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16 Marzo 2019

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Da Comedonchisciotte del 14-3-2019 (N.d.d.)

 

Qualcuno ci sta arrivando. Probabilmente fuori tempo massimo. Dove? A comprendere che il modello di sviluppo che abbiamo imboccato a partire dalla Rivoluzione industriale e che poi abbiamo cavalcato sempre più velocemente è sbagliato da ogni punto di vista, non solo ecologico, che è quello più intuitivo, ma economico e umano. Una direttiva Ue vuole obbligare le aziende ad “allungare la vita dei loro prodotti”. Questa misura, se davvero fosse applicata ed estesa (per ora riguarda solo gli elettrodomestici bianchi) è devastante. Va contro uno dei totem su cui si regge il nostro modello di sviluppo: “l’obsolescenza programmata del prodotto”, cioè un prodotto deve avere una vita breve, la più breve possibile, per non interrompere, ma anzi accelerare, il ritmo del consumo su cui si regge tutto il sistema. Ma il provvedimento va concettualmente molto più in là. Come nota sul Giorno Gabriele Canè “il mercato sforna sempre una serie nuova di qualunque cosa, pochi mesi dopo aver messo in vendita la precedente novità”. La cosa è particolarmente evidente nell’economia digitale dove uno smartphone di nuova generazione viene immesso sul mercato con varianti trascurabili rispetto a quello precedente per attirare l’uomo-consumatore che pressato da una pubblicità altrettanto incalzante ci casca regolarmente. Ma il concetto può essere tendenzialmente valido quasi per qualsiasi altro prodotto. Si tornerebbe così all’economia del ‘riciclo’ su cui ha vissuto, per secoli, il Medioevo europeo. Dice: questa è la legge del mercato. Certo, ma questo è proprio il meccanismo, basato sul mito delle crescite esponenziali, che ci porterà necessariamente al collasso, non tanto ecologico, perché l’uomo è un animale molto adattabile, ma economico. Inoltre sta inquinando e deteriorando da tempo la nostra esistenza. Da questo punto la prende l’autorevole opinionista del Corriere, Galli della Loggia, in un editoriale del 7.3 “Lo sviluppo crea insicurezza”. Della Loggia la prende alla larga e con prudenza, ma in sostanza sostiene che l’uomo, nella sua ricerca affannosa di uno sviluppo sempre maggiore, si è troppo subordinato all’Economia e alla Tecnologia. Che è la mia tesi, sempre irrisa, almeno da quando pubblicai La Ragione aveva Torto? nel 1985. Abbiamo la possibilità di ricorrere a un esperimento ‘in vitro’. La Cina, che per ragioni culturali profonde che risalgono alla teoria dell’inazione cioè detto in termini molto semplicistici della non azione di Lao-Tse (Il libro della norma) si era fino a pochi decenni fa sottratta al modello di sviluppo occidentale, oggi vi è entrata con prepotenza. Ebbene, nell’odierna Cina il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza fra gli adulti. La ‘ricchezza delle Nazioni’, per dirla con Adam Smith, non ha niente a che fare con il benessere e la qualità della vita dei suoi abitanti. Nell’Africa subsahariana, prendiamo la Nigeria, i Paesi più ricchi sono quelli che hanno il maggior numero di poveri o per meglio dire di miserabili.

 

Agli albori della Rivoluzione industriale Alexis de Tocqueville nel suo libro Il Pauperismo, nota, con stupore, come in Europa i Paesi che avevano imboccato per primi questa strada avessero un numero molto maggiore di poveri di quelli che erano rimasti fermi. Scrive Tocqueville: “Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa, si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano, e all’apparenza inesplicabile. I paesi reputati i più miserabili sono quelli dove si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza, una parte della popolazione è costretta, per vivere, a ricorrere all’elemosina dell’altra”. Sono cose che dovrebbero far riflettere se avessimo ancora capacità di riflessione. Ma poiché l’abbiamo perduta si continua imperterriti sulla strada di sempre: costruzione di infrastrutture sempre più pesanti e complesse, superstrade, superponti, supertrafori, il tutto per aumentare la produttività ed essere all’altezza della competizione globale. Noi dobbiamo produrre compulsivamente per poter, altrettanto compulsivamente, consumare. Peggio, le cose si sono ormai invertite: consumiamo per poter produrre. Siamo noi al servizio del meccanismo, non il contrario. Come si esce da questo automatismo infernale? Con un “ritorno graduale, limitato e ragionato, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano per il recupero della terra e un ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario”. È la mia tesi, inascoltata in Italia e in Europa, ma non negli Stati Uniti i quali, essendo la punta di lancia dell’attuale modello, stanno proponendo i primi anticorpi, sia pur ancora molto di nicchia, nelle correnti di pensiero che si richiamano al bioregionalismo e al neocomunitarismo. Ma dubito molto che le nostre classi dirigenti abbiano letto non dico Lao-Tse ma almeno Alexis de Tocqueville che al pensiero occidentale appartiene.

