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Glebalizzazione PDF Stampa E-mail

27 Febbraio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 6-2-2019 (N.d.d.)

 

Lavorare in pochi, lavorare troppo. L’esatto contrario del sessantottino “Lavorare tutti, lavorare meno”, il cui precursore fu Ezra Pound, da sempre schierato per la giornata di lavoro corta. Si lavora di più e in meno persone. Lo conferma il 2° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale. Nel nostro Paese si creano meno posti di lavoro che altrove e per i giovani c’è un futuro da camerieri o commessi. L’alternativa è non lavorare o andarsene. Di più. Crescono le disuguaglianze retributive tra operai, impiegati e dirigenti. E aumenta lo stress da lavoro. Secondo quanto emerge dal Rapporto, l’Italia crea meno posti di lavoro degli altri Paesi europei. Negli ultimi dieci anni (2007-2017) il numero di occupati in Italia è diminuito dello 0,3 per cento, nello stesso periodo è invece aumentato in Germania (+8,2 per cento), Regno Unito (+7,6), Francia (+4,1). Usciamo male anche dal confronto con la media dell’Unione europea: +2,5 per cento. Nel Sud il tasso di occupazione è pari al 34,3 per cento (2,9 punti percentuali in meno di differenza rispetto al 2007), al Centro è al 47,4 (-0,4), nel Nord-Ovest al 49,7 (-1,1), nel Nord-Est al 51,1 (-1,3). Creiamo meno lavoro degli altri Paesi e ne distruggiamo di più dove già si fatica a trovarlo, ovvero nel Mezzogiorno.

 

L’Italia, peraltro, è sempre meno un paese per giovani: nel 1997, i giovani di 15-34 anni rappresentavano il 39,6 per cento degli occupati, nel 2017 sono scesi al 22,1. Ma accanto a questo fenomeno, come molti riscontreranno a fine mese, gli stipendi sono sempre meno remunerativi: il ceto impiegatizio e gli operai sempre più lontani dai dirigenti. Rispetto al 1998, nel 2016 il reddito individuale da lavoro dipendente degli operai è diminuito del 2,7 per cento e quello degli impiegati si è ridotto del 2,6, mentre quello dei dirigenti è aumentato del 9,4. Un altro dato per comprendere quale musica venga suonata? Nel 1998 il reddito da lavoro dipendente di un operaio era pari al 45,9 per cento di quello di un dirigente, nel 2016 è diminuito al 40,9 per cento. Stessa sorte per gli impiegati, passati dal 59,9 per cento al 53,4.

 

Il tentativo di spazzare via il ceto medio, abbondantemente incoraggiato dai governi degli ultimi quindici anni, quasi tutti a guida Pd, va avanti a grandi passi. Ma il massimo è costituito da una apparente contraddizione: chi lavora, chi ha la fortuna di farlo, lavora sempre di più pur guadagnando meno. Il 50,6 per cento dei lavoratori interpellati, afferma che negli ultimi anni si lavora di più, con orari più lunghi e con maggiore intensità. Sono 2,1 milioni i lavoratori dipendenti che svolgono turni di notte, 4 milioni che lavorano di domenica e nei giorni festivi, 4,1 milioni che lavorano da casa oltre l’orario di lavoro con e-mail e altri strumenti digitali, 4,8 milioni che lavorano oltre l’orario senza il pagamento degli straordinari. Il tutto con un prezzo da pagare, anche in termini psicofisici: 5,3 milioni di lavoratori dipendenti provano i sintomi dello stress (spossatezza, mal di testa, insonnia, ansia, attacchi di panico, depressione), 2,4 milioni vivono contrasti in famiglia perché lavorano troppo, 4,5 milioni non hanno tempo da dedicare a se stessi (per gli hobby, lo svago, il riposo). Dati impensabili solo venti anni fa. L’ammonimento di Pound – “il tempo non è denaro, ma quasi tutto il resto” – sbatte nel capitalismo selvaggio e sempre più disumano del XXI secolo. I cui effetti, le cui storture passano quasi sottotraccia, quasi come un normale prezzo da pagare per lavorare, anche grazie a un sindacato ormai totalmente incapace di rappresentare le istanze del mondo del lavoro. E la glebalizzazione, per dirla con una riuscita espressione di Diego Fusaro, è servita.

