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Foresta e giardino PDF Stampa E-mail

29 Agosto 2023

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 Da Comedonchisciotte del 22-8-2023 (N.d.d.)

Prima il Mali (2020 e 2021), poi il Burkina Faso (2022) e ora il Niger. La cintura dei golpe nell’Africa subsahariana si estende e imbarazza i vertici di Bruxelles. Solo un mese fa l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, Josep Borrell, aveva incontrato Mohamed Bazoum dichiarando entusiasticamente che il Niger è “un paradiso di stabilità”. Il caos aperto dal colpo di stato nigerino riflette le nuove dinamiche geopolitiche internazionali che si stanno intessendo sul territorio del Sahel, area sensibilissima per le ricche miniere di uranio a cui sono sempre più interessati nuovi attori esterni con cui i paesi più poveri del mondo – fragili e penetrabili – possono rinegoziare relazioni che sono state, fino ad ora, del tutto asimmetriche. Vengono, infatti, in mente le dichiarazioni aberranti rilasciate da Borrell lo scorso 13 ottobre durante l’inaugurazione dell’Accademia diplomatica europea a Bruges, in Belgio:

“L’Europa è un giardino. Abbiamo creato questo giardino, tutto in esso funziona. Questa è la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità è stata in grado di raggiungere. Il resto del mondo non è un giardino, ma una giungla e la giungla può prendere il giardino con la forza, ma la costruzione di muri non può essere la risposta alla minaccia rappresentata dalla giungla, anche se noi, giardinieri che si occupano del giardino, non possiamo ignorare questo pericolo: dobbiamo andare noi stessi nella giungla”. In sintesi: noi siamo il giardino, la parte di mondo curata, coltivata, colta, mentre gli altri sono gli incolti, gli incivili, i selvaggi. Noi siamo la “civitas”, la civiltà, fuori c’è solo la “silva”, ovvero il silvestre o, meglio, il selvatico. Insomma, noi siamo il Bene mentre gli altri sono il Male. Gli “altri” sono il resto del mondo, quelli che hanno l’ardire di non condividere il sistema di valori occidentale e di voler vivere in base ai propri principi. E ciò è una minaccia, bisogna entrare nella giungla, disboscarla e trapiantarvi i semi del nostro modello di vita. Come dei bravi giardinieri, occorre addomesticare la natura ribelle e sorvegliare che ogni pianta stia al suo posto pronti a potare i rami che crescono troppo e ad estirpare le erbacce. Magari riuscendo a trasformare la terra intera in uno sconfinato giardino, in uno spazio interamente pianificato, controllato, panottico, diradando, una volta per tutte, le ombre della foresta nera dove si nasconde solo caos e irrazionalità.

Come si è fatto con il Colonialismo nella seconda metà del XIX secolo, quando l’Africa è stata rappresentata come il luogo di un’umanità corrotta e inferiore e, perciò, idonea ad essere ridisegnata sulla base di una nuova geografia politica che ha spartito il continente fra le potenze europee. Con l’appoggio dell’antropologia evoluzionistica del tempo che ne ha fornito la giustificazione “scientifica” interpretando le differenze culturali in base a una linea progressiva che andava dal primitivo al civilizzato. I civilizzati siamo, naturalmente, sempre e solo noi. Loro, gli “altri”, sono talmente involuti che, quando giungono in Europa le sculture di Ife (attuale Nigeria), gli etnologi si affannano a giustificare cotanta, sublime, raffinata bellezza con improbabili ascendenze etrusche (!). Occorrerà attendere Picasso, Modigliani e gli altri artisti dei primi del Novecento per vedere riconosciuto il valore delle culture “altre”. Parallelamente, nell’iconografia africana compare per la prima volta il disegno della “chiave”, simbolo del potere europeo di aprire e chiudere gli spazi altrui. È passato più di un secolo ma nel discorso di Borrell riecheggia la stessa mentalità di superiorità di allora, la medesima volontà di tenere ben strette nelle mani le chiavi delle porte del mondo. Un’arroganza che, oggi, continua a covare sotto la retorica delle parole progressiste di uguaglianza e tolleranza. Infatti, la globalizzazione altro non è che una forma moderna di Colonialismo in cui la volontà di dominio dell’Occidente si dispiega nella esportabilità della nostra forma di vita sulle altre culture e sull’intero mondo. I cosiddetti “selvaggi” si sono combattuti, uccisi e anche sterminati, ma sempre nel reciproco riconoscimento del valore dell’alterità. Per noi, invece, gli “altri” non sono niente. La nostra idea astratta e universalistica di “umanità” è razzista nella sua essenza poiché istituisce la categoria opposta di “non umanità”. Non è un progresso morale, ma l’approfondimento del razzismo occidentale che s’incarica di annichilire le differenze estendendo a tutti la logica capitalistica delle equivalenze. La nostra è la civiltà che ha fatto dell’assolutizzazione della ragione il proprio unico orizzonte di senso. Un’assolutizzazione del tutto metastorica e irrazionale che, tuttavia, ha portato alla credenza (una vera e propria superstizione) che lo sviluppo tecnologico coincida con il progresso dell’umanità autolegittimandosi a conquistare il resto del globo e relegando le altre culture ai margini della geografia, nell’angolo dell’indifferenza, in luoghi lontani destinati a sparire o a essere saccheggiati.

Senza farlo di proposito, Joseph Borrell ha evocato due grandi archetipi dell’antropologia che declinano due modi opposti di concepire il mondo. La foresta è, infatti, l’archetipo che rappresenta la natura nel suo stato originario di primigeneità immutabile, di crescita autonoma senza modificazioni apportate dall’uomo. È un “assoluto”, l’inabitabile per eccellenza: un luogo che supera ogni misura umana e che non può essere dominato. Il giardino è, invece, l’archetipo che rappresenta la natura nel suo aspetto più benefico e razionale. È l’emblema di una natura addomesticata, coltivata, progettata per divenire un luogo accogliente, a misura umana. È, infatti, l’immagine del paradiso terrestre creato da Dio e offerto all’uomo come dimora provvida dispensatrice di frutti e di beni, materiali e spirituali, affinché una vita armonica possa svilupparsi. Dalla stessa radice latina deriva sia domus, casa, sia dominus, dominio. Giardino e foresta simboleggiano due forme di conoscenza opposte: nel giardino la luminosità solare, apollinea, dirada le tenebre labirintiche della foresta dionisiaca. Il giardino è progettato per essere offerto primariamente alla vista che, da lontano, con distacco razionale, può abbracciarne il disegno complessivo. La foresta, invece, può essere conosciuta solo standovi dentro, percorrendola, poiché nessuno sguardo esterno globalizzante è in grado di sintetizzarne la complessità che si dà solo per scorci parziali perpetuamente cangianti a ogni passo. Richiede la partecipazione intima e fisica alle sue leggi, come fa il selvaggio che la vive dall’interno per ottenerne una memoria e un controllo. Ad esempio, i Pigmei (popolo nomade delle aree equatoriali comprese fra il Camerun e lo Zaire) percorrono la foresta incidendo le foglie e tracciando segni sul terreno: rendono, in tal modo, significativo lo spazio ritagliandole degli itinerari, cioè lo umanizzano. E dove il fitto della foresta lascia spazio alla radura, lì situano l’accampamento. L’area priva di vegetazione, dove vi si riversa la luce del sole, non è concepita come un vuoto ma come apertura a un principio di insediamento. Il centro della radura viene sempre lasciato libero e investito di funzioni importanti per il gruppo come le cerimonie religiose o quelle legate alla parola perché chi parla nel centro è udito da tutti. Per le etnie africane il concetto di spazio come vuoto da invadere e riempire non esiste. Lo spazio non è mai un’entità astratta, divisibile in parti equivalenti e misurabili, come è nella nostra tradizione cartesiana, ma è un campo relazionale, topologico, qualitativamente differenziato e non quantitativamente omogeneo. Così come non esiste una netta scissione fra l’uomo e la natura, esiste solo una distinzione fra natura umanizzata e natura selvaggia dove, all’esigenza della demarcazione, si accompagna sempre anche quella del raccordo: non si tratta di esercitare un dominio sulla natura ma di innescare uno spazio antropizzato al suo interno. La demarcazione non è un confine fisso ma mobile, da presidiare con attenzione. Presso gli Hausa della Nigeria, ad esempio, il garii, traducibile impropriamente con città, comprende non solo gli insediamenti effettivi ma anche le zone non abitate ma potenzialmente abitabili, includendo anche il cielo e i pozzi d’acqua. Fuori del garii ci sono le terre improduttive, siano esse lontane, vicine o addirittura interne all’insediamento abitato: la “distanza” non è concepita geometricamente. Il garii si dilata all’alba quando gli abitanti vanno al lavoro nei campi e si contrae la notte, con l’oscurità, quando ogni spazio al di fuori della casa tende a divenire brousse. Ma anche a mezzogiorno, quando il sole abbaglia e appiattisce le figure rendendole meno distinte, la brousse può avanzare. In Burkina Faso, quando arriva la stagione secca e la sterpaglia invade i campi cancellandone i confini, tocca ai cacciatori Lobi aprire ritualmente la brousse e penetrarvi, mentre le divinità dei campi si ritirano nei granai. Con la stagione delle piogge saranno gli spiriti della brousse a ritirarsi mentre gli uomini e le divinità agrarie lasceranno i villaggi per recarsi sui campi e chiudere la brousse sospendendo la caccia. Le spedizioni dei cacciatori Lobi ritagliano temporaneamente dei territori umanizzati che rendono la distesa indifferenziata della savana un luogo temporaneamente protetto dagli spiriti che vi abitano. Anche le statue di fango poste al limite del villaggio hanno la medesima funzione: impedire agli spiriti della foresta di entrare nello spazio ordinato del villaggio.