 

Massimo Fini

 

 
I nostri interessi PDF Stampa E-mail

15 Marzo 2019

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Da Comedonchisciotte del 12-3-2019 (N.d.d.)

 

Il presidente Xi Jinping arriverà in Italia per una visita ufficiale il 22 marzo. Il tema principale della discussione sarà la Nuova Via della Seta, detta anche Belt and Road Initiative (BRI). Il giorno prima, a Bruxelles, l’UE discuterà una strategia comune relativa agli investimenti cinesi in Europa. Una parte sostanziale dell’UE è già collegata, di fatto, con la BRI. Essa comprende la Grecia, il Portogallo, le 11 nazioni dell’UE appartenenti al gruppo 16 + 1 della Cina, più l’Europa Centrale ed Orientale e, in pratica, l’Italia. Eppure è bastato che un sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico italiano, Michele Geraci, dicesse al Financial Times che durante la visita di Xi verrà firmato un memorandum d’intesa a sostegno della BRI, perché si scatenassero tutti i diavoli dell’inferno (della Casa Bianca).

 

Il Financial Times non si è mostrato timido nel suo commento, definendo la BRI un “un controverso programma infrastrutturale.” La BRI è un vasto progetto di integrazione eurasiatica a lungo termine ed è l’unico programma di sviluppo quasi globale sul mercato, su qualsiasi mercato. È particolarmente “controverso” per Washington, perché il governo degli Stati Uniti, come ho spiegato altrove, ha deciso di antagonizzarlo, invece di approfittarne. Un portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca che cerca di prendersi gioco della BRI definendola un progetto “fatto dalla Cina, per la Cina,” chiaramente non raggiunge lo scopo. Se le cose stessero così, più di 152 (ma sono in continuo aumento) nazioni ed organizzazioni internazionali non avrebbero approvato formalmente la BRI. La risposta semi-ufficiale della Cina alla Casa Bianca, tralasciando gli usuali commenti diplomatici del Ministero degli Affari Esteri, è arrivata tramite un editoriale graffiante e non firmato del Global Times che accusa l’Europa di essere sottomessa alla politica estera di Washington e ad un’alleanza transatlantica che non è più coerente con le necessità del 21° secolo.

 

Geraci afferma l’ovvio: il collegamento BRI consentirà di esportare più Made in Italy in Cina. Da persona che ha sempre vissuto fra l’Europa e l’Asia, e che, mentre è in Italia, discute sempre di BRI, questa prospettiva mi è sempre stata chiara. Per il consumatore cinese il fascino del Made in Italy, cibo, moda, arte, arredamento d’interni, per non parlare delle Ferrari e delle Lamborghini, non ha rivali, neanche la Francia [può competere]. I turisti cinesi non ne hanno mai abbastanza di Venezia, Firenze, Roma e dello shopping a Milano. Washington non può lanciare accuse e fare la predica agli Italiani sul fatto che un collegamento BRI metterebbe a rischio lo schieramento americano nella guerra commerciale [in corso], considerando che, in ogni caso, una sorta di accordo fra Xi e Trump potrebbe essere imminente. Bruxelles, da parte sua, è già profondamente divisa, soprattutto a causa della Francia. Le imprese tedesche sanno che la Cina è il mercato di scelta, presente e futuro; inoltre, uno dei terminali più importanti della Nuova Via della Seta è a Duisburg, nella regione della Ruhr. Stiamo parlando del collegamento per treni merci ‘Yuxinou’ lungo 11.000 km, attivo dal 2014; da Chongqing, attraverso il Kazakistan, la Russia, la Bielorussia, la Polonia, fino a Duisburg. Yuxinou (abbreviazione di Chongqing-Xinjiang-Europa), uno dei corridoi chiave delle Nuove Vie della Seta, diventerà nel prossimo decennio uno collegamento ferroviario ad alta velocità. Quasi un anno fa avevo spiegato in dettaglio su Asia Times come l’Italia fosse già legata alla BRI. In sostanza, è tutto collegato all’Italia, la terza nazione europea nel commercio navale, configurata come il principale terminal dell’Europa meridionale per la BRI, la porta d’ingresso per le rotte che la mettono in comunicazione con l’est e il sud, mentre serve anche, in modo economicamente vantaggioso, decine di destinatari ad ovest e a nord. Assolutamente fondamentale nel progetto è l’attuale riorganizzazione del porto di Venezia, la canalizzazione delle linee di approvvigionamento dalla Cina attraverso il Mediterraneo verso Austria, Germania, Svizzera, Slovenia e Ungheria. Venezia è stata configurata come un superporto alternativo a Rotterdam e ad Amburgo, anch’essi collegati alla BRI. L’ho chiamata la Battaglia dei Superporti.

