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Polvere di stelle PDF Stampa E-mail

31 Maggio 2019

 

Da Comedonchisciotte del 29-5-2019 (N.d.d.)

 

Dopo la solenne mazzolata alle europee, grida d’allarme e pianti isterici si sono levati sui social, per l’emorragia colossale di consensi in fuoriuscita dal M5S, mentre opinionisti di ogni genere sono subito corsi ad analizzare motivi e cause di una tale clamorosa débacle. Probabilmente, dato lo scarso coinvolgimento suscitato in genere dalle elezioni europee, una parte dell’elettorato potrebbe tornare alle politiche, comunque la leadership pentastellata non si è certo distinta per coerenza e rispetto delle fantomatiche promesse elettorali. Inoltre la vera causa della batosta consiste soprattutto nel fatto che il partito del né né non ha alcuna identità politica seria, nessuna ‘rivoluzione più o meno gentile’, ma una sola identità, quella del partito azienda. Dentro il corso della modernità liquida del terzo millennio il M5S si è adattato perfettamente, con prepotente vitalità, ancorandosi alla storia politica italiana, come fa il camaleonte con il ramo con cui si mimetizza, invadendo il panorama politico con promesse mirabolanti, irrompendo sulle piattaforme social con slogan propagandistici sempre più ossessivi e circondandosi di una folla di followers guidati più da un fanatismo morboso che da un serio giudizio critico sull’operato concreto del loro partito di riferimento, osannato oltre ogni possibile dubbio, secondo pratiche fideistiche che ricordano più una sorta di scientology italiana, che un movimento democratico.

 

Facile cascare nel delirio collettivo provocato dalla genialità dell’esperimento di Gianroberto Casaleggio, però il M5S non è una forza politica nata dal basso, ma una semplice riproduzione della prima società di Casaleggio, la Webegg, gruppo per la consulenza delle aziende in Rete, controllata da I.T. Telecom Spa. Esperimento cui Casaleggio ha lavorato alla fine degli anni Novanta, quando da amministratore delegato cominciò a testare nei forum intranet dell’azienda i meccanismi di formazione e produzione del consenso attraverso la propaganda virale. Testi e regia dei Vday infatti, gli eventi antecedenti alla nascita del Movimento, erano in pratica decisi dalla Casaleggio. Grillo è stato l’uomo immagine, il frontman del consenso elettorale che poteva raccogliere e rilanciare la rabbia che saliva da più parti della società civile e incrementare il sentimento d’indignazione contro il sistema. In questa prima fase il MoV sosteneva alcune istanze che poi smentirà tutte: l’uscita dalla Nato, il rifiuto assoluto di comparire sulle tv, la decrescita felice, il plauso ad uno stile di vita francescano, un deciso sovranismo, una forte critica all’euro e all’Unione europea. G.Casaleggio ha progettato attentamente la sua scalata al potere, tutelando con cura paranoica la fuga di notizie sulla sua storia professionale, anche se ai più attenti molte cose non erano sfuggite. Lo stesso Gianroberto teorizzava spesso sul potere degli ‘influencers’, i piazzisti di prodotti sul mercato, o fake persuaders, coloro che orientano il consenso degli utenti, creando e dirottando correnti di pensiero per finalità di marketing, anche politico. La persuasione funziona perfettamente quando è invisibile, e il marketing più efficace è quello che s’insinua subdolamente nella nostra coscienza, attraverso un processo di propagazione virale riprodotta sui social, simulando magnificamente l’autonomia delle nostre opinioni, che in realtà sono di altri. Il guru del web riuscì ad incastrare Grillo nell’avventura politica che si stava aprendo nel 2005, e con l’apertura del blog di Grillo cominciò la traversata nel deserto del nuovo partito populista. Tutta la comunicazione veniva studiata sistematicamente da Casaleggio, e Grillo serviva da amplificatore seducente e accattivante dei depistaggi ideologici, veri o presunti, della nuova creatura politica. Il blog fu subito ispiratore di liste civiche e di meetup territoriali, cui le persone partecipavano con grande entusiasmo, sentendosi protagonisti, esponenti preziosi del MoV,  in realtà venivano spesso ignorati dai vertici, a meno che rispondessero ai canoni elettorali che facevano loro comodo, giovani, fotogenici, malleabili, succubi e dotati molto più di soft skills che di hard skills, più attitudini che competenze. Una volta eletti, una ‘squadra di esperti’ li avrebbero guidati nelle proposte e nei dibattiti politici.

