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Ripristinare i vincoli PDF Stampa E-mail

24 Aprile 2019

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Da Appelloalpopolo del 15-4-2019 (N.d.d.)

 

Se apri le frontiere dei capitali ai paesi in cui non si pagano le tasse, le frontiere delle persone e dei servizi ai paesi in cui non si paga il lavoro, le frontiere delle merci ai paesi in cui le normative ambientali e sulla sicurezza sono ferme all’Ottocento, poi devi competere eliminando le tasse (cioè smantellando lo stato sociale), riducendo il costo del lavoro (cioè smantellando i diritti dei lavoratori) e abbassando gli standard produttivi (cioè smantellando le procedure basate sul principio di precauzione). Non c’è altro modo di competere con chi fa dumping sociale e fiscale e lo dimostra il fatto che non è solo l’Italia a subire le delocalizzazioni delle imprese, che colpisce anche Francia e Germania, in favore sempre e soltanto dei paesi a basso reddito e bassi diritti. Per tale ragione è necessario abolire queste quattro libertà su cui si fondano i trattati europei, cioè ripristinare i vincoli alla circolazione di persone, capitali, merci e servizi, ricominciando a fare una politica di stimolo dell’economia interna.

 

Perché per esercitare queste quattro libertà abbiamo dovuto rinunciare alla libertà più importante: quella di lavorare percependo un reddito che ci consenta di vivere un’esistenza dignitosa.  Queste quattro libertà ci sono costate la vita e non c’è bene o servizio che valga la dignità umana.

 

Gianluca Baldini

 

 
Le nostalgie di Rampini PDF Stampa E-mail

22 Aprile 2019

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Da Rassegna di Arianna del 20-4-2019 (N.d.d.)

 

Da troppo tempo il capitale mondiale si è affidato ai servigi d’una sinistra che, ripudiato il classico ruolo di tutela degli interessi delle classi subalterne, si è schierata dalla parte dei potenti. Ora è il momento di sbarazzarsi di questi servi sciocchi che, per voler strafare, si sono sputtanati al punto da non poter più garantire legittimità al regime neoliberista. Allertate dal dilagare del populismo (“uno spettro che si aggira per l’Europa” lo ha definito il New York Times, parafrasando un detto di Marx) le élite dominanti sguinzagliano i migliori cervelli per escogitare alternative. Costoro suggeriscono due possibili soluzioni: da un lato, la cooptazione dei populismi di destra per investirli del ruolo di garanti della continuità del sistema, dall’altro, la ricostruzione di una sinistra social-liberale capace di riottenere il consenso popolare.

 

