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Riforma delle BCC PDF Stampa E-mail

7 Gennaio 2019

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Da Comedonchisciotte del 30-12-2018 (N.d.d.)

 

[…] TESI N.1 – Le riforme delle Banche di Credito Cooperativo (BCC) e delle Banche Popolari non rispondono a esigenze reali del mondo bancario italiano, ma realizzano una parte di un disegno politico più generale, fortemente voluto e messo in pratica in un lungo arco di tempo da parte di soggetti esterni sovraordinati alle stesse istituzioni politiche italiane. Se non si comprende il contesto non si può comprendere il perché delle riforme. TESI N.2 – Il disegno politico prevalente nel dopoguerra europeo ha riservato all’Italia la condizione di paese a sovranità limitata che, dopo la caduta del Muro, non serve più come cerniera tra est e ovest, ma diventa ricompensa, bottino per i paesi “core” dell’Europa. Bottino in cambio della loro adesione alle nuove istituzioni comunitarie, che devono progressivamente sostituirsi agli stati nazionali. Se l’Italia è il bottino, le banche italiane sono la cassaforte da violare. TESI N.3 – Con il governo Monti e i successivi due governi a guida PD, l’Italia inaugura una stagione in cui l’agenda neoliberista ha un’accelerazione, che vede in pochi anni la riforma delle pensioni, l’uccisione della domanda interna via austerity feroce, il Jobs Act e il tentativo di abolizione di una delle due camere. In questo quadro, il governo Renzi inserisce una riforma “definitiva” del sistema bancario italiano, già in buona parte in mano straniera per le banche private. È la doppia riforma BCC/Popolari. TESI N.4 – Come in tutti i casi di colonizzazione (fisica o di altra natura) di un sistema complesso, la conquista non sarebbe possibile senza la connivenza da parte di esponenti interni al sistema stesso. Nel caso delle due riforme bancarie, la classe dirigente del settore, salvo rare eccezioni, ha favorito in modo evidente l’impresa attraverso l’accettazione delle sue deboli giustificazioni, nella convinzione gattopardesca che, per loro, niente alla fine sarebbe cambiato. TESI N.5 – Le esigenze poste alla base delle due riforme – maggiore solidità patrimoniale ed apertura al mercato dei capitali – non sono giustificate da alcun riscontro empirico negli ultimi decenni, in particolare per le BCC, il cui sistema ha superato la crisi Lehman senza bisogno di aiuti di stato e che, anche nelle recenti vicende del 2015, ha immesso soldi nei salvataggi altrui, senza bisogno di chiederne per sé. TESI N.6 – Coloro che in buonafede – in primis i sindacati – accettano acriticamente l’imposizione centralista di una Capogruppo risentono di un pregiudizio autorazzista largamente diffuso nel mondo economico italiano, ovvero il “grandismo”. In questo frame, l’unica banca solida, efficiente, redditizia, è quella grande; per lo stesso motivo le PMI, fulcro e ragione di gran parte del boom economico italiano del dopoguerra, devono ingrandirsi o sparire. Eppure il grandismo è stato smentito sia in Italia che all’estero dalle esperienze delle recenti crisi bancarie, che non hanno mostrato alcuna correlazione tra maggiore dimensione e maggiore solidità delle banche. Ciò che invece è stato dimostrato ovunque è stata la correlazione tra maggiore dimensione e calo (crollo) dei prestiti alle imprese e in particolare alle piccole imprese. TESI N.7 – Quanto al maggiore accesso al mercato dei capitali, negli ultimi anni il fattore che più ha nuociuto alle banche in questo ambito è stato proprio il continuo intervento delle autorità di vigilanza, sia europee che – di conseguenza – nazionali. Il progressivo blocco di ogni forma di aiuto o intervento pubblico in caso di crisi (culminato nell’introduzione del Bail-in) ha minato profondamente la fiducia del pubblico ed ha causato massicce fughe di capitali e ripetuti crolli dei corsi azionari. La emananda normativa sugli NPL è solo l’ultimo esempio di intervento nefasto e dannoso, che perfino Banca d’Italia ha stigmatizzato. BCE è un pompiere incendiario: non mitiga le crisi, ma spesso le provoca, o quantomeno le aggrava. Altro che voto capitario. TESI N.8 – La vera esigenza della Riforma, infatti, è sottoporre al controllo centralizzato di una capogruppo (e quindi del suo occhiuto vigilante, ovvero la BCE) il sistema delle BCC italiane. Lo dice la BCE, lo ammette in audizione parlamentare Banca d’Italia, che scarta a priori ogni soluzione alternativa, non sufficientemente stringente verso le banche locali. Ma accentrare il potere non serve a “migliorare la governance”, ma solo a rendere più facile la conquista ed il controllo del sistema. TESI N.9 – I gruppi bancari non sono l’unico modo di creare una struttura di sostegno a reti di piccole banche, ma esistono altre forme di garanzia, riconosciute dalle norme europee e utilizzate in altri, importanti paesi. Sono gli Institutional Protection Schemes (IPS), che, pur prevedendo meccanismi di penalizzazione e di garanzia reciproca, non inficiano le autonome scelte degli aderenti e godono di importanti – e non casuali – vantaggi normativi. TESI N.10 – Mentre gli esempi di IPS in Austria, Spagna e soprattutto Germania hanno dimostrato nel recente passato di poter affrontare brillantemente le fasi di crisi senza necessitare di aiuti e continuando a garantire alle rispettive economie il necessario flusso di credito, i Gruppi (pseudo) Cooperativi, ove prevalenti (ad esempio in Francia) sono stati coinvolti in pieno nelle difficoltà ed hanno avuto bisogno di salvataggi ed interventi pubblici. Ciò è l’esatto riflesso della loro natura non più mutualistica, che li ha portati a strategie del tutto paragonabili a quelle delle altre banche, e quindi agli stessi errori. TESI N.11 – Nessun altro paese ha adottato provvedimenti come quelli italiani, e non a caso. La scelta tedesca di mantenere le sue 1400 (!) banche locali e cooperative al riparo della vigilanza europea (che pure non può essere accusata di essere anti-tedesca) è stata difesa a spada tratta dai governi di Berlino e mostra chiaramente il pericolo che attende il sistema cooperativo italiano. Ma l’Italia non è un paese “normale” (cfr. tesi n.2). TESI N.12 – CONCLUSIONI – Il quadro fin qui delineato mostra chiari i segni di una morte annunciata del sistema bancario popolare e cooperativo italiano e, con esso, di una parte essenziale del tessuto economico nazionale, messo “fuori gioco” da un disegno prima politico, poi culturale ed infine economico che ha fatto dell’Italia terreno di conquista. Di fronte a ciò non servono i tecnicismi e le battaglie di retroguardia, volte a “limitare i danni” su questo o quel provvedimento, ci vuole una reazione radicale e basata sul recupero della possibilità di ciascun popolo, italiani compresi, di autodeterminarsi democraticamente. Ma dal mondo cooperativo i Quisling de noantri proclamano ad una voce: “ormai è tardi”. […]