 

L’ipnosi collettiva scatenò effetti immediati, eliminò la sensazione d’impotenza, perché era taumaturgico gridare un “vaffa” verso i decrepiti e corrotti politici della casta, e illuse sulla possibilità di un riscatto, che poteva trovarsi finalmente a portata di mano. Il sogno si sa è sempre più forte del realismo, ed è la carica emozionale indispensabile per muovere le coscienze attraverso “parole guerriere”. Ma il riscatto non può arrivare, perché il MoV è una controrivoluzione, l’anarchismo interno in realtà è guidato dalla diarchia Casaleggio (oggi unico proprietario del simbolo e della società srl) e Di Maio, tutti gli altri stanno sotto. La selezione della classe dirigente è uno dei problemi seri, perché in Parlamento sono arrivate persone che credono alle scie chimiche e alle sirenette, oppure diretti dipendenti, comprati a suon di promesse e di pretese. “Descrivere il potere dei Casaleggio è come comporre un puzzle”, dicono due ex collaboratori del MoV, Nicola Biondo e Marco Canestrari nel loro ultimo libro di recente pubblicazione “Il sistema Casaleggio“… “Ci sono migliaia di pezzettini: associazioni aperte e chiuse, avvocati, notai, relazioni, contatti, incontri, cene, convegni, partiti politici, aziende pubbliche e private. Frammenti di racconto che presi da soli non hanno un grande significato. Bisogna ricostruire e collegare i tasselli con pazienza, per capire come ciascuno sia parte di uno schema coerente. Il paravento dietro cui si nasconde questo inganno è l’asserita volontà di costruire un nuovo modello di democrazia, la «democrazia diretta», governata da un’applicazione web di pessima qualità chiamata Rousseau.” Per altro secondo Davide Casaleggio Rousseau dovrebbe sostituire i processi democratici esistenti oggi in Occidente: «il Parlamento diventerà superfluo» ha profetizzato in un’intervista del luglio 2018.

 

La scalata ai vertici del partito è avvenuta al momento della scomparsa di Gianroberto, quando il figlio Davide si è assicurato un ruolo assolutamente anomalo, non ha una carica politica eppure gestisce l’attività del MoV, come presidente dell’Associazione Rousseau, tesoriere e amministratore unico. Ma mentre Casaleggio ha il potere di governare i dati degli iscritti, le procedure di votazione dei candidati, le proposte da presentare in Parlamento, i soldi versati dai donatori e dai parlamentari (300 euro al mese, 6 milioni in 5 anni di legislatura, quindi soldi pubblici che vanno ad un’associazione privata), al contrario il movimento non può indicare i vertici, non può influenzare le decisioni, non può modificare le regole interne. Il nuovo statuto del partito, datato 30 dicembre 2017 e scritto dall’avv. Luca Lanzalone (ora in carcere), blinda l’accordo tra l’Associazione e il partito. Gli strumenti informatici del MoVimento saranno forniti da Rousseau, per sempre, e il regolamento per le candidature quantifica la cifra di 300 euro al mese. Ora da un po’ di tempo si parla di una segreteria politica, di una rete territoriale, ma nulla lascia prevedere che il MoV possa trasformarsi in qualcosa di diverso rispetto ad uno strumento attraverso il quale i Casaleggio hanno concentrato nelle loro mani influenza e potere. Dopo il voto sulla Diciotti poi si è capito che gli iscritti sono pronti a ratificare qualsiasi proposta, se pilotati nel modo giusto da video orientati al lavaggio di cervello.  Anche oggi, nel dopo tracollo alle europee, a decidere è solo un piccolo direttorio di poche persone, Casaleggio, Di Maio, Bugani.

 

Il MoV si è presentato all’opinione pubblica italiana attraverso tre messaggi chiari: noi siamo il movimento della trasparenza, della legalità, della democrazia diretta. In realtà in questo non partito, un soggetto non eletto da nessuno, attraverso un’associazione privata di nome Rousseau, controlla la gestione e le attività di un MoV, in maniera unidirezionale. Il conflitto di interessi, ambiguo e opaco, meriterebbe di essere messo a fuoco in modo netto: a quale titolo il capo di una srl impone a dei parlamentari eletti senza vincolo di mandato l’obbligo di essere sudditi di un’associazione privata? E comunque spiega perfettamente il crollo del MoV alle europee, perché se il partito del né destra né sinistra ha potuto raccattare moltissimi voti alle ultime politiche, proprio grazie all’ambiguità del proprio messaggio poliedrico e multilaterale, poi però di fronte alle sfide di governo non riesce più a gestire il consenso. Del MoV delle origini è rimasto solo un brand elettorale, svuotato di ogni energia progettuale di ampio respiro, adagiatosi costantemente su toni da political newsjacking perpetua, ostinatamente regolata su spot propagandistici di grande effetto, semplici, immediati, capaci di colpire l’immaginario collettivo. Ma la rappresentanza politica di istanze democratiche dovrebbe essere un’altra cosa…

