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Il modello IRI PDF Stampa E-mail

21 Settembre 2019

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Da Appelloalpopolo del 19-9-2019 (N.d.d.)

 

La Cina supera per la prima volta gli Stati Uniti nel numero di aziende presenti nella lista delle migliori 500 stilata da Fortune: 129 contro 121. Di queste 129, l’80% è costituito da aziende di proprietà dello Stato, +4% rispetto all’anno precedente. Il successo della Cina si basa praticamente su modello copiato da quello italianissimo dell’IRI. Ma la Cina non è un’eccezione, molti altri Paesi, la maggior parte di quelli industrializzati, vantano un’importante presenza dello Stato nell’economia, soprattutto quando si parla di grandi aziende. Guardando i dati viene fuori che dietro la Cina (96% delle aziende più grandi a guida statale), ci sono gli Emirati Arabi Uniti (88%), la Russia (81%), l’Indonesia (69%) e la Malesia (68%). Guardando invece ai settori, non deve sorprendere che tra quelli con i rapporti più alti di partecipazione pubblica – tra il 20% e il 40% – ci siano quelli legati all’estrazione o al trattamento di risorse naturali, energia e industrie pesanti. Tuttavia, alcuni settori dei servizi – come le telecomunicazioni, l’intermediazione finanziaria, il deposito, le attività di architettura e ingegneria e alcuni settori manifatturieri, registrano anche azioni delle imprese statali superiori al 10%.

 

L’Italia era il Paese più moderno e all’avanguardia, su questo fronte. Nel gennaio 1934, l’IRI deteneva circa il 48,5% del capitale azionario in Italia (James e O’Rourke, 2013, p. 59). Nel marzo 1934, rilevò anche il capitale delle principali banche (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma) e, alla fine del 1945, controllò 216 società con oltre 135.000 dipendenti. Negli anni 80, ha moltiplicato le sue quote e ha raggiunto un numero di 600.000 dipendenti. L’IRI è stato protagonista della ricostruzione industriale postbellica, intraprese interventi volti allo sviluppo economico delle regioni meridionali, al potenziamento della rete autostradale, del trasporto in genere e delle telecomunicazioni, al sostegno dell’occupazione. L’IRI ha inoltre realizzato grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell’Italsider di Taranto e quella dell’AlfaSud di Pomigliano d’Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro. Per evitare gravi crisi occupazionali, l’IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne sono esempi i “salvataggi” della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l’acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison; questo portò ad un incremento progressivo di attività e dipendenti dell’Istituto.

 

Poi è arrivata la presidenza Prodi che ha portato a: – la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l’Alfa Romeo, privatizzata nel 1986; – la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni e a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali; – la liquidazione di Finsider, Italsider e Italstat; – lo scambio di alcune aziende tra STET e Finmeccanica; – la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti Le entrate della privatizzazione per l’Italia tra il 1993 e il 2003 sono state stimate a 110 miliardi di euro, l’importo più elevato nell’UE a 15 in termini assoluti e tra i più alti come percentuale del PIL (Clifton et al. 2006). Siamo quelli che più degli altri si sono fregati con le proprie mani. Oggi le società pubbliche o partecipate, in Italia, sono circa 8.000 e impiegano circa 500 000 persone, ovvero il 2,1% dell’occupazione totale (Istat, 2015). Nel 2013, il 5% delle 1.523 principali imprese italiane era controllato da un’entità pubblica – centrale o locale. Il loro valore aggiunto aggregato corrisponde al 17% del PIL italiano (1,62 miliardi di euro a prezzi correnti nel 2013). Numeri ridicoli se paragonati al peso che l’economia di Stato ha in altri Paesi, sia sul fronte della dimensione delle aziende che su quello dell’impiego. Insomma mentre molti Paesi, Cina in primis, hanno costruito la loro fortuna copiando il modello IRI, noi invece ce ne siamo liberati per entrare nell’Unione Europea e adottare l’euro. Probabilmente l’operazione più tafazziana che si sia vista in epoca moderna.

 

Gilberto Trombetta

 

 

 

 
L'invasione misconosciuta PDF Stampa E-mail

20 Settembre 2019

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Da Rassegna di Arianna del 13-9-2019 (N.d.d.)

 