 

Fabrizio Vincenti

 

 
Mobili in affitto PDF Stampa E-mail

26 Febbraio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 24-2-2019 (N.d.d.)

 

Ikea lancia il business dei mobili in affitto. Parte l’esperimento in Svizzera. Così apprendiamo da SkyTg24: “I mobili di Ikea potrebbero presto essere affittati. Il colosso svedese dell’arredamento, secondo il Financial Times, sta cercando infatti di modificare il proprio modello di business aprendo al mercato del noleggio. La nuova iniziativa, sostiene il quotidiano economico britannico, verrà sperimentata in Svizzera per poi essere riproposta in altri Paesi”. Eccoci giunti al cospetto di prove tecniche in vista dell’ulteriore sradicamento dell’umano. Il capitalismo no border impone ovunque la libera circolazione delle merci e delle persone mercificate. La presenta, trionfalmente, come una chance: ma tale è sempre e solo, ovviamente, per la classe dominante degli apolidi del capitale liquido-finanziario. La libera circolazione si traduce puntualmente, per gli sconfitti della mondializzazione, in coazione allo sradicamento, alla deterritorializzazione e all’erranza diasporica planetaria. Il “tu puoi” del sistema liberal-libertario del totalitarismo del mercato si traduce sempre in un impietoso “tu devi” per le classi martoriate dal capitale. “Puoi muoverti senza confini”, dice con stile glamour la narrativa pubblicitaria del capitale. “Sei obbligato a muoverti”, dice segretamente la voce del padronato cosmopolitico alla classe lavoratrice, ridotta al rango di un precariato esistenziale votato alla migrazione permanente. Il capitale e i poliorceti del globalismo hanno già da tempo messo sotto assedio l’oikos, la fissa dimora, base di ogni stabilità per l’essere umano. Così disse espressamente l’euroinomane Mario Monti la mattina del 28 luglio 2015, nel corso della trasmissione Agorà in onda su RaiTre: «Quando c’è la casa di proprietà, c’è meno mobilità nel Paese, il mercato del lavoro è meno mobile […] e se noi vogliamo continuare ad avere una scarsa mobilità e giovani che vivono a lungo con i genitori e le caratteristiche che fanno dell’Italia un Paese poco competitivo, allora andiamo avanti a dare un trattamento privilegiato sulla casa». Più chiaro di così! Vogliono toglierci la casa di proprietà per renderci ancora più flessibili e disponibili per le dinamiche del capitalismo deeticizzato. Ed ecco che Ikea si porta avanti nel lavoro: mobili in affitto, per schiavi del capitale che mai potranno stabilmente radicarsi in un territorio e vivere in una “fissa dimora”. Ecco le grandi chances del mondialismo, che tali sono sempre per i dominanti: per i dominati sono sciagure mediante le quali si mondializza il non-senso dell’economia del libero mercato. Che tutti ci vuole condannati alla mobilità perpetua, con vite da freelance e – grazie a Ikea – con mobili in affitto.

 

Diego Fusaro

 

 
Russia granaio del mondo PDF Stampa E-mail

25 Febbraio 2019

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Da Rassegna di Arianna dell’11-2-2019 (N.d.d.)

 

La prossima “guerra” tra Russia e Usa? Quella del grano. Sembra uno scherzo, ma la battaglia commerciale che gli americani si trovano, sorpresi, a combattere contro i russi ha implicazioni non solo economiche ma anche politiche e persino militari. Ecco come e perché.

 