 

Rosanna Spadini

 

 
La verità sul debito pubblico PDF Stampa E-mail

30 Maggio 2019

 

Da Rassegna di Arianna del 18-5-2019 (N.d.d.)

 

Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Con un atto quasi univoco, cioè una semplice missiva all’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mette fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il proprio disavanzo. Rimuovendo l’obbligo allora vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i titoli di Stato emessi sul mercato primario, la Banca d’Italia dismette il ruolo di prestatrice di ultima istanza. D’ora in poi, per finanziare la propria spesa pubblica, l’Italia deve attingere ai mercati finanziari privati, con la conseguente esplosione dei tassi d’interesse rispetto a quelli garantiti in precedenza. Ma non solo: viene rivisto il meccanismo di collocamento dei titoli di Stato, introducendo il cosiddetto «prezzo marginale d’asta», che consente agli operatori finanziari di aggiudicarsi i titoli al prezzo più basso tra quelli offerti e, quindi, al tasso di interesse più alto. Ad esempio, se durante un’emissione di 50 miliardi di Btp, 40 vengono aggiudicati a un rendimento del 3%, mentre il restante al 5%, alla fine tutti i 50 miliardi saranno aggiudicati al 5%!

 

Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (PIIGS) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico neoliberista, il thatcheriano «tina», there is no alternative. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati). È la strada indicata dalla «virtuosa» Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati. Gli effetti sono tanto disastrosi quanto immediati: l’ammontare di debito, che nel 1981 era intorno al 58,5%, dopo soli tre anni raddoppia e nel 1994 arriva al 121% del Pil. Come riportato dallo stesso Andreatta alcuni anni dopo, questo stravolgimento strutturale era necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione europea e Italia, e per consentire al nostro Paese di aderire allo Sme, ossia l’accordo precursore del sistema Euro. Quando l’Italia fa il suo ingresso nell’Euro non risponde ai parametri del debito pubblico richiesti da Maastricht, ma l’interesse politico e l’artefatto entusiasmo generale per la sua partecipazione hanno la meglio. Sarà la crisi del 2008 a far emergere tutti i limiti e la fallimentarietà di un’area valutaria non ottimale e insostenibile come l’Eurozona: l’Italia, come altri Paesi, senza la possibilità di ricorrere alla svalutazione del cambio, non riesce a recuperare terreno. Il debito pubblico, che finora era rientrato in una fase discendente, passa dal 102,4% al 131,8% del 2017. Una crescita notevole, ma di gran lunga ridimensionata se paragonata all’incremento del debito pubblico di altri Paesi dell’area Euro, come Spagna, Portogallo e la stessa Francia. Nello stesso arco temporale, infatti, Madrid ha visto il suo debito pubblico schizzare dal 38,5% al 98,3%, il che significa un tasso incrementale di circa il 150%! La crisi non ha risparmiato neanche il vicino Portogallo, che è arrivato lo scorso anno a un livello del debito molto vicino al nostro (125,7%), partendo da un «contenuto» 71,7% del 2008. Eppure i due Paesi iberici hanno sforato ripetute volte il famigerato vincolo del 3% – parametro tanto assiomatico quanto infondato –, permettendo così all’economia di tornare a crescere, a differenza di quella italiana che si è incamminata nel percorso distruttivo dell’austerity. Situazione analoga per la Francia, con un valore del debito pubblico allo scoppiare della crisi inferiore del 70% e che oggi si aggira intorno al 100%, ma senza che ciò le abbia impedito di aumentare la spesa pubblica e il deficit di bilancio, assicurando in questo modo la crescita del Pil. Dunque, sintetizzando, il nostro famigerato debito pubblico è sì più elevato, ma è partito da una situazione di evidente svantaggio, ed è cresciuto in termini percentuali del tutto in linea con l’andamento degli altri Paesi dell’Euro a seguito della crisi; anzi, anche meno di altri, come abbiamo visto, e aggravato dalle politiche di austerity, i cui effetti deprimenti sull’economia sono conclamati. Rimane il problema dei tassi d’interesse (da cui il famigerato spread), da noi più elevati che altrove, proprio a causa delle modalità dei meccanismi di collocamento dei titoli di Stato introdotto a seguito dell’epocale divorzio tra i due istituti finanziari italiani.