Mentre prosegue il pressing delle navi delle varie o.n.g. attorno a Lampedusa, il nuovo ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, già capo di gabinetto di Angelino Alfano (a volte ritornano…), ha detto, per salvare la faccia e vista l’impossibilità di una inversione di centottanta gradi in ventiquattro ore, che i porti, per adesso, restano chiusi, ma che verso i migranti verrà usata una maggiore “umanità”. Non comprendiamo bene – sarà un nostro limite - in che cosa il precedente governo abbia dimostrato scarsa umanità nei loro confronti: ci risulta che tutti i minorenni, tutte le donne in stato interessante, tutte le persone con qualsiasi problema di salute sono state fatte sbarcare senz’altro; gli altri, hanno subito il terribile oltraggio di aspettare alcuni giorni fuori del porto, fino a quando la Carola di turno (che ora si prende la rivincita querelando l’ex ministro Salvini) non li ha fatti sbarcare a viva forza, magari speronando una imbarcazione della Guardia di Finanza e mettendo in pericolo l’incolumità degli uomini in uniforme. Tuttavia appare chiaro, dal fatto che la primissima mossa del neogoverno giallo-fucsia, quasi ancora prima di giurare fedeltà alla Repubblica (di Pulcinella) è stata l’annuncio di avere impugnato le leggi sull’immigrazione adottate dalla regione Friuli Venezia Giulia, perché “discriminatorie” nei confronti, appunto, dei migranti (cioè discriminatorie non verso dei cittadini regolarmente recensiti ma verso dei clandestini che non si sa neppure chi siano e con quali intenzioni pretendano d’entrare illegalmente nel nostro territorio) quale sia la filosofia sottesa alla nuova linea politica verso l’immigrazione clandestina. Filosofia riassunta mirabilmente, si fa per dire, dal ministro Lamorgese, nell’affermazione che d’ora in poi ogni singolo caso sarà valutato in sé e per sé, d’intesa con il premier Conte, partendo dal presupposto che l’Italia non sta subendo alcuna invasione. Ecco, il punto è proprio questo: il fatto che il medesimo fatto viene giudicato dai politici della sinistra con un metro talmente diverso da quello usato dalla stragrande maggioranza degli italiani – come è provato dal massiccio sostegno popolare al Decreto Sicurezza Bis dell’ormai defunto governo Conte 1 – da far pensare che non si tratti nemmeno dello stesso fatto. Signor ministro, se quella che sta subendo l’Italia ormai da una trentina d’anni, prima dall’Albania, poi da altri Paesi dell’est e infine dall’Africa e dal Medio Oriente, non è un’invasione, allora che cos’è? Come la chiama lei? Che cos’è un’invasione secondo lei e secondo i membri del governo di cui lei fa parte? Partiamo dal presupposto che la lingua italiana, come del resto ogni altra lingua, non esprime una corrispondenza fra parole e concetti tanto precisa quanto le scienze matematiche, e tuttavia che essa è suscettibile di fornire definizioni ampiamente condivise; che non è stata inventata artificialmente da qualche azzeccagarbugli per confondere le idee all’interlocutore; ma che, al contrario, è stata affinata dall’uso di tante generazioni affinché gli uomini si comprendano vicendevolmente e si comprendano sempre meglio. Prendiamo allora il vocabolario Treccani e vediamo quale definizione dà della parola “invasione”: invaióne s. f. [dal lat. tardo invasio -onis, der. di invadĕre «invadere»]. – 1. a. Ingresso nel territorio di uno stato da parte delle forze armate di uno stato belligerante, per compiervi operazioni belliche, con o senza l’intenzione di occuparlo stabilmente: l’i. della Polonia, nella 2a guerra mondiale; fare, tentare un’i.; respingere un’invasione. b. Con riferimento soprattutto alla storia medievale, la penetrazione in un territorio di popoli che migrano in cerca di nuove sedi: le i. barbariche; l’i. degli Unni, o di Attila; l’i. della Spagna da parte dei Vandali; l’i.longobarda, in Italia. c. Irruzione violenta o arbitraria di persone in un luogo: i. di aziende agricole o industriali, considerata come reato contro la pubblica economia; i. di terreni o edifici altrui (pubblici o privati), considerata reato contro il patrimonio, quando sia fatta con lo scopo di occuparli o di trarne altrimenti profitto; scherz.: ma questa è un’i., quando molte persone, per lo più amiche, entrano inaspettatamente tutte insieme in un luogo. In giochi a squadra, e soprattutto nel calcio, i. del (o di) campo, irruzione degli spettatori sul terreno di gioco durante o alla fine di una partita, per protesta; i. pacifica, quella effettuata per entusiastica acclamazione dei giocatori della propria squadra. d. Nella pallavolo, sconfinamento di un giocatore (o di una parte del suo corpo) nel campo di gioco avversario durante lo svolgimento di un’azione. 2. a. In relazione ai sign. estens. e fig. di invadere, di qualsiasi cosa che irrompa in un luogo occupandolo o diffondendovisi in gran quantità: un’i. di cavallette, di topi; arginare l’i. delle acque; l’i. del morbo, di un’epidemia; c’è un’i.di prodotti (o anche di cantanti) stranieri, di film polizieschi, di fumetti pornografici. Raro col senso di usurpazione, ingerenza arbitraria e sim.: i. di un potere, di un diritto; l’i. del sentimento nel dominio della ragione. b. In patologia, la diffusione nell’organismo di agenti infettivi o di cellule tumorali (i. metastatica). In partic., nel decorso di alcune malattie infettive, periodo d’i., quello caratterizzato da febbre, comparsa più o meno brusca dei sintomi caratteristici, ed eventualmente positività dell’emocoltura.

