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Tradizionalismo del mondo rurale PDF Stampa E-mail

3 Settembre 2019

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La globalizzazione ha molte cause, origini lontane e fiancheggiatori più o meno espliciti, ovviamente data la complessità di tale scenario è impossibile indagarne esaustivamente in un articolo tutti i suoi fondamenti, ma quel che è certo è che si trascina molti aspetti negativi che è bene cominciare, per quanto possibile, a contrastare, sia parlandone prima, sia cercando di farne discendere i fatti poi.  Facendo un rapido riepilogo di quanto accaduto a partire dall'immediato dopoguerra, ci rendiamo subito conto che i principali vincitori del conflitto, Usa e Urss, si sono divisi il globo in zone d'influenza. Da una parte il capitalismo e dall'altra il comunismo disceso dalle teorie marxiste. Molti diranno due visioni antitetiche, e in parte lo sono, ma soprattutto nella realizzazione pratica, molto meno invece nei principi base, i cui frutti molto spesso sono più evidenti a distanza di anni.

 

Non bisogna dimenticare che secondo la teoria marxista, il comunismo si sarebbe realizzato nei paesi a capitalismo avanzato, che quindi ne costituiva una tappa. Sappiamo che così non è andata, ma a ciò ha posto rimedio la forzatura concettuale compiuta dal leninismo. Il Manifesto del 1848 di Karl Marx e Friedrich Engels è chiarissimo nel riconoscere la grande positività della rivoluzione borghese, che lo ripeto costituiva la tappa intermedia per arrivare al comunismo, come in una certa misura, e fatte tutte le dovute proporzioni, l'Unione Europea è una tappa del mondialismo, inteso come superamento delle patrie. Sempre nel Manifesto del 1848 si dice "la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. Ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale".

 

Ecco quindi che emerge un altro elemento centrale del marxismo, oltre la grande stima per la borghesia, e cioè la non eccelsa considerazione del mondo rurale, da sempre legato a una visione sacrale della vita e ben poco materialista. Proprio il mondo rurale sarà la bestia nera di Stalin, che renderà problematiche le collettivizzazioni, che si realizzeranno tra indicibili violenze, e prima di lui lo stesso Lenin avanzò dubbi sui "lavoratori, contadini compresi, troppo schiacciati dalle abitudini e dalle tradizioni piccolo-borghesi”. È quindi indubbia la valutazione positiva di Marx ed Engels sul mondo borghese e urbano, come è, nella migliore delle ipotesi, sottovalutato il mondo rurale, che per arrivare ad oggi, per quel che ne resta, è uno dei più ostili al progressismo mondialista. Il marxismo è quindi in una certa misura il discendente ribelle del capitalismo, che però nonostante la sua egemonia culturale nel secolo scorso, non è riuscito a superare il padre nella capacità di produrre ricchezza. Nel Sessantotto i figli della borghesia inneggiavano al marxismo per ribellarsi ai loro padri, ma spesso non erano affatto migliori, come lo intuì subito Pier Paolo Pasolini, altri invece impiegarono decenni a capirlo.

 

Sia il capitalismo internazionale che il marxismo sono insofferenti ai confini nazionali, alla famiglia, alla religione, e alle piccole comunità solidali, e sono entrambi materialisti; non mi sembra poco come effetto globalizzante. Capitalismo e marxismo due facce della stessa medaglia, come giustamente riportato sul manifesto di Movimento Zero.

Riccardo Sampaolo

 
Crescita verde? PDF Stampa E-mail

2 Settembre 2019

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Da Rassegna di Arianna del 7-8-2019 (N.d.d.)

 

I malati del profitto, del business, coloro per i quali il denaro è l’alfa e l’omega della vita, le inventano tutte pur di glorificare la sacra trinità: Denaro, PIL e Crescita. Visto che molti si stanno accorgendo in maniera sempre più chiara che la crescita è un cancro che significa esclusivamente la devastazione del mondo rendendolo una discarica dove le persone sono cavie per le malattie prodotte dal cancro, si cerca in ogni modo di indorare la pillola per continuare imperterriti a guadagnare e fare il proprio comodo. Si sprecano quindi gli ossimori, le contraddizioni in termini e si parla indifferentemente di economia circolare e crescita oppure addirittura di crescita verde, che sono la negazione l’una dell’altra. Ricordiamo infatti, soprattutto a beneficio di coloro che hanno studiato nelle prestigiose università di economia e quindi sono inconsapevoli delle basi stesse dell’economia, che la crescita presuppone uno sfruttamento infinito di persone e risorse naturali per produrre profitto. Le persone possono essere sfruttate all’infinito, basta metterle in grado di comprare i gadget giusti; ma la natura e le risorse non possono essere sfruttate infinitamente, perché sono finite, per ovvi motivi. Infatti degli squilibrati stanno pensando di colonizzare Marte perché la terra la stiamo già esaurendo. Come se ciò non bastasse, la crescita produce una quantità di rifiuti che nessuna capacità di riciclo potrà mai ridurre considerevolmente. Capacità di riciclo che non si può spingere più di tanto perché altrimenti la crescita avrebbe una contrazione, stessa cosa che avverrebbe con l’economia circolare se si applicasse in tutti i settori. Quindi non solo gli apostoli della crescita non vogliono che si ricicli o si riusi granché, ma la terra non è in grado di assorbire la immensa massa di rifiuti che viene prodotta. Infatti mari, fiumi e terre sono ormai delle discariche. Se ne deduce in maniera ovvia, senza bisogno forse nemmeno della quinta elementare, che una crescita verde è semplicemente impossibile poiché le due cose assieme fanno a pugni.