 

È stato stimato che in trent’anni abbiamo pagato la colossale cifra di 3mila miliardi di interessi sul debito pubblico! In queste circostanze a nulla valgono gli sforzi fiscali dell’Italia, che registra da quasi trent’anni avanzo primario, ossia quella situazione, del tutto antisociale, per cui lo Stato incassa più di quanto spende, esclusi gli interessi sul debito pubblico. Per onerare il costo del debito, ossia quell’assurda creazione del denaro dal denaro, vengono sottratte risorse finanziarie per servizi pubblici e sostegno alla popolazione in difficoltà. Dunque, una redistribuzione al contrario, dai cittadini ai mercati finanziari. Il tempo delle riforme è ormai improcrastinabile.

 

Ilaria Bifarini

 

 
Crisi di civiltà non scontro fra civiltà PDF Stampa E-mail

29 Maggio 2019

 

Da Comedonchisciotte del 26-5-2019 (N.d.d.)

 

Le prospettive degli attuali leader occidentali lasciano intendere che l’umanità farà fatica a superare il XXI secolo.

 

Altro che dimostrazione soft di potere: Pechino questa settimana ha ospitato la Conferenza sul Dialogo delle Civiltà Asiatiche. Organizzato sotto diretta supervisione di Xi Jinping, si è svolto in occasione di un “Carnevale della Cultura Asiatica”. Certo, il sottofondo era abbastanza kitsch, ma ciò che ha avuto veramente importanza sono state le parole rivolte da Xi a Cina ed Asia. Nel suo discorso di apertura, il leader cinese essenzialmente ha sottolineato il fatto che qualsiasi civiltà che voglia imporsi sulle altre è da considerarsi “folle”. Per esporre la propria visione di dialogo tra civiltà, ha fatto riferimento alla Nuova Via della Seta ed alla Belt and Road Initiative (BRI), programmi che a suo dire “hanno ampliato i canali per gli scambi di comunicazioni”. La compostezza e la razionalità di Xi sono agli antipodi della campagna “Make America Great Again” di Trump.

 

Poco più di due settimane prima si era invece svolto a Washington un forum sulla sicurezza. In quell’occasione, un burocrate di nome Kiron Skinner, direttore della pianificazione politica del Dipartimento di Stato, ha definito la rivalità tra i due paesi come uno “scontro di civiltà” e “una lotta contro un’ideologia totalmente opposta, una sfida che sinora gli Stati Uniti non hanno mai affrontato”. E, a peggiorare il tutto, questa civiltà è anche “non caucasica” – una rievocazione neanche troppo sottile del “Pericolo Giallo” (il Giappone “non caucasico” della Seconda Guerra Mondiale era l’originario). Il ‘dìvide et ìmpera’, condito con una buona dose di razzismo, è oramai da decenni il nucleo della narrativa egemonica statunitense. Questa miscela trae le proprie origini dal libro ‘Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale’, scritto da Samuel Huntington e pubblicato nel 1996. La pseudo-teoria di Huntington, proveniente da qualcuno che non sapeva molto della multipolare complessità della cultura asiatica, per non parlare di quelle africana e sudamericana, è stata smentita senza pietà in vaste aree del sud del mondo. A dir la verità, Huntington non è nemmeno l’inventore dell’originario ed imperfetto concetto. Questo infatti è stato partorito dal commentatore e storico anglo-americano Bernard Lewis, che negli Stati Uniti passa per profondo conoscitore di Medio Oriente. Come sottolineato da Alastair Crooke, fondatore del Forum sui Conflitti, Lewis ha costantemente predicato il ‘dìvide et ìmpera’, tinto di razzismo, come approccio agli stati islamici. È stato un fervente sostenitore del cambio di regime in Iran. La sua ricetta per trattare con gli arabi era “prenderli a bastonate in mezzo agli occhi”, dato che, a suo dire, l’unica cosa che rispettano è la forza. Crooke ci ricorda che, dagli anni ’60, Lewis è stato maestro nel saper sfruttare le differenze di classe, etniche e religiose come mezzo per porre fuori gioco gli stati mediorientali. In certi ambienti – quelli, per capirci, attorno ai quali gravitano l’ex vicepresidente Cheney ed il Segretario di Stato Pompeo – è considerato un guru. Ora viviamo nell’era della “riedizione di Lewis”. Dato che il mondo islamico è in gran parte sottomesso, in torpore o in tumulto, lo scontro di civiltà fondamentalmente si applica, su scala ridotta, al contenimento od alla distruzione dello sciita Iran. Nel frattempo il vero scontro – come sottolinea il Dipartimento di Stato – è con la Cina.

