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Senza speranza PDF Stampa E-mail

24 Gennaio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 21-1-2019 (N.d.d.)

 

I. Queste riflessioni partono da un presupposto che mi limito qui ad esporre rapidamente senza argomentazioni. È mia convinzione che siamo avviati ad un declino di civiltà causato da due elementi fondamentali: da una parte l’emergere sempre più netto del carattere distruttivo, nei confronti di società e natura, dell’attuale organizzazione sociale, dall’altra la totale assenza di una forza sociale che seriamente e concretamente contesti questa distruttività e inizi a costruire vie alternative. Lo scenario globale dei prossimi decenni sarà cioè, a mio modesto avvisto, uno scenario di degrado e fine di una civiltà, senza speranze di un mondo migliore. È questa la situazione in cui ci accade di vivere. Non sto affermando che ci avviamo alla fine definitiva della civiltà umana o addirittura della specie umana. Sto affermando che le persone presenti sulla faccia della terra oggi, inizio 2019, vivranno l’intera loro vita in una fase di crisi e declino e non potranno scorgere nella realtà elementi di una diversa organizzazione sociale. Ammesso che sia così, appare inevitabile porsi il problema del senso da dare alla propria vita, in un mondo senza speranza.

 

II. Intendo qui sostenere che, in questa situazione, occorre innanzitutto liberarsi dai residui di concezioni del passato. Uno di questi residui da abbandonare è la nozione di comunismo. Svilupperò quindi alcune argomentazioni per la critica dell’idea di società comunista. Uno degli argomenti usuali contro il comunismo si sviluppa più o meno nel modo seguente: il comunismo è un’utopia che contraddice alcuni dati fondamentali dell’essere umano. Il tentativo di concretizzazione storica dell’utopia comunista in una società determinata, da parte del potere politico, porta quindi necessariamente a difficoltà oggettive e resistenze soggettive. Il potere politico, accecato dall’ideologia e quindi incapace di rendersi conto del carattere utopico delle sue aspirazioni, reagisce con la violenza a difficoltà e resistenze, innestando il meccanismo che porta poi, con altrettanta necessità, al terrore e agli stermini e infine, dopo inenarrabili sofferenze, alla disillusione e all’abbandono dell’utopia. […] Si tratta di mostrare che esiste un senso nel quale il comunismo non è per nulla un’utopia, ma è anzi una realtà concreta della vita di tutti. Naturalmente per capire cosa intendo dire occorre mettersi d’accordo sul significato della parola “comunismo”. È noto che esistono infinite discussioni su questo punto. Non intendo ripercorrere la storia di questi dibattiti, ma mi limito a riprendere quelle nozioni marxiane che, mi sembra, sono state sempre considerate costitutive del concetto. Mi riferisco ai celebri passi della “Critica del programma di Gotha” nei quali Marx parla della fase superiore della società socialista compendiandola nella nota formula “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. A partire da questa citazione potremmo facilmente ritornare alle discussioni cui alludevo nelle righe precedenti. Infatti se pensiamo a una società umana adeguata ai principi sopra citati, dovremmo pensare ad una società nella quale ciascuno si impegna in ciò che più gli aggrada, ricevendo comunque in cambio il necessario per la vita. E il critico avrebbe gioco facile a denunciare il carattere utopistico di una simile visione, mentre il suo oppositore potrebbe replicare che gli enunciati marxiani si riferiscono a una situazione futura nella quale lo sviluppo economico e tecnologico fornisca le basi di una abbondanza materiale estesa a tutti, e il progresso spirituale abbia portato al superamento dell’egoismo e della rapacità tipici della società borghese. Si tratta di un dibattito che potrebbe continuare all’infinito. L’intento di questo scritto è quello di suggerire un’altra strada, e dopo queste premesse vengo finalmente al punto. Il punto sta in questo: il comunismo non è un’utopia perché la richiesta “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” è concretamente realizzata in un ambito particolare della società e della vita di ciascuno. Si tratta della famiglia. La famiglia è organizzata precisamente su quei principi. In una famiglia, ciascuno fornisce alla famiglia stessa ciò che è in grado di dare, e riceve ciò che gli serve per l’esistenza, ovviamente al di fuori di ogni scambio di tipo commerciale. Il comunismo non è dunque un’utopia astratta, lontana dalla realtà degli esseri umani, perché è invece una parte fondamentale del percorso di crescita di ciascun individuo umano. Ma prendere coscienza del fatto che la famiglia è il comunismo, significa abbandonare definitivamente l’idea del comunismo come prospettiva politica per la società umana. Per capire questo punto, basta interrogarsi sul perché il “comunismo della famiglia” sfugga alle impossibilità che, secondo i critici, inficiano il progetto di una società comunista, rendendolo utopistico. La critica principale è quella legata alla necessità, perché una società comunista possa funzionare, di superare le distanze e le fratture fra gli esseri umani; in una società comunista ci si deve poter fidare dell’altro, si deve sapere che ciascuno farà la sua parte dell’interesse del bene comune, che nessuno userà la libertà possibile per prevaricare sull’altro, in un modo o nell’altro. Nel comunismo l’altro non deve essere un semplice estraneo. L’altro deve essere un fratello, e non a caso la fraternità con l’intero genere umano è uno degli ideali rivendicati dai rivoluzionari, a partire dalla Rivoluzione Francese. Ora, questa non-estraneità è esattamente quello che si realizza nella famiglia. All’interno di una famiglia ci si conosce in profondità e, se la famiglia funziona, si sa di potersi fidare, si sa cosa ci si può aspettare. Questa conoscenza reciproca all’interno della famiglia è ciò che costituisce il punto di partenza della vita di ogni individuo. […] Se questi sono allora i fondamenti di possibilità del comunismo della famiglia (l’unico comunismo realmente esistente), appare facile capire perché l’unica società comunista pensabile è in sostanza una piccola tribù formata al più da poche centinaia di individui legati fra loro da vincoli di sangue. La fiducia, il non sentire l’altro come un estraneo, sono possibili solo sulla base di una lunga conoscenza reciproca, a sua volta possibile solo nella famiglia o in una tribù che sia in sostanza una specie di famiglia allargata. E questo perché tale fiducia richiede conoscenza reciproca, e la conoscenza reciproca richiede tempo, tempo per vivere assieme, per parlare, per ridere, per costruire l’amore, per litigare e poi fare la pace. La fraternità universale degli esseri umani è allora davvero un’illusione. L’umanità non può essere pensata come una famiglia di fratelli o sorelle perché i limiti del tempo della nostra vita lo proibiscono. Non potremo mai conoscere ogni individuo umano, e fidarci di lui o di lei, come conosciamo coloro che hanno accompagnato la nostra vita fin dalla nascita. Tanto meno possiamo immaginare di superare le distanze fra gli esseri umani grazie alla generalizzazione del rapporto sessuale. È interessante osservare il fatto che l’utopia di una umanità futura pensata come una comune di libero amore sessuale abbia accompagnato come un’ombra la storia del pensiero progressista, da Charles Fourier al ‘68. Ma su questo punto il pensiero conservatore ha sempre avuto ragione nei confronti del pensiero progressista e delle sue utopie. L’essere umano ha in sé il bene e il male, e più si toccano strati profondi del nostro essere più è facile che ne emergano bene e male. Ma la sessualità è appunto la dimensione dei rapporti nella quale emerge con immediatezza il nostro essere profondo, e si espone indifeso allo sguardo dell’altro. Per questo dalla sessualità può nascere molto bene ma anche molto male. Tutte le culture umane lo hanno sempre saputo, e per questo hanno sempre costruito elaborate cinture protettive attorno a questa sfera, che manifesta con forza radicale l’ambiguità del nostro essere. Immaginare allora che la conoscenza e la fiducia reciproche che la coppia genitoriale costruisce con fatica, tempo, attenzione, cura reciproca, a partire dal rapporto sessuale, immaginare che tale conoscenza e fiducia possano essere estese all’intera umanità “libera dai tabù” è davvero la povera utopia di chi non sa nulla dell’essere umano.