 

La crescita per sua natura non ha nulla di green, perché sfrutta tutto come risorsa o come pattumiera. Ci possono essere una prosperità verde, un futuro verde, magari anche una economia verde se si intende l’accezione etimologica di economia che è la cura della casa, ma è inutile arrampicarsi sugli specchi, fare capriole, giravolte, salti mortali all’indietro, doppi e tripli, non si può barare: la crescita verde è impossibile. Per giustificarla e quindi apparire paladini dell’ambiente, ci si daranno riverniciatine green come fanno i maggiori inquinatori del pianeta a iniziare ad esempio dall’ENI che ci bombarda con campagne pubblicitarie, ma sotto la patina il risultato è sempre lo stesso: devastazione della natura e guerra alla salute delle persone. Questi cantori della crescita verde o meno verde non si fermeranno da soli, non possono per loro natura, quindi vanno fermati; va tolto loro qualsiasi potere, qualsiasi appoggio, con un'obiezione di coscienza sistematica. Allo stesso tempo, occorre costruire luoghi, società, progetti, lavori, formazione, educazione che non abbiano la crescita e il dio denaro come faro, bensì la qualità della vita, il benessere, una vita dignitosa per tutti e la salvaguardia della nostra casa cioè l’ambiente in cui viviamo. Allora sì che avrà senso parlare dell’unica crescita accettabile e sensata che è quella dei valori e della ricchezza personale intesa come spirituale.

 

Paolo Ermani

 

 
L'origine delle malattie PDF Stampa E-mail

1 Settembre 2019

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Da Rassegna di Arianna del 16-8-2019 (N.d.d.)

 

Le statistiche dicono che quindici milioni di persone, in Italia, soffrono di allergia. Quindici milioni, su una popolazione complessiva di sessanta milioni, rappresentano il 25%: esattamente un quarto degli italiani. Naturalmente non è una malattia specificamente italiana, perché numeri paragonabili si riscontrano nel censimento delle malattie allergiche di tutto il mondo. Inoltre non si tratta di un dato stabile: ancora le statistiche dicono che i casi di allergia sono in continuo aumento, in una progressione sconcertante, che spinge anche l’osservatore più distratto a domandarsi, come del resto fanno già i medici, a cosa sia dovuto il fenomeno, visto che i nostri nonni non ne soffrivano in così larga misura e che, risalendo ancora più indietro, non si hanno testimonianze del fatto che l’allergia fosse una patologia di massa, bensì relativa a pochi casi isolati. Certo, alcuni decenni fa l’aria non era impregnata di sostanze chimiche utilizzate largamente nell’agricoltura, né di quelle dovute agli scarichi e alle emissioni industriali, sostanze che naturalmente passano nell’acqua e nella costituzione dei vegetali e degli animali da allevamento, e da lì nel sistema circolatorio, nel fegato, nel cervello e in ogni altro organo e tessuto del nostro corpo. E tuttavia, l’inquinamento atmosferico e quello dell’acqua e dei cibi è sufficiente a spiegare il dilagare sempre più incontenibile delle patologie allergiche, dovute sia ai pollini primaverili, specie delle graminacee, sia agli acari e ad altre sostanze presenti in qualsiasi periodo dell’anno e in qualsiasi ambiente, sia umido che secco e polveroso, sia rurale che urbano? Non ne siamo affatto persuasi, e quindi ci sembra doveroso considerare meglio l’origine del fenomeno, invece di concentrarci esclusivamente - come fa in genere la medicina accademica – sui sintomi e sulle terapie da seguire: perché individuare le cause di una malattia significa aver già fatto metà della strada che conduce verso il modo più efficace per contrastarla o, meglio ancora, se possibile, prevenirla.

 

Scriveva il dottor P. Sangiorgi, già libero dicente di Patologia medica preso l’Università di Pavia, una figura di medico che la cultura ufficiale ha totalmente rimosso - probabilmente perché non si uniformava all’indirizzo che la medicina accademica ha preso nel corso del Novecento, ma era ancora legata a quella del medico-umanista di antica memoria - nel suo libro A tu per tu con l’allergia (Varese, Istituto Editoriale Cisalpino, 1956, pp. 248-249):

 

[…] Traverso il vaglio delle mie osservazioni non mi sembra di poter affermare che un tenore di vita molto disagiato predisponga particolarmente all’allergia. Chi affronta intemperie e rigori stagionali può andare incontro a conseguenze morbose, specialmente respiratorie che, a loro volta, potranno favorire lo instaurarsi di allergie nasali o bronchiali, ma può anche allenarsi a tali cause e superarle. Non assistiamo spesso al fatto che soggetti i quali vivono una loro comoda vita, difesa dagli insulti dell’ambiente, del clima o del lavoro, cadono facilmente in preda alle più diverse manifestazioni allergiche? Probabilmente è in giuoco qui la maggiore labilità neuro-vegetativa con la quale non soltanto si può nascere, ma che può si può acquisire fra i colpi e i contraccolpi, gli abusi e le eccitazioni di una vita esasperatamente vissuta come esasperatamente la si vive oggi nelle nostre civilissime città sia dal punto di vista sessuale che intellettuale ed alimentare, per tacere degli incubi e dei terrori vissuti durante la prima e la seconda guerra mondiale e le angosce di una avvenire economico e sociale estremamente cupo ed incerto…

 