Per i “selvaggi”, che non hanno mai “naturalizzato” la natura, essa è un “altro” reale, vivente, differenziato: è una figura alla pari dello scambio sociale nell’ordine simbolico. E il territorio è sempre uno spazio elastico generato da una dialettica delle differenze. Nei dipinti su corteccia dei nomadi pigmei, ad esempio, compaiono segni che rimandano sia alle foglie incise durante gli spostamenti, sia a quelli lasciati sul terreno nei rituali che propiziano la caccia, sia a quelli delle pitture corporee. Tali rimandi attenuano la distinzione fra accampamento e foresta fornendo una sorta di travestimento a colui che indossa il tessuto e assimilandolo alla natura. In Africa, il cacciatore è sempre una figura ambigua per il suo transitare continuamente fra la brousse e il villaggio. Rispettato e temuto al contempo, gli si conferisce uno status particolare per controllarne l’oscuro potere che gli deriva dal contatto con le forze della foresta. Tale ambiguità è testimoniata dai tessuti: a differenza dei membri del villaggio che indossano abiti che esibiscono misura e chiarezza, segni della civiltà, il cacciatore indossa abiti scuri con amuleti in pelle, corna, pelo e cauri che rimandano alle creature selvagge della brousse. Quando un animale viene ucciso nella brousse una sua parte significativa viene aggiunta all’abito che così si modifica continuamente. Con gli anni, gli elementi animali finiscono con il ricoprire tutto il tessuto: l’abito assomiglia sempre di più alla brousse e il cacciatore si immedesima sempre più con essa. La trasformazione non implica però il passare dall’altro lato: il cacciatore resta un operatore culturale che si muove lungo la linea di frontiera, l’elemento naturale cucito al tessuto si muta in artefatto che restituisce la brousse con una valenza diversa umanizzata. Il confine non crea una cesura ma un’osmosi porosa.

Noi abbiamo desimbolizzato la natura trasferendola alle leggi biologiche della scienza. Il nostro rapporto con la natura non è più vivo e mortale, ma strumentale: essa è veramente una natura morta, uno sfondo asettico, messo nello statuto idealizzato dell’ecologia, un vero e proprio ghetto, così come abbiamo messo nei musei le culture extra-occidentali dopo averle sterminate. Giardino e foresta sono due paesaggi a temperatura differente, orientati secondo coordinate geo-culturali completamente opposte. Per Martin Heidegger, la Foresta esprime anche la componente aurorale della Terra in quanto Erde, opposta alla Terra in quanto Welt. Qualsiasi azione umana non può che istituirsi come attività modificatrice che tende a trasformare la natura in cultura, ovvero la Foresta in Giardino. Diverso però è il modo in cui viene concettualizzato. La nostra civiltà si basa sul pensiero logico-analitico, su una cultura dedita a coltivare il giardino. Il giardino era il sogno di portare il Paradiso in terra, lungamente vagheggiato da un Occidente che, alla fine, tradendo sé stesso, lo ha trasformato nell’incubo odierno. Il giardino ha cominciato ad appassire quando i tarli del pensiero astraente hanno iniziato a prosciugare la fertile vitalità di ogni contenuto che non fosse riducibile a formule scientifiche. La modernità, col suo grande progetto di addomesticamento totalitario del reale, di rimodellamento uniforme di ogni alterità, di rarefazione di ogni ombra alla luce delle sue ipostasi illuministe, in sintesi, con il suo sogno di trasformare il mondo in uno spazio interamente controllato, si ritrova, infine, senza più terreno sotto i piedi facendo dello sradicamento e della deterritorializzazione le proprie coordinate di fondo. E il giardino, accuratamente coltivato da Socrate, Eraclito, Leonardo, ora è infestato dai parassiti di Bruxelles che stanno facendo marcire definitivamente i frutti di una tradizione bimillenaria di incommensurabile bellezza, sapienza e profondità.

Globalizzazione, cancel culture, censura della pluralità, massificazione livellante, abbassamento dell’istruzione, distruzione dell’arte, genderismo, eugenetica, transumanesimo, scientismo, tecnocrazia, metaverso, sono i semi assai velenosi piantati nel nostro terreno dai Borrell e dalle Von der Leyen, i “giardinieri” al soldo dei proprietari del tecno-capitalismo neoliberale, apolide e feroce. Il giardino sta appassendo sotto i nostri occhi: se non lo ripuliamo velocemente dai parassiti morirà del tutto. E mentre l’Africa si ribella spezzando i ceppi per correre verso il multipolarismo, l’Italia decide di restare dentro la gabbia dell’eurozona dove si sta allestendo la nuova tratta degli schiavi con le catene del debito infinito, dei passaporti vaccinali, delle smart cities, delle monete digitali. E non ci saranno più né la verginità precapitalistica della foresta né l’ordine armonico del giardino ma un’unica monocultura improntata al modello panopticon di uno spazio interamente visibile, senza zone d’ombra e vie di fuga, cioè lo spazio pianificato e controllabile del potere disciplinare e del capitalismo della sorveglianza.

Abbiamo dimenticato che all’origine della nostra luminosa civiltà c’è anche quel luogo di curve e bivii che è il labirinto, l’analogo architettonico della foresta oscura. E se è vero che Teseo uccide il Minotauro segnando la vittoria dell’elemento apollineo su quello dionisiaco, del logos sul mytos, è anche vero che ritrova la luce del sole uscendo dalle tenebre del labirinto solo grazie al filo tesogli da Arianna, la sposa di Dioniso.

La sapienza greca non ha mai trascurato la dialettica feconda fra il filo lineare della logica e il vortice vertiginoso dell’ebbrezza, fra l’ordine eccessivo di Euclide e il caos incontrollato delle Baccanti, fra la foresta e il giardino. “Dioniso fa parte dell’ordine!”, dicevano ad Atene. Infatti, nei templi eretti sulle coste frattali della Grecia si ergeva la statua di Atena, portatrice delle funzioni civilizzatrici e della saggezza politica, che serbava sul petto l’effigie della testa mostruosa di Medusa.

Sarebbe ora di licenziare il giardiniere Borrell, è evidente che non ha il “pollice verde”...

Sonia Milone

 
Entusiasmi eccessivi per i BRICS PDF Stampa E-mail

26 Agosto 2023

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 Da Rassegna di Arianna del 24-8-2023 (N.d.d.)