 

Qualunque cosa pensino Washington, la City di Londra e persino Bruxelles, questo è un qualcosa che Roma (e Milano) vedono come una questione di interesse nazionale italiano. E, considerando l’eterna storia d’amore cinese per tutte le manifestazioni del Made in Italy, quello che è vantaggioso per tutti vince ancora una volta.

 

Pepe Escobar (tradotto da Markus)

 

 
Guerre di nuova generazione PDF Stampa E-mail

14 Marzo 2019

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Da Comedonchisciotte del 12-3-2019 (N.d.d.)

 

Le denunce del New York Times e di Forbes sui casi degli aiuti umanitari bruciati e sul blackout, che analizzo qui, attestano che in Venezuela la guerra sia già cominciata e le false notizie dominino incontrastate la costruzione dell’opinione pubblica. Le guerre di nuova generazione fanno morti come e più di quelle che si combatterono con la clava, la balestra o il fucile Chassepot. Rispetto alla gravità del blackout in Venezuela ai media italiani è piaciuto a scatola chiusa sposare la tesi dell’inettitudine chavista. I chavisti sono per definizione tutti incapaci, sanguinari e corrotti. Sta diventando un tratto tipico della cultura politica italiana quella di non rispettare l’avversario, pensando che irridere e delegittimare corrisponda a cancellare. Tale attitudine impedisce di conoscere e capire, e tradisce la ragion stessa di essere dei media. Al contrario vari media statunitensi hanno preso molto sul serio e considerano credibile che il blackout in Venezuela sia stato causato da un cyberattacco informatico USA. Se così fosse sarebbe affare serio, perché saremmo con ogni evidenza di fronte a un atto di guerra di quelle della cosiddetta quarta generazione. Fossero stati gli hacker russi parleremmo di Terrorismo. Essendo i presunti autori del sabotaggio gli statunitensi, è bene parlare di azioni di guerra nelle quali viene bypassata la forza militare tradizionale per usare azioni di carattere economico, culturale, psicologico, in particolare usando l’informatica. Un attacco informatico così ben portato e riuscito aggirerebbe infatti il veto brasiliano di una guerra tradizionale, al quale il vice di Trump, Mike Pence ha dovuto chinare il capo. Ma tale attacco indurrebbe a pensare anche, per la prima volta, che Maduro non avrebbe il pieno controllo su una infrastruttura chiave quale quella elettrica. Non è più necessario far saltare un tot di tralicci o avvelenare materialmente gli acquedotti per indurre la popolazione alla disperazione e a ribellarsi contro il “regime”.

 

In genere, in queste situazioni la popolazione sarebbe disperata per antonomasia, ma sarebbe necessario renderla ancor più disperata in omaggio alla teoria dai militari per la quale i bombardamenti (o equivalenti) sulla popolazione civile sarebbero giustificati dall’indurre la popolazione stessa a sollevarsi. È una cosa mai successa dalla Barcellona repubblicana martirizzata dagli italiani, alla Roma fascista colpita dagli Alleati, dal Vietnam comunista alla Serbia di Milosevic, ma in ogni conflitto si trova chi è disposto a spergiurare che basti un po’ di disperazione in più dei civili che si pretende di salvare per far trionfare il bene. Ora, nonostante la cosiddetta crisi umanitaria, sembra che qualcuno si sia convinto che i venezuelani non siano ancora sufficientemente disperati. […] Niente bombardamenti, niente stivali sul terreno, stesso risultato.