 

Riassumendo: il comunismo della famiglia, l’unico comunismo realmente esistente dal neolitico in poi, esiste grazie alla fiducia e alla conoscenza reciproca basate su specifici rapporti umani (il rapporto dei componenti la coppia genitoriale, il rapporto fra genitori e figli, il rapporto fra fratelli e sorelle, e così via) che sono possibili solo grazie al pieno coinvolgimento reciproco del tempo di vita. Ma questo non è possibile con gli altri membri di una società che non sia una piccola tribù. In definitiva, una volta che è chiaro come la famiglia sia l’unico comunismo realmente esistente, e perché può esserlo, appare anche chiaro che un’intera società appena più ampia di una piccola tribù, non potrà mai essere una società comunista. Il meglio che possiamo sperare è dunque di vivere una vita familiare improntata all’affetto e alla fiducia, per chi ci riesce, e di regolare i rapporti umani al di fuori della famiglia secondo le regole di cortesia e correttezza di volta in volta stabilite dal costume e dalle leggi. Così si sono organizzate tutte le società umane dal neolitico in poi, ed anche l’ultima arrivata, la società borghese. In mancanza di meglio, non c’è motivo per cambiare questo schema. Questo non significa accettare l’esistente o perorare il ritorno della famiglia tradizionale (qualunque essa sia). Il modello di vita borghese, con la sua scoperta della libera soggettività individuale, è una grande conquista rispetto alla quale non si vedono al momento prospettive di superamento rivoluzionario, ma questo non significa che al suo interno non siano possibili miglioramenti. In particolare, i rapporti umani nella società civile e nella famiglia stessa possono certamente migliorare moltissimo grazie al miglioramento delle condizioni di vita: è stata soprattutto la lotta per la sopravvivenza a rendere l’uomo un lupo per l’uomo, e il suo superamento grazie al benessere diffuso nella seconda metà del Novecento ha permesso drastici miglioramenti nei rapporti fra le persone, come il raggiungimento di un sostanziale parità di diritti fra uomo e donna e una maggiore vicinanza fra genitori e figli. Riassumendo: non ci sarà mai il comunismo, ma è possibile pensare a una società dove i rapporti fra gli esseri umani siano sempre meno conflittuali. È possibile pensare di fare a meno del comunismo e vivere sereni.