È terminato il summit dei BRICS in Sud Africa. Star dell’incontro il presidente indiano Modi. Putin era in remoto e sappiamo in quali altre faccende affaccendato, Xi ha saltato senza dare ragioni il primo incontro pubblico dei leader, Lula si è preoccupato di rilasciare dichiarazioni che spegnessero l’impeto competitivo del gruppo contro l’Occidente cui è legato anche in ragione di recenti incontri ed accordi (USA ed UE). Per dire, era stato proprio Lula che aveva annunciato nei mesi scorsi la volontà di varare la valuta alternativa al dollaro. Occorre che s’impari a leggere questa complessa trama delle nuove relazioni mondiali, a volte fai una dichiarazione prima di certi incontri per ottenere qualcosa, è “politica”.

Il vertice aveva al centro un punto, la questione dell’allargamento del gruppo ad altri partner, una ventina in esplicita richiesta di ammissione, un’altra ventina interessati a seguire. Poiché molti seguono la geopolitica come seguono il calciomercato ovvero seguendo “storie”, s’erano prematuramente eccitati immaginando roboanti annunci di valute alternative al dollaro, ma nessuno aveva anticipato tale intenzione nella preparazione del vertice, anzi era stato esplicitamente escluso da indiani e sudafricani. Prima si fanno i soggetti, poi i soggetti deliberano le proprie comuni intenzioni, semmai vi riescono. I primi due giorni, a parole, erano tutti entusiasti ed uniti nel dichiarare la volontà di allargamento. Mercoledì notte, riuniti a specificare i dettagli, si sono incagliati su punti presentati da Modi, fresco di gloria spaziale. Come detto, Modi gioca una complessa partita in cui occorre tener conto anche del fatto che l’anno prossimo va ad elezioni per il terzo mandato, con alta frizione interna che ha portato addirittura ben 26 diversi partiti, che più eterogenei non si possono immaginare, a creare un cartello unico contro di lui sotto la bandiera del terzo Gandhi, Rahul. La complessa partita sulla politica estera di Modi è relativa a molti punti: 1) ottenere il prestigioso seggio al Consiglio di Sicurezza (India è il più grande paese del pianeta ed è -al momento- la quinta economia, ma la quarta più o meno l’anno prossimo, la terza per Pil PPA); 2) calibrare i delicati rapporti con la Cina, sia localmente (confini), che arealmente (Asia), che dentro i BRICS dove l’India vuole presentarsi come reale capofila dei Global South dicendo che la Cina è ormai un paese non più “in via di sviluppo”. Da segnalare come il successo lunare dia all’India una immagine assai attraente dal punto di vista tecnologico, chiave importante per le ambizioni di sviluppo di terzi; 3) combattere proprio contro Cina e Russia sul senso da dare ai BRICS ovvero una unione economica e non una unione geopolitica o non del tutto. L’India, infatti, intrattiene ottime e proficue relazioni con il Giappone, l’Unione europea e soprattutto gli Stati Uniti d’America (anche militari e nel Pacifico), senza per questo trascurare la vecchia amicizia con la Russia; 4) in subordine al punto 2), una crescente attenzione all’Africa che l’India ha per il momento colonizzato con una apparentemente innocua diaspora di sarti e commercianti per la parte sudorientale. C’è anche, poco notato, un crescente problema di rapporti con certo mondo musulmano, problema etnico interno piuttosto sensibile, che però ha riflesso sui codici di fratellanza islamica che è un mondo altrettanto complesso.

Modi allora, mercoledì sera, si presenta con due nuovi criteri limite per accettare le domande di ammissione dei nuovi candidati: a) non esser sotto sanzioni; b) avere un Pil PPP di un certo livello. Entrambi, vanno in direzione di dar ai BRICS il senso di unione di cooperazione economia e meno geopolitica. Non vuole trovarsi annegato in una pletora di paesotti senza senso imbarcati da cinesi e russi solo per far “massa”, non vuole trovarsi in imbarazzo nel suo gioco su più tavoli con gli occidentali. È probabile che avesse anche dalla sua parte il Brasile altrettanto sensibile a non urtare troppo gli occidentali. Il Sud Africa ha giocato il ruolo di mediatore, padrone di casa interessato al successo del vertice, a sua volta orientato a rappresentare gli interessi continentali. Modi, sapendolo, ha stabilito in un incontro bilaterale che si farà promotore dell’annessione dell’Unione Africana al G20 e forse poi, nel più generale riassetto del Consiglio di Sicurezza, anche lì. Si può immaginare come la seconda richiesta possa esser stata valutata forse contrattabile dai cinesi (i russi, in questo momento, non hanno un grande peso o, meglio, lo hanno comunque e per varie ragioni, ma non sono proprio nel miglior loro momento di far geopolitica), la prima no. A parte escludere a priori le candidature di Iran e Venezuela, avrebbe creato anche un imbarazzo palese con la Russia stessa e forse domani con la Cina stessa. Non solo, avrebbe dato agli americani l’arma perfetta per mettere sotto sanzioni chiunque a loro piacimento pur di interdire le politiche interne lo stesso BRICS. Era evidente Modi avesse presentato il punto per ottenere qualcos’altro, il punto non era realistico ma contrattualistico.

Com’è finita la battaglia nelle segrete stanze? Si è deciso di non decidere i principi ma procedere pragmaticamente. Così s’è deliberata l’ammissione dell’Arabia Saudita spinta dall'India e non solo (che per altro sta giocando una sua propria partita con Iran da una parte, Israele dall’altra e gli Stati Uniti a chiudere il quadrato, anche AS come l’India va sul multi-allineamento), l’Egitto (Russia) e gli Emirati Arabi Uniti (sponsorizzati dalla propria ricchezza e basta). Seguono Argentina (sponsorizzata da Lula) e l’Iran (Cina) che alla fine Modi ha dovuto ingoiare anche perché s’era messo in imbarazzo da solo visto anche i più che ottimi rapporti bilaterali diretti. Infine, l’Etiopia (Sud Africa) leader storico del senso africano. Pare che l’Indonesia si sia chiamata fuori per il momento, ci sarà da capire meglio perché e per quanto. Quindi i BRICS passano da cinque a undici, da 01.01.24, da verificare con quali prerogative tra fondatori ed associati. Solo dichiarazioni congiunte in favore dell’ulteriore esplorazione di una valuta comune da concordare e definire tecnicamente a seguire mentre si riafferma l’impegno a nuove cooptazioni.  Modi ha poi dovuto dichiarare di essere strafavorevole all'allargamento ("I believe Brics and friendly countries present here can work together to strengthen a multipolar world."), ma forse sovraeccitato dalla conquista lunare, non ha calcolato che le sue uscite all'undicesima ora ieri notte, si sono sapute. Difficile rendersi credibili nella difesa di interessi terzi, quando ha dimostrato che più che altro si stava facendo i fatti propri.

Segnale finale? Da una parte la volontà strategica c’è ed è confermata, dall’altra quando si passa dalla volontà ai fatti, emerge tutta la delicata complessità di questo progetto e siamo solo alle ammissioni, poi sarà la volta delle decisioni e degli impegni fattivi. In sostanza, BRICS si avvia a diventare qualcosa che ha la forza ed in parte la debolezza dell’Unione europea, forza economica ed in parte finanziaria, geopolitica un po’ maggiore, ma da verificare caso per caso e tavolo per tavolo. Dall’altra G7 con ancora alta forza finanziaria e geopolitica, in declino quella economica e demografica. USA/G7 potrà aggredire paese per paese la unione BRICS offrendo qualcosa in cambio di qualcos’altro. Paese per paese ci si barcamenerà tra interessi a breve ed a medio-lungo. Di fatto, come nel caso del presentarsi nel mercato di un concorrente che limita i privilegi del precedente monopolista, l’intero processo spingerà USA/G7 a doversi preoccupare della propria postura ed immagine (concreta non pubblicitaria), che però sconta decenni e secoli di protervia difficilmente cancellabili. Biden ha già annunciato importanti revisioni nella composizione dei diritti, voti e rappresentanze in World Bank e International Monetary Fund, mentre affila le armi per nuovi “divide et impera”. Certo, da oggi è chiaro che "tutto il mondo ti osserva" e se predichi bene e razzoli male, gli spettatori diventeranno attori e non a tuo favore.