 

Franz CVM

 

 
Supercoppa in Arabia Saudita PDF Stampa E-mail

6 Gennaio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 4-12-2019 (N.d.d.)

 

Mai sottovalutare il calcio. Mai perdere d’occhio la palla che rotola. L’ultimo dei prodigi l’ha compiuto proprio in queste ore, ricostituendo una specie di arco costituzionale tra partiti anche molto lontani da loro (Fratelli d’Italia e Leu, la Meloni e la Boldrini, per dire) sulla critica alla Supercoppa italiana che si disputerà tra Juventus e Milan a Gedda, in Arabia Saudita, il 16 gennaio. Matteo Salvini, leader della Lega Nord, ministro dell’Interno e vice-premier, ha detto: «Il fatto che la Supercoppa italiana si giochi in un Paese islamico dove le donne non possono andare allo stadio se non sono accompagnate dagli uomini è una tristezza, è una schifezza». Critiche anche dal Pd e dal Movimento Cinque Stelle. E dunque. L’Arabia Saudita è uno Stato canaglia. Anzi: se incrociamo spregiudicatezza e ricchezza, è “lo” Stato canaglia per eccellenza. Per decenni ha finanziato l’estremismo e il terrorismo islamico in tutto il mondo. Non è un mistero, lo sanno tutti. Basta pensare che già nel 2002, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, l’esperto francese di antiterrorismo Jean-Charles Brisard aveva presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu un rapporto intitolato “Terrorism financing. Roots and trends of Saudi terrorism financing”. E che a più riprese, almeno nel 2009 e nel 2015, Hillary Clinton, prima segretario di Stato e poi candidata alla presidenza Usa, ribadì che il terrorismo islamista nei più diversi Paesi (compreso l’Isis in Iraq e in Siria) era foraggiato dai sauditi. In più, l’Arabia Saudita di questi ultimi anni è dominata da un giovanotto, il principe ereditario Mohammed bin Salman, 33 anni, che distribuisce la pena di morte come l’aspirina, discrimina (eufemismo) le minoranze etniche e religiose, tratta le donne come esseri inferiori, conduce una guerra di sterminio dei civili nello Yemen e, nei ritagli di tempo, fa rapire, uccidere e smembrare i giornalisti scomodi, come gli uomini dei suoi servizi segreti hanno appunto fatto con Jamal Khashoggi, assassinato nel consolato saudita di Istanbul.

 

Con gente come questa bisognerebbe non averci mai a che fare, altro che finale di Supercoppa. Anche perché è almeno buffo (eufemismo) stracciarsi le vesti per i buuuu contro Koulibaly e la bestialità dei razzisti degli spalti, come ha fatto anche Gaetano Micciché, vicepresidente della Federazione Italiana Gioco Calcio nonché presidente della Lega Calcio, e poi gratificare un regime oppressivo, oscurantista e stragista come quello di Mohammed bin Salman, anche se il principe caccia 23 milioni di euro (una mancia, per lui che amministra un fondo sovrano che entro il 2030 dovrebbe raggiungere la dotazione di 2 mila miliardi di dollari) per ospitare tre delle prossime cinque finali di Supercoppa italiana.