Ecco perché l’allergia non sembra soltanto, ma effettivamente è in aumento; ed è la “malattia del secolo”. Per quel che riguarda gli aspetti psicologici, spirituali e morali del proliferare delle malattie tipicamente “moderne”, ne abbiamo già parlato in diverse occasioni, ricorrendo anche agli scritti di psicologi di valore, anche se pochissimo conosciuti al di fuori della loro ristretta cerchia, come nel caso del sacerdote giuseppino Domenico Franco di Oderzo (vedi specialmente l‘articolo: L’ecologia della mente come presupposto dell’equilibrio spirituale, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 06/09/07 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 06/01/18). Ma è possibile separare tali aspetti, diciamo così invisibili, dagli aspetti materiali, virali o genetici, ossia dagli aspetti visibili, osservabili e misurabili in sede clinica? Noi crediamo di no; e osiamo affermare che quasi sempre la malattia (e adoperiamo il “quasi” per una forma inveterata di prudenza intellettuale, che d’altronde ci sembra giusta di fronte al mistero della natura), di qualunque genere essa sia, ad eccezione delle patologie traumatiche, è la risultante di una predisposizione ereditaria, di un complesso di cause esterne accidentali - microbiche o altro – ma anche di un orientamento generale della vita interiore di quel determinato soggetto. Infatti è ben diverso il caso di un organismo non solo sano, ma sostenuto da una forte volontà di vivere, il quale viene aggredito da una malattia infettiva, e quello di un organismo altrettanto sano, ma indebolito da una stanchezza spirituale o da una forma di rifiuto o disgusto della vita, per cui esso cerca, inconsciamente, non la guarigione, ma l’aggravamento del proprio male e, in prospettiva, la morte, percepita dal subconscio come la sola liberazione possibile da una condizione esistenziale del tutto insoddisfacente. Del resto, i microbi sono qui, tutto intorno a noi, nell’aria, nell’acqua, negli oggetti che tocchiamo, perfino dentro di noi, nella gola, nel naso, nello stomaco, nell’intestino, a milioni e milioni; eppure ben raramente noi ci ammaliamo. Se la salute dipendesse dalla loro assenza, allora nessuno dovrebbe mai essere sano; e del resto, come spiegare che, di fronte a un’aggressione microbica, un organismo permane perfettamente in salute, mentre un altro soccombe all’attacco, deperisce e muore? Evidentemente, la condizione psicologica, spirituale e morale in cui si trova ciascun individuo fa la differenza: pensieri positivi e una forte fiducia in se stesso sono già elementi deterrenti nei confronti delle malattie, che alimentano la risposta dell’organismo nell’attivazione degli anticorpi. Gli anticorpi li abbiamo tutti, sono lì al nostro servizio e servono appunto a contrastare l’aggressione degli agenti patogeni esterni: perché dunque essi talvolta non rispondono, o rispondono in maniera troppo debole e troppo lenta? È molto probabile che anche l’insorgere dei tumori, dovuta a una proliferazione geneticamente “sbagliata” delle cellule di un organo o di un tessuto corporeo, abbia origini non materiali, ma interiori: ad esempio, come ha sostenuto il dottor Ryke Geerd Hamer (1935-2017), l’esperienza di un trauma emotivo, di un conflitto, di uno stress, che determina l’insorgenza della proliferazione tumorale in una parte ben precisa del corpo, a seconda del tipo di shock che l’individuo ha subito. Lo stesso discorso vale per i pollini e per tutte le sostanze chimiche presenti nell’aria e suscettibili di scatenare una reazione allergica da parte dell’organismo. Se certe muffe, o certi acari, o certi pollini, sono allergenici, perché una bella fetta della popolazione rimane del tutto immune dai loro attacchi, o, per meglio dire, non reagisce in alcun modo alla loro presenza, come se neppure se ne avvedesse? In un certo senso, di fronte al problema dell’insorgere delle malattie noi dovremmo capovolgere la nostra prospettiva tradizionale, e chiederci non perché un certo organismo soccomba a una certa patologia, ma perché ciò non accada anche a tutti gli altri, i quali si trovino in condizioni simili di ambiente, di clima, e magari anche di patrimonio genetico e predisposizioni familiari. E dunque: pollini, acari e muffe rappresentano il fattore scatenante delle allergie; ma qual è la vera causa di esse, la loro origine profonda? Infatti, se tali sostanze chimiche avessero di per sé il potere di far insorgere delle patologie, non si vede perché non dovrebbero colpire indistintamente tutti gli individui, o prima o dopo. In particolare, il fatto che le allergie da polline colpiscano un maggior numero di soggetti nelle zone urbane, dove le piante sono confinate entro poche aree verdi e lungo i viali alberati, invece che in ambiente rurale, attesta chiaramente quale sia la radice del problema: non l‘agente scatenante in sé, ma la natura dei soggetti i quali subiscono l’attacco senza riuscire a difendersi adeguatamente. E non vi è dubbio che gli organismi degli abitanti delle città sono più deboli e maggiormente predisposti a subire negativamente gli effetti della loro presenza, che non gli organismi degli abitanti dei paesi e delle campagne, sebbene in tali zone sia presente una massa di pollini immensamente più grande. Le allergie si possono definire la malattia del secolo perché sono strettamene correlate con il tipo di vita che gli uomini conducono nell’ambiente moderno per eccellenza, quello delle città agitate da mille forze contrastanti e i cui abitanti sono esposti a mille stimoli, sia materiali che intellettuali, sensoriali, sessuali. Il dottor Harold Shryock faceva osservare che le emozioni sono, di per se stesse, elementi perturbatori dell’equilibrio psico-fisico e quindi potenzialmente nemiche della salute dell’individuo; aggiungiamo che il sistema neuro-vegetativo, nello stile di vita tipico delle città moderne, è aggredito continuamente da stimoli ed elementi perturbatori che lo costringono a consumare, per potersi difendere, più energie di quante, sovente, riesca a ricostituirne mediante il suo ciclo naturale. L’individuo allora fa ricorso a farmaci di vario tipo, anche solo per ripristinare le normali funzioni fisiologiche: l’appetito e il sonno, le quali, se non vengono soddisfatte, finiscono per creare un corto circuito che conduce inevitabilmente l’organismo al collasso. Ecco dunque una prima conclusione, in apparenza sorprendente: le malattie, e in modo evidente le allergie, sono alterazioni del sistema neuro-vegetativo che colpiscono in primo luogo le persone sottoposte a un tipo di vita particolarmente innaturale, eccitato e frenetico, cioè quelle maggiormente proiettate fuori di sé, all’inseguimento di beni e obiettivi che sono dei veri e propri miraggi, nemici della vera pace e dell’equilibrio spirituale (cfr. su ciò il nostro articolo: La causa delle malattie, in ultima analisi, è allontanarsi dall’Essere, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 20/08/17). In senso specifico, le allergie attestano un rifiuto inconscio dell’esistente: sono una ribellione del corpo (che non mente) a condizioni di vita stressanti, angosciose e frustranti e presentano qualche analogia, in senso psicologico profondo, con la diarrea (l’espulsione patologica delle feci come desiderio di fuga dalla realtà), con certe forme di tosse compulsiva di origine isterica, e con la sudorazione eccessiva o i rossori incontrollati dovuti a una sollecitazione abnorme dell’emotività. In questo senso, e come tutte le altre malattie, l’allergia è un campanello d’allarme che segnala, perlopiù inutilmente, che l’equilibrio dell’io con se stesso e fra l’io e il mondo si è rotto e chiede una riparazione. Perciò, invece di precipitarsi ad assumere farmaci, chi ne è colpito dovrebbe farsi qualche domanda sul tipo di vita che conduce e provvedere a una correzione di rotta.

