificio gli crolli addosso: e il problema è che si sono insediati comodamente troppo a lungo in una verità consuetudinaria per riuscire anche solo ad immaginare da che parte cominciare un ripensamento. Perciò gli spazi per proposte politiche che rompano l’inerzia di un sistema al collasso finiscono per essere appaltate alla Destra, che non ha bisogno di impegnarsi in formulazioni troppo elaborate per apparire più realistica e propositiva. Questa paralisi mentale prima ancora che operativa è evidente se si guarda alla breve favola del governo Conte bis da agosto ad oggi. Era partito con un qualche seguito e qualche speranza. – Dopo tutto molti vedono chi è Salvini, e checché ne dicano i giornali di CSX, non è che gli italiani siano consistentemente ‘di destra’. Sono, questo sì, consistentemente stufi marci del nulla stagnante e decadente in cui sono immersi da decenni. – Dopo una partenza accettabilmente ottimistica si è cominciato a discutere del primo e fondamentale tema (quello che Salvini aveva lasciato sul piatto come polpetta avvelenata), ovvero la manovra finanziaria. E qui la spinta ottimistica si è schiantata subito. La scommessa sul Conte bis in salsa sinistro-europeista era che, grazie al famoso ‘cambiamento del vento in Europa’, ci sarebbero stati finalmente spazi per un rilancio consistente di investimenti e consumi. Tutte le mancanze e tutto il reliquario ideologico obsoleto del CSX gli sarebbero stati condonati di fronte a una svolta economica. Ma ciò che è venuto fuori dalla montagna della ‘rinnovata simpatia europea’ è stato un imbarazzante topolino (sbandierato come “manovra responsabilmente espansiva”). Eh, niente, a questo punto i giochi sono fatti. Le carte da giocare per uscire dal pantano sono state giocate e hanno mostrato di essere scartine. Il governo si illude di poter giocare una partita di lungo periodo, ma difficilmente troverà condizioni più favorevoli di adesso per operare con incisività. E in ogni caso, il vero problema è che non vedono proprio la necessità di farlo, né hanno idea di cosa inventarsi per farlo. Dunque la prospettiva di medio termine è che si barrichino a Palazzo Chigi, in attesa degli eventi e sperando di non finire i viveri prima dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Ma un paio di tuonate come quella umbra e qualunque barricata andrà a rotoli.

 

Se l’intera scommessa consiste nel ‘porre un argine a Salvini’ costi quel che costi, si tratta di una scommessa già perduta, per cui è iniziato il conto alla rovescia.

 

Andrea Zhok

 

 
Continua l'attacco alla Siria PDF Stampa E-mail

29 Ottobre 2019

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Da Comedonchisciotte del 27-10-2019 (N.d.d.)

 

Anche se Trump ha ordinato un ritiro parziale del migliaio circa di truppe americane presenti sul territorio siriano (cosa che, ai sensi del diritto internazionale, costituisce di fatto un’occupazione militare illegale) i funzionari statunitensi e il presidente stesso hanno ammesso che alcuni di loro rimarranno in loco. E rimarranno sul suolo siriano non per garantire la sicurezza di qualche gruppo di persone, ma piuttosto per mantenere il controllo dei giacimenti di petrolio e di gas. L’esercito americano ha già ucciso centinaia di Siriani e, probabilmente, anche alcuni russi, proprio per non lasciarsi sfuggire le riserve petrolifere siriane. L’ossessione di Washington per il rovesciamento del governo siriano è dura a morire. Gli Stati Uniti continuano a fare di tutto per impedire a Damasco di riprendere il proprio petrolio ed anche la regione con la maggior produzione cerealicola, per privare il governo dei relativi proventi ed impedirgli così il finanziamento delle opere di ricostruzione.

 

Il Washington Post aveva fatto notare nel 2018 che gli Stati Uniti e i suoi alleati Curdi stavano occupando militarmente una massiccia “fetta del 30% della Siria, dove probabilmente era localizzato il 90% della produzione petrolifera d’anteguerra.” Ora, per la prima volta, Trump ha apertamente confermato gli ulteriori motivi imperialisti dietro al mantenimento di una presenza militare americana in Siria.

 

“Vogliamo tenerci il petrolio,” ha confessato Trump in una riunione di governo del 21 ottobre. “Forse manderemo lì una delle nostre grandi compagnie petrolifere perché faccia le cose nel modo giusto.” Tre giorni prima, il presidente aveva twittato: “Gli Stati Uniti hanno messo al sicuro il petrolio.” […]

 