 

Huntington, il derivato di Lewis, non poneva la Russia tra “l’Occidente”. Il revisionista Dipartimento di Stato invece sì. Altrimenti come potrebbe giustificarsi il “Nixon al contrario”? (l’espressione fa riferimento alla raccomandazione che Kissinger diede a Trump: “Applica il ‘dìvide et ìmpera’ tra Cina e Russia – ma stavolta seduci la Russia”). Il Pentagono ha ideato anche il concetto “Indo-Pacifico”. L’unica giustificazione per questo accorpamento è che entrambe le zone dovrebbero condurre una politica estera soggetta all’egemonia americana. L’obiettivo è sempre quello: dividere e regnare, per poter poi raggiungere lo scontro di civiltà – divisioni atte a provocare il caos in tutta l’Eurasia. Stavolta però la strategia viene applicata sullo sfondo di una cruciale congiuntura storica: l’epoca in cui la BRI viene configurata come road map per la progressiva integrazione eurasiatica.

 

La Cina siede su 5.000 anni di civiltà. La visione di un Occidente cristiano quale unica road map per liberare l’umanità dal male – fondamento della Pax Americana – è considerata, nel migliore dei casi, come una divertente storia di fantasia. Fantasia tuttavia decisamente pericolosa, avvolta nell’eccezionalismo e nella demonizzazione dell’altro. L’altro – dall’islamico Iran all’atea Cina, per non parlare dell'”autocratica” Russia – si qualifica automaticamente come manifestazione del “male”. La Repubblica Popolare Cinese, al contrario, è multipolare, pluralista, politeista – accetta buddismo, confucianesimo, taoismo. Il sistema mondiale che promuove è anch’esso multipolare. Ciò che conta è l’unità nella molteplicità – come sottolineato da Xi nel proprio discorso di apertura. In essa troviamo la Cina e la Persia, due antiche civiltà – non per caso legate dall’Antica Via della Seta – sulla stessa lunghezza d’onda. Poi c’è lo spaventoso stato del pianeta, al cui confronto l’attuale pietoso teatrino politico appare in tutta la sua insignificanza. Jared Diamond, geografo di UCLA ed autore di best-seller mondiali, non ha l’assoluta precisione, ma stima che ci sia il 49% di possibilità “che il mondo come lo conosciamo crollerà intorno al 2050”. Come riassunto dall’autore Nafeez Ahmad: “Negli ultimi 500 anni circa, l’umanità ha eretto una civiltà di ‘crescita senza fine’, fondata su un particolare mosaico di comportamenti personali, strutture politiche ed economiche, valori etici e visioni ideologiche del mondo. Questo paradigma esalta la visione degli esseri umani come unità materiali atomistiche, disconnesse ed in competizione, che cercano di massimizzare il proprio consumo materiale come principale mezzo di auto-gratificazione”. Ciò che stiamo vivendo non è uno scontro di civiltà; è una crisi di civiltà. Se non viene cambiato questo paradigma per cui la maggior parte dell’umanità riesce a malapena a sopravvivere – e ci sono molte prove che vanno in senso contrario – non sarà più rimasta alcuna civiltà a potersi scontrare.

 

Pepe Escobar (Traduzione di HMG)

 

 
Negatività dei Centri Sociali PDF Stampa E-mail

28 Maggio 2019

 

Da Rassegna di Arianna del 26-5-2019 (N.d.d.)

 

Questa mia posizione ha radici lontane, anche se naturalmente con la maturità oggi si esprime con contenuti un po’ diversi dalla mia fase giovanile. Ma lo spirito, ci tengo a sottolinearlo, è lo stesso. Chi mi conosce, lo sa. Questo pezzo non vuole essere una ricostruzione storica né tanto meno un tentativo di lettura sociologica, ma la spiegazione del titolo. Nasce dalla mia esperienza diretta (anche se non sono mai stato un frequentatore dei C.S. (centri sociali) e dalla elaborazione del fenomeno sulla base della mia posizione anticapitalistica. Questo ci tengo a precisarlo. Al di là dei vari distinguo sulle identità diverse, i C.S. nascono, nelle intenzioni dei promotori, con l’occupazione di spazi pubblici e privati ai fini di un’attività “sociale sul territorio” all’insegna della “democrazia diretta”. Al di là delle differenze, il tratto dominante è quello del libertarismo anarchico. Per esempio, lo storico Forte Prenestino di Roma nasce all’insegna dell’idea del “non lavoro” (infatti ogni anno il 1° maggio celebrano la festa del “non lavoro”).