 

Una brevissima nota personale. Chi scrive ha sofferto di allergia da polline sin da piccolo; da adulto essa si è estesa agli acari e da stagionale è divenuta permanente. Le cure farmacologiche prescritte dalla medicina ufficiale si sono rivelate del tutto inefficaci. A quel punto è intervenuto un vecchio che curava l’allergia secondo il calendario lunare, inserendo due lunghi spilli nei lobi delle orecchie, in un giorno e ad un’ora precisi; spilli che andavano rimossi ventiquattro ore dopo. Qualche mese di tale pratica ha sortito il successo più totale: da allora, e son passati vent’anni, neppure uno starnuto…

 

Francesco Lamendola

 

 
Patria e socialismo PDF Stampa E-mail

30 Agosto 2019

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Nel polverone accecante della politica è utile fissare alcuni paletti a delimitare il campo e ad aiutare l’orientamento.

 

Primo paletto: la globalizzazione, di cui l’UE è parte integrante, è male. È male perché tende a omologare le culture, è male perché è il contesto del dominio della finanza speculatrice e del capitale transnazionale proteso unicamente al profitto, è male perché la logica della finanza e del mercato senza regole per sua natura tende all’illimitato, all’eccesso, all’abbattimento di ogni barriera e confine, la hybris che è causa del sovvertimento dei fondamenti del vivere civile e del dramma esistenziale che l’umanità sta vivendo.                                          

 

Secondo paletto: gli USA, nonostante qualche sintomo di crisi, restano la forza egemone nel mondo. Lo sono non soltanto per le centinaia di basi militari sparse per il globo, non soltanto per il ricatto delle sanzioni che impongono a chi non si allinea, non soltanto per la centralità del dollaro nelle transazioni commerciali, non soltanto perché attirano cervelli da ogni parte del pianeta per farli lavorare nei loro centri di ricerca. Lo sono soprattutto perché dominano l’immaginario collettivo dei giovani di tutto il mondo, con la capillarità di una propaganda veicolata da Hollywood, dalla musica di consumo, dalla diffusione universale della loro lingua, che è anche la lingua dell’informatica, perfino dai messaggi in inglese stampati sulle magliette. I giovani russi, cinesi, indiani, turchi, iraniani, cubani, venezuelani, sono imbevuti di miti americani, sognano l’America.

 

Terzo paletto: l’unico ideale forte, emotivamente coinvolgente, capace di opporsi all’americanismo e alla soggezione all’impero yankee, è il patriottismo. I governi russo, cinese, indiano, turco, iraniano, cubano, venezuelano, sanno di poter resistere alle pressioni dell’impero solo perché in nome del patriottismo la loro gioventù sarebbe pronta a mobilitarsi. Senza il sentimento patriottico dei venezuelani Maduro sarebbe stato travolto in poche ore.

 

Quarto paletto: il patriottismo non basta, deve essere riempito di contenuto se non vuole restare pura retorica sfociante nel nazionalismo. Questo contenuto deve essere il socialismo, inteso come il sistema che permette ai poteri pubblici di regolare economia e finanza, ai fini di una più giusta distribuzione dei redditi e ai fini della fissazione di limiti alla crescita e ai profitti. Il nuovo socialismo non potrà essere né il superato collettivismo sovietico né il modello keynesiano, che colse straordinari successi quando esistevano condizioni oggi tutte assenti: materie prime a basso costo, debiti pubblici sostenibilissimi, assenza di sensibilità ambientalista, fiducia nel futuro durante la ricostruzione successiva al disastro della guerra, attitudine al sacrificio e al risparmio, disponibilità di governi e imprenditori ad accogliere rivendicazioni sindacali per sconfiggere anche ideologicamente la propaganda sovietica, essendo l’URSS una minaccia da scongiurare anche a prezzo di cedimenti alle richieste dei salariati. Tutto ciò non esiste più. Il nuovo socialismo dovrà essere attento all’ambiente e dovrà gestire l’inevitabile decrescita.

 

Conclusione: la parola d’ordine del partito capace di guidare una vera svolta dovrà essere quella antica ma sempre valida: patria e socialismo.

 

Occorrono considerazioni a parte per quanto riguarda l’Italia.Gli italiani storicamente hanno dato il meglio di sé nel localismo. La grande civiltà italica, che tanto ha dato alla storia del mondo, è quella delle Repubbliche marinare, dei Comuni, delle Signorie, degli Stati regionali. È vero che quella frammentazione permise a Stati nazionali stranieri di assoggettarci, ma è pur vero che ancora nel Settecento la penisola restava faro di civiltà e monarchie e granducati di origine straniera, come i Borbone di Napoli o i Lorena di Firenze, si erano del tutto italianizzati. Viceversa, la storia dell’Italia unita è il racconto di un fallimento. L’Italia liberale avviò sì l’industrializzazione, ma imponendo un accentramento amministrativo deleterio e in un quadro talmente squilibrato che proprio nella crescita industriale si verificò l’apparente paradosso di un’emigrazione massiccia dalle regioni meridionali, ma anche da Veneto e Friuli. Quell’Italia liberale si avventurò in imprese coloniali insensate e trascinò il Paese nell’ “inutile strage” della Grande Guerra. L’Italia fascista negli anni Trenta ha promosso una buona ristrutturazione finanziaria ed economica sotto l’egida dello Stato, ereditata dopo la seconda guerra mondiale da chi ha potuto vantare il “miracolo economico”, ma ha riempito il vuoto ideale con una ridicola retorica imperiale sfociata in una serie di conflitti, fino alla catastrofe finale. L’Italia repubblicana per un trentennio ha fatto registrare una crescita economica spettacolare, ma nel quadro di una sottomissione a potenze straniere che hanno ridotto l’indipendenza nazionale a pura apparenza. E l’ultimo quarantennio ha visto una progressiva putrida decadenza che fa presagire la possibile estinzione della nazione. Le energie degli italiani storicamente traggono la loro linfa dal localismo. Eppure una ribellione al globalismo della finanza, che dovrà avere una dimensione internazionale, non potrà che cavalcare l’onda del patriottismo. La ristrutturazione del nostro Stato verso una federazione di regioni potrà essere soltanto un passo successivo.