Partita lunga e complessa che però arriverà inevitabilmente ad una nuova configurazione di ordine mondiale, anzi che è già arrivata anche se molti faticano a comprenderlo, tra ironie sui “sogni di gloria alternativi” e gli eccessivi entusiasmi che non tengono contro delle tante complessità e contraddizioni di processo. Il mondo cambia, le nostre mentalità arrancano.

Pierluigi Fagan

 
Nuove generazioni private di un enorme patrimonio culturale PDF Stampa E-mail

25 Agosto 2023

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 Da Comedonchisciotte del 23-8-2023 (N.d.d.)

Tra meno di un mese prenderà avvio un nuovo anno scolastico. Ma la situazione che insegnanti, studenti e famiglie si ritroveranno a vivere sarà molto diversa da quella degli anni precedenti. Nel silenzio pressoché totale di istituzioni, sindacati e organi di informazione sta infatti per entrare in vigore l’ennesima riforma della Scuola italiana, con un impatto superiore persino alla “Buona Scuola” di Renzi. Pianificata dal governo Draghi su mandato europeo e implementata in perfetta continuità dal Governo Meloni, fa parte a tutti gli effetti del PNRR, il piano straordinario di investimento dell’UE finalizzato a ridare fiato agli Stati membri provati dalla Pandemia. In realtà, il PNRR è un colossale piano di indebitamento delle nazioni europee, obbligate a trasformare le loro istituzioni, economie e società in direzione delle politiche sanitarie, alimentari, energetiche, digitali e, non ultime, anche belliche, decise dalle lobby d’Oltreoceano che detengono i brevetti delle relative tecnologie. Mai come in questo frangente storico è risultato più palese l’asservimento delle élite nazionali ed europee agli interessi geopolitici statunitensi e all’avidità delle corporation che ormai ne detengono il controllo. Prima la Pandemia, ora la guerra contro la Russia, testimoniano senza mezzi termini l’assenza completa d’iniziativa e d’indipendenza dell’UE dagli interessi americani; ne svelano la funzione di “caporalato” nei confronti dei singoli Stati membri ridotti ormai a semplici colonie. Ed è in questo contesto “neo-coloniale” che vanno lette le pesanti trasformazioni cui dà seguito il PNRR.[…]

Intelligenza Artificiale, Realtà aumentata, stampanti 3D, ecc. È il cespite più consistente dell’iniziativa: circa i ¾ degli investimenti previsti. Entro Natale 2022 tutte le scuole sono state “caldamente invitate” dal Ministero a fare incetta di strumentazioni high tech per il massimo degli stanziamenti virtuali disponibili (cioè, a contribuire sconsideratamente al Debito pubblico), indipendentemente dalle dotazioni pregresse, dalla reale capacità di fruizione delle nuove, dalla loro utilità per il tipo di scuola, ecc. Il resto dei finanziamenti servirà per “smontare” le aule tradizionali e riqualificarne l’apertura al mondo attraverso banchi a rotelle, aule-laboratorio, ambienti virtuali, ecc. Questa trasformazione della scuola è funzionale ad una vera e propria rivoluzione pedagogica sul piano dell’apprendimento, che non dovrà essere più “frontale” e meramente “cognitivo” (come se lo fosse mai stato!) ma multilaterale ed esperienziale. È il concetto di apprendimento “ibrido”. Saranno incentivate le situazioni d’apprendimento collaborativo e la didattica “concreta” (simulata però da AI e spazi virtuali!) finalizzata alla creazione di prodotti informatici, servizi digitali e start-up innovative.  […]

Si tratta insomma di una macroscopica riconversione della Scuola italiana alle finalità di un mercato del lavoro ormai globalizzato e virtualizzato, bisognoso di operai con una nuova alfabetizzazione, questa volta digitale, funzionale ai bisogni neocolonialisti dei colossi BigTech che ci dominano. Sarà dunque il lavoro – e non più la formazione dell’individuo – la nuova finalità dell’istruzione. Da passaggio fondamentale per la scoperta di sé attraverso la trasmissione sociale del sapere la Scuola sarà svilita a componente della riforma del lavoro, sollevando le aziende dall’onere di selezionare e formare il proprio personale. La riforma introduce infatti due nuove figure di insegnanti (la seconda grande novità): il docente Orientatore e il docente Tutor. Con compiti, l’uno, di aiutare lo studente nella scelta precoce della futura professione e, l’altro, di consigliarlo nei percorsi di apprendimento liberi ad essa più adeguati. Nel nuovo scenario scolastico, infatti, non tutti studieranno tutte le materie previste dal curricolo o non tutti nello stesso modo o negli stessi tempi, ma ciascuno in base alle sue presunte esigenze e preferenze, così da “avvantaggiarsi” sul percorso professionale prescelto. Una scuola à la carte, insomma, nella quale studiare solo ciò che aggrada o è stato inculcato come preferibile, più “utile” al nostro futuro. Questi due insegnanti dovranno infatti operare negli anni una vera e propria profilazione lavorativa dello studente.

La strategia propagandistica fa leva sulle idee di “personalizzazione” dell’apprendimento contro l’omologazione attuale, di “libertà” di scelta del singolo contro la coercizione dell’istituzione, di “collaborazione” Stato-famiglie per garantire ai giovani un futuro lavorativo, ecc… Ripropone cioè tutte le caratteristiche della scuola pre-repubblicana, funzionale ad una società gerarchizzata e competitiva che intende la libertà nella sua accezione più elementare di “scelta” pragmatica (non importa quanto condizionata). Si misconoscono completamente le ragioni storiche dell’attuale assetto costituzionale della Scuola, che proprio quel tipo di società intendeva superare. Cioè, la possibilità offerta dallo Stato ad ogni cittadino di godere degli stessi percorsi d’istruzione indipendentemente dai condizionamenti della situazione familiare, economica o sociale di partenza; di educare cittadini consapevoli e attivi, che esercitino diritti e doveri come contributo alla res publica, e non egotisticamente; di formare persone libere, cioè in grado di perseguire fini che nascono dal più autentico Sé e non da invisibili condizionamenti ideologici o economici.

Nel tempo queste due nuove figure esproprieranno il Consiglio di Classe della prerogativa di condurre in modo concertato il progetto formativo relativo al singolo studente e di valutarne progressi o ritardi, secondo l’attuale prassi pedagogica che mira alla globalità della persona. Sarà di fatto conferito loro il potere di limitare la libertà d’insegnamento altrui per implementare una pluralità di percorsi differenziati nelle stesse classi, un patchwork ritagliato sulle esigenze delle aziende e di famiglie blandite nell’illusione di potersi finalmente sostituire a quei docenti ritenuti incapaci di comprendere le potenzialità dei loro figli, i loro nascosti “meriti”.