 

III. Questa possibilità sembra però negata dagli sviluppi attuali del capitalismo ormai mondializzato, cioè dalla incipiente crisi di civiltà della quale abbiamo parlato all’inizio. Da una parte il capitalismo contemporaneo ha ritrattato il “compromesso socialdemocratico” del “trentennio dorato” seguito alla Seconda Guerra Mondiale, secondo il quale i ceti subalterni ottenevano un livello accettabile e crescente di benessere e sicurezza in cambio della rinuncia ad ogni velleità anticapitalistica. Il compromesso entra in crisi negli anni Settanta, e a questa crisi i ceti dirigenti rispondono con globalizzazione e neoliberismo, che in pratica significano distruzione del benessere e della sicurezza per larghe fasce della popolazione, aumento senza fine delle disuguaglianze, erosione del legame sociale. A questo si aggiunge il fatto che le nostre società hanno ormai raggiunto e superato i limiti ecologici del pianeta, e le conseguenze di questo, a partire dal cambiamento climatico, stanno ormai diventando evidenti a tutti. In sostanza l’attuale organizzazione sociale ed economica del mondo ha imboccato la strada della distruzione della società e della natura. Tutto ciò configura, come si diceva all’inizio, uno scenario di declino di civiltà, rispetto al quale non sembrano visibili forze in grado di imporre il drastico cambiamento di direzione che sarebbe necessario. Bisogna allora chiedersi se sia possibile una vita decente sapendo di vivere in un crepuscolo paragonabile alla fine del mondo classico, e sapendo che nessun radioso futuro comunista riscatterà il grigio presente che viviamo. Per riflettere su questo, può forse avere interesse ricordare le vicende di Severino Boezio e Aurelio Cassiodoro. Intellettuali di formazione classica, latini e cristiani nei tempi ferrigni che seguono la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, cercano entrambi di innestare il loro retaggio culturale nella nuova realtà dei regni romano-barbarici, e per questo collaborano con il re goto Teodorico, assumendo alte cariche nello Stato. Ma Boezio sarà coinvolto nelle trame di corte e ne verrà stritolato: accusato di congiurare contro il re finirà in carcere per essere poi giustiziato. In carcere, in attesa della fine, scriverà quel “De consolatione philosophiae” che diventerà uno dei testi più noti del nostro medioevo, e adempirà quindi, nonostante la fine tragica, al suo compito di conservare e trasmettere elementi della cultura antica nei tempi nuovi. Cassiodoro avrà invece una vita lunghissima, attraverserà quasi tutto il VI secolo sempre svolgendo incarichi politici e diplomatici, sopravviverà alle congiure di palazzo del regno gotico e alle devastanti guerre greco-gotiche, per ritirarsi infine nel monastero di Vivarium, in Calabria, dedicandosi con gli altri monaci ad una proficua attività di ricopiatura di manoscritti. Ed è anche questo un modo di assolvere il proprio compito. Nei tempi bui che ci aspettano noi possiamo cercare di svolgere un compito analogo. In primo luogo sperare di non essere travolti, di salvarci la vita. Che non vuol dire banalmente sopravvivere, ma sopravvivere rimanendo persone decenti. In secondo luogo, “ricopiare antichi manoscritti”, che è metafora dello sforzo di portare al futuro elementi di civiltà. Sperando e pregando di non essere sottoposti alla prova atroce di Boezio, ma di vivere una vita operosa come quella di Cassiodoro. Ed è questa, alla fine, la speranza che ci sembra lecito mantenere accesa, in un mondo senza speranza.

 

Nota: L’idea fondamentale dell’identità fra comunismo e famiglia la devo all’amico Paolo Di Remigio

 

Marino Badiale

 

 
Il Patto di Aquisgrana PDF Stampa E-mail

23 Gennaio 2019

 

Da Comedonchisciotte del 22-1-2019 (N.d.d.)

 

Il “Patto di Aquisgrana” firmato oggi contempla, tra le altre cose:

 

1) l’appoggio francese per far entrare la Germania come membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; 2) l’istituzione di un Consiglio dei ministri franco-tedesco; 3) l’istituzione di un consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza; 4) l’istituzione di un consiglio franco-tedesco di esperti economici; 5) la partecipazione di ministri delle rispettive nazioni, con turnazione trimestrale, ai consigli dei ministri dell’altro Stato.