 

E dunque, o noi non conosciamo la lingua italiana e la adoperiamo malissimo, in senso del tutto improprio, e inoltre non sappiamo riconoscere i fatti che accadono sotto i nostri occhi e che ci toccano più da vicino, non sappiamo ragionare, non sappiamo comprenderli, oppure ci sembra che il secondo significato descriva perfettamente ciò che sta accadendo, da circa tre decenni, sulle coste e lungo i confini terrestri del nostro Paese. Un’invasione è la penetrazione in un territorio di popoli che migrano in cerca di nuove sedi; e non è detto che debba avvenire manu militari. A noi sembra che si possa e si debba definire “invasione” uno spostamento di popolazioni (perché, sommando il numero degli sbarchi e degli sconfinamenti quotidiani, si arriva al valore di centinaia di migliaia, più i milioni d’immigrati “regolari”: cioè d’intere popolazioni) al quale non sia possibile opporsi. In questo caso, ciò che rende impossibile il rifiuto d’ingresso a chi giunge illegalmente nel territorio della nostra Patria è il carattere di emergenza umanitaria: difficile negare lo sbarco a persone che giungono in vicinanza dei nostri porti a bordo di canotti o imbarcazioni di fortuna; difficile anche se vi giungono comodamene traghettati dalle navi delle o.n.g., il cui medico di bordo non esita a compilare falsi certificati medici attestanti gravi patologie, per affrettare lo sbarco di persone che, visitate dal medico a terra, risultano perfettamente sane. Vi sono casi assolutamente documentati in proposito: perché sappiano, i signori buonisti in pantofole, che abbiamo a che fare con gente senza scrupoli, disposta a sfruttare il naturale senso di solidarietà e umana compassione per prendere per i fondelli sia il personale sanitario dei centri di accoglienza, sia l’intera opinione pubblica italiana, alla quale vengono rifilate commoventi narrazioni di emergenze sanitarie che in realtà non esistono. Inoltre, assurdi trattati internazionali, che andrebbero totalmente riscritti, assicurano tutti i diritti a queste persone che si fingono naufraghi e si fingono profughi, ma il cui vero obiettivo è stabilirsi definitivamente in un Paese non loro, costringendo la popolazione locale ad accettarli, e le autorità statali a regolarizzarli, anche se è evidente che un vero naufrago si accontenta di essere salvato dal mare e poi aiutato a fare ritorno a casa sua, e che un vero profugo è animato dallo stesso identico desiderio: ritornare a casa propria il più presto possibile, non appena si siano attenuate le circostanze eccezionali che l’hanno costretto a cercar rifugio all’estero. Rifugio nel più vicino Paese oltre le proprie frontiere: non in uno di sua scelta, preso di mira con protervia e scartando ogni soluzione alternativa, come quella di esser fatto sbarcare in un porto più vicino e assolutamente sicuro, come è il caso dei porti della Tunisia, geograficamente più vicini alla Tripolitania di quanto non lo siano le piccole isole italiane poste nel Canale di Sicilia, o addirittura le coste della Sicilia stessa. Ora, come si deve chiamare una quotidiana penetrazione di stranieri, che si prolunga da anni, da decenni, e investe cifre dell’ordine di milioni; penetrazione alla quale non è possibile opporsi, sia per ragioni umanitarie, sia giuridiche (il soccorso in mare ai profughi e l’ospitalità dovuta ai rifugiati), anche se tutto si basa su una grossa menzogna neanche tanto ben dissimulata, perché ciascuno sa che non si tratta né di veri naufraghi, né di veri profughi, almeno nel 95% dei casi? A casa nostra una cosa del genere si chiama invasione; ma evidentemente a casa del ministro Lamorgese, del premier Conte e del signor Bergoglio ha un altro nome.

 