 

Ho citato Micciché non a caso. Perché le sue dichiarazioni, in risposta a quelle di Salvini e soci, hanno ben descritto la realtà di fondo, quella che conta. E cioè che i buuuu a Koulibaly fanno schifo. Che giocare in Arabia Saudita fa più schifo. Ma che la cosa che fa più schifo di tutte è che avere calorosi rapporti con regimi come quello è la norma, anzi: è la trave portante delle relazioni dell’Italia con il Medio Oriente. Ecco che cos’ha detto Micciché: «Il calcio fa parte del sistema culturale ed economico italiano e non può avere logiche, soprattutto nelle relazioni internazionali, diverse da quelle del Paese a cui appartiene. L’Arabia Saudita è il maggior partner commerciale italiano nell’area mediorientale grazie a decine di importanti aziende italiane che esportano e operano in loco, con nostri connazionali che lavorano in Arabia e nessuno di tali rapporti è stato interrotto. Il sistema calcio non può assurgere ad autorità sui temi di politica internazionale, né può fare scelte che non rispettino il sistema Paese. Al contrario, è un fondamentale supporto alla promozione del Made in Italy e dei suoi valori». Il che, in parole più povere, vuol dire: noi del calcio siamo le majorette e i mangiafuoco, ma il circo è il vostro. Siete voi quelli del business vero, quelli che vendono ai sauditi le bombe da usare nello Yemen, quelli che vanno in missione diplomatica e poi si picchiano per i Rolex da rappresentanza distribuiti dal principe (novembre 2015, epoca Renzi), quelli che costruiscono il centro direzionale di Milano con i petrodollari di Bin Salman. Anzi, diteci pure grazie, perché con il nostro balletto allietiamo le folle e vi spianiamo la strada. Si può dargli torto? Non credo. Anche perché, alla fin fine, la nostra politica si divide tra quelli che mal sopportano gli arabi e temono la cultura islamica e quelli che invece incitano a dialogare con loro e a rispettare la loro fede e i loro costumi. In ogni caso, finisce che una parte degli arabi la bombardiamo e un’altra proviamo a sfruttarla per fare soldi. Quindi...

 

Fulvio Scaglione

 

 
Governo Black Mirror PDF Stampa E-mail

5 Gennaio 2019

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Da Comedonchisciotte dell’1-1-2019 (N.d.d.)

 

Il primo governo «Black Mirror», dice Aldo Grasso sul Corsera, proprio quel quotidiano espressione di Confindustria e del Capitalismo Finanziario, che quindi non può essere per nulla favorevole alle politiche dei gialloverdi, che gli hanno negato le grandi opere pubbliche (Tav, Olimpiadi), le concessioni (Autostrade, Ferrovie), le privatizzazioni (Sanità, Welfare), il sistema delle multiutility (No-inceneritori), i finanziamenti pubblici all’editoria (diretti e indiretti)…  Verissimo, questo è il primo governo «Black Mirror», quello con leggi a finale multiplo e rinviato. Che c’è di male? Da alcuni giorni Netflix ha reso disponibile «Bandersnatch», un film-evento interattivo, in cui lo spettatore può intervenire sulla trama, scegliendo tra varie possibilità, e in cui il giovane protagonista programmatore Stefan cerca di adattare in forma di videogioco un romanzo di fantascienza a scelta multipla, dove il giocatore potrà poi decidere la trama stessa della storia. Anche nel film dunque l’utente inciderà sulla trama multipla e variabile. Infatti vivere nella terra di mezzo dell’Eurozona, non è come vivere in un libro game, dove gli oligarchi e i banksters che ci governano ci presentano sempre poche opzioni tra cui scegliere? Austerity o Fiscal Compact? Deficit o Spread? Spesa sociale o Finanziamenti alle PMI? Reddito di Cittadinanza o Flat Tax? Pensioni d’oro o Pensioni di cittadinanza? Miliardi per l’immigrazione o per i Centri per l’Impiego? Grandi opere pubbliche o ristrutturazione di quelle esistenti?

 