Negli Stati Uniti, per la prima volta nella storia, è sceso sotto soglia duemila il numero delle aziende agricole attive. Un’ondata di chiusure seconda solo quella degli anni Ottanta. E anche allora in qualche modo c’entravano i russi. Una delle cause della crisi di allora fu l’embargo deciso dal presidente Reagan contro le esportazioni di grano verso l’Urss. In quel periodo contribuirono allo sprofondo dei farmer americani anche il dollaro forte, penalizzante per le esportazioni, e una serie di record nella produzione riempirono di enormi quantità di frumento e cereali i magazzini Usa. Situazione, questa, che si ripete anche oggi ma a livello globale.  C’è tanto grano nel mondo, troppo perché tutti possano guadagnarci. E i prezzi sono crollati alla metà di quelli del 2012, quando toccarono il massimo. Così gli americani non fanno più profitti e a godere sono i russi. Diventata nel 2016, e proprio a spese degli Usa, il maggior esportatore di grano al mondo, la Russia ha esportato nello scorso anno agricolo (chiuso il 30 giugno) più di 40 milioni di tonnellate di grano. Record mondiale degli ultimi venticinque anni. Non basta: il raccolto russo per il prossimo anno dovrebbe toccare una quantità che, pur essendo inferiore di 20-25 milioni di tonnellate a quello dell’anno scorso, resta sempre il terzo migliore dell’epoca post-sovietica, dopo quelli eccezionali del 2016 e 2017. Il tutto negli anni di una forte siccità che ha colpito dappertutto. Tanto che, fanno notare maliziosamente i russi, l’Europa ha avuto nello scorso anno agricolo il peggior raccolto di grano dell’ultimo decennio. Bisogna aggiungere un’altra considerazione: i produttori russi, con il rublo debole rispetto al dollaro e all’euro, riescono a essere competitivi sui mercati internazionali e a fare ugualmente grandi profitti con le esportazioni. Il grano russo è ormai arrivato ovunque, persino nel Messico che confina con gli Usa. Così, in patria, vengono coperti i costi dei macchinari e delle nuove semine: l’area seminata a grano in Russia è il doppio di quella degli Usa che, a loro volta, hanno oggi un’area seminata a grano che è la più piccola da quando, un secolo fa, si cominciò a tenerne la statistica. Però c’è di più. «Il grano è il nostro petrolio», disse due anni fa Aleksandr Tchekov, il ministro dell’Agricoltura. Fu buon profeta. Complice il calo del prezzo del greggio (che oggi vale il 25% meno di quanto valeva nel 2014, avendo comunque superato un crollo arrivato anche al 60% del prezzo), l’agricoltura russa oggi ha superato l’industria degli armamenti e, con 21 miliardi di introiti nel 2017 (un quarto dei quali generati dal solo grano), è diventata la seconda maggior fonte di reddito (dopo, ovviamente, gas e petrolio) per lo Stato russo. Questo perché i competitor americani ed europei perdono quote nel mercato costituito da Paesi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord che dipendono dalle importazioni e sentono, soprattutto negli ultimi anni, il “peso” dell’influenza politica conquistata dalle politiche del Cremlino.

 

A questo puzzle manca solo un tassello: la Cina. Alla guerra dei dazi scatenata da Donald Trump, Pechino ha risposto aumentando, tra l’altro, del 25% le tasse sull’importazione di grano americano. Finora i produttori russi non hanno potuto approfittarne in pieno perché da tempo la Cina ha deciso una serie di restrizioni alle importazioni alimentari dalla Russia. Che cosa succederebbe, invece, se l’immenso mercato cinese decidesse di aprirsi senza condizioni ai fornitori russi? Non è fantascienza, nel clima di alleanza globale che si è instaurato tra Mosca e Pechino, esercitazioni militari comprese. Potremmo vederne delle belle.

 

Fulvio Scaglione

 

 
Attenzione dirottata su argomenti marginali PDF Stampa E-mail

24 Febbraio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 22-2-2019 (N.d.d.)

 

La campagna "antipopulista" dei partiti e dei media allineati con gli interessi e i valori del liberismo non conosce soste e si fa più virulenta a mano a mano che si avvicinano le elezioni europee. Negli ultimi giorni abbiamo assistito: 1. Alle sparate di Macron e dei media francesi che hanno preso spunto dal proliferare di scritte antisemite per rilanciare l'equazione antisionismo=antisemitismo (ma nell'equazione è sottinteso un senso più ampio: se non sei amico dello stato e del governo di Israele sei antisemita). In particolare, dopo che alcune sinistre radicali hanno manifestato contro questo uso strumentale degli atti di antisemitismo, si è lanciata l'equazione rossi=neri=islamici, evocando una inesistente ideologia rossobrunistaislamica (per inciso: questa neutralizzazione delle differenze è stata una delle armi storiche usate dal razzismo totalitarista il cui ritorno si dice di voler esorcizzare); 2. Alcune esternazioni (indubbiamente infelici) di alcuni esponenti del mondo del calcio (come le battute maschiliste di Costacurta e Collovati e il gesto di esultanza con cui il Cholo Simeone ha celebrato gli attributi della sua squadra) hanno suscitato un clamore decisamente sproporzionato, ispirando paginate di esecrazioni "politicamente corrette" (la Rai ha addirittura "squalificato" Collovati per due giornate, per cui non potrà partecipare ad altrettante puntate della trasmissione "Quelli che aspettano" - che di calcio si occupa in verità pochino, somigliando piuttosto a un talk show di propaganda "antipopulista"). 3. Una grande campionessa di tennis del passato Martina Navratilova (omosessuale e aderente all'associazione Lgbt) ne è stata espulsa per aver espresso un'opinione di puro buon senso, ha cioè affermato che è folle schierare atleti trans nelle competizioni femminili, peccato mortale perché l'ideologia Lgbt si basa sulla negazione delle differenze biologiche riconoscendo solo quelle culturali e "soggettive". Altre paginate per un evento che meriterebbe al più un trafiletto come curiosità. Questi eventi sono sintomi dello sforzo gigantesco, da un lato, di imporre una sorta di terrorismo linguistico che nega diritto di espressione a ogni opinione eretica rispetto ai dogmi del politicamente corretto, dall'altro di dirottare l'attenzione del pubblico su argomenti marginali distogliendola dagli effetti devastanti delle politiche liberiste.