 

Bisogna essere completamente ciechi per non vedere che questa è la pietra tombale su tutte le fiabe dell’Unione Europea come unione tra pari, e strumento di cooperazione. Si tratta di un patto bilaterale classico tra i due pesi massimi dello scenario europeo, che con ciò di fatto sono in grado di predecidere l’intera politica UE. Le altre istituzioni europee restano là come quinte di teatro ad uso dei fotografi. Due soli mi sembrano gli scenari possibili, da oggi in poi.

 

Se il patto regge alle vicissitudini interne dei firmatari, allora avremo di fatto una diarchia che utilizzerà i Trattati europei un po’ come camicia di forza e un po’ come tunica di Nesso per imbrigliare e ridurre a miti consigli tutti gli altri Stati europei. Ciò che finora era accaduto in forma coperta, cioè la coazione nei confronti dei partner minori, diventerà più palese e sfacciato. Se il patto non regge, e questo è ben possibile soprattutto sul lato francese (Macron non si capisce bene a nome di chi abbia firmato, visto che ha dietro di sé una minoranza del paese, e firma da una posizione di oggettiva subordinazione), allora la probabile crisi di Macron potrebbe portare a una denuncia precoce del patto, creando una situazione deflagrante in Europa, con un rapido collasso dell’UE, ed un generalizzato ‘si salvi chi può’, che lascerà probabilmente strascichi di lungo periodo. Incidentalmente, questo patto credo metta anche la parola fine a un ritorno sui propri passi del Regno Unito, che ora vedrà con crescente sollievo l’allontanamento da un sistema oligarchico di cui non è parte.

 

Andrea Zhok

 

 
Dialogo PDF Stampa E-mail

22 Gennaio 2019

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Da Appelloalpopolo del 19-1-2019 (N.d.d.)

 

Italia – Io vorrei rifare le strade e i ponti, sono vecchi e stanno crollando. Ne gioverebbe la sicurezza dei cittadini. Inoltre rappresenta un’occasione per impiegare i disoccupati e dare loro uno stipendio almeno per tutta la durata dei lavori (vista la situazione non sarà di qualche mese). Ue – No. Non puoi spendere. Italia – Anche le scuole. Oltre a cadere a pezzi, manca il personale docente e non. Anche qui ci sono in ballo sicurezza e posti di lavoro. Ue – No. Hai il debito troppo alto. Italia – Ma se sono in avanzo primario da 25 anni, nessun altro paese europeo ha fatto tanto!!! Siamo carenti anche nella sanità. Inoltre se fanno due gocce si allaga tutto perché non abbiamo persone che sorvegliano e liberano gli impianti di deflusso delle acque. Ue – Sei stata declassata, i mercati non hanno fiducia. Italia – Ma le agenzie di rating non sono affidabili ed è facile dimostrarlo. Ue – Godono della fiducia dei mercati e questo basta. Italia – Ma Francia, Spagna, Portogallo e anche la Germania sforano sistematicamente i parametri. Ue – Loro sono loro. Tu sei tu.

 

Il dialogo potrebbe andare avanti all’infinito e coprire tutti i settori a 360°. Secondo me una unione che porta morte e disagi, come impossibilità di crescita nella semplice ottica di dare un lavoro anche umile che garantisca una vita dignitosa ai cittadini, non ha motivo di esistere.

 

Claudio Orsini

 

 
La Scienza come entità unitaria non esiste PDF Stampa E-mail

21 Gennaio 2019

 

Da Rassegna di Arianna del 15-1-2019 (N.d.d.)

 

È stato firmato recentemente da alcuni esponenti politici un manifesto che impegna a riconoscere “la Scienza” come un’entità al di sopra delle parti, sempre degna di riverenza da parte di tutte le forze politiche.  C’è però un piccolo problema: la Scienza, così formulata come entità unitaria, non esiste. Esistono diversi paradigmi in cui i singoli scienziati inquadrano le proprie conoscenze. C’è quella che possiamo chiamare “scienza ufficiale”: è sostanzialmente la raccolta delle conoscenze che si inquadrano nel paradigma cartesiano-newtoniano, tuttora ritenuto da molti “la verità” malgrado sia stato falsificato più volte. Spesso i fatti che non si inquadrano in quel paradigma vengono semplicemente negati.  Pertanto dire di ascoltare “La Scienza” è completamente privo di significato.  Ma al pubblico bisogna continuare a far credere che ci sono “certezze”, quelle, appunto, della Scienza. Politicanti e giornalisti fanno a gara per continuare a farlo credere (con qualche eccezione). Esempi

 