L’ultimo libro di Federico Rampini, noto corrispondente di “Repubblica” da New York (“La notte della sinistra”, Mondadori), inscrive l’autore fra i promotori della seconda soluzione. Il libro contiene una serie di feroci critiche nei confronti delle sinistre “fighette”, tali da far impallidire quelle che il sottoscritto ha rivolto contro lo stesso bersaglio (Vedi “Il socialismo è morto. Viva il socialismo”, Meltemi -): la sinistra che ha abbandonato al loro destino i deboli, si salva l’anima impegnandosi a proteggere gli ultimi solo se e quando sono immigrati stranieri (regalando alle destre la rappresentanza della rabbia degli autoctoni poveri); la sinistra “cosmopolita” esalta l’apertura dei mercati finanziari, rinunciando a proteggere l’economia nazionale dalla colonizzazione straniera (spalancando ponti d’oro alla propaganda “sovranista”); la sinistra “politicamente corretta”, relegati in soffitta Gramsci e Pasolini, elegge a propri eroi intellettuali star hollywoodiane e boss della canzone e dello spettacolo, gente che esibisce sgargianti divise femministe e antirazziste confezionate dai loro consulenti di marketing; la sinistra “ecologista”, che viaggia su auto elettriche da centomila euro, pretende che gli sfigati che circolano su sgangherate utilitarie finanzino le politiche ambientaliste pagando tasse sul carburante “sporco” (innescando la rabbia dei gilet gialli contro Parigi). Rampini è passato dalla parte del popolo e chiama alla rivoluzione? Non proprio, come vedremo. La sua indignazione nei confronti del “buonismo” dei militanti no border, per esempio, è compatibile con un atteggiamento apologetico nei confronti di vecchi e nuovi colonialismi. La sinistra recita il mea culpa per i crimini occidentali che provocano la miseria degli altri popoli, costringendoli a migrare? Così rimuove colpe e responsabilità delle presunte “vittime”, sentenzia Rampini, che poi aggiunge: bene e male sono equamente distribuiti e noi non siamo l’ombelico del mondo. Curiosa critica dell’eurocentrismo, visto che non contesta la missione “civilizzatrice” dell’Occidente, purché affidata al comando imperiale americano, orientato – beninteso – in senso progressista, “di sinistra”. La polemica di Rampini contro le sinistre radical chic, si accompagna infatti al sogno di rilanciare la vecchia, cara sinistra del trentennio glorioso, quella sinistra keynesiana/kennediana che gestiva il compromesso fra capitale e lavoro, assicurava welfare, occupazione e salari decenti e cooptava le classi subalterne nella lotta contro la minaccia sovietica. Nostalgia delle sinistre socialdemocratiche al tempo della guerra fredda, che mai si sarebbero sognate di mettere in discussione l’egemonia americana, né avrebbero imboccato la via dell’austerità, suscitando la reazione populista. Nostalgia di politiche che solo la guerra fredda, evocando lo spettro di un’alternativa globale al sistema capitalista, aveva reso possibili. Ecco perché Rampini fa di tutto per resuscitare quello spettro, coltivando un’ideologia che potremmo definire “anticomunismo senza comunisti”. Così la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping vengono arruolati per evocare l’immagine di un nuovo “Impero del male”, sorvolando sul fatto che a giocare il ruolo di aggressore e provocatore, in questa nuova sfida planetaria, sono gli Stati Uniti assai più di questi Paesi. Così il tentato golpe contro Maduro, ispirato da Washington e affidato a una figura priva di ogni legittimazione democratica, viene presentato come un intervento “umanitario” per restaurare la democrazia, e non come l’ennesima interferenza in un Paese latinoamericano per mantenere il controllo sul “cortile di casa” senza sottilizzare sui mezzi (do you remember Allende?). Così Snowden e Assange, da eroi della lotta per la trasparenza dell’informazione (come venivano descritti fino a qualche anno fa anche dalla maggior parte dei media occidentali), diventano infami spie russe.

 

Concludo osservando che il libro di Rampini è stato fin troppo profetico in merito all’ultimo punto, tanto che – a costo di apparire “complottista” – mi sorge il dubbio che disponesse di informazioni riservate sull’imminenza del blitz nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per catturare Assange. In ogni caso, il libro ha anticipato la campagna denigratoria che i media hanno scatenato contro i “traditori” dell’Occidente, con toni da propaganda prebellica. Vedi quanto scrive Beppe Severgnini sul Corriere della Sera: “E’ vero: gli Stati Uniti hanno abusato della propria supremazia tecnologica per infiltrarsi nella vita di troppe persone, negli Usa e all’estero. Ma è lecito istigare una fonte a commettere un reato, come ha fatto Assange con Chelsea Manning, che sottrasse migliaia di documenti segreti? È giusto che tutto sia sempre noto a tutti?”. Traduco: è giusto che i cittadini sappiano cosa succede nel segreto dei comandi militari? Non è meglio tenerli all’oscuro sui crimini commessi dal proprio campo, in modo che continuino a credere che il male sta tutto dall’altra parte?

 

Carlo Formenti

 

 
Disumanizzazione senza una Greta PDF Stampa E-mail

21 Aprile 2019

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Da Rassegna di Arianna del 19-4-2019 (N.d.d.)