 

La negatività di queste realtà ruota fondamentalmente intorno al fatto che, pur richiamandosi alla socialità, queste rimangono espressione di una marginalità quasi sempre estranea ai contesti sociali ai quali pure si richiamano. Una marginalità che nel corso del tempo è andata radicalizzandosi fino a diventare un vero e proprio marchio di fabbrica. Una marginalità che si è alimentata di cultura “antagonistica”. Un antagonismo praticato in modo soggettivistico e mai capace di sintonizzarsi con le realtà popolari, anzi spesso venendo in conflitto con esse. Un modo di agire che ha alimentato un’identità apparentemente “contro”. Ma contro chi? Prevalentemente contro la normalità del senso comune che non poteva riconoscersi in comportamenti considerati “estranei”. Un antagonismo tutto declinato all’insegna dell’alternativismo che un po’ alla volta ha cominciato ad allinearsi alle nuove tendenze partorite dalla trasformazione “trasgressiva” sempre più in linea con la destrutturazione della società impulsata da un capitalismo che aveva bisogno di “svecchiarsi” per accogliere la necessità di modificare i comportamenti sociali e renderli più adeguati all'ultra liberismo globalista. I C.S. sono diventati realtà di nicchia nelle quali si sono sviluppati modi di fare e di sentire del tutto funzionali alla necessità di un sistema che nella “liquidità” ha la sua pietra angolare. Un po’ alla volta nei C.S. la pratica è andata volgendosi verso l’affermazione individualistica della libertà. Libertà intesa come libertà di fare come si vuole e libertà da qualsiasi vincolo.

 

Perno dell’attività dei C.S. sono le attività “autogestite”, dalla musica alla ristorazione passando per iniziative sempre mirate alla “riappropriazione” di qualcosa. L’enfasi data alla “riappropriazione” (di qualcosa espropriata evidentemente dal “potere”) ha portato sempre più queste realtà ad assumere comportamenti arroganti e spesso violenti. Nate dalla convinzione che la bontà delle proprie rivendicazioni vanno imposte con la “pratica”. Per cui chi non concorda è considerato controparte con la quale non si interagisce ma che bisogna semplicemente mettere in condizione di accettare in un modo o nell’altro. La forza dei C.S. è andata crescendo con la loro capacità di “fare affari” (i concerti sono la fonte primaria delle proprie entrate) sempre rivendicando il diritto di non dover pagare servizi (locazioni e utenze varie…) e sempre trovando l’accondiscendenza di amministrazioni “progressiste” compiacenti che, pur a volte non condividendo certe “esagerazioni”, vedevano in essi la possibilità di avere militanza gratuita per azioni di contrasto alle forze politiche avverse. Motivo per cui l’antifascismo (“antifà”) è diventato il loro marchio di fabbrica. In nome dell’ “antifà” ogni azione è giustificata, per esempio l’impedimento di qualsiasi iniziativa considerata fascista o in odor di fascismo. Per cui sono sempre i primi ad intervenire per impedire anche fisicamente l’organizzazione di eventi ritenuti contrari al proprio orientamento. Arrivando alla costituzione di un vero e proprio politicamente corretto che, guarda caso (seppur in modo esasperato), si è incontrato con il politicamente corretto delle istituzioni “progressiste” globaliste. Per esempio, non si può organizzare una discussione all’università sul clima se non secondo i parametri dell’ambientalismo ideologico che parta dalla tesi del riscaldamento globale come inteso dai circoli istituzionali del bio-capitalismo. Ma di esempi se ne possono fare in quantità. Uno tra i tanti, l’intervento violento all’università di Bologna di qualche anno fa in conseguenza della decisione del rettorato di mettere i tornelli per controllare gli ingressi alla biblioteca. Decidiamo noi come gestire l’università, dissero, e così dispiegarono un’azione violenta volta a distruggere i tornelli e quant’altro. Insomma in qualsiasi circostanza devono essere loro a decidere cosa fare e come farlo. Naturalmente in nome della “riappropriazione” del sapere e altre amenità del genere. Con modalità dell’agire semplicemente squadristiche. Per non parlare della responsabilità che hanno avuto i C.S. nella pratica del consumo di sostanze stupefacenti e della propaganda militante della liberalizzazione delle droghe “leggere”. Il comune denominatore dell’agire “sociale” dei C.S. è un nichilismo libertario che farebbe impallidire gli stessi teorici classici del nichilismo.