Abbiamo detto che il problema dell’invasione non riguarda solo i clandestini, ma anche gli stranieri regolari. Ebbene sì: bisogna che qualcuno lo dica. Non si tratta di razzismo e neppure di criminalizzare tutte quelle persone, la maggioranza delle quali, senza dubbio, si comporta bene, rispetta le leggi e non crea problemi alla società che le ospita. Ma il fatto è che sono troppe, decisamente troppe, e arrivate troppo in fretta: senza un piano economico e lavorativo, così, alla carlona, e senza alcuna selezione in base alla nazionalità, alla cultura, eccetera, in nome del politically correct e del dogma antirazzista: negando, in compenso, il diritto evidente di uno Stato di decidere chi entra in casa sua, in quanti entrano, perché entrano, per fare che cosa. Invece, mentre viene presentata come emergenza una situazione che si protrae da circa trent’anni, nulla è stato fatto per stabilire delle quote, sia di provenienza dei rispettivi Paesi, sia di competenze lavorative e professionali. Di quante badanti ha bisogno la società italiana, per esempio, in questo momento storico? Si fa una stima, basandosi sui dati relativi all’età e alla struttura dei nuclei familiari dei cittadini italiani, e si stabilisce un “tetto”. Di quanti operai, di quanti lavoratori agricoli, di quanti commercianti l’Italia ha bisogno, o, per dir meglio - visto che di questi tempi lavoro non ce n’è neanche per gli italiani - quanti stranieri l’Italia può accogliere, sia pure con una certa fatica, sistemandoli dignitosamente in unità abitative convenienti, e ripartendoli nei vari settori lavorativi nei quali vi è una domanda? Invece si continua ad accogliere domande d’ingresso totalmente slegate dalle reali necessità e possibilità di assorbirli e d’integrarli: si fanno venire decine e centinaia i migliaia di persone che non trovano lavoro, che vivono di lavori precari, che perdono il lavoro, ad esempio perché le fabbriche in cui lavoravano sono fallite, ma non vengono rimpatriati, restano in Italia non si sa perché, a vendere fazzoletti di carta per le strade, nel migliore dei casi, se no a spacciare e rapinare. E intanto s’intasano i servizi pubblici, particolarmente quelli sanitari; e si mandano giù per buone le balle colossali che dei personaggi come Tito Boeri rifilano all’opinione pubblica, ossia che è solo grazie alla presenza degli stranieri se lo Stato riesce ancora a pagare le pensioni ai lavoratori italiani. Senza pensare che quegli stranieri fanno dei figli, e ne fanno parecchi, e che fra un certo numero di anni lo Stato italiano dovrà pagare la pensione anche a loro: sì o no? Quanto al contingentamento della nazionalità, non c’è nulla di scandaloso: gli Stati Uniti, culla della democrazia, lo hanno sempre fatto. Non si può permettere a milioni di africani islamici di stabilirsi permanentemente in Italia, per una ragione semplicissima, che non c’entra né col razzismo, né con l’intolleranza religiosa: ossia perché l’Italia ha una sua identità, una sua fisionomia, e quelle persone non sono minimamente intenzionate ad adattarsi, ad integrarsi, a fare propri i valori e gli stili di vita del nostro popolo. E dunque, a che titolo essi chiedono, anzi pretendono, di venire a stabilirsi in Italia? Per formare delle isole etniche, dei ghetti, come già avviene in tante città e regioni del Belgio e della Francia? Isole e ghetti che un po’ alla volta, grazie al loro forte incremento demografico, si espanderanno: e alla fine saranno gli italiani, gli ultimi, sempre più vecchi e sempre più deboli, a formare delle isole e dei ghetti, a malapena tollerati, finché non spariranno anch’essi, e una civiltà africana ed islamica si sarà stabilita per sempre nel nostro Paese, sulla terra dei nostri padri, sostituendo il popolo italiano e facendo con lui quel che fa il cuculo con i pulcini del nido in cui sceglie di stabilirsi: sloggiandoli e restando padroni del campo, al loro posto. Noi non abbiamo nulla né contro l’Africa, né contro l’islam: ci permettiamo però di osservare che l’Africa e l’islam c’entrano poco con la civiltà italiana, così come si è costruita nel corso dei secoli e come essa si presenta al presente. Non c’è niente che giustifichi questa sostituzione di popoli, se non gli oscuri interessi dell’oligarchia finanziaria mondiale, che così ha deciso e così ha ordinato di fare agli uomini politici europei, sostenuti da una pletora di giornalisti e pseudo intellettuali i quali ripetono incessantemente le stesse frasi, gli stessi slogan fritti e rifritti: che non c’è alcuna invasione; che la società multietnica è una meraviglia; che siamo fortunati a ricevere questo apporto di stranieri, perché la nostra società è vecchia e stanca, e così vi si immettono energie fresche. Ma la verità è un’altra: la civiltà italiana ed europea sta morendo, e l’immigrazione selvaggia è lo strumento principale della sua scomparsa. L‘altro strumento è quello esercitato a livello economico dalla BCE e dai poteri forti internazionali. Del resto, ci si ripete sempre quant’è bello vivere in democrazia: ma che democrazia è quella in cui non si chiede a un popolo se è d’accordo d’essere invaso e sostituito?

 

Francesco Lamendola

 

 
L'impero degli astuti imbecilli PDF Stampa E-mail

19 Settembre 2019

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Da Rassegna di Arianna del 17-9-2019 (N.d.d.)

 

La manovra scissionista di Renzi è a modo suo brillante. Se avesse operato la sua scissione (matura da tempo) in un partito in campagna elettorale gli avrebbero imputato la sconfitta. Invece premendo per la formazione di un governo è ora nelle condizioni di: 1) far valere all’interno dell’attuale governo il piazzamento sovradimensionato del proprio entourage (frutto delle liste elettorali da lui composte a suo tempo); 2) far muovere i primi passi al nuovo soggetto politico nell’atmosfera protetta di una posizione di governo.

 