 

In piena Settimana Santa è arrivata in Italia Greta, ed è stata accolta da papi e presidenti come la madonna protettrice del Pianeta. Greta non lo sa, eppure c’è una minaccia peggiore sul nostro futuro che non riguarda l’ambiente, non proviene dall’inquinamento e dal riscaldamento globale: è in pericolo l’umanità prima che il pianeta. Più che le piante, il clima e i mari, è la natura umana che rischia di essere cancellata nel giro di pochi anni dalla tecnoscienza e dai suoi miraggi. E non c’è nessuna Greta, nessuna mobilitazione planetaria e mediatica che denunci lo snaturamento dell’uomo. La tentazione del transumano, il cyborg e la clonazione, i chip sottocutanei e la robotica, l’umanità geneticamente modificata, svelano il desiderio di evadere dalla prigione dei nostri limiti, ripudiando la natura umana, in un viaggio dalla fecondazione artificiale all’esistenza artificiale, per sfuggire alla condizione umana, all’invecchiamento e alla morte. Madre Natura diventa maternità surrogata e i suoi figli sono automi, macchine senza passato, senza interiorità, senz’anima né trascendenza. L’uomo viene sostituito dal cyberuomo, come scrive Enrica Perrucchietti nel suo libro documentato e inquietante sul tramonto dell’umanità e l’avvento dell’intelligenza artificiale (CyberUomo, Arianna editrice, pp.224, 16.50 euro). È la tecnoutopia di liberarsi dalla natura umana o modificarla a tal punto da renderla irriconoscibile, separata dalla storia e da ogni senso morale, civile e religioso. È la favola di Pinocchio capovolta.

 

Diciannove anni prima del Novecento nacque dalla fantasia di Collodi il burattino di legno che dopo una serie di disavventure iniziatiche diventa finalmente bambino e umano. Diciannove anni dopo il Novecento, rischiamo di percorrere a rovescio la favola di Pinocchio, dall’umanità alla macchina, dalla natura al tecno-androide. In questo viaggio capovolto la creatura perde umanità e regredisce al rango di automa proteiforme, senza destino, rigenerato dalla tecnica. Non più cuori intelligenti ma intelligenze artificiali. Non è questo il viaggio inverso di Pinocchio, il suo cammino a ritroso da umano a robot, un androide che si muove inserendo il pin? Il contrario di Pinocchio, Occhio al Pin. Colpisce anche la scelta semantica e in fondo ideologica dell’ecologismo: si parla sempre di ambiente piuttosto che di natura. Perché la natura evoca il creato, l’ordine naturale, il diritto naturale, la famiglia naturale, la procreazione naturale, il naturale invecchiamento e perfino il soprannaturale. Ambiente invece è asettico, eco-compatibile, si definisce ambiente anche un luogo chiuso, artificiale. La carota ogm indigna i verdi, ma guai a criticare l’uomo ogm. L’uomo ha diritto di cambiare natura, la carota, invece, non va modificata…

 

Dell’avventura di Pinocchio, oltre il naso etico che si allunga con le bugie, colpiva il passaggio finale da burattino a umano, tramite miracolo d’amore e buona condotta. Era veramente un passaggio, transustanziazione, cioè una Pasqua. Ci colpiva da bambino il sacrificio di Mastro Geppetto, che si vende il cappotto in pieno inverno, fingendo d’avere caldo, per comprare a Pinocchio l’abecedario, poi svenduto dall’ingrato burattino per divertirsi. Impressionava la sua trasformazione in asino, in seguito al suo comportamento e alle sue cattive compagnie; il burattino può elevarsi al rango di uomo ma degradarsi al rango di bestia. Inteneriva Mastro Geppetto, la sua solitudine che l’aveva spinto a comprarsi da Mastro Ciliegia il pezzo di legno e intagliarsi un burattino per farsi compagnia. Il suo statuto triste di single, privo di moglie e di famiglia, la sua aspirazione alla paternità, la sua povertà e i suoi patimenti per l’inafferrabile figlioccio. Ci dispiaceva che la fata turchina fosse troppo giovane, carina ed evanescente per prendersi cura di un vecchio e malandato falegname come Mastro Geppetto; il nostro sogno puerile era trovare una madre a Pinocchio e una moglie al suo tenero padre, che ricordava troppo il suo collega falegname san Giuseppe, padre putativo di ben altro Figlio (come la fata turchina evocava la Madonna). Il CyberPinocchio si smarca da ogni paternità e maternità, funziona per suo conto, risponde ai suoi meccanismi. E poi il ventre della balena, mansarda negli abissi marini, illuminata da una lampada a fuoco che non le dava bruciore allo stomaco, era l’allegoria dell’Oltretomba in cui visitava il padre. Il viaggio di Pinocchio era pasquale e si concludeva con la Resurrezione. Il suo racconto era un viaggio iniziatico verso l’umanità. Pinocchio accendeva la fantasia e rendeva migliori: la sua trasformazione estetica combaciava con la mutazione etica e umana. Dopo il Pinocchio infantile, da grande ho letto il Pinocchio del Cardinale Biffi, consonante con questa lettura religiosa e allegorica; e il Pinocchio acuto e smagato di Giorgio Manganelli, gustando pure il Pinocchio teatrale di Carmelo Bene ma non disprezzando nemmeno quello di Benigni e Cerami, infine ritrovando il Pinocchio classico, illustrato da Sigfrido Bartolini. Pinocchio racconta il viaggio verso la salvezza e verso la natura umana. È un viaggio dal padre al Padre. Il Pinocchio che si affaccia nella nostra epoca è invece una favola capovolta, che nasce da una maternità surrogata, cresce nell’insofferenza verso la condizione umana e i suoi limiti, annuncia la perdita della natura e l’avvento dell’androide bionico. Da uomo a burattino di silice. C’è qualcuno nel mondo che voglia salvare il principale abitatore del pianeta, non c’è nessuna Greta che si preoccupi della natura umana in pericolo?