-    Da circa 90 anni sappiamo che la separazione fra mente e materia è stata falsificata (principio di indeterminazione – fisica quantistica) e la scienza “ufficiale” continua a procedere come prima, con la spaccatura cartesiana, come se esistesse un mondo materiale “esterno” realmente esistente; -    Si continua a considerare ogni processo come isolato e lineare dopo oltre trent’anni di studi sulla dinamica dei sistemi, dove si è visto inoltre che nei sistemi complessi è assolutamente impossibile fare alcuna previsione, anche probabilistica, oltre un certo limite di tempo; -    Sono passati oltre vent’anni dalla pubblicazione del libro di Ilya Prigogine “La fine delle certezze” ma nessuno se ne è accorto;  -    Si insegna ancora che la materia è costituita da “particelle” e “vuoto” (dualismo vuoto-pieno) quando sappiamo che alla base di tutto c’è una sorta di Vacuità creativa (il vuoto quantistico) che costituisce l’universale; -    Sono passati 200 anni dalla pubblicazione della Philosophie zoologique di Lamarck (avvenuta nel 1809: 50 anni prima dell’Origine delle specie di Darwin) e ancora si continua a mettere in contrapposizione uomo e animale, come se si trattasse di due cose antitetiche o distinte. Sappiamo da due secoli che siamo animali, che facciamo parte della Natura e ancora si continua a torturare animali non-umani senza alcuno scrupolo, soprattutto da parte di molti cosiddetti scienziati: è invece evidente che l’etica deve riguardare tutti gli esseri senzienti. Conclusioni

 

 Lo scienziato inglese Rupert Sheldrake, molto noto nel mondo anglosassone, ha posto in evidenza, nel suo libro Le illusioni della scienza (Apogeo Urra, 2013), le premesse che vengono prese come dogmi dalla scienza newtoniana-cartesiana considerata “ufficiale” e divulgata al pubblico come certezza:

 

-    La Natura si comporta come una macchina; -    Il complesso energia-materia è rimasto costante da sempre e per sempre; -    Le leggi della Natura restano invariate; -    La materia non ha alcun genere di coscienza; -    La Natura non ha alcuno scopo, né obiettivo; -    Tutta l’eredità biologica è trasmessa nella materia; -    Tutto ciò che è nella memoria è registrato come tracce materiali; -    La mente è un prodotto soltanto del cervello; -    I fenomeni psichici sono illusioni; -    La medicina materiale meccanicista è l’unica che funziona veramente.

 

Chi non riconosce queste premesse viene rifiutato, respinto, considerato “non-scientifico”, “esoterico”, mistico”, alla faccia del metodo scientifico. Invece il paradigma cartesiano-newtoniano dovrebbe considerarsi ormai falsificato.  Naturalmente ci sono molte eccezioni, cioè ci sono scienziati non-meccanicisti, ma vengono guardati con sospetto: le loro idee circolano solo fra specialisti, o poco più. Si noti che tutte le conoscenze sopra citate come esempi provengono dalla scienza stessa. Se ne deduce che la cosiddetta Scienza, quella venerata da molti politicanti e giornalisti (non tutti) come se fosse un’entità unitaria e un’unica voce infallibile, non crede più neanche a sé stessa.

 

Sia ben chiaro, personalmente sono decisamente a favore della Scienza, quella che si è liberata dai dogmi meccanicisti, ma non di quella scienza che si autoproclama la verità oppure un assoluto, che serve a raccogliere le firme di alcuni politicanti che fanno finta di litigare fra loro ma che hanno come scopo quello di perpetuare il sistema.

 

Guido Dalla Casa

 

 
Uomo che vuol farsi dio PDF Stampa E-mail

20 Gennaio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 15-1-2019 (N.d.d.)

 

Due notizie apparentemente del tutto slegate fra loro. Alla fine di novembre 2018, uno sconosciuto biologo cinese (ma chi li conosce singolarmente, gli scienziati cinesi, in Occidente?), il professor He Jiankui, dell’Università Shenzhen annuncia di aver fatto nascere, in vitro, due gemelline con il Dna modificato, Lulu e Nana. Motivo (ufficiale) di questa sconcertante sperimentazione: far sì che venissero al mondo con un organismo che fosse resistente al virus dell’Hiv. Quasi sette anni prima, al principio di febbraio 2012, la stampa internazionale aveva riferito che le celebri gemelle Kessler, Alice ed Ellen, il duo femminile più famoso della televisione italiana,  nate nel 1936 e quindi, all’epoca, settantacinquenni, ma perfettamente in salute e ancora belle, brave e attive nel mondo dello spettacolo, avevano rivelato d’aver stretto un patto per la vita e per la morte: se una delle due dovesse mai ridursi, un giorno, allo stato vegetativo, allora l’altra l’aiuterebbe a chiudere, come si usa dire, con dignità.

 