 

Il partito patriottico e socialista è tutto da costruire. Affidarsi a una delle forze politiche esistenti nel nostro parlamento sarebbe farsi complici di un grande delitto: la distruzione del nostro Paese.

 

 

 

Luciano Fuschini

 

 
Bauman come Kalergi PDF Stampa E-mail

29 Agosto 2019

 

Mi è capitato tra le mani, e lo ho comprato anche per il piccolo prezzo di tre euro, un libretto scritto da Zygmunt Bauman ed edito da Laterza. Il testo, il cui titolo è “Oltre le nazioni. L’Europa tra sovranità e solidarietà”, presenta in forma autonoma le integrazioni che lo stesso Bauman fornì nel 2012 ad un suo più ampio saggio sull’Europa del 2006. Ora, tutti conoscono Bauman, soprattutto per l’ormai abusata definizione di società liquida affibbiata all’epoca postmoderna, e lo considerano un esponente della critica alla mercificazione dell’uomo e alla sua omologazione, entrambe frutti della globalizzazione. Personalmente, esattamente come avviene per gli esponenti della Scuola di Francoforte, credo che Bauman sia uno dei coperti fiancheggiatori della stessa globalizzazione, e la lettura di questo libretto ne è una conferma. È indubbio che questa Unione Europea, fin dalle sue origini, come ho mostrato nel mio testo “Kalergi. La prossima scomparsa degli europei”, sia una creazione delle élite finanziarie e che in essa la politica è scaduta al rango non di ancella, ma di sguattera, china col panno in mano sui luridi pavimenti dei palazzi dell’economia virtuale. Ognuno degli attori della grande finanza, del mondo delle multinazionali, come nel caso della Brexit è stato ancora una volta evidenziato, si spende per il sostegno a questa unione come ad ossigeno per i propri polmoni. Le masse popolari, le periferie produttive e legate al territorio delle varie nazioni europee, da qualche anno si stanno invece liberando dal giogo mediatico che li avvinghiava e hanno voltato le spalle a questa cricca europeista, lasciando i cosmopoliti abitanti delle “city” a sostenerla.

 

Procediamo ad una analisi approfondita del testo. Bauman scrive che “La sensazione che prende piede tra la gente […] è che i parlamenti eletti e i governi […] non riescano a fare il loro lavoro” e che sia “tramontata la fede nella capacità di agire delle istituzioni statali nazionali” e che “viviamo in un’era in cui le istituzioni non credono più in se stesse”. A me pare, contrariamente a quanto sostiene Bauman, che sia tramontata la fiducia nelle istituzioni europee, ovvero l’antagonista degli Stati nazionali, ai quali neanche velatamente richiedono continue cessioni di sovranità. Non sono le istituzioni nazionali a non credere più in se stesse, piuttosto le stesse istituzioni sono state colonizzate dai poteri economici transazionali che dettano le loro agende e che intervengono, direttamente o tramite loro nominati, ogni qualvolta queste rialzino la testa attraverso il consenso popolare. La Ue ricatta gli Stati e condanna a morte gli inadempienti e i devianti, in combutta con Fmi e Banca Mondiale, come nell’emblematico caso greco. La convinzione di Bauman sulla necessaria estinzione degli Stati nazionali viene motivata, con un excursus genealogico, con un richiamo alla Pace di Augusta e a quella di Vestfalia, che pose fine alla sanguinosa guerra dei 30 anni, le quali secondo Bauman imbevono di se stesse le modalità di relazione tra gli Stati fino alla stessa creazione e all’azione dell’Onu, incapace di incidere perché ingessata da quell’infausto richiamo alla non ingerenza e alla autodeterminazione dei popoli di wilsoniana memoria. Nell’interpretazione del filosofo ebreo-polacco il trattato di Vestfalia è stato il modello deleterio, con la semplice accortezza da parte degli Stati di sostituire la “religio” del celebre motto con la “natio”. Ecco che da Bauman la nazione viene subito accostata ad una entità dal sapore metafisico e sganciata dalla storia dei popoli. Essa fornisce al potere “il clichè” e la “cornice mentale” per perpetuarsi, quasi fossimo in un contesto di propaganda mediatica novecentesca. La criminalizzazione dell’idea di Stato-nazione viene rinforzata da una, prevedibile, ulteriore presa di posizione: “Nei secoli successivi quel modello [… venne] acquisendo uno status di auto evidenza e indiscutibilità e gradualmente ma inesorabilmente fu imposto a tutto il pianeta da imperi mondiali”. A me pare invece che gli imperi dei secoli precedenti furono proprio quelli che al modello di Stato-Nazione si opponevano, proponendo un governo alto-borghese, cosmopolita e internazionalista, nel quale la finanza già si mostrava molto più forte della politica. L’ Olanda seicentesca o l’Inghilterra, la quale arrivò a controllare gran parte del globo, anche attraverso le multinazionali dell’epoca, ovvero le Compagnie delle Indie, erano tutto meno che modelli ideali di Stato-Nazione. Se un modello in tal senso dobbiamo individuare, esso è quello teorizzato dall’idealismo tedesco, in Fichte e in Hegel. Fichte in particolare, ne “Lo Stato commerciale chiuso” del 1800, ci mostra come Stato-Nazione e impero coloniale siano agli antipodi, così come agli antipodi rispetto a questo modello politico è l’internazionalismo economico. Fichte dice chiaramente che mai uno Stato-Nazione dovrà estendere i propri confini al di là di quelli naturali, dati dalla presenza delle genti tedesche, né permettere una colonizzazione economica, sia attiva che passiva. Si tratta chiaramente di un approccio difensivo proprio contro lo strapotere dei mercati, magistralmente compreso dal filosofo già 220 anni fa. Lo Stato stesso, anche in Hegel, lungi da essere quel leviatano senza responsabilità e memoria, ha precisi doveri nei confronti dei cittadini. Lo Stato etico, visto da Hegel come totalità organica e non imposizione astorica, in primo luogo dipende da essi, come somma di nuclei familiari pre-esistenti, e in secondo luogo deve preservare l’identità senza stravolgerla, attraverso il rifiuto delle teorie contrattualistiche e quindi contingenti. Gli imperi di cui parla Bauman sono dunque figli di Locke, di Kant, di Rousseau  e, idealmente, di Popper, e tale impostazione liberalista e liberista si riassume nell’operato dell’unico impero oggi rimasto, quello statunitense.