Questo per dire che non è che nella politica italiana manchino i talenti. Il problema è però che l’ambiente in cui avviene la selezione naturale di questi talenti è una sorta di distopia machiavellica, in cui l’unica cosa che conta (e che sembra contare all’esterno) è la conquista di una fetta di potere a scapito di un avversario ad hoc. Ed è perciò che i talenti che si impongono per selezione naturale sono inevitabilmente, nel migliore dei casi, non degli statisti ma degli astuti imbecilli. Le ragioni del dominio incontrastato degli astuti imbecilli sono semplici. Da tempo il collante positivo, l’idea comune, la forma di società desiderata sono relegate all’archeologia politica. Invece di un collante positivo ce n’è solo uno negativo, ovvero la scelta di un nemico preferenziale. L’elemento essenziale non è trovare quali linee politiche comuni abbiamo con X o Y, ma cosa dobbiamo fare per porci in antitesi a Y o X. La politica si fa sempre essenzialmente ‘contro’. Si sceglie di volta in volta un bersaglio e ci si dedica a fare tutto ciò che è necessario in termini di alleanze, norme, decreti per colpire il proprio bersaglio. Ciò vale sia quanto alle forze politiche che quanto ai temi da trattare. Non c’è l’idea positiva di qualcosa di desiderabile da produrre, ma quella dello ‘scandalo da sradicare’, del ‘reo da imprigionare’, del ‘pericolo da sventare’, dell’ ‘abuso da sanare’, insomma di un nemico da abbattere. Ma fare politica a colpi di negazione non è un’alternativa equivalente a farla in vista di opzioni positive. Una politica ‘contro’ è una politica che richiede furbizie, vittorie tattiche e trionfi simbolici, ma che non mette le proprie energie nella costruzione di qualcosa di duraturo, anche perché qualunque cosa positiva venga costruita finirà inevitabilmente per beneficare in qualche misura anche i ‘nemici’, che si ritroveranno a gestire una situazione migliorata. Perciò il meglio di sé la politica odierna lo dà in manovre di riposizionamento, trucchi elettorali, espedienti legali, tutte cose dove si assiste a veri e propri virtuosismi – per chi ama il genere. Certo, poi a nessuno interessa seguire la tediosa implementazione di progetti di legge rivolti al paese di domani, tutta roba che deve essere seguita nel tempo, che richiede decreti applicativi ben studiati, che esige messe a punto ricorrenti, ecc. Per una politica mossa dall’individuazione di nemici protempore tutto ciò è superfluo e noioso. Così la politica odierna (italiana, ma non solo) non crea più uomini di stato, ma guitti, performer, piccoli machiavelli da avanspettacolo, astutissimi imbecilli impegnati a togliersi vicendevolmente la sdraio da sotto il culo mentre la nave affonda. E si aspettano il vostro applauso.

 

Andrea Zhok

 

 
La morte dell'onore PDF Stampa E-mail

18 Settembre 2019

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Da Rassegna di Arianna del 15-9-2019 (N.d.d.)

 

Considerazioni inattuali. Nel calderone dei fulminei mutamenti di massa dell’epoca nostra, che rendono irriconoscibile la società, tramontano idee, modi di vivere, valori. Una delle vittime della modernità trionfante è l’onore. “La mia anima a Dio, la mia vita al re, il mio cuore alla dama, e l’onore per me”, fu per secoli il motto della Cavalleria. Oggi l’anima è ignorata persino dalla chiesa, non ci sono più dame, ma partner occasionali con cui sfogare gli impulsi senza progetto comune e continuità di rapporto; nessuna appartenenza, bandiera o fedeltà personale giustifica il rischio della vita, e, quanto all’onore, poche sono le parole più inconsuete e fuori moda. È difficile anche attribuire un significato a quel bene immateriale, quel concetto impalpabile che si definiva onore. Restano brandelli fuori tema, come le onoranze funebri, o, nello sport, la richiesta esigente dei tifosi, ultimi, estemporanei custodi di scampoli di onore: “onorare la maglia”. L’onore parla di appartenenza e di fedeltà in un mondo che ha abbandonato tutto ciò che è, permanente, duraturo.  È -era – un valore solido in un mondo liquido che tende alla dissolvenza gassosa.  Non ci soddisfa del tutto la definizione dell’enciclopedia Treccani, secondo la quale, “l’onore è la dignità personale che si riflette nella considerazione altrui, con un significato che coincide con quello di reputazione e, in senso più positivo, il valore morale, il merito di una persona, non considerato in sé ma in quanto conferisce alla persona stessa il diritto alla stima e al rispetto altrui.“ L’onore è di più: è un sentimento personale e insieme comunitario, è il rispetto e l’orgoglio di sé coincidente con i più elevati principi della comunità di appartenenza, evoca la vocazione verticale di chi guarda in alto ed attribuisce preminenza alla dimensione morale, tanto da imporre, in determinate situazioni, l’obbligo del sacrificio. È impopolare in quanto assegna il primato alla dimensione dei doveri anziché a quella dei diritti, tanto più facile e comoda, inaugurata dalla rivoluzione francese borghese, mercantile ed irreligiosa. Il primo segno esteriore di onore era rispettare la parola data, “onorare “i propri impegni. In ogni comunità tradizionale, una stretta di mano valeva più di un contratto scritto e chi si sottraeva agli obblighi presi veniva, di fatto, espulso. Di lui non ci si poteva fidare, si era disonorato.