La difesa del merito – di studenti e insegnanti – è in effetti il terzo pilastro della riforma, come del resto programmaticamente annunciato dal Governo Meloni fin dal nuovo nome del Ministero dell’Istruzione, divenuto pure “del Merito”. Chi potrà dirsene contrario senza autodenunciarsi come immeritevole? Si tratta in realtà di un tentativo, già compiuto da altri governi, di introdurre criteri di valutazione del lavoro completamente spurii rispetto ai doveri contrattuali e costituzionali del docente italiano, per il cui rispetto tra l’altro esistono già adeguate procedure disciplinari. Con la nozione di “merito” si vorrebbe misurare l’efficacia prestazionale del docente, la sua “bravura”, per intenderci. Si finge qui di non sapere che ad ogni ruolo della pubblica amministrazione si accede per concorso; vale a dire dopo aver superato una selezione per titoli e prove che stabilisce una volta e per sempre l’idoneità e la legittimità – dunque il merito – di ricoprire quel ruolo. Come parametro di natura eminentemente soggettivo la “bravura” non può costituire un requisito per insegnare, più di quanto non accada per le altre professioni del settore pubblico. E ciò per un banale principio di neutralità delle selezioni pubbliche teso ad evitare parzialità e corruzione. L’insegnante meritevole è semplicemente quello che si attiene al suo dovere, che è anzitutto di trasmettere in scienza e coscienza il suo sapere. Così come lo studente meritevole ha il dovere di apprendere, per sé prima che per comando. Non c’è altro né può esserci, se vogliamo che l’istruzione resti libera. Del resto, nessun altro criterio di giudizio può essere più significativo per un insegnante dell’apprezzamento ricevuto da studenti, famiglie e colleghi; che tuttavia resta e deve restare di natura esclusivamente morale, se non vuol trasformarsi in un indebito strumento di lusinga o di pressione. Come invece farebbe certamente comodo ad una classe politica tra le più demeritevoli al mondo. È fin troppo chiaro infatti quale sia la vera finalità di questo sbandierato progetto di valorizzazione del merito. Anzitutto, acquisire un’arma di ricatto contro la libertà professionale degli insegnanti costituzionalmente garantita (art. 33). Ogni nuovo regime cerca infatti di consolidarsi sottomettendo ai propri fini l’Istruzione e chi la esercita, così da conseguire una (pseudo) legittimazione sociale prima ancora che politica.

Cancellando il principio della fedeltà alla propria coscienza che è tipico delle “professioni togate”, si vuole insomma trasformare gli insegnanti in semplici impiegati della pubblica amministrazione, per renderli più organici al potere. Non a caso analoghe ipotesi di riforma sono in fieri anche per i medici e i magistrati. L’introduzione del criterio del “merito” è funzionale proprio a questa cancellazione, attraverso la dipendenza che si verrà a creare tra gli insegnanti e i dirigenti che dovranno valutarne la bravura. Sottoposti già da alcuni anni ad un analogo sistema di valutazione da parte del Ministero che li spinge a confondere spesso i propri doveri nei confronti dello Stato con l’obbedienza al Governo, i dirigenti scolastici fungono infatti sempre più da “catena di trasmissione” nei confronti della “truppa” dei docenti. Alla condizione di assoggettamento etico e professionale degli insegnanti si arriverà probabilmente correlando al merito lo stipendio, il punteggio interno alla scuola e quello esterno per i trasferimenti. […]

Il quarto “pilastro” della riforma prevede lo stravolgimento delle finalità educative della Scuola italiana, reindirizzate e rimodulate a favore della transizione digitale pilotata in Occidente dalle BigTech statunitensi. Le finalità umanistiche e “liberali” dei tradizionali curricoli scolastici lasceranno il posto a quelle utilitaristiche della formazione tecnologica, funzionale alla creazione di un vasto proletariato di nuova concezione. Con il pretesto (certamente allettante per le famiglie plagiate dai valori consumistici) di fornire ai giovani un’istruzione “al passo coi tempi”, si priveranno le nuove generazioni di un enorme capitale culturale forse unico al mondo, selezionato nei secoli per farne uomini e donne liberi. Blanditi nell’idea di veder trasformati i propri limiti cognitivi e caratteriali in meriti non ancora scoperti e valorizzati, gli studenti saranno inseriti in percorsi ad hoc interni alle singole scuole (che così perderanno le loro specificità) con l’illusione di formarsi a lungo termine per un mondo del lavoro che invece cambia ogni sei mesi. […] Naturalmente si chiederà anche agli insegnanti di adeguarsi ai tempi, adattando le loro conoscenze didattiche agli strumenti e alle finalità delle nuove onnipresenti tecnologie informatiche, secondo i voleri insindacabili dell’UE (vedi Quadro di riferimento europeo per le competenze digitali dei docenti, il “DigCompEdu”). Inseriti in un sistema europeo di riconoscimento delle competenze digitali, saranno valutati (e domani stipendiati) secondo una precisa scala di bravura didattica con tanto di titolo distintivo: A1) Novizio; A2) Esploratore; B1) Sperimentatore; B2) Esperto; C1) Leader; C2) Pioniere. In altre parole, non saranno più riconosciuti come professionisti tutti ugualmente “sapienti” nelle loro rispettive materie, ma incardinati in una gerarchia di valore (e di diritti) di natura prettamente tecnica, che confonde i fini del loro lavoro con gli strumenti utilizzati per conseguirli.

Concludiamo con un paradosso. Il grottesco di questa riforma della Scuola – nella quale insegnanti studenti e famiglie convergeranno macchinalmente verso un mondo senza libertà, che non sia quella concessa loro – non può soffocare una sarcastica considerazione: valeva la pena percorrere tutto il cerchio dell’ideale democratico per tornare al “MinCulPop”, ai Balilla e ai Lupetti da cui proveniamo? – E allora vogliamo pure i Colonnelli!

Marco Bonsanto

 

 
Conta solo la soggettività PDF Stampa E-mail

24 Agosto 2023

 Da Comedonchisciotte del 30-7-2023 (N.d.d.)

In origine era la famiglia numerosa. Poi venne la famiglia simmetrica e quadrangolare, padre madre figlio e figlia. Quindi la famiglia con figlio unico. Si passò poi alla coppia senza figli, anche dello stesso sesso. Poi fu varata la famiglia mononucleare, composta da un solo membro, il single. Adesso siamo arrivati alla sologamia. Di che si tratta? Il single si ama a tal punto che decide di convolare a nozze con se stesso e sposarsi con un rito ad hoc. Matrimonio narcisistico, potremmo dire, celebrato allo specchio, in un selfie. Garanzia di indissolubilità.

Un’installazione di Elena Ketra al Gazometro di Roma ha figurato una donna che sposa se stessa, con tanto di marcia nuziale. A Kyoto esiste il self-wedding per singoli che amano se stessi al punto da prendersi in sposo/a; conta “lo stare bene con se stessi”, imperativo assoluto della nostra epoca. L’artista la motiva a contrario come una forma di “inclusione sociale” giacché “amarsi è necessario per poter amare in modo libero ogni altro essere umano”. Quel matrimonio onanistico, autoreferenziale, in cui si è sposo, sposa e figlio della propria unione, è una esibizione simbolica; portata all’estremo, rappresenta la tendenza e lo spirito della nostra epoca.

A conferma di questa tendenza ad amare se stessi sopra ogni cosa, e considerare lo “star bene con se stessi” come l’unico vero fine e requisito per l’esistenza, si possono citare altri due fatti concomitanti. Uno è il congelamento degli ovuli, o dei semi, che nasce da una motivazione originaria comprensibile: se sono single e temo che con gli anni perderò la fecondità, cerco di mettere in salvo la mia possibilità di riprodurre, per consentire – in caso di unione fuori tempo massimo per il mio corpo – di avere ugualmente figli. Ma l’ideologia sottostante al congelamento non è l’impulso alla maternità e tantomeno il desiderio di fare famiglia e coronare l’unione con un consorte; ma la possibilità di autoriprodursi, di lasciare in banca, congelato, la propria virtuale riproduttività, come si congelano anche corpi malati e senili che sperano di poter “risorgere” alla vita quando si troveranno le cure giuste per superare quella malattia ora mortale. Sentitele le single che depositano ovuli nella banca del futuro: è un modo per perpetuarsi, per lasciare lo stampino di se stessi, garantirsi se non l’immortalità, una possibilità di replicarsi ed eludere la mortalità. Ancora una volta la religione, la filosofia di vita che traspare in queste scelte è lo sconfinato amore per se stessi, e l’inclinazione a pensare il partner non come colui col quale si desidera dividere la vita, giurarsi e praticare amore reciproco, e coronare la propria unione con uno o più figli; ma come l’inseminatore occasionale, il fuco rispetto all’ape regina, ossia il semplice donatore di seme che serve per ingravidare e consentire alla donna autarchica di riprodursi. Non un figlio, dunque, quanto una replica di se stesse, un modo per rigenerare il proprio io e i propri geni.