 

Marcello Veneziani

 

 
Progresso non è distruzione del passato PDF Stampa E-mail

20 Aprile 2019

 

Da Appelloalpopolo del 17-4-2019 (N.d.d.)

 

Non riesco a spiegarmi quale sia il motivo per cui abbiamo attribuito alla parola “progresso” una semantica che sconfina nell’idea di una furia iconoclasta verso tutto ciò che si ricollega al passato, alla tradizione o ai valori, quando la utilizziamo in senso assoluto e quanto invece la consideriamo diversamente quando si comporta da semplice sostantivo o complemento. Se parliamo del “progresso”, non sottintendiamo un semplice superamento di ciò che è stato ma la sua totale distruzione, come se si ponesse da ostacolo ad una qualsivoglia evoluzione. Viceversa, se ne parliamo in termini ordinari, come ad esempio in riferimento ai miglioramenti di un bambino in una materia scolastica, lo intendiamo come complemento di ciò che già aveva appreso. Pensiamo al “progresso” come alla vita di un albero che, una volta cresciuto, dovesse liberarsi delle sue radici perché ne impediscono lo sviluppo. Abbiamo sostanzialmente confuso l’evoluzione con la tecnologia e la tecnica, la cultura e la tradizione con l’oscurantismo, la memoria e la saggezza con un racconto noioso ed inutile di chi eravamo e di chi siamo. Eppure ancora ci rivolgiamo ai classici per trovare mirabili sintesi di buon senso e di consapevolezza. Come mai? Non siamo forse progrediti negli ultimi due millenni?

 

Quando rifletto su questo argomento non posso fare a meno di pensare alla storia del Greco di Calabria, una lingua antica ma viva che fu fatta passare, ai tempi dell’alfabetizzazione nazionale, come una vergogna, un marchio di arretratezza e di ignoranza da estirpare il più velocemente possibile. Come se in qualche modo impedisse il “progresso” e la “civiltà” di un popolo che si stava formando. È un fatto su cui riflettere, specialmente di questi tempi. Tempi in cui sembriamo tutti innamorati delle culture minoritarie che rischiano di perire, schiacciate dai processi globalizzanti, e che tentiamo strenuamente di salvare dall’oblio. Perché tanta attenzione per queste realtà culturali “insignificanti” e così poca per i valori fondanti della nostra società? Mi verrebbe da rispondere che forse il motivo sta nel fatto che le prime non minacciano l’avanzata violenta di un globalismo bramoso di disintegrare i popoli, esaltando i capricci dell’individuo. Un individuo così libero da non aver bisogno di radici, così emancipato da bastare a se stesso, così “progredito” da poter dimenticare di chi è figlio. Il progresso poggia le sue basi su ciò che è stato e lo comprende. Il progresso è consapevolezza, coscienza. È volontà di confronto e di scambio. È buon senso, capacità di unire la memoria con la prospettiva, l’identità con la differenza, senza che né l’una né l’altra si estinguano.  Il progresso è la ricerca di un equilibrio, non la volontà distruttiva di un’idea totalizzante.