 

Per Francisco Quevedo, “colui che perde la reputazione per gli affari, perde affari e reputazione.” Oggi chi contravviene alle promesse, è spesso considerato un “dritto”, uno che ha saputo tutelare il proprio interesse. Al contrario, l’uomo e la donna d’onore ispiravano fiducia, di loro si sapeva esattamente come si sarebbero comportati in ogni circostanza. La fiducia reciproca è in ribasso, i meno giovani la associano alla vecchia réclame di una marca di formaggi che “vuol dire fiducia”. Secondo un grande romanziere francese, Alfred De Vigny, l’onore è il pudore virile, ovvero il principio che trattiene anche gli uomini più potenti o orgogliosi dal compiere gesti, praticare condotte non conformi a retta morale. Si tratta, innanzitutto, di un valore comunitario: l’onore non è individualista, io mi sento uomo d’onore in quanto quella virtù sottile ma insieme profonda è riconosciuta dalla comunità cui appartengo, dalle persone che stimo per il giudizio sul mio passato, la fedeltà che ho dimostrato, la dirittura che ho professato. Pochi autori contemporanei hanno trattato il tema dell’onore: pure questo è un sintomo del suo tramonto. Ricordiamo un brano di Marcello Veneziani e alcune pagine del pensatore e sociologo canadese comunitarista Charles Taylor nel Disagio della Modernità. Taylor ritiene, a nostro avviso erroneamente, che la base del principio d’onore fossero le gerarchie sociali del passato. In ciò, coincide con il pensiero dell’illuminista Montesquieu, che scrisse nello Spirito delle Leggi “il principio dell’onore è di domandare delle preferenze e delle distinzioni”. Non è così, se non nel senso decadente di un’aristocrazia esangue ridotta al più ridicolo formalismo. Certo, l’onore è legato alle diseguaglianze. Gli uomini non sono uguali, alcuni si distinguono per una vocazione più elevata, che significa fedeltà ai principi e alle persone, senso del dovere (la nobiltà dell’animo, ben più di quella del sangue, obbliga), rispetto di certe forme di comportamento, la capacità di fare in ogni occasione ciò che va fatto. È nobile e degna d’onore la madre che alleva ed educa i figli, il soldato romano che restò al suo posto, fedele alla consegna, durante il terremoto di Pompei, non meno che l’eroe autore di imprese eccezionali.

 

A fronte di questa nozione di onore, abbiamo la moderna categoria della dignità, impiegata in un’accezione universalistica ed egualitaria, che parla di dignità intrinseca degli esseri umani o di dignità del cittadino. Tale concetto sembra l’unico compatibile con una società democratica, con l’inevitabile marginalizzazione dell’onore.  In esso diventa essenziale l’uguaglianza delle forme di riconoscimento, che ha assunto nel tempo aspetti diversi e si manifesta ora nelle prepotenti richieste di riconoscimento di status per i generi, le culture e le scelte di un numero potenzialmente infinito di minoranze “uguali”. La differenza rispetto all’onore è grande: il riconoscimento di dignità è un giusto punto di partenza comune, da sempre è un cardine del cristianesimo, ma resta un principio orizzontale, che non richiede altro se non l’appartenenza alla specie umana. L’onore è un traguardo, una sfida continua, il punto d’arrivo di un percorso di distinzione e affinamento della personalità. È orgoglio personale, sguardo rivolto verso l’alto, ansia di miglioramento, appartenenza, fedeltà, riferimento a modelli ideali, esercizio di volontà. In un tempo individualista, l’onore perde significato, diventando incomprensibile, un fardello inutile dal quale liberarsi con sollievo. La sostituzione è avvenuta attraverso il concetto di immagine. Oggi, se qualcuno esprime un giudizio negativo su di me, lede la mia immagine, ovvero l’idea di me che io desidero trasmettere agli altri. L’immagine è superficiale, attiene all’esterno, a ciò che io stesso voglio far trapelare, più ancora a ciò che intendo celare, è una fotografia ritoccata al photoshop della mia persona, non della mia personalità o della mia verità. Eppure, oggi teniamo all’immagine almeno quanto le generazioni precedenti tenevano all’onore. Poiché la tendenza del tempo è all’esteriorità, alla finzione, l’immagine, che conserva ancora un minimo di sembianza etica, scade rapidamente nel “look”, ovvero nell’apparenza esteriore costruita attraverso l’abbigliamento, l’acconciatura, il linguaggio del corpo, adesso anche i tatuaggi. La corsa verso il basso procede inarrestabile, con il pretesto dell’autorealizzazione, della libertà di scelta, della moda. È la sottocultura del narcisismo, enfatizzazione massima dell’apparenza, trasferita nella sfera soggettiva: l’obiettivo del narcisista è modesto, piacere a se stesso, gli altri sono esclusi. Nessuna relazione con la serena compostezza dell’onore, che è un sentimento aristocratico nella misura in cui tende ad elevare chi lo persegue. Nulla di più estraneo, ahimè, alla ragione strumentale prevalente, unico orizzonte ammesso, gelida, estranea alla morale ed all’etica, tutt’ al più interessata, per convenienza, ad osservare fredde norme deontologiche, ovvero i comportamenti prescritti nella pratica professionale. Etichetta senza un vero galateo.