Scelte da compiere e rischi da affrontare, come quelli che ha dovuto fare il Governo Conte con la legge di Bilancio: entrambi i partiti dell’esecutivo hanno dovuto vagliare il proprio finale, a seconda dei miliardi a disposizione e delle promesse elettorali. Certo, nell’Europa degli oligarchi, della dittatura finanziaria, della perdita di sovranità monetaria, forse la Manovra di bilancio non basterà, ma è solo il primo anno, ce ne saranno altri 4, durante i quali si potranno affrontare altri problemi e verificare costi e benefici delle scelte fatte (se il governo reggerà). Il Governo per altro ha evitato la procedura d’infrazione, e ha cercato di confermare le misure promesse. I più coraggiosi poi hanno potuto seguire in Tv il dibattito show parlamentare sulla manovra di bilancio, con Emanuele Fiano che spiccava il volo verso i banchi del governo, manco fosse l’incredibile Hulk, sfidava la legge di gravità calandosi dai seggi più alti, si librava con agili evoluzioni da pachiderma, finendo per lanciare il testo della Finanziaria direttamente in faccia al sottosegretario Garavaglia. I più arditi hanno potuto ammirare la rabbia schiumante di coloro che di fronte a questa manovra di bilancio, dopo aver sonnecchiato per 30 anni, per la prima volta si sono sentiti V come Vendetta, i fans della carta costituzionale, gli adoratori della centralità del Parlamento, immemori delle tante leggi ad personas, delle mozioni sulla nipote di Mubarak, dei vari canguri e ghigliottine, delle mirabili compravendite di parlamentari, e dei soccorsi impunitari a fior fior di farabutti. Scagliatisi tutti contro quella che si chiama “ridistribuzione della ricchezza” e che un tempo era battaglia della sinistra, ora sulle barricate ci sono FI e il PD… forse perché sono i principali referenti dei poteri forti (Berlusconi-De Benedetti)? Tutti a stracciarsi le vesti sul post rimosso dal blog del Movimento, che ribadiva verità sacrosante: le tv e i giornalai fanno “terrorismo mediatico e psicologico” perché diffondono notizie false per colpire a tradimento il governo, insieme a quei cittadini che hanno vinto legittimamente le elezioni, hanno scaricato i vecchi partiti e le loro dannose politiche di austerity. Tv e giornalai quindi si confermano dalla parte della casta, che ha ridotto questo Paese ad economia terzomondista, mentre intossicano il dibattito pubblico con bufale preconfezionate per alimentare rabbia e rancore, impedendo così ai cittadini di informarsi e di capire. Verissimo. È dal 4 marzo che la stampa padronale ha scatenato un attacco alla democrazia, perché teme il cambiamento in atto, teme di perdere prebende e privilegi assegnatigli proprio dai potentati d’interesse e dalle lobby di potere, economico e finanziario. Che i giornalisti siano al servizio di padroni, lo sappiamo, ed anche che siamo immersi in un sistema paralizzato, che non conosce libertà di stampa, un sistema che consentiva al vecchio regime di bivaccare sulle spalle di milioni di cittadini.  Naturale che le lobby editoriali egemoni che si sono spartite il potere per decenni – Berlusconi, De Benedetti, Cairo – tentino ora col discredito un disperato tentativo di sopravvivenza, per scongiurare il cambiamento in atto, quindi diffamino una manovra che cerca di sanare la tragedia di 5 milioni di poveri, aumentando le tasse ai grandi gruppi di interessi e di potere, quindi proprio a loro.

 

Ed eccolo il punto, che fa schiumare di rabbia gli oligarchi e i loro lacchè, finalmente dopo decenni un cambio di rotta epocale, il governo gialloverde si è schierato dalla parte dei poveri cristi, dalla parte del popolo e non delle lobby. Un cambiamento che ribalta un sistema di potere consolidato che non vuole arrendersi e che reagisce con violenza scatenando i propri media in un vero e proprio «Black Mirror», attacco terroristico da parte degli schermi neri di tv, monitor o smartphone che s’infrangono contro l’avanzata del populismo. Perché dovremmo credere a Beppe Severgnini, stipendiato dal Corsera, di proprietà di RCS Media Group (Rizzoli-Corriere della Sera Media Group S.p.A.), uno dei principali gruppi editoriali italiani, impegnato nella gestione di quotidiani, periodici, televisione, web e raccolta pubblicitaria, di cui Urbano Cairo detiene il 59,831% dell’azionariato? Urbano Cairo, ex collaboratore Fininvest di Berlusconi, coinvolto nell’inchiesta Mani pulite, al cui processo chiede il patteggiamento, e concorda una pena di diciannove mesi con la condizionale, per i reati di appropriazione indebita, fatture per operazioni inesistenti e falso in bilancio. Perché dovremmo credere ai numerosi diffamatori seriali, che blaterano dagli schermi di La7, canale televisivo sempre di proprietà del gruppo Cairo Communication, GEDI Gruppo Editoriale S.p.A.? Sempre per lo stesso motivo, perché dovremmo credere a Repubblica (con i suoi nove supplementi), La Stampa, Il Secolo XIX, L’Espresso, stampati sempre da «Gedi News Network» (GNN), gruppo editoriale proprietario anche di tre radio nazionali, Radio Deejay, Radio Capital e m2o e delle emittenti televisive satellitari m2o TV, Radio Capital TiVù e Deejay TV? E del Giornale berlusconiano ne vogliamo parlare? Il giorno 29/12 titola: “Toninelli, Lezzi e Trenta ministri a rischio rimpasto“. Il ministro dei Trasporti dunque secondo il Giornale rischierebbe la retrocessione in Parlamento… e le altre due ministre sarebbero spostate di location come pedine sul tavolo degli scacchi. Quando al contrario non è assolutamente possibile un rimpasto del genere, perché secondo il vincolo dei due mandati, i portavoce del MoV non possono passare da un incarico all’altro, tradendo il patto elettorale coi cittadini, pena l’espulsione dal MoV. E ancora Libero Quotidiano… “Luigi Di Maio trema, quale Ministero vuole Matteo Salvini: rimpasto e fine del governo?” Il Sole24ore… “Dalle gaffe di Toninelli ai malumori di Savona: il governo e le tentazioni di rimpasto.” Roma. Corriere… “Fraccaro al posto di Toninelli. La voglia di rimpasto nei 5 Stelle.” Il Giornale… “Stangata una pensione su tre. I tagli assegno per assegno. Dal 2019 scattano le penalizzazioni su tutti gli assegni che superano i 2000 euro lordi. C’è chi perde fino a 1000 euro.” La Repubblica… “Manovra, la tassa sulla solidarietà colpisce anche gli ospedali: 70 milioni in più.” Lo stesso comma che penalizza il volontariato aumenta l’Ires anche per le aziende del sistema sanitario nazionale. Etc etc…