Per coronare questa visione autarchica e autoreferenziale della vita, consideriamo infine un altro aspetto, recentemente ribadito da una sentenza della magistratura. È possibile mutare la propria sessualità e tutto quello che ci identifica, comprese le generalità, semplicemente con un’autocertificazione o un’autopercezione. Lo ha stabilito una sentenza recente del tribunale di Trapani: si può cambiare sesso senza operazione chirurgica o mutazione ormonale, ma per un “puro” desiderio di farlo. Per cambiar sesso non c’è bisogno nemmeno di sottoporsi a un’operazione in modo da mettere anche la legge con le spalle al muro davanti a un’evidente mutazione genetica; basta sentirsi di un altro sesso per modificare i propri dati anagrafici e la propria identità sessuale. Se la legge non parte dalla realtà oggettiva e da quel che noi siamo secondo evidenza e natura, ma deve sottomettersi a ciò che noi vogliamo essere, allora non solo la percezione del sesso dovrebbe costituire motivo sufficiente per la mutazione dei dati. Ma anche la percezione anagrafica: se io mi sento trent’anni di meno, vivo, vesto, penso e sono come un ragazzo, o se mi sento più africano o asiatico che italiano, perché non riconoscere la variazione d’età o di etnia rispetto a quel che dice la mia anagrafe? Un tema che avevamo già posto provocatoriamente in un controcanto paradossale di un anno fa. E che potrebbe estendersi oltremisura: se mi sento cinghiale, potrà bastare la mia percezione e la mia volontà di ungulato per decretare il mio cambiamento anagrafico e statutario? O l’umanità non può essere revocata, per la semplice ragione che non sarebbe mai possibile l’inverso, ovvero la domanda di un cinghiale di essere riconosciuto umano? Per avanzare una tale richiesta e manifestare la tua volontà devi essere almeno umano, non appartenere al regno animale, vegetale o minerale.

Naturalmente sono paradossi, resta però il principio di fondo: non conta più la realtà e la sua evidenza, la natura e la fisiologia, anzi non conta più l’oggettività; conta il soggetto, il suo sentire e volere soggettivo. Qui torniamo al punto di partenza: Io sono quel che voglio essere, se decido posso perfino sposarmi con me stesso, e riprodurmi in modo autarchico, usando il seme altrui come concime anonimo, impersonale. Io amo io, e basta. Resta solo una domandina per voi: siete contenti di questa conquista, alzate le spalle dicendo che i tempi mutano, o vi rifiutate di accettare la fine ingloriosa dell’umanità, della natura, del buon senso e della civiltà?

Marcello Veneziani

 
Una propaganda senza precedenti nella storia PDF Stampa E-mail

21 Agosto 2023

 Da Comedonchisciotte del 18-8-2023 (N.d.d.)

Ieri dalle mie parti, senza che fosse neppure annunciato da un’allerta di un qualche colore, neppure verdolina, della protezione incivile, è venuto quello che solo pochi anni fa si sarebbe chiamato un classico temporale di ferragosto. Ma oggi i temporali non esistono più e, per una persona con una matura coscienza ambientalistica, è più conveniente parlare di bomba d’acqua (neolingua burina) o evento meteorologico estremo conseguente al riscaldamento del pianeta di origine antropica ed al dissesto idrogeologico dovuto all’incuria verso il territorio (neolingua elegante). Ma sempre di temporale alla fine si tratta, solo che ora, anche se non fa danni o perlomeno non molti, suscita paura ed è esattamente questo il risultato voluto dai nostri cari leader.

La paura come metodo di governo è antica quanto l’uomo, soprattutto quella diretta che induce all’obbedienza per evitare un pugno sul naso, modalità che abbiamo sperimentato un po’ tutti nei cortili da ragazzi, ma nella nostra epoca di spin doctor e di raffinatezze psicologiche perlopiù ideate al nobile scopo di spingerci a comprare un dentifricio piuttosto che un altro (sempiterne leggi del mercato), si usa soprattutto un altro tipo di paura, seppure strettamente connesso. La trovata consiste nel produrre artificialmente un pericolo per poi proporsi come salvatori dal pericolo prodotto. Oppure ingrandire fino al grottesco un piccolo pericolo realmente esistente per poi combatterlo con mezzi faraonici del tutto fuori scala rispetto alla minaccia: si potrebbe dire uccidere le mosche col cannone. Nell’ultima ventina d’anni, questo tipo di paura indotta è stata usata con larghezza a fini politici in tutti i paesi occidentali che, con la globalizzazione imperante, sempre meno si distinguono l’uno dall’altro e sempre più assomigliano e devono assomigliare al paese egemone: i meravigliosi Stati Uniti d’America, terra promessa dell’umanità. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l’occidente si è trovato in una situazione di grave mancanza di nemici credibili che giustificassero l’esistenza del più grande esercito della galassia con tutte le sue istituzioni annesse, la Nato per dirne una, perciò si decise che occorreva creare dei nemici molto cattivi e nuovi fiammanti. Si individuarono alcuni paesi poveri e arretrati che potevano  servire alla bisogna, ma siccome erano deboli, lontani e sostanzialmente privi di mezzi offensivi, incontravano serie difficoltà a suscitare paura al cittadino americano medio che non era manco in grado di trovarli sulla carta geografica: occorreva una spintarella in più. Venne decisa allora la realizzazione di un terrorismo islamico che avrebbe agito su larga scala a livello mondiale, a tale scopo venne creata quasi dal nulla una organizzazione terroristica internazionale con filiali in tutto il mondo come una grande banca d’affari, che si volle chiamare Al Qaeda (qualcuno aveva proposto il nome di Spectre, in effetti era bello, ma ci si accorse che era già stato sfruttato nei film di James Bond degli anni ‘60), che fu dotata di un capo con il fisic du rôle di nome Osama bin Laden, anche se in seguito il nome risultò troppo simile al cognome di un presidente dei giusti e dei coraggiosi, ma ormai era stato scelto. L’organizzazione dotata di moderni mezzi tecnologici e di cospicui finanziamenti, cominciò a fare qualche lavoretto, qualche assalto di ambasciata, qualche bomba qua e là, lasciando bigliettini di rivendicazione come in certi romanzi gialli, ma la paura che riusciva a suscitare non era molta: diciamoci la verità, non si riusciva a liberarsi dalla sensazione un po’ razzista che fossimo di fronte a quattro beduini impazziti con al seguito un certo numero di straccioni reclutati in giro per il mondo. Ma le agenzie americane avevano in mente qualcosa di davvero grandioso (sapete che qua in Texas le cose piccole non ci piacciono), in grado di far saltare sulla sedia quel pecorone dell’americano medio e convincerlo di doversi mobilitare contro la minaccia all’american way of life affidandosi anima e corpo ai suoi capi liberamente eletti e rinunciando, se necessario, agli esagerati diritti costituzionali di cui inopinatamente godeva. Lo spettacolo che ne risultò fu realmente grandioso e trasmesso in diretta televisiva in tutto il mondo: c’è poco da fare, su certe cose a Hollywood sono insuperabili. Mentre i grattacieli di New York crollavano, diventammo tutti americani e fu chiaro che era indispensabile dichiarare guerra eterna al terrorismo islamico, ma siccome non si sapeva bene dove fosse la sua sede sociale, furono scelti quasi a caso un paio di polverosi stati mediorientali che non fossero in grado di difendersi e dove si potesse organizzare qualche bella strage di popolazione ignara: che si accorgessero tutti cosa significava attaccare l’America! La rappresentazione “guerra al terrore” ha avuto grande successo di pubblico e di critica ed è andata avanti per molti anni: in Afghanistan ci sono stati quasi vent’anni di repliche con grandi carneficine. Poi furono fatti diversi richiami con qualche bombetta qua e là, qualche accoltellatore o investitore islamico e addirittura un tardo sequel con assassinio del leader nemico probabilmente già morto da tempo, ma alla fine, visto che un secondo undici settembre per quanto evocato non arrivava mai, la paura e l’attenzione del pubblico pagante cominciarono inevitabilmente a scemare: del resto bastava farsi due conti, c’erano più probabilità di essere colpiti da una meteorite che di cadere vittima di un attentato islamico: cosa minchia c’era da aver paura? I media cessarono di prestargli attenzione e, poiché si trattava di un fenomeno sostanzialmente mediatico, il terrorismo islamico cessò immantinente.