 

L’onore, infine, appartiene al regno dei fini, a differenza dell’immagine e del “look”, mezzi per rafforzare la parvenza di sé, piatti, privi di profondità. Onore, come onere, deriva dalla radice latina onus, peso, gravame, a dimostrane la natura essenzialmente morale, legata al dovere da assolvere, alla virtù da perseguire, agli obblighi liberamente assunti. Il suo contrario, il disonore, è il tradimento degli scopi, dei principi, delle persone, dell’etica comunitaria. L’onore, insomma, a differenza dei suoi surrogati postmoderni, si ottiene, si mantiene e si perde di fronte a tutti. È personale, ma anche pubblico. Per questo tramonta in una civilizzazione tanto individualista, in cui non si riconosce più alcun legame. La tanto amata libertà contemporanea vanta la liberazione, l’emancipazione da ogni vincolo. Nessuna fedeltà, nessun dovere, nessun principio condiviso: solo l’Io padrone di se stesso, mutevole, sciolto da appartenenze e da principi di lungo periodo. L’immagine e il look, come il narcisismo, sono liquidi, tipici di società atomizzate, l’onore è solido. A lungo termine, nessun uomo, nessuna civiltà, può sopravvivere privata di un proprio senso dell’onore. Senza, ha ragione Hobbes: homo homini lupus, l’uomo torna una belva nemica di tutti, in balia dell’istinto, prigioniera della legge del più forte, preda o predatrice. Ritornerà, prima o poi, questo antico sentimento che eleva, limita, obbliga e produce rispetto, considerazione, identità. L’onore è insieme dovere e diritto: troppo per questa modernità invecchiata e ansimante, egoista e senz’anima. […]

 

Roberto Pecchioli

 

 
I fruitori del Quantitative Easing PDF Stampa E-mail

16 Settembre 2019

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Da Rassegna di Arianna del 13-9-2019 (N.d.d.)

 

Il rilancio del Quantitative Easing è stato visto con entusiasmo o almeno con sollievo nella gran parte dei dibattiti pubblici e mediatici. Per un mondo abituato a giudicare il proprio stato di salute dalle reazioni dei "mercati" si tratta di una reazione ampiamente prevedibile. (Personalmente ho ancora il ricordo di un'epoca in cui non esisteva il resoconto minuto per minuto, h24, della salute delle "borse" come dato intorno a cui far gravitare il resto dell'esistenza. Si tratta di una tendenza iniziata negli anni '80, che inizialmente mi stupiva ed irritava: <Ma perché mai dovremmo sentirci euforici se le borse sono in "rally", o sentici depressi quando il "mood" degli "stakeholders" è "down">. Alla fine, decennio dopo decennio, capisci che se continui a cercare di capire qualcosa che non è nato per essere capito, ma solo subito, a finire depresso sarai tu; e smetti di porti domande che incidono sul tuo stato di salute.) Ora è noto che per il debito pubblico italiano una ripresa del QE sia di beneficio, in quanto riduce i tassi di interesse. Di norma, peraltro, si glissa sul significato generale di questo dato acclarato, ovvero che ogni qual volta siamo seriamente minacciati dallo 'spread' questo dipende sempre, in maniera decisiva, dal fatto che la BCE NON fa qualcosa che POTREBBE fare, e che sceglie di non fare.

 

C'è però un secondo elemento raramente discusso, ovvero il fatto che un allentamento della politica monetaria prodotto, nella cornice legale vigente, da parte della BCE è un processo socialmente monco, che ha un effetto di ampliamento della forbice sociale. Infatti, se la BCE fosse l'organo di una politica economica interessata al benessere dei cittadini, allora la disponibilità di 'denaro facile' attraverso il QE verrebbe veicolato dagli stati in politiche espansive di investimento pubblico, di assunzioni, di incremento di salari, pensioni, servizi pubblici, ecc. Questo processo produrrebbe un miglioramento delle condizioni sociali generali, un rafforzamento degli stati, e un moderato aumento dell'inflazione, tutti elementi che, incidentalmente, si ripercuoterebbero in maniera benefica ANCHE sui debiti pubblici, grazie all'incremento del prelievo fiscale e all'abbattimento del debito reale grazie all'inflazione. Curiosamente, ciò non si verifica e anzi, chi l'avrebbe mai detto, la struttura dei trattati UE è pensata in modo tale da impedire che si verifichi. Infatti, la maggiore disponibilità di denaro a buon prezzo non può, per quanto scritto nei trattati, essere messo direttamente a disposizione degli stati, ma viene conferito al sistema bancario privato. Quest'ultimo lo passa avanti al resto della società SOLO nella misura in cui i richiedenti prestito possano dare garanzie di resa, dunque essenzialmente sotto due condizioni: 1) i richiedenti devono possedere già asset rilevanti; 2) deve esserci all'orizzonte una domanda tale da giustificare una crescita del relativo investimento produttivo (investo per produrre di più e meglio, in quanto c'è un mercato di acquirenti potenziali).

 

Purtroppo di queste due condizioni, la seconda, quella tipicamente rivolta all'economia reale e non alla rendita, dipende dalla disponibilità di denaro già presente nelle tasche dei potenziali acquirenti, dunque dei cittadini. Ergo, se qualcuno non glielo mette in tasca attraverso una delle vie menzionate sopra (assunzioni, incrementi salariali, ecc.), la domanda semplicemente stagna, e con essa gli investimenti produttivi e le erogazioni bancarie ad esso destinate. Resta solo il primo fattore: il denaro a buon prezzo può venire erogato dal sistema bancario a chi possiede già degli asset che facciano da garanzia. Questo significa che a fare la parte del leone in questo contesto sono soltanto minuscole sezioni privilegiate della società, che possono ad esempio svolgere investimenti immobiliari di lungo periodo.