 

Infine. Evidenti segnali di un sistema di potere che si è infranto, e che cerca di svincolarsi dalla morsa, per non collassare definitivamente. Logico che abbiano sfoderato tutte le loro armi terroristiche più violente, le loro insinuazioni più raffinate, per difendere i loro imperi editoriali, finanziari ed imprenditoriali. Però negli ultimi anni si sono alquanto distratti e soprattutto hanno fatto malissimo i loro conticini, lasciando i ragazzi italiani senza lavoro e senza futuro… perché poi quelli si sono incazzati e guarda un po’, sono anche diventati ministri. Buon Anno a tutti!!

 

 Rosanna Spadini

 

 
La pentola bolle PDF Stampa E-mail

4 Gennaio 2019

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Da Rassegna di Arianna del 2-1-2019 (N.d.d.)

 

La fine dell’anno reca sempre bilanci e previsioni; sotto il profilo economico, finanziario e strategico la pentola bolle e molti eventi determineranno cambiamenti importanti. La Borsa è in discesa, tanto da avere perduto in tre mesi i rialzi di un anno. Le quotazioni del petrolio crollano, il greggio Wti light è sceso a 42 dollari al barile, un crollo del 40 per cento in pochi mesi. Sullo sfondo, la previsione al ribasso di lungo periodo per l’irruzione sul mercato del gas di scisto statunitense, che cambierà completamente gli equilibri del settore, con evidenti ricadute geopolitiche e strategiche. A fari spenti, aumenta il prezzo dell’oro, ormai stabilmente oltre i 1.260 dollari l’oncia, mentre la contesa doganale tra Usa e Cina registra nuovi episodi. Non solo persiste la guerra per le reti di telecomunicazione 5G (a proposito, si moltiplicano le voci della pericolosità del sistema, che avrebbe indotto al disimpegno alcuni gruppi assicurativi), continua la partita dei dazi contrapposti tra le due superpotenze, e affiora la scelta di Trump di ritiro dal Medio Oriente, una mossa gradita a Mosca, che l’amministrazione Usa vorrebbe allontanare dall’abbraccio cinese. Le previsioni finanziarie volgono al pessimismo, forse non a breve termine, ma lo scenario è oscuro. Desta timore la crescita costante del debito privato, che potrebbe innescare una crisi molto seria. C’è già chi paragona la realtà attuale a quella precedente il caso Lehman Brothers. Nulla tuttavia giustifica il panico in termini di economia reale americana, riferimento del sistema internazionale. La tempesta finanziaria, se ci sarà, avviene in una situazione di pieno impiego e di recupero produttivo. Le stesse scaramucce tariffarie tra Cina e Usa non sono così gravi da giustificare una preoccupazione così estesa.

 