 

La storia peraltro si ripete, nel 1973 in Cile i sindacati statunitensi finanziarono lo sciopero dei camionisti (che più scioperavano più guadagnavano) che impedì per settimane gli approvvigionamenti, alimentando l’idea di caos contro il governo Allende e prodromico all’11 settembre. Fin qui ognuno la pensi come gli pare. Ci sono però dettagli che a chi scrive appaiono inesorabilmente repellenti. L’onnipresente – era anche a Cúcuta – Senatore repubblicano Marco Rubio “vanta” che il blackout, da lui annunciato – praticamente una rivendicazione – in mondovisione appena tre minuti dopo il suo inizio, avrebbe causato la morte di 80 bambini prematuri in un reparto neonatale a Maracaibo. I media italiani riprendono Rubio senza verifica alcuna, e non hanno alcuna capacità o voglia di collegare l’attivismo del senatore con la semi-rivendicazione del blackout stesso, come se questo fosse un osservatore neutrale. Ma se la presunta morte dei neonati fosse davvero dovuta all’attacco informatico statunitense e non alla leggendaria insipienza chavista, ciò cambierebbe radicalmente la natura delle cose. Sarebbe un giusto prezzo da pagare alla liberazione del Venezuela? Gli 80 neonati in quell’ospedale dello Zulia sarebbero ufficialmente danni collaterali di una guerra combattuta innanzitutto con l’ipocrisia. Rubio infatti usa la notizia dei neonati morti per rilanciare la necessità di far entrare subito in Venezuela aiuti umanitari. Va per la sua strada Rubio: il Venezuela è un paese in crisi umanitaria e noi dobbiamo fare entrare gli aiuti umanitari. Questa è una guerra umanitaria del bene contro il male, non dimenticate. Se l’uomo nero fa morire i neonati, allora arriverà l’uomo bianco a salvarli. Peccato per il Senatore Rubio che gli USA non siano esattamente un regime totalitario (non lo è neanche il Venezuela) e vi sia ancora una stampa libera. Proprio ieri il New York Times ha infatti dimostrato inequivocabilmente quanto era chiaro da subito ad ogni persona intellettualmente onesta: gli aiuti di USAID del 23 febbraio furono bruciati ancora in territorio colombiano da uomini di Guaidó perché il circo mediatico internazionale incolpasse Maduro. Cosa che puntualmente accadde. […] E qui aiuti umanitari e blackout convergono. Gli 80 neonati morti (presunti, speriamo) sono vittime dell’inettitudine criminale chavista o della guerra asimmetrica denunciata da Maduro? Gli aiuti bruciati da Guaidó in Colombia per rafforzare un’intransigenza virtuale di Maduro, a chi vanno addebitati? Il fatto che gli stessi benefattori li abbiano distrutti, non avvalora la tesi di Maduro che fossero un cavallo di Troia? La retorica degli aiuti umanitari (solo in Venezuela, mai ad Haiti, in Honduras o in altri pezzi del Continente almeno altrettanto dolenti) come si concilia con il blackout umanitario e quegli 80 bambini che ci dicono morti come danno collaterale?

 

Gennaro Carotenuto

 

 
Urge onestā intellettuale PDF Stampa E-mail

13 Marzo 2019

 

Quando i precedenti governi che facevano sempre sì-sì con la testa ai poteri cosiddetti forti organizzavano carovane di sherpa e imprenditori alla volta della Cina per razzolare affari e affarucci, i sospettosoni e i cacadubbi di oggi plaudivano e applaudivano. Oggi che il governo, grazie alla strameritoria opera del sottosegretario (in quota Lega, fra l'altro) Geraci pare riuscire a portare a casa un accordo strategico col Dragone, quest'ultimo diventa un pericolosissimo Fafnir che ci frega divorandoci, mentre prima invece era, naturalmente, un'opportunità da cogliere per il volano dello sviluppo ('sto volano che esce sempre dalle bocche di chi non sa parlare senza frasi fatte sarebbe da ricacciar loro in gola, ma soprassediamo). La malafede dilaga. Onestà, onestà? Sì, ma intellettuale, diobuono.