Eppure, fra le due cose, una relazione forse c’è. A ben guardare, esiste un filo rosso che le collega. Le gemelle Kessler esordiscono, artisticamente, nel 1955; le gemelline cinesi nascono nel 2018: sessantatre anni separano i due eventi, un arco di tempo nel corso del quale la popolazione mondiale è passata da 2 miliardi e 700 mila a 7 miliardi e 600 mila, vale a dire che è quasi triplicata. I cambiamenti verificatisi nel campo economico, finanziario, sociale, politico, militare, scientifico, tecnologico, artistico, culturale, filosofico e religioso sono stati immensi: sono successe in proporzione più cose negli ultimi sessanta o settanta anni di quante non ne siano accadute negli ultimi seicento o settecento. Però le Gemelle Kessler, inossidabili, con le loro lunghissime gambe hanno continuato a esibirsi senza mai andare in pensione; ancora nel 2014, ormai vicine al traguardo degli ottanta, erano ospiti al Festival di Sanremo e facevano la loro figura, eleganti, snelle e agili (quasi) come una volta, ancora capaci di fare qualche passo di danza e di cantare con onore. E intanto gli scienziati, cinesi e non cinesi, in tutto quel tempo, hanno lavorato: zitti, zitti, nei loro laboratori, a partire da quando, nel 1953, avevano scoperto la struttura del Dna. Il loro sogno segreto e inconfessabile, e infatti non l’hanno confessato fino a quando non sono arrivati a fare centro, era di poter generare l’uomo nuovo, frutto della manipolazione del suo codice genetico: in pratica, di sostituirsi a Dio come creatori degli esseri viventi. E mentre gli scienziati, nell’ombra, lavoravano, instancabili, senza dover rendere conto a nessuno, e tanto meno all’opinione pubblica, di quel che andavano sperimentando, le gemelle Kessler, come tutti gli uomini e le donne del mondo, e specialmente della vecchia Europa, vecchia proprio in senso demografico, cominciavano a interrogarsi sul loro futuro, a chiedersi che ne sarà di loro quando le mitiche gambe, il corpo tutto, e specialmente la mente, non le dovesse più sostenere. E sono arrivate alla conclusione che non vale la pena di vivere qualche anno in più, ridotte all’impotenza su una sedia a rotelle, o su un letto di ospedale; e che è meglio, molto meglio, esercitare il diritto di por fine alla propria vita, magari con l’aiuto l’una dell’altra. Così, mentre nei Paesi giovani si pensa a come far nascere la vita, anche artificialmente, anche con le pratiche più discutibili, nei Paesi vecchi si pensa alla morte e a come uscire di scena tramite l’eutanasia.

 

Nei Paesi del Sud del mondo si fanno figli, così tanti che Paesi come la Cina e l’India hanno dovuto provvedere drasticamente alla limitazione delle nascite, anche con misure coercitive; nei Paesi del Nord, che già sono a crescita zero, si praticano da decenni sia l’aborto che la contraccezione sistematica, ci si fa allacciare le tube, ci si fa sterilizzare, si acquistano cani e gatti da compagnia, ci si “sposa” fra persone dello stesso sesso, oppure ci si prenota per l’eutanasia, anche a costo di aggirare le leggi e, se necessario, di farsi trasportare all’estero, in qualche Paese di più larghe vedute, dove si può liberamente esercitare il diritto di por fine alla propria vita, quando essa è giudicata priva di valore. I radicali, infatti, si sono precipitati a diffondere l’annuncio shock delle Kessler: tutta acqua per far girare le pale del loro mulino. D’altra parte, al di là della contrapposizione fra i due orientamenti esistenziali, c’è un elemento che li accomuna, al punto che possiamo considerarli come le due facce d’una stessa medaglia: la pretesa di esercitare un controllo esclusivo sulla vita e sulla morte. Manipolazione genetica, aborto, eutanasia, sono espressioni di una stessa superbia intellettuale: quella della creatura che non accetta il proprio limite ontologico e vuol farsi padrona della vita e della morte, cioè vuole farsi dio. Lavorano male, questi scienziati che manipolano il codice genetico, e invecchiano male, questi europei che annunciano in anticipo la loro volontà di non continuare a vivere se non alle condizioni da essi stabilite. Il messaggio che lanciano entrambi alle nuove generazioni è sconcertante: la vita non è un dono di Dio, anzi non è affatto un dono, ma una conquista umana; e così come l’uomo ha ormai la capacitò per decidere, da solo, chi far nascere e chi no, e come farlo nascere, e con quale codice genetico, e quindi con quali caratteristiche biologiche, pianificando la sua nascita come un bravo ingegner pianifica la produzione di un certo complesso industriale, così egli può anche decidere quando spegnere l’interruttore, quando restituire il biglietto, per se stesso o anche per un parente, un amico, una persona che glielo chieda con insistenza. Sarebbe una crudeltà inutile, non vi pare?, sia far nascere una creatura svantaggiata, sia prolungare la vita d’un malato senza speranza. Questa, a quanto pare, è tutta la saggezza che due guerre mondiali, alcuni genocidi, un paio di bombe atomiche e altre amenità del genere hanno insegnato agli uomini delle ultime generazioni. E non sono parole a vuoto. Quando il regista Mario Monicelli, malato di cancro alla prostata, decise di farla finita e si gettò nel vuoto, la sera del 29 novembre 2010, lanciandosi dalla finestra al quinto piano dell’ospedale in cui era ricoverato, aveva toccato la bella età di novantacinque anni. Anche nel suo caso, e sia detto con il debito rispetto verso il dolore altrui, fu il testamento spirituale che lasciò ai giovani e al pubblico che lo aveva amato attraverso i suoi film, in un arco di tempo di svariati decenni. Egli aveva esercitato un ruolo da “maestro” solo attraverso il cinema; aveva anche indossato i panni dell’intellettuale dissidente, del contestatore politico, lanciandosi, davanti a folle numerose, in violente campagne verbali contro i governi da lui ritenuti destrorsi e reazionari. La vita privata gli aveva riservato non poche soddisfazioni, anche sul piano sentimentale e affettivo, almeno secondo gli standard della gente di spettacolo. La sua ultima compagna era stata una ragazza di diciannove anni che si era unita a lui, quando ne aveva quasi sessanta, e gli aveva poi dato una figlia quando ne aveva ben settantaquattro. Tre anni prima della morte aveva dichiarato, in un’intervista, di vivere da solo, di non provare alcuna nostalgia per i diversi figli e nipoti, di non avere più versato una lacrima da decenni e di essere un elettore dell’estrema sinistra. Aveva anche spiegato le ragioni della scelta di vivere da solo, con queste parole (riportate su Vanity Fair del 07/06/07, p. 146 e consultabili anche sulla voce a lui dedicata da Wikipedia): Per rimanere vivo il più a lungo possibile. L'amore delle donne, parenti, figlie, mogli, amanti, è molto pericoloso. La donna è infermiera nell'animo, e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta ad interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più.