Contro i principi elementari della logica economica, le quotazioni di Wall Street al tempo della Grande Recessione erano in crescita da anni senza interruzioni nonostante l’economia reale precipitasse. Assurdo, come l’intero castello dell’economia di carta, anzi di grafici e algoritmi che domina il XXI secolo. Quello attuale, a detta di molti, è un effetto imprevisto dell’invenzione dei demiurghi monetari, la flessibilizzazione quantitativa che in Italia, privi di vocabolario, chiamiamo quantitative easing. Una medicina che non era stata mai somministrata ad alcun malato e le cui controindicazioni erano dunque ignote ai banchieri centrali e ai governi. Non è strano che Trump abbia attaccato le scelte della Federal Reserve, longa manus della cupola finanziaria privata; è semmai un segno vergognoso dei tempi che il responsabile politico più potente della terra conti meno di un pugno di banchieri centrali e delle grandi famiglie di speculatori. Il calo dei mercati di queste settimane ha una spiegazione superficiale, il rialzo dei tassi d’interesse da parte della Fed e un’altra più profonda, relativa alla conseguenza impreviste delle misure finanziarie applicate dopo la batosta del 2008. All’epoca, si procedette secondo il protocollo abituale di tutte le recessioni, abbassando gli interessi. Il problema è che i tassi possono arrivare allo zero ma non possono continuare a scavare sottoterra senza conseguenze. Poiché la recessione risultò più grave delle precedenti, quando gli interessi si infransero al suolo si dovettero inventare in gran fretta nuove ricette. Il risultato fu che la Fed- seguita dalla Banca Centrale Europea – fabbricò dal nulla miliardi su miliardi per comprare gli attivi tossici delle banche private. Presto fu chiaro che le banche impiegavano quel denaro non per dare ossigeno al sistema economico, ma per comprare titoli di Stato, l’affare più semplice e sicuro del mondo. A quel punto la Fed decise di utilizzare altri miliardi per comprare direttamente il debito dello Stato, ciò che ufficialmente sarebbe vietato alla BCE per l’assurdo statuto inserito nei trattati dell’UE. L’intento era abbassare la redditività dei titoli di Stato per renderli poco attrattivi al sistema bancario. L’obiettivo fu conseguito e il sistema finanziario si è trovato con miliardi di dollari caduti dal cielo, una sorta di “helicoptermoney” alla Milton Friedman. Senza troppe riflessioni, quelle somme sono andate a gonfiare le quotazioni di Wall Street, ovvero ad alimentare un’altra bolla, quella di cui cominciamo a osservare le crepe. Il neoliberismo non ha imparato nulla dal mostro finanziario che ha generato, non ha chiesto perdono per i danni causati e approfitta dello sconcerto generale per continuare il regolamento di conti con la gente comune. I suoi referenti politici, economici e intellettuali continuano a (fingere di) non comprendere il ruolo dell’emissione monetaria e del debito privato nell’economia globale, con la complicità dei mezzi di comunicazione asserviti, i quali, come le tre scimmiette, non vedono, non sentono, non parlano. I fatti, una volta di più, si incaricheranno di produrre conseguenze, ma le oligarchie continueranno a eludere le responsabilità senza modificare le loro politiche distopiche. La crisi che si avvicina girerà di nuovo attorno agli effetti perversi del debito privato, ma la differenza è che stavolta il punto di rottura non saranno le banche, ma le grandi imprese. I mercati hanno già lanciato segnali nell’ultima parte dell’anno, il rischio è che il 2019 riservi emozioni ancora più forti.

 

Le teorie economiche dominanti, presentate nei manuali accademici e negli articoli degli specialisti come verità indiscutibili, in realtà non sono che pseudoscienza. Una riguarda il ruolo attribuito dall’ortodossia al denaro e al debito privato, un’altra è l’obiettivo ultimo dell’impresa capitalistica, la massimizzazione del valore azionario. Insieme, finiscono per convergere come fattore scatenante della probabile crisi del debito privato. Gli economisti mainstream seguitano a trascurare il rapporto funzionale tra banche, denaro e debito privato, elementi essenziali di un’economia di mercato, che devono quindi essere inseriti come variabili nei modelli economici. Tentare di descrivere e prevedere il comportamento di un’economia capitalistica senza includervi tali banche, denaro e debito è come disegnare un aereo senza ali. Il motivo per cui una modifica nel tasso di crescita del debito privato porta a nuove crisi è che quel debito innalza la domanda aggregata. Quando una banca presta denaro, crea capacità di spesa generando simultaneamente un deposito. Il denaro (virtuale) addizionale va a sommarsi alla capacità di spesa del ricevente senza ridurre quella dei risparmiatori. In definitiva, la crescita del credito può espandere la domanda aggregata. Anziché prodursi una equivalenza tra domanda e offerta aggregata, se cresce il debito la domanda aggregata eccederà l’offerta, mentre scenderà al di sotto dell’offerta se il debito cala. Questo raccontano i fatti, ma la teoria economica classica continua a considerare le banche semplici intermediari tra risparmiatori e richiedenti prestiti. Il prestito, insegnano, aumenta la capacità di spesa del richiedente ma riduce quella del risparmiatore. Se il modello corrispondesse a verità, gli effetti macroeconomici del debito sarebbero cancellati. Tuttavia, esistono prove schiaccianti della falsità dell’assunto, dimostrate da economisti come Basil Moore e il neokeynesiano Hyman Minsky. Il prestito è un’iscrizione contabile che crea denaro dal nulla, il depositante non è più un risparmiatore, ma un investitore, come dimostrano gli innumerevoli cartigli che è costretto a sottoscrive, a comprova che il rischio è tutto suo, compresa l’insolvenza della banca, cui dovrà far fronte in base alla legge detta bail in. Un’altra pessima idea convenzionale, che spiega altresì molteplici frodi contabili, è l’assolutizzazione del valore azionario. La massimizzazione del valore dell’azione come sola missione dell’impresa risale a un intervento di Milton Friedman del 1970, nel quale si teorizzava un’unica responsabilità sociale, utilizzare le risorse per partecipare ad attività orientate a aumentare i profitti. Dagli anni ‘80, l’imposizione della teoria neoclassica si tradusse nell’imperativo, per i dirigenti d’azienda, di massimizzare a breve termine il profitto degli azionisti. Sono fin troppo chiare le implicazioni e i guasti prodotti nell’intera società dal diffondersi esclusivo e ideologico di tale concezione d’impresa. Uno dei massimi strateghi di gestione patrimoniale del mondo, James Montier, ne sottolinea alcuni. Innanzitutto la diminuzione degli investimenti delle imprese; la disuguaglianza crescente e, collegata al punto precedente, la costante diminuzione percentuale del fattore lavoro all’interno del PIL. Alla fine, la deresponsabilizzazione sociale dell’impresa e la corsa all’incremento più rapido possibile del valore delle azioni è servita per remunerare in maniera immeritata e parassitaria i consigli di amministrazione delle imprese di mezzo mondo, gonfiare a dismisura i premi del management, oltreché rendere di routine attività atipiche come il riacquisto di azioni proprie e /o nuove acquisizioni per via di indebitamento, ossia l’abitudine di realizzare operazioni non con fondi propri. Il rischio è ovviamente l’insolvenza. La bufera possibile riguarderà dunque le imprese, non poche delle quali hanno inondato il mercato con titoli, azioni e obbligazioni spazzatura. Contemporaneamente molti bilanci di imprese finanziarie si sono appesantiti di prestiti ad alto rendimento e garanzie limitate. Un debito a rischio elevato collocato per una buona metà in compagnie di assicurazione e fondi pensione. Chi ha esteso queste pratiche sono state le cosiddette banche di sistema, quelle too big to fail, troppo grandi per fallire, tanto ci pensano i governi, cioè i contribuenti, a pagare il conto a piè di lista, ed è in questo contesto che le banche centrali cercano di normalizzare le loro attività, ovvero porre fine a misure “temporali e straordinarie” come il quantitative easing, cioè, lo ribadiamo, la creazione dal nulla di denaro che resta nelle fauci del sistema creditizio.