Ma il pubblico smemorato non ci fece troppo caso e poi gli spin doctor erano già al lavoro per una seconda puntata. Questa volta il terrore era economico: stavamo andando tutti a ramengo a colpi di spread e punti base, l’economia stava crollando per via del fatto che vivevamo tutti “al di sopra delle nostre possibilità”. Da molti anni, per giunta. Noi, il popolo, eravamo colpevoli di dissipare la ricchezza nazionale in vacanze, crapule e baldorie! Questa la diagnosi degli economisti dopo decenni in cui avevano fatto di tutto per indurci a comprare il più inutile ciarpame. Adesso si scopriva che non eravamo abbastanza “produttivi” nei confronti dei cinesi (e vorrei anche vedere), per reggere i nostri consumi. La trovata di aggiungere la colpa alla paura è di per sé geniale, anche se non nuova: la chiesa la utilizza con successo da migliaia di anni. Ma le cifre che scorrevano ogni giorno nei telegiornali parlavano chiaro: era necessario che ci dessimo una bella regolata e tornassimo a vivere come si conviene alle classi subalterne. Così come in occasione del terrorismo godevamo di troppa libertà e potevamo dire “governo puzzone” senza finire in galera e addirittura portare liberamente pericolosissime bottigliette d’acqua negli aerei, ora vivevamo troppo bene, andavamo in ferie all’estero e prendevamo aperitivi arancioni con le patatine fritte nelle happy hours scimmiottando i padroni.

Anche questa campagna di paura ebbe i suoi successi e i suoi alti e bassi, ma il vero capolavoro, di quelli che fanno fare un bel salto di qualità, arrivò dopo con l’invenzione della Grande Pandemia che ebbe un successo straordinario, anche perché stavolta si faceva leva sulla paura più paurosa di tutte le paure: quella della morte imminente. Per la verità l’operazione era già stata tentata diverse volte senza successo: erano state selezionate alcune malattie contagiose che adeguatamente pompate dai media avrebbero potuto funzionare, erano state preparate e acquistate milioni di dosi di rimedi rigorosamente scientifici che sarebbero poi state distribuite al pubblico terrorizzato per impersonare il ruolo di salvatori, ma sempre, per una ragione o per l’altra, qualcosa era andato storto. O non si era riusciti a trovare un numero sufficiente di morti o qualche funzionario onesto (ce n’è qualcuno) aveva fatto il proprio dovere o la campagna di propaganda non aveva trovato le espressioni giuste o il sistema sanitario funzionava ancora troppo bene. Poi grazie al consolidamento delle élite particolarmente fanatiche che avevano preso il potere negli Stati Uniti e ad una congiuntura internazionale favorevole, finalmente, nella primavera del 2020 tutto girò come doveva: si riuscì a trovare la malattia giusta, una sindrome parainfluenzale un poco più grave del solito, forse naturale, forse ingegnerizzata, che riuscì a rappresentare credibilmente la parte della Grande Peste Nera grazie anche ad una campagna di propaganda mediatica ben calibrata e senza precedenti nella storia umana. Finalmente il terrore prese piede tra le popolazioni di tutto l’occidente e gli stati e le organizzazioni internazionali (tutte nella pratica comandate dalle élite americane), poterono impersonare la loro parte di difensori e salvatori dell’umanità. Bill gongolava. “La situazione è gravissima”, gridava la televisione facendo la quotidiana conta dei morti, ma il governo e la Pfizer ci salveranno: chi crede in loro non morirà mai. In loro e nella scienza, naturalmente. I talk show (dibattiti spettacolo, il nome la dice lunga, furono presto colonizzati da torme di urlanti cialtroni che si definivano esperti e con cipiglio severo dettavano regole grottesche. Qualunque dubbio, qualunque dissenso, anche sui dettagli, era un vero e proprio atto criminale, era una apostasia, una eresia, tanto per rimanere in ambito scientifico. A chiunque non possedesse i necessari titoli accademici era impedito di parlare a viva forza, tranne che assentisse ad ogni punto del credo ufficiale e a chi quei titoli li possedeva… beh, anche lui poteva parlare solo a patto che fosse completamente d’accordo. Il dissenso era patologico o criminale, tertium non datur. D’altronde, parlava la scienza. Inutile far presente che tutto questo zelo non ha nulla a che vedere con la scienza: la scienza non ha certezze assolute e, se si dovesse davvero seguirla, prima di mettere in uso un qualsiasi medicinale o un qualsiasi dispositivo medico occorrerebbe provare con test inoppugnabili che quel medicinale o quel dispositivo nelle date condizioni d’uso è efficace e non è dannoso, che qualunque provvedimento preso per contrastare un male ha più effetti positivi che negativi e i controlli dovrebbero essere effettuati da terzi, ovviamente non da chi produce e vende i medicinali o i dispositivi. Nel caso di specie nulla di tutto ciò è mai stato fatto, circostanza provabile al di là di ogni ragionevole dubbio anche perché non c’è stato proprio il tempo materiale per farlo. Naturalmente, ciò a cui si faceva appello, in realtà non era la scienza, ma il buon vecchio pensiero magico religioso e il principio di autorità: è vero perché l’ha detto Lui. D’altra parte se il Prete, il Vescovo, il Signore dicono che Cristo aveva natura umana e divina assieme e non soltanto una delle due da sola, chi sono io, contadino ignorante, che non so neanche leggere, per dubitarne? Analogamente, se il professore, il giornalista della televisione (sempre tanto elegante), il cantante alla moda (sempre tanto ribelle), il campione sportivo, il presidente del consiglio dicono che se non ti vaccini muori e fai morire il nonno, chi sono io per dubitarne? Da notare il raffinato uso del senso di colpa: se esci di casa per andare a lavorare, puoi essere perdonato sempre che ti vaccini e ti mascheri come da pio rituale, ma se esci di casa per fare una inutile passeggiata o, peggio ancora, per andare a divertirti (a divertirti!), allora mai e poi mai potrai essere perdonato!

C’è un tempo per la pandemia e un tempo per il terrorismo, un tempo per il disavanzo statale e un tempo per il cambiamento climatico: ed eccoci giunti alla quarta emergenza in sequenza in cui dobbiamo sentirci allo stesso tempo vittime terrorizzate e colpevoli autori. Ma anche in questo caso, per sopravvivere, non dobbiamo far altro che stringerci attorno alle istituzioni che, nonostante che non ce lo meritiamo, ci salveranno benigne. Nella pièce “cambiamento climatico”, si parte da problemi reali per piegarli alle esigenze del potere ed ingigantirli oltre misura al fine di creare la sensazione di pericolo immediato: i mari si stanno alzando, attento, stai per affogare! Non lo vedi che piove anche dal soffitto, è certo il cambiamento climatico! No? È la lavatrice della signora di sopra? Fa nulla, sarà per colpa di Putin che ha fatto rubare il chip dalle lavatrici per gli aerei da guerra. Ovviamente l’esistenza stessa dell’umanità lascia inevitabilmente tracce sul pianeta: d’altra parte anche l’avvento delle modeste alghe verdi lo ha cambiato di molto e qualsiasi specie per definizione ha un’impronta ecologica. Ciò nonostante le nuove generazioni vengono allevate sotto il costante rimprovero di essere un peso per la terra e un parassita che la sta distruggendo: il messaggio neanche tanto nascosto, è che l’umanità, lungi da essere il compimento più perfetto della natura, come predicava la vecchia religione, sarebbe meglio che non esistesse, ma se proprio deve esistere, deve farlo in piccolo numero e facendosi vedere in giro il meno possibile. Freud direbbe che è il trionfo della pulsione di morte, ma il fatto è che l’élite proprio non lo sopporta questo brulichio di straccioni che oramai sono dappertutto e non gli permettono di godersi il mondo in pace! […] Il meccanismo non cambia mai: dopo aver creato la percezione del pericolo attraverso un’immensa campagna di propaganda che arriva persino a creare una neolingua, si offrono generosamente di difenderci, ma per farlo è ovviamente necessaria la stretta obbedienza popolare ed una grande disponibilità a fare sacrifici perché la salvezza, si sa, passa attraverso la sofferenza. Tempi magnifici per i sadomaso che, oltre a sacrificarsi, possono costringere anche gli altri a farlo, passando pure per benefattori dell’umanità. O, ancora più meritevole, benefattori del pianeta.