 

Insomma, una donna quale compagna di vita è troppo sollecita, troppo servizievole; meglio stare da soli, arrangiarsi, farsi il letto e cucinarsi da mangiare, così si guadagnano dieci anni di vita. Il rifiuto dei legami, dell’amore, in nome del diritto a rosicchiare qualche anno di vita in più: niente male come filosofia quantitativa, perfettamente in linea con una società che quantifica e commercializza tutto. Se posso strappare qualche anno alla morte in cambio dell’aridità spirituale, perché no, il prezzo vale bene il risultato: e lasciamo il romanticismo ai romantici, illusi e sognatori. Meglio un cuore arido, come direbbe Cassola, che finire come un vecchio rincoglionito sulla poltrona, con la moglie che ti serve e ti accudisce. In fondo, è la filosofia dell’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello: che noia, queste mogli che vorrebbero vivere, invecchiare e morire coi loro mariti. Non se ne può più, sono un autentico flagello; si attaccano all’uomo come le zecche, cioè, come le infermiere, e allora tanti saluti, è finita. Ma davvero c’è così tanto amore nel mondo, e specialmente nella relazione fra l’uomo e la donna, da poterlo disprezzare a questo modo, da poterlo gettare nel cestino della spazzatura con tanta leggerezza, o meglio, con tanta lucidità e con un tale senso di intimo sollievo? A noi non sembra proprio. Può darsi che soffriamo di miopia, o di strabismo, però a noi sembra che la società odierna sia affetta dal problema opposto: che di amore ce ne sia troppo poco, specialmente fra l’uomo e la donna. Per cui buttarlo via nella maniera lucidamente teorizzata da Monicelli, che pure ha dedicato tanti film a parlare dell’uomo, della donna e delle loro relazioni reciproche, è uno spreco immenso e incomprensibile.

 

Del resto, si tratta di idee e atteggiamenti oggi largamente diffusi nella società, a tutti i livelli; difficile dire se artisti e intellettuali come Monicelli abbiano contribuito a crearle, o si siano limitati a diffonderle, avendone subito l’influsso a loro volta. La filosofia e la letteratura del Novecento sono contrassegnate da questa ambivalenza: smania di creare la vita e terrore di doverla vivere in condizioni ritenute indegne. Per Heidegger (e per Sartre e gli esistenzialisti) la vita umana è un essere-per-la-morte; per Montale la vita è l’esperienza del male di vivere; per Pavese essa è un vizio assurdo. Si può anche ammettere che la vita è bella, o meglio che possiede dei lati gradevoli, ma solo finché ci sorride, finché siamo giovani, sani, efficienti; quando non piace più, quando non diverte più, perde valore e la si può gettare, come fa il bimbo viziato con un giocattolo che ha perso il suo incanto. Si direbbe che il mondo abbia perso il proprio incanto agli occhi degli uomini moderni: meglio corazzarsi contro il dolore, meglio premunirsi contro quel fastidioso incidente chiamato amore; meglio evitare di compromettersi con quella cosa tanto borghese, banale e molesta che sono i legami familiari. Ed ecco l’ideale stoico della divina indifferenza, teorizzato da Montale: l’arte di rendersi inattaccabili e impermeabili al male di vivere; anche a costo di non sentir più nulla, di recidere i legami più naturali. […] Si dirà che lo stoicismo è una nobile filosofia; e che, se era la filosofia di uomini come Marco Aurelio, non può essere che una gran cosa. Ma lo stoicismo è la classica filosofia della decadenza: nasce con l’ellenismo, trionfa a Roma: quando il mondo antico è in piena decadenza, anzi, si avvia alla dissoluzione morale. Comunque, andiamoci piano col paragonare lo stoicismo dei greci e dei romani con quello odierno, che è, a ben guardare, un mixer di edonismo e nichilismo: chi vuol esser lieto, sia; di doman non c’è certezza. Non vi è molta nobiltà in questa filosofia, a dire il vero: è meschina, banale, materialista. È la stessa che spinge un uomo a lasciare la moglie cinquantenne per la ragazza ventenne, gettando nel cestino trent’anni di vita in comune, di progetti, di speranze, di difficoltà condivise, di figli allevati insieme. Ma quando arrivano le rughe, la donna tanto amata perde il suo fascino: perché non rimpiazzarla con una ragazzina fresca come una pesca? È una filosofia per uomini (e donne) che non valgono nulla, non val neanche la pena di perdere tempo a discutere con loro. Il guaio è che il mondo ormai è pieno di uomini e donne da nulla, che valgono meno dei vestiti che indossano. Sono gli stessi che, nei laboratori, tessono la loro bava in filamenti mostruosi, come ragni appollaiati al centro della loro tela: fanno esperimenti, giocano col Dna, dicono di voler migliorare la specie umana, di voler difendere la salute contro le malattie. Come sono buoni; e pretendono pure che crediamo a simili balle. La verità è che inseguono un solo dio, la propria illimitata ambizione, la smania di sfondare, di farsi un nome, diventare celebri; e, nello stesso tempo, di assaporare il senso di onnipotenza che viene dal manipolare le leggi stesse della vita. Anche questi sono uomini da nulla: non valgono niente, tirano fuori la vita dalle loro macchine, come l’operaio estrae il pezzo lavorato dalla matrice. A che servono, costoro? Altro non lasceranno, dietro a sé, come diceva Leonardo, che cessi pieni…