 

Morale della favola: il sistema QE sotto le condizioni attuali dei trattati favorisce essenzialmente soltanto coloro i quali dispongono già di solidi patrimoni e non hanno l'urgenza di rendite immediate. Questo gruppo sociale ristretto può consolidare la propria posizione e incrementare il proprio distacco economico dal resto della società. Il resto del sistema invece rimane stagnante (ed è questa la ragione per cui non cresce l'inflazione). Al momento la BCE ha in pancia 3000 miliardi di euro (sic!) di titoli acquistati con il precedente QE. Mi chiedo se qualcuno si chieda come sarebbe oggi trasformata la vita di tutti gli europei se quella cifra, o anche solo una sua significativa frazione, fosse entrata in circolazione in forma di spesa pubblica, investimenti, salari, pensioni, servizi, ecc. (E per inciso, spero che nessuno creda che le ovvietà che ho scritto sopra siano ignote a chi tira le fila della politica europea: chi agisce così lo fa con piena consapevolezza di ciò che sta facendo).

 

Andrea Zhok

 

 
Una discriminazione pericolosa PDF Stampa E-mail

14 Settembre 2019

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Da Rassegna di Arianna del 12-9-2019 (N.d.d.)

 

Martedì Facebook Inc. ha deciso di cancellare dalle proprie piattaforme (l’omonima e Instagram) tutte le pagine e i profili personali riconducibili a due movimenti politici, CasaPound e Forza Nuova, accusati di «odio organizzato». Il problema, evidente, è legato alla contraddizione tra uno Stato, quello italiano, che riconosce quali legittimi tali movimenti politici (nessun tribunale li ha mai sciolti, partecipano regolarmente alle elezioni e, malgrado gli scarsi risultati, hanno alcuni rappresentanti eletti in organismi locali), e una corporation privata che li bandisce dalle proprie piattaforme. Un’azienda californiana ha sostituito sé stessa e i suoi regolamenti ai tribunali e alle leggi del popolo italiano.

 

L’obiezione che muovono gli apologeti della Facebook Inc. è che, trattandosi di azienda privata che ha un proprio regolamento di utilizzo delle piattaforme sottoscritto dagli utenti, possa fare ciò che vuole. Il che stona, tuttavia, con la differente realtà della nostra società, in cui la legge non permette affatto a chicchessia, solo perché privato, di discriminare liberamente tra gli utenti. Il titolare di un esercizio aperto al pubblico, come un bar o un negozio, non è certo libero di buttar fuori un cliente in base alla sua fede politica o al colore della pelle. I giornali sottostanno alle regole di un ordine professionale, oltre che a varie leggi ad hoc, mentre i telegiornali sono vigilati da un’autorità di garanzia. In Italia l’iniziativa privata è regolata eccome, nella sua interazione col pubblico, né si può pensare che un semplice contratto di servizio possa sanare ogni contraddizione: nessun ristorante potrebbe cacciare i clienti con tic facciali solo avendo fatto loro firmare un impegno a non strizzare gli occhi dentro il locale. Non si capisce perché, quando si parla di giganti del digitale, l’Italia diventerebbe un Paese ultra-liberista, quasi da stato di natura, in cui ognuno fa quel che vuole calpestando i diritti altrui.

 

La questione diviene ancora più delicata considerando che Facebook Inc. non è la proprietaria di una piccola gelateria tra milioni di altri esercizi analoghi, bensì di due social network che, in regime di quasi monopolio de facto, servono gran parte della popolazione italiana e controllano un settore delicatissimo qual è l’accesso alle informazioni e il loro scambio in rete. Se si è cacciati da Facebook non si hanno reali concorrenti cui rivolgersi per avere una voce nel web. Eppure Internet ha ormai superato e distanziato radio e giornali come fonte d’informazione quotidiana degli italiani, e non veleggia più così lontano neppure dalla televisione. All’incirca un italiano su tre utilizza Facebook come fonte d’informazione. Per molti di loro il social network è diventato il portale d’ingresso alla rete, da cui poi accedono al resto dei contenuti presenti in Internet. Qualcosa di troppo delicato e cruciale per la democrazia da lasciarlo al pieno arbitrio dei privati, senza nemmeno provare a regolamentarlo.

 

Non di meno, molti a sinistra continueranno a sostenere Facebook Inc. nella sua crociata ideologica, che non solo in Italia ma anche in altri Paesi ha portato all’espulsione d’utenti perché di destra, e non sempre radicale. Non solo il formalismo, ma anche la sostanza imporrebbe di lasciar perdere le predilezioni politiche dei singoli quando si valuta operati simili. Facebook Inc. è un’azienda il cui scopo sociale è guadagnare più dividendi possibili agli azionisti. Confidare nella sua azione etica è da stolti. Oggi può servire una causa ideologica e domani convertirsi ad una specularmente opposta, se i soldi, il management o l’azionariato la porteranno lì. Quando si permette ai bulli di imperversare, si può prevedere chi sarà la loro prossima vittima, ma mai indovinare quale sarà l’ultima. E le amare sorprese potrebbero essere dietro l’angolo anche per chi oggi ridacchia soddisfatto.

 

Daniele Scalea

 

 
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