Stringiamoci pertanto attorno ai nostri cari leader, al Grande Fratello Joe che, se non gli passa di mente, impedirà al demone Putin di convertirci all’omofobia; alla Grande Sorella Ursula che generosamente continua a prestarci a strozzo i nostri stessi soldi per fare la spesa; allo Zio Bill che studia le nuove prove cui sottoporci per forgiare la nostra fede e resilienza, al Nostro Padre Francesco che già alle sue prime parole da Papa mostrò la profondità spirituale che avrebbe caratterizzato il suo pontificato: fratelli e sorelle buonasera! E, perché no, anche alla Sorellina Giorgia che aveva promesso che se fosse stata eletta avrebbe posto fine all’immigrazione clandestina, per poi scoprire che l’immigrazione clandestina è raddoppiata.

Nestor Halak

 
Lo sviluppo tecnologico non salva l'ambiente PDF Stampa E-mail

19 Agosto 2023

 Da Rassegna di Arianna del 14-8-2023 (N.d.d.)

Viviamo un’epoca di continue “emergenze” descritte con parole apocalittiche che hanno l’effetto di impaurire e paralizzare il pensiero e l’azione personale della gente, deprimendola: la sindemia da Covid-19, la guerra in Ucraina con annunciato pericolo nucleare, il fenomeno delle migrazioni e il collasso climatico. Per il profondo malessere che sto provando di fronte all’incredibile escalation degenerativa del dibattito sulla crisi climatica ed ecologica, traccerò dunque una riflessione poiché è giusto chiamare le cose con il proprio nome, in un periodo storico dove la confusione regna sovrana.

Nell’attuale dibattito sul clima ci sono due posizioni che stanno generando l’ennesima polarizzazione del dibattito: quella del negazionismo climatico, che si presenta come volgare e che offende l’intelligenza di molti; e quella dell’emergenza climatica, che sempre più si sta consolidando come mediatica ricca di inesattezze, di narrazioni tossiche e di notizie fuorvianti, che se da un lato focalizzano il tema sull’ambiente, dall’altro mandano evidentemente messaggi eterodiretti affinché qualcuno, sulla crisi climatica, possa marciarci. La questione del cambiamento climatico oggi viene cavalcata come “emergenza” dai media. Il capitalismo da sempre chiama “emergenza” ciò che gli serve per giustificare politiche repressive. Anche in questo caso, spacciare la crisi ecologica come un fattore emergenziale serve per indurre alla paura, alla paranoia, ma soprattutto per fare subdolamente della “rassicurazione sociale”: è un’emergenza, prima o poi finisce… Quando in realtà non è vero. Un fattore strutturale rimane e poi può sfociare nei suoi punti di non ritorno, nelle sue contraddizioni. Perché oggi viene veicolata questa narrazione?

Il collasso climatico è alle porte e lo si vede da molti fattori (degradazione del territorio, inaridimento dei terreni fertili, monocolture intensive, allevamenti intensivi e sviluppo tecnologico con la sue abnorme impronta ecologica). Forse qualcuno non si ricorda, ma in questi ultimi vent’anni, sistematicamente nei Paesi occidentali, coloro che si occupavano e che sensibilizzavano sul tema dell’inquinamento, dell’importanza di cambiare modello di sviluppo, venivano definiti “pauperisti”, “contro il progresso”, e ridicolizzati come dei nostalgici del primitivismo. Ricordo benissimo quando le parole “ambientalista” ed “ecologista” sembravano insulti all’udito della gente. É solo dal 2015, con la Cop21 di Parigi, che qualcosa è iniziato a muoversi a livello di sensibilità collettiva fino ad arrivare al movimento dei Fridays for Future. Eppure la narrativa sull’ambiente è molto cambiata negli ultimi cinque anni, e ha preso sempre più un’impronta neoliberale, spacciando per “ambientalista” ciò che “ambientalista” non è.

Oggi vi è una reale operazione di greenwashing di massa, dove i grandi capitalisti stanno proponendo una narrazione tossica per la quale, con la scusa di salvare l’ambiente (che hanno deturpato e stuprato fino ad oggi), ci stanno dicendo che è con lo sviluppo tecnologico che si salva l’ambiente. Questo permette ai grandi capitalisti di rigenerare i loro brand, di aprire nuovi mercati e di rigenerare anche la loro immagine esemplarizzata di fronte al mondo. Ecco dunque che queste narrazioni tossiche servono a consolidare il “green capitalism”, come ha spiegato molto bene il presidente socialista della Bolivia Luis Arce; la “green economy” fatta con gli schiavi adulti e minorenni in Congo e con il modello estrattivista e distruttore dell’ambiente; il “net-zero washing”, ovvero quello che la biologa Silvia Ribeiro ha chiamato “colonialismo climatico”. Il capitalismo finanziario ha inventato, insieme ai colossi dell’energia fossile, il mercato mondiale per lo scambio dei permessi di inquinamento. […] Inoltre, oggi il green capitalism e la green economy vogliono far coincidere le espressioni “transizione ecologica” con “transizione digitale”, due cose che gli ecologisti di vecchia data sanno bene essere completamente distinte. Il fine è quello di aprire al soluzionismo tecnocratico sul clima e all’implementazione della tecnologia, fino a riproporre l’energia nucleare come una fonte “sostenibile” . Ma sappiamo che lo sviluppo indefinito, il mito del “progresso”, la mentalità riduzionista-dualista-estrattiva, il mantra della “crescita economica” e la distopica tecnofilia dei miliardari californiani (Gates, Bezos, Musk, ecc. ) compresa la colonizzazione dello spazio (definita da Musk come la più grande impresa commerciale dalla scoperta dell’America) sono la radice della crisi ecologica.

Alcuni dati: Sono necessarie 13 tonnellate d’acqua per produrre 1 smartphone. Sono necessarie 15 tonnellate d’acqua per la produzione di 1kg di carne di manzo. Silicon Valley ha un’impronta ecologica 6, ovvero se il mondo fosse come la Silicon Valley sarebbero necessari 6 Pianeti. Il 40% delle emissioni climalteranti è prodotto dall’agro-industria. La colonizzazione dello spazio si concretizzerà come modo per estrarre minerali, gas e litio dai pianeti colonizzati.

Silicon Valley e Big Food sono facce della stessa medaglia e la tecnofilia, come le soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica proposte dai capitalisti, sono la continuazione della crisi ecologica. Il cambiare tutto per non cambiare nulla, se non per peggiorare le cose. Vandana Shiva questa cosa la denuncia molto bene: contro gli OGM, contro l’ingegnerizzazione della Natura (editing genetico, ingegneria genetica, geoingegneria), contro la chimicizzazione della vita, la promozione di cibi ultratrattati coltivati in laboratorio (clean meat e plantbased meat).

Come militanti ed attivisti abbiamo il dovere politico e linguistico di dire che la TRANSIZIONE ECOLOGICA non ha nulla a che spartire con la TRANSIZIONE DIGITALE dell’Agenda ONU 2030 (vedasi riflessioni dell’ecogiornalista Nicoletta Dentico a riguardo). La transizione ecologica, come sostiene l’ecofilosofa Gloria Germani, avverrà quando cambieremo stile di vita, metteremo in discussione il modello di sviluppo, di produzione, la stessa società industriale e le basi conoscitive su cui si fonda tutta la scienza cartesiana-newtoniana occidentale e il suo antropocentrismo. Oggi più che mai è un dovere semiotico e politico partire da questa distinzione, per creare nuovi immaginari politici e liberarci dalla colonizzazione dell’immaginario operata sia dalla società industriale sia dai mass media.

Lorenzo Poli

 
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