 

Francesco Lamendola

 

 
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19 Gennaio 2019

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Da Appelloalpopolo del 16-1-2019 (N.d.d.)

 

Alle volte, di fronte allo sconcerto di amici europeisti per la ‘rozzezza istituzionale’ dei ‘populisti’ (non solo in Italia), mi chiedo cosa si aspettassero. Per anni e anni siamo andati avanti in Europa con una (sedicente) ‘avanguardia tecnocratica’, sottratta ad ogni dibattito pubblico e ad ogni controllo democratico, che ha utilizzato i propri agganci tra le élite cosmopolite per pubblicizzare nei singoli paesi il Grande Progetto Europeo come un progetto di ricchezza e fratellanza comune. ”Fidatevi”. Poi, alla prima difficoltà seria, si è vista una corsa di ciascuno al salvataggio dei propri patrimoni (ad esempio il salvataggio delle banche francesi e tedesche a spese della Grecia), uno scatenarsi di regole asimmetriche valutate arbitrariamente (aiuti di stato, surplus commerciali, procedure di infrazione, ecc.), una rincorsa alla colpevolizzazione del vicino nella più completa ignoranza delle realtà altrui, un’esplosione di ricatti, condizionalità, minacce, e il tutto abbinato ad un impoverimento di ampli strati della popolazione. In sintesi:

 

1) i lavoratori europei si sono inizialmente e per decenni consegnati fiduciosamente mani e piedi ad un’élite tecnocratica; 2) questa élite li ha prima portati sugli scogli, dopo di che ha cercato di mettere in salvo sé stessa, e non contenta di ciò se l’è presa con i lavoratori infingardi (tra l’altro categorizzandoli per stereotipi nazionali); 3) quell’élite stessa poi ha messo in campo tutte le proprie risorse e agganci mediatici per far passare adeguate dosi di senso di colpa presso i lavoratori europei (nessuno creda che l'”avete vissuto al di sopra delle vostre possibilità” sia risuonato solo in Italia: è stato usato ovunque, persino in Germania per comprimere il loro welfare.)

 

A questo punto, esattamente, cosa pensavate potesse succedere? È successa l’unica cosa che il puro e semplice buon senso avrebbe saputo prevedere: la totale irredimibile perdita di credito delle élite tecnocratiche e del loro progetto, che ora si rivela come appunto soltanto un LORO progetto. Dunque quel progetto è semplicemente defunto, e prima si capisce meglio staremo tutti. I ‘populisti’ non sono piovuti da Marte. Sono quelli che restano dopo che avete tolto di mezzo le élite tecnocratiche. Non vi piacciono le loro sgarberie e la loro sguaiataggine? Beh, cari esperti bollinati, trovate uno specchio e vedrete il colpevole. Questo è il semplice frutto dell’uso pluriennale catastrofico fatto di pensose expertise, di saggi e prudenti consigli, di spiegazioni paternalistiche (e cretine) su come gestisce una casa il ‘buon padre di famiglia’, ecc. Una volta che il credito è perduto, una volta che quando apri bocca tutti sanno che non ci si può fidare, beh, è finita: puoi avere dietro di te i Media, la Polizia e la Borsa, ma sei comunque destinato a sparire, è solo questione di tempo.

 

Andrea Zhok

 

 
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