 

Bauman, dopo questo breve excursus storico, si tuffa nell’attualità: “Molte forze (finanza, interessi commerciali, informazione […]) hanno già conquistato in pratica, se non in teoria, la libertà di sfidare quello spettro [lo Stato-nazione] e fingere che non esista, ma esso continua a frenare la politica”; “L’evidente mancanza di agenzie politiche globali in grado di recuperare questo ritardo e riassumere il controllo di forze capaci di agire su scala globale è probabilmente il principale ostacolo sul cammino impervio verso una “coscienza cosmopolita” adeguata alla nuova condizione di interdipendenza globale”. Bauman si è praticamente già calato le brache, sostenendo che ormai il danno è fatto e che occorre creare una polizia più grande che vi ponga rimedio, e polizia qui non è un termine casuale (si legga Bertrand Russel a proposito). Innanzitutto manca il nocciolo della riflessione: non si avvede il grande filosofo che proprio quelle forze che nomina sono state i nemici più grandi dello Stato-nazione, l’unico freno al loro orizzonte? Come può Bauman darci ad intendere che uno Stato globalizzato sia in grado di controllare gli artefici della globalizzazione? Quali saranno secondo Bauman i principi di tale Nuovo Ordine Mondiale, se non proprio quelli sponsorizzati nei secoli dai globalizzatori?  La politica non è “frenata” dallo Stato-nazione ma si è infiltrata nello stesso con il deliberato proposito di distruggerlo. Se io sono attaccato da un virus non tento di smantellare il mio sistema immunitario perché obsoleto, piuttosto tento di nutrirlo meglio e di chiudere, con l’igiene e le buone pratiche di prevenzione, l’accesso agli organismi nocivi. Non lo uccido preferendogli un sistema immunitario 2.0 che promette meraviglie ma che sulla confezione porta scritto “Nuova Virus s.p.a.”. È evidente che Bauman lavori per la “Nuova Virus s.p.a.”! Non ne siete ancora convinti? Vi capisco. Proseguiamo dunque. Bauman sembra rinsavire per un attimo quando scrive: “ciò di cui avvertiamo la mancanza è l’equivalente/omologo globale delle istituzioni dello Stato-nazione territoriale”. Ma quale saranno le linee guida di questo Stato? Quale l’idea di cittadinanza in grado di tenere uniti i popoli (i popoli esistono, nelle loro diversità, per fortuna!)? Non si può far altro che giocare al ribasso e svuotare il concetto di cittadinanza di ogni suo contenuto, ben oltre quanto fatto dalla rivoluzione francese, realizzando l’equivalente di un contratto economico, un accordo di compravendita.  Questo “livello di integrazione tra gli uomini totalmente diverso” come può essere realizzato se non attraverso quell’omologazione di cui Bauman sembra ai più un feroce avversario? Ed ecco che entrano in campo i modelli, i “lucidi attivisti” in grado di guidarci: Schumann e Monnet, i quali, come dimostro nel mio testo su Kalergi, sono stati invece dei meri esecutori delle volontà dei potentati economici, di stampo angloamericano ed ebraico. Fratelli massoni, spesso doppiogiochisti, che nelle due guerre hanno fatto gli arruolatori per gli americani e gli scagnozzi per i sionisti.  Questi lucidi attivisti sono stati anticipati e spinti dalle idee del primo dei padri dell’Europa, quel Coudenhove Kalergi che mirava alla realizzazione di un popolo meticcio di aspetto asiatico-negroide guidato dall’élite della finanza ebraica.  Prendendo a prestito il pensiero di Habermas, Bauman ci informa che non c’è assolutamente bisogno dell’idea di nazione per avere una democrazia e che “la forza di uno Stato costituzionale democratico si basa proprio sulla sua potenziale capacità di creare e ricreare l’integrazione sociale attraverso l’impegno politico dei cittadini. La comunità nazionale non precede la comunità politica ma è il suo prodotto”. Bene, preso atto dell’entusiasmo per la sovranità popolare sulle leggi e sull’identità pre-esistente, ci dovrebbe spiegare Bauman come mai invece nelle cosiddette democrazie quando il popolo si discosta dai diktat delle élite dominanti, votando la Brexit, dando vita a governi “populisti” e sovranisti, questa autonomia diventa subito espressione delle parti peggiori della società, degli inacculturati, degli analfabeti funzionali, degli webeti. Ci spieghi come mai invece le costituzioni democratiche sono rigide e l’integrazione va sempre ricreata a senso unico, filoimmigrazionista e multiculturalista. Se la comunità nazionale è il prodotto della comunità politica, la si accetti anche quando tale comunità si esprime a favore di un governo nazionalista, antischengeriano, fascista perfino! Altrimenti tutto ciò è solo finzione, solo narrazione ad uso e consumo dei fiancheggiatori della globalizzazione. Bauman vede la soluzione a tale impasse, manco a dirlo nella “unificazione generale dell’umanità” e di quella kantiana pace universale che trasforma semplicemente i conflitti in questioni di polizia interna, tagliando fuori, magari con il futuro utilizzo di eserciti di droni automatici, legittimi rivendicazioni di minoranze o interi ex-stati.  Ma veniamo al dunque. Per Bauman questo mondo è un “arcipelago di diaspore” e “l’Europa si sta trasformando in una collezione di arcipelaghi etnici” (faccio di sfuggita ironicamente rilevare che di solito una collezione ha un collezionista) nelle quali ognuno “ha senz’altro la possibilità di salvaguardare la propria identità nazionale senza dover ricorrere a politiche di assimilazione forzata, come se fosse a casa propria”. Ecco qua servitovi il mix di accettazione del multiculturalismo e del meticciato, intesi come necessità e soluzione alla crisi valoriale, perché le diaspore “si arricchiscono e rinforzano a vicenda”. Ditelo agli ex abitanti delle zone off-limits dell’attuale Belgistan o ai frequentatori delle nostre stazioni ferroviarie che si tratta di arricchimento. Manca solo il “sono risorse” direte voi, invece non manca: “si tratta di trasformare la differenziazione culturale da passiva in attiva,  di vedere in essa non qualcosa da tollerare ma da esaltare, di accettarla come risorsa”. Boldrinauman, praticamente. Sembra di stare dentro Praktischer Idealismus, la summa kalergiana, mancherebbe soltanto la componente ebraica e la paneuropea esaltazione dell’impero asburgico. Ci sono? E certo che ci sono. C’è l’esaltazione del Commonwealth polacco-lituano (enclave pro-giudaismo) e dell’impero austro-ungarico, “imperniato sul principio di autonomia di gruppi etnici e culture, e governato da Vienna, all’epoca incubatrice culturale e brodo di coltura dei più affascinanti e profondi contributi alla filosofia, alla letteratura, alla musica e alle arti visive e drammatiche europee”. Si legga: Freud, Schoenberg, Berg, Zweig e mille altri, e l’occupazione sistematica di ogni ruolo in vista nei teatri, nelle scuole, nella avvocatura da parte delle élite ebraiche. Si trattò di una occupazione fatta per motivi economici, come testimoniato senza infingimenti da Hannah Arendt: “in Austria gli ebrei giunsero a controllare in pochi decenni gran parte delle attività culturali come la stampa quotidiana, l’editoria e il teatro […] gli ebrei poterono organizzare liberamente gran parte delle attività culturali, in particolare quella teatrale a Vienna […] il tentativo di trasformare la celebrità in background sociale, di creare una casta sociale di persone famose simile a quella degli aristocratici […] – erano questi i tratti che caratterizzavano gli ebrei dell’epoca […] ciò che stava prendendo forma non era una rinascita della classicità ma Hollywood. La situazione politica facilitò questo capovolgimento di essere ed apparire ma furono gli ebrei […] a provocarlo e propagarlo […] una percentuale particolarmente alta di ebrei trafficava in attività pseudo culturali, soccombendo alla cultura di massa e al mero amore per il successo”. Ed ecco la stupenda fine della nazione, secondo Bauman: “fare della nazione non un corpo territoriale ma una semplice unione di persone”, principio preso in prestito dal marxista Otto Bauer e sostenuto anche da Vladimir Medem, esponente del Bund, il movimento socialista ebraico, che anzi rilanciava con: “ogni cittadino dello Stato appartenga a un gruppo nazionale la cui scelta dipenda dalle sue scelte personali”. Come dire: “oggi mi sento, dunque sono, portoghese a Viareggio e il giorno dopo estone a Madrid”. Bello… immaginiamo come debba essere profondo questo “sentirsi”. E Kalergi si realizza con questo passo baumaniano: “A tutti noi europei tocca in sorte di vivere in un’era di diasporizzazione crescente probabilmente inarrestabile che promette in prospettiva di trasformare tutte le regioni d’Europa in gruppi di popolazioni miste”. Il boldrinismo risultante non ha però alcuni tasselli, aggiungiamoli: “la popolazione dell’unione Europea […] è destinata a ridursi a 240 milioni […] se non arriveranno nel nostro continente [perché nostro, a questo punto?] almeno 30 milioni di stranieri il sistema europeo non potrà sopravvivere”. Muoiano gli europei e sopravviva il sistema! Ma leggiamo ancora: “il ruolo di salvatori assunto dagli immigranti in un’Europa che invecchia rapidamente” ed entriamo nel festival degli stereotipi. Ma quale sarà secondo Bauman lo stile di vita in questa Europa meticcia?  Utilizzando Richard Sennet, Bauman ci informa che si vivrà in maniera aperta e informale, cioè senza regole: “L’aggettivo informale allude all’assenza di regole di comunicazione prestabilite, poiché si confida che esse si svilupperanno spontaneamente, e che in ogni caso siano destinate a modificarsi man mano che la comunicazione si arricchisce per ampiezza, profondità e sostanza: i contatti tra persone con abilità e interessi diversi sono ricchi quando avvengono in modo disordinato e deboli quando vengono regolati […] gli uffici e le strade diventano disumani quando vi regnano la rigidità”. Traduciamo: non dobbiamo assimilare gli stranieri, né mettere paletti o punti fermi, né regole, né pretendere l’ordine. Tutto andrà per il meglio e l’obiettivo verrà raggiunto. Bauman non vi dice qual è questo obiettivo ma ve lo dico io: è la società kalergiana che presuppone la sostituzione etnica.