 

Carlo Formenti

 

 
Mancano i Maestri PDF Stampa E-mail

23 Febbraio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 19-2-2019 (N.d.d.)

 

Dove sono finiti i Maestri? Ci sono ancora, cosa dicono, dove si annidano? E come chiamarli, oggi, Influencer, come Chiara Ferragni o la Madonna secondo il Papa? Facile dire che mancando un pensiero, dispersi gli intellettuali, sparito ogni orizzonte di attesa, i Maestri sono finiti insieme ai loro insegnamenti. Sono finiti pure i Cattivi Maestri che come angeli ribelli all’ordine divino si fecero demoni, insegnando la via dell’inferno come riscatto degli oppressi. Spariti pure loro. Non a caso, l’unico italiano riconosciuto tra i cento pensatori globali che hanno lasciato un segno, secondo la rivista Foreign Policy, non è un filosofo, ma un fisico, Carlo Rovelli. Allora, è proprio finita, dobbiamo rassegnarci a scegliere tra Fabrizio e Mauro Corona? No, ragioniamoci su. Innanzitutto, definiamo una buona volta il Maestro, anche nella variante di Guru, Ideologo, Vate. Chi è maestro? Non solo chi trasmette un sapere ma chi diventa un punto di riferimento, un modello a cui ispirarsi, un faro che non esprime solo una teoria o a compiere una ricerca ma rischiara una via. Maestro è uno che ti cambia la vita o almeno lo sguardo con cui vedi la vita. Uno che leggendolo, ascoltandolo, trasforma il tuo modo di pensare e di vedere le cose.

 

Era facile al tempo delle ideologie e dell’Intellettuale Organico, trovare Maestri e maestrini. Oggi di quel ramo ne sono rimasti forse un paio, ma sono ai margini. Uno è il Cattivo Maestro per eccellenza, Toni Negri, pensatore e latitante, teorico di Autonomia Operaia e del comunismo, autore di un’opera che ha sfondato nel mondo, Impero seguito poi da Moltitudine, due opere no global di un internazionalista che sogna ancora la rivoluzione del proletariato. L’altro, più defilato e meno distruttivo, è Mario Tronti, di cui è uscito ora Il popolo perduto (ed.Nutrimenti), che piange il divorzio tra la sinistra e il popolo e la perdita di quel mondo comunista legato alle sezioni e alle assemblee. È ormai su un pianeta diverso un loro antico sodale, Massimo Cacciari, che in tv si è sgarbizzato e in filosofia si è ritirato in una sfera mistica & catastrofica. Parallelo il cammino di un altro non-Maestro, Giorgio Agamben.

 

Restano sullo sfondo i Vecchi Maestri Globali, ovvero quei pensatori che fanno filosofia per le masse partendo dall’antropologia e dalla sociologia, come Edgar Morin e Marc Augé, Hans Magnus Enzensberger e Serge Latouche, fino a ieri, Zigmunt Bauman e Umberto Eco. Non-luogo, Terra-Patria, Modernità liquida, Decrescita felice, Perdente radicale, Ur-fascismo, sono paroline-mantra entrate nel gergo corrente e nel minimo alfabeto degli Acculturati Aggiornati. Per il resto, l’era dei social offre a ciascuno la possibilità di un selfie e di eleggersi a maestri di se stessi per auto-acclamazione, facendo zapping nella rete, cogliendo qua e là spunti e citazioni.