Il New York Times aveva confermato questa strategia il 20 ottobre. Citando un “alto funzionario amministrativo,” il quotidiano aveva riferito: “Il presidente Trump è favorevole ad un nuovo piano del Pentagono per mantenere un piccolo contingente di truppe americane nella Siria orientale, forse circa 200 uomini [un piano strategico che ricorda quello del Gen. Custer N.D.T.], per combattere lo Stato Islamico e bloccare l’avanzata del governo siriano e delle forze russe nei contesi giacimenti petroliferi della regione.… Un vantaggio secondario sarebbe quello aiutare i Curdi a mantenere il controllo dei giacimenti petroliferi nei territori ad est, ha detto il funzionario.” Trump ha poi esplicitamente ribadito questa politica, il 23 ottobre, in una conferenza stampa alla Casa Bianca sul ritiro dalla Siria. “Abbiamo messo in sicurezza il petrolio (in Siria) e quindi un piccolo numero di truppe statunitensi rimarrà nell’area dove c’è il petrolio,” ha detto Trump. “E lo proteggeremo. E decideremo cosa farne in futuro.” Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Mark Esper (ex vicepresidente delle relazioni con il governo per l’importante azienda bellica Raytheon, prima di essere promosso da Trump a capo del Pentagono) ha chiarito l’attuale politica americana sulla Siria in una conferenza stampa del 21 ottobre: “Abbiamo truppe nelle città del nord-est della Siria situate in prossimità dei campi petroliferi. Le truppe in quelle città non sono attualmente in fase di ritiro.

 

… Le nostre forze rimarranno nelle città che si trovano nelle vicinanze dei campi petroliferi.“ Esper ha aggiunto che l’esercito americano “sta mantenendo un pattugliamento aereo a copertura di tutte le nostre forze sul terreno in Siria.”

 

A differenza di Trump, Esper ha offerto un pretesto a giustificazione della continua occupazione militare americana dei giacimenti petroliferi siriani. Ha insistito sul fatto che i soldati americani rimangono per aiutare le forze democratiche siriane curde (SDF) a mettere in sicurezza le risorse petrolifere, per impedire agli Jihadisti dell’ISIS di prenderne il controllo. Ciò ha portato i principali media corporativi, come la CNN, a riferire che: “Il Segretario alla Difesa afferma che alcune truppe statunitensi rimarranno temporaneamente in Siria per proteggere i giacimenti petroliferi dall’ISIS.” Ma qualsiasi osservatore che avesse analizzato attentamente le affermazioni di Esper durante la sua conferenza stampa sarebbe stato in grado di rilevare il vero obiettivo dietro la persistente presenza americana nella Siria nord-orientale. Come affermato da Esper, “Uno degli obiettivi di questa forze [statunitensi], che collaborano con l’SDF, è negare l’accesso a quei campi petroliferi all’ISIS e ad altri che potrebbero beneficiare delle entrate ricavabili da essi.”

 

 E “altri che potrebbero beneficiare delle entrate ricavabili da essi” è un indizio ben preciso. In effetti, Esper usa questo linguaggio, “ISIS ed altri,” ancora due volte nel corso della sua argomentazione. Chi esattamente Esper intenda per “altri” è chiaro: la strategia degli Stati Uniti è quella di impedire al governo siriano riconosciuto dalle Nazioni Unite e alla maggioranza della popolazione siriana che vive sotto il suo controllo di riconquistare i propri giacimenti petroliferi e raccoglierne i frutti.

 

L’esercito americano ha già massacrato centinaia di persone per continuare a mantenere il controllo dei campi petroliferi siriani Questa non è solo un’ipotesi. La CNN lo aveva chiarito quando aveva riportato quanto segue in un passaggio innegabilmente brutale, citando anonimi funzionari militari statunitensi: “Da tempo l’esercito statunitense dispone di consiglieri militari aggregati alle forze democratiche siriane nell’area prossima ai giacimenti petroliferi siriani di Deir Ezzoir,  fin da quando l’area era stata strappata all’ISIS. La perdita di quei giacimenti petroliferi aveva privato l’ISIS di un’importante mezzo di sussistenza, la prima fonte di introiti che aveva differenziato l’organizzazione dagli altri gruppi terroristici.

 

I giacimenti petroliferi sono patrimoni che erano stati a lungo ricercati anche dalla Russia e dal regime di Assad, che è a corto di soldi dopo anni di guerra civile. Sia Mosca che Damasco sperano di utilizzare le entrate petrolifere per aiutare la ricostruzione della Siria occidentale e rafforzare la tenuta del regime.

 

Nel tentativo di impadronirsi dei campi petroliferi, i mercenari russi avevano attaccato la zona, portando ad uno scontro che aveva visto decine se non centinaia di mercenari russi uccisi dagli attacchi aerei statunitensi, un episodio che Trump aveva pubblicizzato come prova della sua determinazione contro la Russia. L’attacco aveva contribuito a dissuadere le forze russe e quelle del regime dal ripetere simili azioni per la riconquista dei giacimenti petroliferi. Le forze statunitensi nei pressi dei giacimenti petroliferi rimangono al loro posto e alti funzionari dell’esercito avevano precedentemente detto alla CNN che [questi uomini] sarebbero stati probabilmente gli ultimi a lasciare la Siria.” La CNN ha quindi riconosciuto che le forze armate statunitensi avevano ucciso addirittura “centinaia” di combattenti sostenuti dalla Siria e dalla Russia che cercavano di accedere ai giacimenti petroliferi della Siria. Avevano massacrato questi combattenti non per ragioni umanitarie [sic], ma per impedire al governo siriano di utilizzare “le entrate petrolifere per aiutare la ricostruzione della Siria occidentale.” Questa scioccante e palese ammissione è uno schiaffo in faccia al mito popolare secondo cui gli Stati Uniti starebbero mantenendo le truppe in Siria per proteggere i Curdi da un attacco della Turchia, un membro della NATO. L’articolo della CNN era un apparente riferimento alla Battaglia di Khasham, un episodio poco noto ma importante nella guerra per procura internazionale che imperversa ormai da otto anni contro la Siria. La battaglia si era svolta il 7 febbraio 2018, quando l’esercito siriano e i suoi alleati avevano lanciato un attacco per tentare di recuperare gli importanti giacimenti di petrolio e di gas del governatorato siriano Deir ez-Zour, che erano stati occupati dalle truppe americane e dai loro mercenari curdi. Il New York Times sembrava tutto contento, mentre riportava la notizia che l’esercito americano aveva massacrato 200-300 combattenti, dopo ore di “spietati attacchi aerei da parte degli Stati Uniti.”