 

Saverio Squillaci

 

 
L'Europa cristiana fu e non è PDF Stampa E-mail

19 Aprile 2019

 

Da Vvox del 16-4-2019 (N.d.d.)

 

Perché ci fa tanta impressione l’agonia di fiamme in cui è incenerita la cattedrale parigina di Notre-Dame? Perché è un simbolo, si dice giustamente. Ma un simbolo può avere più d’un significato. Per tutti, o almeno si spera, il più immediato ed elementare è l’importanza ferita di un monumento di così antica gloria e bellezza. Una meta per ammiratori dal mondo intero. Per i religiosi, ma anche per quei laici non ottusamente materialisti, è una delle chiese più famose e prestigiose della cristianità, con una storia millenaria svettante goticamente verso l’Alto, in uno slancio religioso che il poeta Heine, malinconicamente, non ravvedeva più nella modernità assassina di qualunque Dio trascendente. Ad un occhio più prosaico ma non per questo meno acuto, la prova che la Repubblique non ha saputo salvaguardare un bene suo e dell’umanità per criminale negligenza, di cui le lacrime di coccodrillo del presidente Emmanuel Macron, con la sua idea di colletta nazionale, sono la controprova più lampante e ipocrita.

 

Fa umana tristezza, d’altro canto, assistere alla fregola guerrafondaia dei crociati immaginari che fin dalle prime ore avevano già stabilito che l’incendio non solo è doloso (il che, intendiamoci, potrebbe essere, come potrebbe essere invece uno scandaloso incidente del cantiere di riparazione della guglia principale), ma è pure terroristico, e magari di matrice islamica. Non avendo alcun elemento per sostenerlo, trattasi di classicissimo wishful thinking: si vede quel che si desidera vedere – cosa capitata anche a un’altra Repubblica, il quotidiano nostrano, che pur di buttarla in caciara anti-sovranista ha scriteriatamente dato la notizia come equivalesse alla «Waterloo dell’idea di nazione». Si pensa male non tanto perché a pensar male ci si azzecca, come diceva il gobbo (non quello di Notre-Dame, quello di Roma); ma perché si vuole pensar male. Perché così costoro, che muoiono dalla voglia che terrorismo ci sia, possono suonar le trombe di guerra e legittimare la tesi per cui c’è un’identità europea da difendere, un tramonto dell’Occidente da fermare – scambiando il Passato con l’Eterno… Che questa identità ci sia stata, nessun dubbio. Che ci sia oggi, o meglio che sia resistita alla morte di tutti gli dei – eccetto il dio denaro – dovrebbe essere quanto meno posto al dubitativo. Quel che di vitale esiste dell’Europa cristiana, di quel Medioevo di cui Nostra Signora di Parigi è, o meglio ormai era, una maestosa eredità, è patrimonio di una minoranza, quella minoranza di fedeli che mirabilmente ieri si è radunata per pregare. Capiamoci bene: il nostro non vuol essere un giudizio, ma la constatazione di un fatto.

 

Più in profondità, forse il motivo di tanto stupore e angoscia sta nel significato rimosso di una simile tragedia. Che è il tragico, appunto. Siamo assuefatti, noi ipermoderni, a veder scorrere incessantemente immagini mediatiche che ci rendono una realtà multiforme, ribollente, ansiogena, a volte divertente, altre volte violenta, ma nell’insieme monotona e prevedibile. Piatta. Poi ecco che un evento del tutto inimmaginabile, che esce dai canoni cinici dei “soliti” conflitti o disgrazie di cui sono piene le cronache, un imprevisto assoluto e terrificante, ecco che una rottura avviene nell’ordine del nostro quotidiano disordine. E ci riporta alla barbarica realtà secondo cui tutto, ma veramente tutto, può avere una fine.

 

Alessio Mannino

 

 
L'emancipazione attraverso le canne PDF Stampa E-mail

17 Aprile 2019

 

Oggi una mia alunna marocchina – fino a ieri tutta casa e moschea - è stata beccata con delle compagne a farsi una canna nel cortile della scuola. Commento della mia collega di italiano: “E se le facesse due canne, che si emancipa…!”

 

Della serie: nuove strategie della sinistra per l’integrazione e l’emancipazione delle immigrate musulmane: LE CANNE.

 

Stefano Di Ludovico

 

 
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