 

Alessio Mannino

 

 
Uno stagnante clima di attesa PDF Stampa E-mail

12 Marzo 2019 

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Da Rassegna di Arianna dell’8-3-2019 (N.d.d.)

 

Mai, come in questo contingente momento politico, si è preavvertita una così forte istanza di cambiamento, ad un così epidermico livello, da far parlare ai media di una reazione che viene dallo “stomaco” di un’opinione pubblica stanca e disgustata dei vecchi equilibri…Eppure qui in Italia, da qualcuno considerata il “laboratorio” d’avanguardia per la sperimentazione del populismo post moderno, qui in Italia, tutto tace…Ad un governo pieno di incertezze e difficoltà dovrebbe far da contraltare una mobilitazione di base, massiccia, senza precedenti, proprio in virtù del fatto che, apertosi un minimo spazio di agibilità politica con l’avvento del governo giallo-verde, bisognerebbe coglier l’occasione per tale spazio allargarlo, spingendo sull’acceleratore delle richieste politiche, senza ulteriori attendismi, senza più compromessi di sorta.

 

La rivolta dei pastori in Sardegna, dovrebbe costituire un primo ed importante segnale, un “la” a cui dovrebbero far seguito, altrettante vigorose proteste e rivendicazioni. Dalle politiche sui farmaci e sui vaccini, passando per il nodo immigrazione, sino alle opere pubbliche (Tav in primis…), arrivando a nuove politiche sui prezzi al consumo, senza contare la difficile gestione di città come Roma, le tematiche su cui agire non mancano di certo. Eppure da noi non si muove foglia…ovvero a muoversi sono i vecchi rottami della politica nostrana, dal Piddì a trazione zingarettiana, alle ultime, scomposte uscite della mummia italoforzuta che, di fronte alle difficoltà ed alle incertezze del governo, sono impegnati in un pietoso tentativo di rientro sulla scena…Tutt’intorno sembra regnare uno stagnante clima di attesa, in cui le molteplici istanze sembrano andare a vanificarsi ed a confondersi in un nulla di fatto ontologico, in quella liquida stasi che tutto comprende in sé, ma nulla fa emergere, trascinando e vanificando qualunque cosa nel vortice dell’inconsistenza e della vuota banalità…è il sopravvento di quella Liquidità che, più volte preconizzata e descritta da Zygmunt Baumann, avviluppa ed informa di sé l’intero mondo globalizzato, lasciando ben poche speranze ad un’azione politica diretta ed efficace. Tutto sembra far parte di un oscuro copione, già scritto altrove; qui ruoli da protagonisti e da comparse sono già inesorabilmente assegnati. La rivolta delle masse contro le oligarchie, contro coloro che, pochi, ad ora ancora contano e decidono del destino dei più, sembra esser rinviata “sine die”. Un oscuro ricatto psicologico sembra angosciare un’opinione pubblica che, sinora impaurita dal clima di incertezza umana, sociale ed economica, ingenerata dai precedenti governi, sembra adesso rivolgere le proprie irrefrenabili ansie e paure proprio verso coloro a cui hanno massicciamente conferito mandato a rappresentarli, in nome di un più sicuro futuro. ”E se lo spread ritorna a salire?”, “E se il Pil ancora non cresce?” “E se l’Europa ci boccia ancora?”, “E se fossimo troppo cattivi con i poveri “migrantes”?”. Una paura che si fa stasi, inazione, e che ci fa correre il rischio di tornare inesorabilmente e silenziosamente ad uno stato di cose, da cui non ci potrà più essere uscita alcuna. Gli eventi di Francia e Sardegna sono i segnali di una speranza di cambiamento non ancora sconfitta e sommersa, dalla montante Liquidità dei Poteri Dominanti. Ma occorre muoversi. E presto. Pensare che i partiti “si et si”, nelle loro uscitine ufficiali, possano da sé bastare per produrre quel cambiamento di marcia, a cui tutti oggidì aneliamo, è illusorio. Aspettarsi qualcosa da Elezioni Europee o Regionali, ora “alle porte”, è un ulteriore voler rinviare, procrastinare, evitare il vero e centrale nodo dell’attuale dibattito politico: quello tra la proposta e la conseguente azione sul piano pratico, ovverosia quello di un chiarimento su cosa siamo e da che parte vogliamo stare. Se sottomessi alla Globalizzazione Tecno Economica ed alla sua spietata mercificazione ed omologazione delle nostre vite, a tutti i livelli. Oppure contro di essa, nel nome di un’esistenza aperta al Molteplice, che ritorni a fare della Tecnica e dell’Economia degli strumenti di sussistenza e non il fine ultimo dell’umana esistenza. E ritornando al nostro tema centrale, tutto questo non può non trovare uno sbocco reale, veritiero, pragmatico, se non nella continuità di un’azione diretta, decisa e senza compromessi e per parafrasare il filosofo: “Solo una rivolta ci potrà salvare!”.