 

È innegabile che i C.S. svolgano un’azione del tutto in sintonia con i dettami di una società ultraliberista che non può accettare nessun tipo di condizionamento. Basta considerare il linguaggio utilizzato. Un linguaggio onirico e strampalato, comprensibile solo a se stessi (a volte neanche). Basta dare un’occhiata alla locandina che pubblicizza il party-rave intitolato Amen (per la gioia del Vaticano) dello “Spin time labs” al quale il cardinale elettricista ha ridonato la corrente elettrica (per i “migranti” naturalmente”). “Balliamo per difendere i nostri spazi di libertà”, recita la locandina dello Spin. Evento, pubblicizzato con un post sui social, da vivere all’insegna del «no racism, no sexism, no homophobia, no transphobia, no violence”. Chiaro? E non mi si venga a dire che questo non sia l’agenda “trans” (umana) del bio-capitalismo ultraliberista.

 

Antonio Catalano

 

 
Italia complice PDF Stampa E-mail

27 Maggio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 21-5-2019 (N.d.d.)

 

L’Italia sta in mezzo alle guerre del Golfo ma se ne accorge soltanto adesso che è attraccata una nave saudita a Genova con un carico di armi. Ogni giorno l’aviazione comandata dal principe assassino Mohammed bin Salman, il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, scarica ordigni italiani su bersagli inermi. Codice A4447: è il numero inciso sulle bombe italiane, da 500 a 2mila libbre sganciate dai sauditi sullo Yemen e prodotte in Sardegna dalla tedesca Rwm. Siamo già complici, consapevoli e informati delle stragi dei civili compiute da Riad con l’assenso della comunità internazionale. Anzi ci guadagniamo pure.  Non possiamo dire di non sapere. Persino il pubblico della Rai lo sa, visto che la tv di stato ha trasmesso già tempo fa il documentario “Doppia Ipocrisia” incentrato sulla fabbrica italiana di armi RWM a Domusnova, Sardegna, filiale della tedesca Rheinmetall (“il metallo del Reno”), uno dei colossi tedeschi nella produzione di armamenti. Lo stesso vale per la crisi dell’Iran. In caso di guerra saranno infatti coinvolte le basi americane in Sicilia a Sigonella e Niscemi, oltre che al Nord, come già accaduto più volte negli ultimi trent’anni di conflitti. Proprio per questo il governo italiano dovrebbe convocare l’ambasciatore americano per consultazioni. Trump, dopo avere mosso le truppe nel Golfo, ha minacciato di cancellare l’Iran: vogliamo forse un’altra guerra?

 

L’ambasciatore Usa Lewis Eisenberg, prima della firma dell’accordo con la Cina sulla Via della Seta, ha fatto irruzione nel nostro ministero degli Esteri chiedendo con toni arroganti che non firmassimo l’intesa con Pechino. Il nostro è stato l’unico Paese del G-7 a sottoscrivere questo accordo ma l’Italia, tra i principali Paesi europei, è quello che ha il minore interscambio con Pechino: cinque volte meno della Germania, la metà di Francia e Gran Bretagna. Ora, di fronte alla tracotanza americana, dovremmo subito chiedere all’ambasciatore Usa se gli Stati Uniti intendono portare un altro conflitto alle porte di casa nostra e magari chiederci pure le basi militari. Dopo quanto accaduto con la Libia sembra il minimo. È quasi ovvio che i  nostri politici non lo faranno ma se fossimo uno stato sovrano - cosa che non siamo a dispetto dei sovranisti di casa nostra -  dovremmo rendere chiaro che le nostre basi non sono disponibili per i seguenti motivi. Recita la nostra Costituzione: all’articolo 11: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Inoltre: 2) abbiamo aderito a un trattato internazionale con l'Iran sul nucleare sotto l’egida dell’Onu e della Ue, 3) con lo stesso Iran abbiamo firmato accordi economici bilaterali per 27 miliardi di euro fatti saltare dalle sanzioni Usa, 4) dopo la guerra di Libia si profila un altro conflitto portatore di destabilizzazione in una vasta area, dal Medio Oriente al Mediterraneo, e probabili ondate di profughi. Può bastare?