 

Le imprese di gran parte del mondo si stanno svenando in un fiume di debiti. Hanno acceso prestiti che non riusciranno a pagare se i tassi di interesse aumenteranno. Le banche di sistema hanno impacchettato e venduto prestiti a elevato leverage e buoni spazzatura, comprati come dolci in pasticceria da fondi pensione e compagnie di assicurazione alla disperata ricerca di rendimenti per far fronte a pagamenti di denaro “vero” in un panorama di interessi zero. Abbiamo adesso imprese zombi, che si mantengono vive grazie ai bassi tassi di interesse e all’acquisto di titoli da parte delle banche con denaro fiat (quantitative easing): un mercato disfunzionale che, in un gioco di specchi, produce nuove bolle finanziarie. Stavolta, Dio non voglia, non saranno le banche a scatenare un altro collasso finanziario, ma le aziende dell’economia reale che si sono dedicate al casinò dell’azzardo, e hanno manipolato i prezzi delle loro azioni con acquisizioni, e/ o riacquisti senza fine dei propri titoli, operazioni finanziate con prestiti a tasso minimo o con emissioni di titoli spazzatura. Entro pochi mesi, forse un anno – questa è la previsione del fondo più grande di tutti, Black Rock – il castello di carte potrebbe crollare. Macerie e calcinacci si abbatteranno su aziende, governi e cittadini, mentre il sistema finanziario, una volta ancora, si ritroverà più forte di prima, avendo addebitato al mondo intero la fattura delle sue paranoie di onnipotenza. È la legge ferrea della finanza padrona, a meno che non capiti l’imprevisto, una svolta politica planetaria.

 

Roberto Pecchioli

 

 
Diritti elargiti PDF Stampa E-mail

3 Gennaio 2019

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Tra tutte le epoche della storia, l'epoca del neoliberalismo è, senza dubbio, quella nella quale è stato attribuito agli uomini e alle donne il maggior numero di diritti. Sono sorti dal nulla e sono stati attribuiti più diritti negli ultimi 40 anni che non nell'intera storia dell'umanità; e spesso, anzi quasi sempre, si è trattato di diritti "regalati", nel senso che non sono stati conquistati da movimenti di lotta di uno o altro genere.

 