 

Umberto Bianchi

 

 
Ketamina e depressione PDF Stampa E-mail

11 Marzo 2019

 

Da Rassegna di Arianna dell’8-3-2019 (N.d.d.)

 

La sanità statunitense ha dato il via libera all’uso dell’esketamina, un nuovo farmaco antidepressivo ad azione rapida destinato per ora ai soggetti che non rispondono a nessun trattamento. Il mondo sanitario afferma che l’uscita del prodotto della Janssen Pharmaceutica, del gruppo Johnson & Johnson, è la migliore notizia per chi soffre di depressione da oltre trent’anni, quando si diffuse il Prozac. Le polemiche e le perplessità non mancano. L’esketamina è infatti un derivato della ketamina, il potente anestetico largamente usato in medicina, consumato anche come droga “ricreativa”. Lo stupore coglie noi profani già all’uso del termine ricreativo riferito a droghe, ma basta un rapido giro su Internet per leggere la descrizione della ketamina come farmaco anestetico e, proprio così, “sostanza ricreativa dagli effetti dissociativi”, in grado di produrre “allucinazioni interne, ingresso in un’altra realtà, dimensione transpersonale di coscienza”.

 

Da oggi, la ketamina diventa la nuova frontiera, il preparato in grado di sostituire e superare il Prozac e gli altri farmaci chimici contro “il male oscuro”. Chi scrive ha vissuto nella propria famiglia il dramma della depressione, il buio che si impadronisce della vita di esseri umani, devastandone l’esistenza insieme con quella di chi li ama. Speriamo con tutto il cuore che la ricerca sia pervenuta a una svolta e tante sofferenze siano lenite. Non possiamo però esimerci da alcune considerazioni. La prima riguarda i rischi della terapia, che non sembrano trascurabili, l’altra è una riflessione generale sulla depressione, malattia sociale, morbo dell’anima di questa nostra fragilissima modernità. La rivista Science descriveva già nove anni or sono la ketamina come droga allucinogena capace di rigenerare le connessioni tra le cellule cerebrali interessate dalla depressione, oltreché attenuare i sintomi del male. In diversi ospedali europei esistono protocolli per trattare i pazienti che non rispondono agli antidepressivi convenzionali con una sorta di cura palliativa a base di medicamenti non ancora autorizzati. Una grande novità è che l’esketamina viene somministrata in forma di aerosol per via nasale, anziché per iniezione come la ketamina. Le prove di laboratorio affermano che si tratta di un farmaco relativamente sicuro, ma con alcuni effetti collaterali. Il punto di forza sta nella velocità di risposta, l’effetto sarebbe quasi immediato, visibile dal giorno seguente o addirittura nello stesso giorno di assunzione, a differenza degli antidepressivi convenzionali i cui benefici, quando ci sono, si apprezzano dopo settimane. Questo alimenta speranze straordinarie specie per i pazienti con pulsioni suicidarie e supera uno dei maggiori limiti dei vecchi preparati, i cui effetti indesiderati tendono ad affacciarsi presto, a differenza dei miglioramenti, con tutto ciò che comporta in termini di disagi e qualità di vita dei pazienti e delle sfortunate famiglie. Nella fase iniziale, l’esketamina dovrebbe essere prescritta nelle depressioni più difficili, i casi che resistono ai farmaci, a malati le cui ultime speranze sono affidate a trattamenti “pesanti” come la stimolazione cerebrale o l’elettroshock, ma presto entrerà nella vita di soggetti sui quali almeno due differenti terapie non abbiano avuto successo, in combinazione con altri antidepressivi. Aumenterà la pressione arteriosa di molti pazienti e la sensazione di benessere e euforia potrà essere accompagnata da fenomeni di dissociazione fisica e mentale simili alle allucinazioni, della durata di un’ora o più. Preoccupa il costo del ciclo terapeutico, 3.500 dollari, e la circostanza che l’America è immersa in una epidemia di oppiacei alimentata dalla massiccia prescrizione di analgesici molto potenti. L’ homo consumens aborre e non sopporta il minimo dolore fisico. […]