 

Alberto Negri

 

 
La censura di Facebook PDF Stampa E-mail

26 Maggio 2019

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Da Appelloalpopolo del 23-5-2019 (N.d.d.)

 

Pochi giorni fa è stata pubblicata la notizia che Facebook ha bloccato 23 pagine, tutte legate all’area politico-culturale populista di destra oppure simpatizzanti dell’attuale governo giallo-verde. La segnalazione della presenza di questi siti e dei loro contenuti, considerati non conformi alle regole del social, sarebbe partita da Avaaz.org, una ONG americana di ispirazione liberale fondata da Ricken Patel, persona notoriamente vicina alla Rockfeller Foundation. La motivazione di tale oscuramento era che le pagine avevano violato l’etica del social in tema di migranti, vaccinazioni e antisemitismo. Come era prevedibile, nei giorni successivi sono stati pubblicati articoli indignati da parte di chi invece ha fatto parte di tali gruppi Facebook o semplicemente simpatizzava per i contenuti e per la cultura politica che esprimevano. Si è gridato alla “censura” e alla “limitazione della libertà di espressione”. In senso assoluto questa denuncia può essere considerata vera: aver chiuso alcune pagine solo perché esprimevano precise idee su obbligo vaccinale o immigrazione corrisponde di fatto ad una limitazione della libertà di parola, e rappresenta sicuramente un appoggio palese alle posizioni politiche opposte. Ma il punto non è questo. In tutte le considerazioni indignate sulla “censura” mancava un particolare importantissimo: Facebook è un social prodotto e gestito da una società privata statunitense.

 

Un social network privato deve essere considerato alla stregua di un’associazione bocciofila: si tratta di una struttura formata da privati cittadini, si dota delle regole e delle limitazioni che ritiene opportune e non può esservi un obbligo di legge che preveda che ogni possibile attività sia necessariamente svolta al suo interno. Se una bocciofila scrive nel proprio statuto che non si possono giocare partite con bocce di colore giallo, ha tutto il diritto di farlo ed è ridicolo che qualche iscritto strilli alla “limitazione della libertà” nell’associazione, specialmente se questa è stata fondata in un paese straniero con altre leggi societarie: se ciò non gli piace, cambi pure bocciofila e si iscrivi ad un’altra più tollerante nei confronti dei colori delle bocce. Fuori di metafora, se il comportamento di Facebook a qualcuno non piace la soluzione è semplicissima: se ne esce e si sceglie un altro social. Facebook non è un diritto. È una struttura privata e non ci si può aspettare che il privato rispetti per forza le regole di libertà assoluta e universale da parte di chi scrive, specialmente se il proprietario di questa struttura è uno dei più ricchi oligarchi americani che risponde al nome di Mark Zuckerberg. Quello che invece manca oggi è un social network pubblico, gestito dallo Stato e a disposizione di tutti i cittadini. In un sito del genere sarebbe corretto applicare le norme di sicurezza e di libertà d’espressione previste dalle leggi della Repubblica, per cui diverrebbe un luogo in cui ognuno potrebbe esprimere sicuramente la propria opinione nel rispetto delle normative vigenti e senza ulteriori restrizioni che vadano a simpatia ed antipatia. L’iscrizione ad un social pubblico dovrebbe essere un diritto del cittadino, e l’esclusione di un iscritto da esso dovrebbe essere possibile solo a fronte di comprovate rilevanze penali. Tuttavia coloro che si sono indignati per le pagine Facebook recentemente chiuse, spesso appartengono a quell’area politico-culturale liberista che per venticinque anni ha gridato alle privatizzazioni. Se si privatizza l’informazione, non si può poi pretendere che il privato si comporti come un servizio pubblico, magari con maggiore correttezza. Il privato si comporta come i suoi personali ed egoistici interessi gli indicano. E se questi interessi gli dicono di oscurare siti che parlano di vaccinazioni, lo fa: è il mercato, bellezza.

 

I liberisti non hanno mai capito, o fingono di non capire, o sono troppo stupidi per capire che privatizzare un servizio non solo non corrisponde necessariamente a migliorarne le qualità, ma comporta anche lasciare nelle mani e all’arbitrio di una ristretta cerchia di oligarchi la decisione se erogare o meno il servizio stesso, e a chi.

 

Marco Trombino

 

 
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