 

Maestri riconosciuti in senso religioso ormai sono solo in ambito esotico, extra-occidentale: sono guru o para-guru che vengono dall’Oriente o che parlano nel nome di tradizioni religiose e più spesso di sincretismi. Sulla scia di Osho, Sai Baba e altri santoni. I maestri più veri preferiscono restare nascosti, poco accessibili se non per iniziati; vanno cercati, e non pescati nei media o nei social. Un segno evidente di scristianizzazione è che non ci sono Maestri d’ispirazione cristiana, e che a dettare le regole, anche nelle classifiche dei libri, siano gli stessi papi, come Bergoglio e Ratzinger. Più defilati sono gli scrittori della Chiesa come don Vincenzo Paglia, Gianfranco Ravasi e altri prelati che sfidano i tempi e le librerie. Dopo i santi, finirono anche i maestri?

 

E nel mondo conservatore, nel versante “destro” o alternativo alla globalizzazione? Resiste da decenni il maestro della Nouvelle Droite Alain de Benoist con una produzione incessante di saggi. Su altri versanti regge il filosofo inglese Roger Scruton, da lontano il pensatore russo Aleksandr Dugin. Non mancano le zampate del vecchio Regis Débray, già marxista e ora antiglobal col suo Elogio delle frontiere. A loro si aggiungono il matematico e filosofo Olivier Rey che racconta la marcia infernale del progresso in Dismisura; Fabrice Hadjadj, ebreo tunisino convertito al cattolicesimo, autore di Mistica della carne e Risurrezione. Ma sfonda il muro dell’attenzione globale Michel Houellebecq, che ora spopola con Serotonina, ma che fu maestro di denuncia della civiltà in pericolo con Sottomissione. Poi ci sono i numerosi maestri di passaggio, i guru provvisori, legati a un’opera, esplosi nei social, meteore luminose e poi presto opache. Se l’America resta il centro del mondo, i maestri hanno una prevalenza europea, anzi francese.

 

E da noi cosa resta? Finito il tempo dei Pasolini e dei Bobbio, dei Del Noce e Zolla, la filosofia sembra ormai isterilita e intenta a proclamare il suo suicidio. Nella filosofia svetta il pensiero degli eterni di Emanuele Severino. O tra i maestri che aprono le porte del sacro al tempo profano, torreggia Roberto Calasso. Sono maestri riluttanti, che non cercano discepoli, che si annodano al filo impersonale della Tradizione o del suo surrogato, l’Editoria raffinata, o che vivono la siderale solitudine dell’Essere che pensa il Destino. In un’epoca egocentrica e autoreferenziale, i maestri sembrano ormai vintage, antiquariato, se non archeologia. Mancano i maestri perché mancano i discepoli. Eppure, proprio il caos globale, l’assenza di dei, la solitudine e lo spaesamento, la vita insensata, richiedono oggi più di ieri pensatori guida, modelli di riferimento, figure autorevoli, supplenti del sacro e del pensiero che aiutino a trovare una via, una casa, una visione del mondo e della vita. Maestri che non detengono la verità ma che suscitano almeno il desiderio di cercarla…

 

Marcello Veneziani

 

 
Prove di emancipazione dagli USA PDF Stampa E-mail

21 Febbraio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 19-2-2019 (N.d.d.)

 

Tra Europa e Stati Uniti c’è di mezzo un oceano. E, da adesso, non solo fisicamente. Il Vecchio Continente e lo storico alleato d’oltre Atlantico appaiono sempre più lontani. Dai dazi sulle automobili alla Siria, dai foreign fighters all’Iran fino al caso Huawei e ai rapporti con Pechino. L’Europa, guidata da una Angela Merkel combattiva come non mai (viste le inedite difficoltà economiche della Germania), sta provando a emanciparsi da Washington. La riuscita di tale impresa dipenderà molto anche dal livello dello scontro, commerciale ma non solo, tra Usa e Cina. Ma il tentativo di assumere una posizione meno allineata ai desiderata della Casa Bianca esiste e va registrato.

 

La Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera degli scorsi giorni ha fatto segnare profondi scossoni alle usuali regole del “gioco” politico internazionale. Gli Stati Uniti si erano presentati in terra tedesca con l’obiettivo primario di creare una sorta di coalizione internazionale anti Iran. Missione sostanzialmente fallita, per la resistenza europea rappresentata da Angela Merkel. Nelle scorse settimane, Germania, Francia e Regno Unito hanno creato Instex, un veicolo finanziario speciale in grado di aggirare le sanzioni statunitensi a Teheran. Mossa che non è andata giù alla Casa Bianca, che individua nella Repubblica Islamica la principale minaccia in Medio Oriente. Nonostante l’assenza di Emmanuel Macron al vertice, la Germania ha tenuto il punto ufficialmente e ufficiosamente, tanto da derubricare la discussione sul tema Iran da Argomento con la A maiuscola a uno dei tanti temi toccati.