 

Fin qui le notizie e le legittime speranze. Quel che colpisce profondamente – e non riguarda solo la depressione – è il modo di essere, l’antropologia contemporanea alla base di problemi e disagi destinati a divenire malattie o drammi di massa, di cui si cerca di curare gli effetti, ma mai di rimuovere le cause. La depressione non è una casualità o una disgrazia, è un’autentica tragedia per milioni di persone, un problema psico sociale tipico della vita moderna. Tipico è anche l’approccio per la soluzione: la depressione è un malfunzionamento biochimico del cervello, dunque la soluzione sta nel produrre reazioni biochimiche di segno positivo. Ovvio che le ferite vadano innanzitutto suturate e ricucite, ben venga l’esketamina e qualunque altro farmaco “definitivo”, se verrà prodotto, ma nulla cambierà davvero se non modificheremo la società che genera, insieme ad altri malanni, il male di vivere che chiamiamo depressione. Male di vivere che sembra essere un frutto avvelenato del secolo XX, se un poeta, Eugenio Montale, ne fece l’oggetto di una celebre lirica del 1925, il cui culmine è il verso in cui la soluzione appare come “divina Indifferenza”, con la lettera I maiuscola. Solo l’indifferenza salva una vita destituita di senso, cioè la resa. La depressione ci è sempre parsa il simbolo drammatico della capitolazione individuale, per quanto alcuni esseri eccezionali siano riusciti a sublimarla nell’arte. Pensiamo all’opera di Vincent Van Gogh, in particolare al quadro del vecchio con la testa fra le mani, Le soglie dell’eternità, L’Urlo di Munch o l’ultimo Goya. Gli uomini comuni si rifugiano nei paradisi artificiali, droghe, alcool, dipendenza da comportamenti ossessivi o compulsivi, di cui la nostra società abbonda, fenomeni sconosciuti o limitati in tempi diversi. Il male oscuro appartiene alla modernità. Ne fu testimone un grande scrittore dimenticato per la sua lontananza dalle correnti politiche dominanti, Giuseppe Berto. Nel 1964 scrisse febbrilmente un romanzo autobiografico, il Male oscuro, appunto, pressoché privo di punteggiatura e di una vera trama, a significare la vita a salti e a bocconi del depresso. Nel libro si rincorrevano quasi tutti i temi che fanno di un essere umano contemporaneo un depresso: la ricerca ossessiva del risultato (la gloria letteraria, per Berto), i conflitti con i genitori, i sensi di colpa, l’incapacità di essere normale e di definire la normalità, l’ansia della performance, la ricerca frenetica di terapie, la speranza mal riposta nella soluzione affidata ad apprendisti stregoni, la disillusione per la psicanalisi. Quarant’anni prima fu Italo Svevo, nella Coscienza di Zeno, ad affidare alla letteratura il tormento di uomini – nel tempo intere generazioni – che cominciavano a misurare se stessi in termini di fallimento, impossibilità di attribuire senso all’esistenza. La destituzione di qualunque scopo della vita, a partire dalla morte di Dio annunciata da Nietzsche, ci sembra l’impresa e la ragione sociale della modernità. Il crollo dei valori “di prima”, il mondo di ieri, Dio, patria, famiglia, identità ha lasciato sul campo un esercito di frustrati e di malati di vivere. Non tutti finiscono nella depressione, ma l’uomo non è fatto, no davvero, per la struggle for existence, la lotta evoluzionista per la vita teorizzata da un “maestro del sospetto”, Charles Darwin, la competizione continua placata solo dal desiderio animale, dalle pulsioni, il principio di piacere di Sigmund Freud. Rinserrato l’orizzonte nella trappola della materia, intronizzata la giovinezza, la prestanza, la vittoria nella guerra della ricchezza, vincitori e vinti crollano. I più sensibili cadono preda dell’ansia e della depressione, moltissimi sopravvivono perché non pensano e si contentano di panem et circenses, consumo e soddisfazione immediata dei desideri. Altri sviluppano una sensibilità patologica, come il protagonista del racconto di Jorge Luis Borges, Funes o della memoria. Il poveretto ha un terribile dono, ricorda tutto e finisce per morire sfinito dall’accumulo, in anticipo sull’uomo contemporaneo, che dall’eccesso di luci, immagini, parole è avvolto e disorientato. La depressione, paradossalmente, diventa un rifugio, una prigione da cui qualcuno non vuole uscire. Chiuso in se stesso, il depresso, come l’hikikomori, il disgraziato postmoderno perennemente connesso, barricato davanti allo schermo simulacro della realtà, ripiega, si arrende e spesso scarica sugli altri i propri drammi. Come Zeno si sente malato, inetto, sconfitto, tutto è per lui scontato e insensato. Per alcuni solo la morte è considerata la soluzione, mentre per altri, privati della speranza, incapaci di credere e levare lo sguardo in alto, è il terrore che paralizza e fa trascinare la vita in un vivere-per-la-morte fatto di sgomento, scandito da attacchi di panico, repentini cambi d’umore, fobie. L’orrore del vuoto unito ai due poli di Freud, Eros e Thanatos, sesso e pulsione di morte.