 

Matteo Simonetti

 

 
Democrazia in terapia intensiva PDF Stampa E-mail

28 Agosto 2019

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Non saprei da dove avviare la questione. Provo con una domanda. Chiedo, “È democrazia il popolo da un lato e il parlamento/governo dall’altro?” Domanda elementare la cui risposta è chiara ed univoca a chiunque. Fatto salvo a chi, invece dei principi democraticamente ovvi, preferisce la dialettica politica fino all’eventuale contratto col nemico. Se u­­nire forze prive di consenso sia cosa costituzionalmente prevista non sposta l’importanza della questione. Effettivamente le due posizioni – tra chi inorridisce a immaginare un governo estraneo al consenso popolare e chi no – sebbene inconciliabili nei loro principi, sono entrambe disponibili agli uomini. A quale verità vogliamo appartenere? All’ambito popolare che non ha più nulla da spartire con quello dei loro rappresentanti? Sembra un’imbecillità chiederselo, ma non lo è. Sono decenni che si osserva il crescendo della distanza tra le due parti. Ma è soprattutto la conseguenza implicita – anzi maledettamente esplicita – che dovrebbe iniziare ad essere presa popolarmente in esame: la democrazia è certamente stata concepita, ma è mai nata? La sua promessa quanto è stata mantenuta? Quanto ha fallito? O è abortita? In ogni caso, la teniamo attaccata al polmone artificiale. Ci si prodiga ad allungarne l’agonia. Questioni affettive? Paura di perderla? Nella speranza si riprenda? Eppure da un punto di vista funzionale, non c’è più niente da fare. Stato vegetativo si direbbe personificandola. La nuce che conteneva non diventerà realtà. Comprensibilmente ci si esalta nei momenti in cui sussulta. Ma a questo punto sembrano più diversivi pilotati, assi che escono dalla manica del grande joker piuttosto che salute effettivamente riconquistata.