 

L’Unione europea sta provando a emanciparsi dalla politica mediorientale degli Stati Uniti. Basti pensare alla recente inclusione dell’Arabia Saudita nella lista nera del riciclaggio, ma anche al botta e risposta sulla Siria. L’amministrazione Trump ha invitato gli Stati europei a prendersi tutti i foreign fighters catturati dagli Usa nel Paese. I jihadisti sarebbero circa 800 e la Casa Bianca minaccia di rimetterli in libertà se gli alleati europei non dovessero “accoglierli” nelle loro carceri. Sempre Berlino ha risposto in maniera negativa, sottolineando come il rientro dei foreign fighters sarebbe di difficile, se non impossibile, gestione. Anche sull’Afghanistan la Merkel ha tirato le orecchie a Trump, chiedendo che gli Stati europei presenti sul territorio vengano coinvolti prima di prendere decisioni sull’eventuale ritiro delle forze militare a stelle e strisce paventato nelle scorse settimane.

 

A proposito di Iran, è proprio questo il motivo alla base del caos intorno alla figlia del fondatore di Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni. Gli Stati Uniti, che vogliono a tutti i costi contenere l’ascesa tecnologica di Pechino, stanno esercitando forti pressioni sugli alleati, europei e non, per mettere al bando Huawei dai progetti di sviluppo delle reti 5G. Pressioni motivate da una legge cinese che imporrebbe alle società di telecomunicazioni di condividere i dati raccolti nella propria attività con l’intelligence di Pechino. Un report degli 007 britannici però va in direzione contraria, sostenendo che il coinvolgimento della società del Dragone nei progetti 5G è un “rischio gestibile”. Considerazione che apre la strada a tutti coloro in Europa, Italia e Germania in primis, non sarebbero particolarmente felici di escludere Huawei da progetti milionari e spesso già in fase di realizzazione.

 

Il motivo di scontro più evidente è però quello economico. In particolare, al centro della contesa ci sono i dazi sulle automobili europee. “Se gli Stati Uniti dovessero introdurre dazi contro le automobili europee, la Commissione europea reagirebbe in modo adeguato”, ha dichiarato il portavoce Margaritis Schinas. "Se fosse il caso, saremmo in grado di reagire immediatamente", ha aggiunto il portavoce. I dazi della Casa Bianca colpirebbero un comparto strategico in particolare per la Germania, che sta già segnando preoccupanti segnali di inquietudine per il rallentamento della crescita cinese, partner fondamentale per l’economia tedesca. Non sembra allora un caso che Trump, di fronte a una Merkel agguerrita, minacci di colpirla dove può farle più male.

 

E non è un caso nemmeno che la cancelliera si sia intestata il ruolo di oppositore, per ora dialettico, degli Stati Uniti. I dazi doganali di Washington su acciaio, alluminio e una serie di prodotti cinesi, si sta facendo sentire sul commercio globale e in particolare tedesco, vista l’importanza del mercato asiatico per l’export di Berlino. Le tensioni tra Usa e Cina preoccupano non poco la Merkel, la quale si è recentemente recata in Giappone per provare a diversificare le sue fonti di business nell’area. E la Germania sembra pronta a collaborare maggiormente con Pechino, non solo a livello economico. Lo dimostra un incontro bilaterale, sempre a Monaco di Baviera, tra il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi e l'omologo tedesco Heiko Maas. Entrambi hanno confermato la loro disponibilità a rafforzare la cooperazione sulle questioni internazionali e affrontare le sfide globali. "Nell'attuale situazione internazionale, la Cina e la Germania devono rafforzare la cooperazione e proteggere congiuntamente il multilateralismo e l'ordine mondiale basato su regole", ha dichiarato Yang. Maas ha sottolineato che la Germania attribuisce grande importanza allo sviluppo delle relazioni con la Cina ed è pronta a rafforzare la cooperazione bilaterale in vari settori, anche nel quadro del progetto Belt and Road di Pechino. Una presa di posizione forte e che non ha fatto piacere a Washington, anche perché se Berlino apre le porte al Dragone potrebbe farlo l’Europa intera. Un’Europa pronta, se non a volgere lo sguardo totalmente a Oriente, quantomeno a dare una sbirciata.

 

Lorenzo Lamperti

 

 
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