 

Là fuori, per il depresso è una giungla, e non ha torto. Come definire altrimenti un mondo in cui la medicalizzazione della vita ci rende dipendenti da pillole, farmaci vari, in cui solo gli “esperti” sanno risolvere i problemi? Ci gettiamo tra le braccia di psicologi, pedagogisti, guru, scienziati veri e fasulli. Molti rispondono alle leggi ripugnanti del mercato padrone, ma anche i più sinceri finiscono per trascinarci in un gorgo in cui la nostra fragilità è il loro successo. Dobbiamo tendere per obbligo a un benessere asettico, igienizzato, declinato come comodità, facilità, assenza di rischio e fatica, scimmia dell’irraggiungibile felicità tramutata, in ben-avere, unico obiettivo di individui soli, incomunicabili, sradicati. Milioni di uomini non possono, non vogliono vivere così. Il rimedio prescritto dalla società: dosi più massicce della medesima pozione che avvelena, il mondo sempre più “liquido”, la libertà come assenza di regole, rigetto della responsabilità, vite trascinate in una finta bambagia, liquido amniotico o coperta di Linus, generazioni di pecore matte. In più, in Occidente è fortissimo un sentimento di colpa per la nostra civiltà dagli esiti distruttivi, una fredda depressione di massa che fa odiare se stessi. Il penultimo gradino prima della resa, che per qualcuno è semplice dissoluzione, per altri angoscia, depressione, autodistruzione. I Lumi ci hanno rischiarato fino all’accecamento. […] Negli Stati Uniti, gli antidepressivi hanno un giro d’affari di quindici miliardi di dollari annui e uno psicofarmaco, il Ritalin è prescritto a milioni di bambini la cui naturale vivacità è diventata un fastidioso difetto di fabbricazione. Sono ipercinetici da tenere fermi con l’aiuto delle pasticche, meglio davanti alla pubblicità della televisione, per farne i consumatori depressi di domani. I paradisi artificiali sono evidentemente inferni reali, se la ketamina, analgesico potente con effetti allucinatori, droga chimica tra le tante, opportunamente riconfigurata può diventare una terapia decisiva contro la depressione. Eterogenesi dei fini, o astuzia del male. Gli effetti possono essere volti in positivo, ma le cause sono tutte lì, quelle della depressione e quelle di tutte le malattie sociali che ci affliggono. Chi ha inoculato il virus è anche proprietario dell’antidoto.

 

Speriamo, come tutti, che l’esketamina diventi l’elisir di Dulcamara antidepressivo. Ma senza una società malata, drogata dal consumo, infettata da mille mali sconosciuti agli oscuri progenitori del barbaro passato, poveri, forse ignoranti ma non depressi, non si guadagna, non si muove il PIL. Il problema e la soluzione sono così vicini da toccarsi. Con la ketamina mi drogo per superare i miei limiti, con lo stesso principio attivo sconfiggo la depressione. Che il male oscuro sia la modernità?

 

Roberto Pecchioli

 

 
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