 

Il Times aveva ripetutamente sottolineato che Deir ez-Zour è “ricca di petrolio” e aveva citato funzionari statunitensi anonimi, secondo cui molti dei combattenti massacrati erano cittadini russi della società militare privata Wagner Group. Questi anonimi “funzionari dell’intelligence americana” avevano detto al Times che i presunti combattenti russi erano “in Siria per impadronirsi dei giacimenti di petrolio e di gas e proteggerli per conto del governo di Assad.” Il Times aveva osservato che le forze operative speciali statunitensi della JSOC stavano collaborando con le forze curde in un avamposto vicino all’importante impianto siriano per l’estrazione di gas della Conoco. L’SDF a guida curda aveva strappato questa struttura all’ISIS nel 2017 con l’aiuto dell’esercito americano. Il Wall Street Journal aveva scritto all’epoca che “l’impianto è in grado di produrre quasi 450 tonnellate di gas al giorno” e che era una delle principali fonti di finanziamento dell’ISIS. Il giornale aveva aggiunto: “Le forze democratiche siriane guidate dai Curdi, sostenute dagli attacchi aerei della coalizione statunitense, stanno facendo a gara con il regime del presidente Bashar al-Assad per la conquista dei territori nell’est della Siria.” […] Per il governo siriano, riprendere il controllo delle proprie riserve di petrolio e di gas nella parte orientale del paese è cruciale per il finanziamento degli sforzi di ricostruzione e dei programmi sociali, specialmente in un momento in cui le soffocanti sanzioni statunitensi e dell’UE hanno paralizzato l’economia, portato a carenze di carburante e gravemente danneggiato la popolazione civile. Gli Stati Uniti mirano ad impedire a Damasco la riconquista di un territorio redditizio, privandola delle risorse naturali, dai combustibili fossili ai generi alimentari di base. Nel 2015, l’allora presidente Barack Obama aveva schierato truppe statunitensi nella Siria nord-orientale per aiutare le milizie curde delle Unità di Protezione Popolare (YPG) a combattere l’ISIS. Quella che era iniziata con qualche decina di unità delle forze operative statunitensi si era rapidamente trasformata in [una forza di occupazione] di circa 2000 uomini, in gran parte di stanza nella Siria nord-orientale. Dal momento che queste truppe statunitensi avevano consentito allo YPY di riprendere all’ISIS quella parte del paese, si era di fatto consolidato anche il controllo di Washington su quasi un terzo del territorio sovrano siriano, territorio che, guarda caso, comprende il 90% delle risorse petrolifere e il 70% della produzione cerealicola della nazione. Successivamente, gli Stati Uniti avevano costretto lo YPG a guida curda a rinominarsi come SDF, usandolo poi come forza mercenaria per cercare di indebolire il governo siriano e i suoi alleati, Iran e Russia. A giugno, Reuters aveva confermato che le autorità curde avevano accettato di sospendere la vendita di cereali a Damasco, su richiesta del governo degli Stati Uniti. Grayzone ha riferito come il Center for a New American Security, un importante think tank del Partito Democratico finanziato dal governo degli Stati Uniti e dalla NATO, avesse proposto di utilizzare “l’arma del grano” per ridurre alla fame la popolazione civile siriana.

 

Un ex ricercatore del Pentagono, diventato membro anziano del think tank, aveva dichiarato apertamente: “Il grano sarà un’arma di grande efficacia nella prossima fase del conflitto siriano.” Aveva poi aggiunto: “Potrà essere usata per esercitare pressioni sul regime di Assad e, tramite il regime, sulla Russia, per costringerla a concessioni nelle trattative diplomatiche in sede ONU.” […] Anche se Trump si è impegnato a riportare a casa i soldati statunitensi e a porre fine alla loro occupazione militare nel territorio siriano (che è illegale ai sensi del diritto internazionale) è evidente che [in Siria] la guerra globale per il cambio di regime continua. La brutale guerra economica contro Damasco si sta intensificando, non solo attraverso le sanzioni ma anche con il furto delle risorse naturali della Siria da parte delle potenze straniere.

 

Ben Norton (tradotto da Markus)

 

 
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