 

Allora torniamo alla domanda tanto elementare quanto fondamentale. È democrazia il popolo da un lato e il parlamento/governo dall’altro? Anche se ha una risposta per molti univoca, è obbligata. Va posta, per riflettere, per svegliare, per creare il necessario che la scongiuri, per prendere coscienza che il lavoro è lungo e smettere di pretendere e accontentarsi di risultati immediati. Noi del popolo dobbiamo porcela e avviare processi privato-politici utili alla salute della moribonda democrazia. Dobbiamo porcela e darci da fare per evitare di essere collusi con il suo funerale. Al quale si accoderanno uomini scesi da ogni lato del parlamento.

 

 

 

“Per il bene dell’Italia”. È la risposta di coloro che ritengono che la democrazia sussista anche separata dal consenso popolare, assoggettabile a mediazione. Una prospettiva elastica fino ai lontani confini dell’ossimoro. Mi riferisco naturalmente al principio democratico, non a quanto esiste nel dibattito parlamentare. E proprio in quest’ultimo sono rintracciabili i virus del do ut des, malattia degenerativa della mercificazione e compravendita dello spirito che ha costretto la democrazia al reparto Terapia Intensiva.  Niente compromessi allora? Parlamento inutile? No. Rinunciare alla propria modalità di esecuzione di un progetto politico, accomodarla dopo aver ascoltato altre parti fa parte della dialettica. Rinnegare le promesse e gli impegni, svendere la propria idea politica, privilegiare l’interesse personale, imbrogliare il prossimo è altra cosa. È mercificazione di sé. È incompatibile con l’idea di democrazia che media e istituzioni seguitano a venderci. “Per il bene dell’Italia”, passo-passo si è arrivati a stringere accordi con élite che non ci riguardano; a dimenticare a chi si era stretto la mano. Ai tempi, un gesto che valeva come la ceralacca, oggi, il tempo che trova. Chi s’è visto, s’è visto. O, meglio, business is business. Una formuletta magica onnipotente adatta a tutti i tavoli di lavoro, a mitigare tutti i mali, salvo non siano etici. In sostanza siamo immersi nel genere – sì, come per i tipi di programma tv – democratico-mediatico. Del resto, nella società dello spettacolo sempre più citata in questi ultimi anni, è più opportuno riferirsi ai generi che non a progetti politici di lunga prospettiva. Dalle sue trincee di raso, chi dispone della comunicazione combatte una guerra che non perderà mai.

 

Ma anche noi partecipiamo al degrado. Chi vuole più aspettare? Dopo aver vissuto la Milano da bere, dopo aver visto il trionfo dell’edonismo individualista. Una spaccatura profonda della tradizione culturale italiana e molto milanese che aveva coperto di gloria sonante e in tempi brevi, schiere di giocatori in borsa e rampanti consulenti finanziari. Che questi avessero sostanzialmente derubato il loro prossimo, era cosa da soprassedere, la legalità glielo permetteva. Loro incassavano, gli altri piangevano. Meglio più furbi che più buoni. Era la nuova era, il nuovo equilibrio. Dove, anche a cercarla, non c’era più parsimonia, frugalità, senso della vita. Il piacere immediato aveva sostituito quello della pagnotta guadagnata. I media, di quello parlavano, mica dei poveracci. Con gli strilli dedicati ai nuovi ricchi vendevano. Nessuno di loro aveva letto fino in fondo la leggenda del re Mida. C’era solo da aspettare. La realtà gliela avrebbe servita. Da lì, da quel punto, passaggio chiave di una via verso la giustizia sociale, la direzione della democrazia ha cambiato rotta. “Novanta a dritta” è stato l’ordine silente e convincente arrivato dalle eminenze ai capitani. Solo così avrebbero raggiunto il porto giusto. Al diavolo le alte vette della purezza. Ad attendere l’equipaggio festante c’erano gli oligarchi dell’ammiragliato. I capi della grande flotta che solca tutti i mari del mondo erano in banchina ad attenderli. In pochi semplici esami i nostri uomini hanno superato le richieste della commissione. Manco a dirlo i commissari erano tedeschi, francesi, americani, generali e qualche anonimo, che ha preferito rimanere nell’ombra. Democraticamente la democrazia ha così camuffato – o cancellato? – se stessa. Sì, perché se si tolgono gli elettori dalla scena resta un giochetto per pochi oligarchi. Maestri del vincere facile.  Le scelte dei nostri prodi vassalli li avevano portati a giurare fedeltà a corone superiori con le quali il doppio gioco non è neppure pensabili. Così, per mantenere la nuova, edulcorata ma posticcia libertà, si attengono al giuramento che le hanno dovuto prestare. Quell’altro, compiuto con i loro elettori, che vuoi farci, complicava troppo le cose. Girala di qui e girala di là, chi vuole ancora credere nella democrazia almeno faccia mente locale e si chieda se è in corso – per essere gentili – una sua parabola discendente. Se non siamo arrivati fin qui sospinti avanti, come l’asino, dalla carota democratica. Quelli che invece ne hanno già visto l’arco ormai spento oltre l’orizzonte della giustizia sociale, del bene comune, della lungimiranza, dell’identità culturale con cui allevare i nostri figli, di un progetto condiviso per il quale rimboccarsi le maniche e strapparsi di dosso i lamenti dei bottegai – come successe per il boom economico – speriamo rimangano calmi e caccino via idee violente e dinamitarde.

 

 

 

Lorenzo Merlo

 

 
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