Lo statuto dei diritti del consumatore comprende decine e decine di diritti e poteri.  Lo statuto dei diritti del risparmiatore comprende decine e decine di diritti. I diritti al risarcimento dei danneggiati si sono ampliati e sono quantitativamente divenuti più rilevanti. Ma esistono più specifici diritti che ci spettano come assoggettati alla pubblicità, o come turisti che si avvalgono di agenzie di viaggio; e abbiamo anche una invasiva legge sulla privacy e potremmo probabilmente scrivere un testo unico dei diritti dell'infanzia. Tutti gli antichi principi che furono propri dell'uomo, dal tempo del diritto romano a quello del diritto liberale borghese dell'Ottocento, sono stati intaccati. Addirittura il consenso del consumatore non lo vincola se egli stipula contratti fuori dai locali commerciali: può recedere entro un certo termine. Un tempo esistevano i capaci di agire e gli incapaci che stipulavano contratti annullabili. Oggi esiste il consumatore che viene tutelato come semi-capace perché presta un consenso entro un certo termine revocabile. E ai diritti vanno affiancate le possibilità di fatto, consentite dallo sviluppo tecnologico, concesse dal grande capitale gratuitamente (facebook, youtube) o quasi - abbonamenti televisivi sky, il cui costo, diviso per i membri della famiglia e per le ore di fruizione del servizio è di un centesimo o due o quattro centesimi l'ora: sky è dunque la cosa meno costosa al mondo. Queste possibilità di fatto sono concepite o meglio considerate da uomini e donne come nuovi diritti, che lo Stato dovrà garantire nel senso che dovrà assicurare la "elargizione" di questi diritti da parte di grandi capitalisti (non nel senso che dovrà gestirli in proprio). Il partito che negasse questa possibilità non andrebbe mai al governo. La società è inoltre divenuta molto più comprensiva nei confronti di molti nostri vizi: si tratti di abuso di droghe o di alcool o di lussuria o di accidia o di egocentrismo narcisistico all'ultimo livello in persone che tutti sanno essere prive di particolari qualità o di abuso e dipendenza da scommesse o da giochetti elettronici, oppure di asinaggine a scuola: tutto deve essere compreso e giustificato, persino depressioni che trovano fondamento esclusivamente nel non accettare di essere meno belli o meno ricchi o meno fortunati di quanto si desidererebbe (il desiderio stupido come diritto). Senza prendere atto che gli individui adorano questa comprensione promossa dal neoliberalismo, reputano diritti umani le elargizioni gratuite o quasi (salvo pubblicità) del grande capitale e delle quali godono quotidianamente e non trovano alcuna ragione per rinunciare a uno o altro dei diritti del fanciullo del consumatore del danneggiato del risparmiatore dello spettatore televisivo o del turista, ecc., non si comprende il grandissimo consenso che ha il neoliberalismo. Alla maggior parte degli attuali critici basterebbe che la società neoliberale fosse un po' più funzionante, che risalisse un po' l'occupazione e con essa salari e redditi da lavoro, per tornare a pensare che la società neoliberale sia il paradiso in terra.  L'unica obiezione tornerebbe ad essere l'ecologia, come è accaduto negli ultimi trenta anni.

 

Perciò devono essere uniti e pazienti coloro che sanno che dentro il paradigma della infinità dei diritti civili, delle possibilità di fatto regalate dal grande capitale e del giustificazionismo generalizzato di vizi e difetti, può esservi soltanto il neoliberalismo.  Il neo-socialismo dovrà ovviamente essere democratico e non autoritario ma dovrà essere fondato sui doveri. Altrimenti semplicemente non sarà. La regola era la durezza, anche se non bisognava dimenticare di essere teneri (ovviamente ferma la regola della durezza).

 

Stefano D’Andrea

 

 
Mobilitą elettrica e trasporto pubblico PDF Stampa E-mail

1 Gennaio 2019

 

 

Da Appelloalpopolo del 30-12-2018 (N.d.d.)

 

Mentre a Parigi infuria la protesta dei “gilet jaunes”, è opportuno fare alcune considerazioni a partire da una infelice uscita di Benjamin Griveaux, portavoce del governo Macron, che a fronte dell’inizio delle proteste in seguito ad un rincaro dei carburanti, ha suggerito che i manifestanti avrebbero potuto trovare rimedio acquistando un’automobile elettrica. Stante l’elevato costo di acquisto di tali veicoli, questa affermazione è stata interpretata da molti come una versione modernizzata del “Che mangino brioche!”, attribuito (falsamente) a Maria Antonietta come risposta a chi la informava che il popolo protestava perché non aveva pane. Questa indubbiamente intempestiva affermazione si colloca in mezzo ad una campagna volta a screditare l’auto elettrica. Solo poche settimane prima era circolata insistentemente su alcuni mezzi di informazione e su Facebook una notizia che attribuiva al CNR la conclusione che, tenendo conto dell’intero ciclo di vita del veicolo, l’auto elettrica risultasse più inquinante del diesel. Vale qui la pena di notare che il CNR (sigla che sta per “Consiglio Nazionale delle Ricerche”) è il più grande ente pubblico di ricerca italiano, e si articola in circa cento istituti che svolgono ricerca in tutti i campi del sapere, in maniera largamente indipendente l’uno dall’altro. Non esiste una “posizione ufficiale” del CNR: i suoi ricercatori pubblicano articoli scientifici sulle riviste scientifiche e rispondono di ciò che scrivono, senza chiamare in causa l’intera istituzione. In questo caso, si trattava di una affermazione fatta da un ricercatore nell’ambito di una conferenza, citando uno studio tedesco. Si tratta peraltro di una conclusione smentita da altre analisi. A tutto ciò, si è aggiunta una proposta del governo italiano (ancora in fase di definizione) che prevede uno schema di incentivi per auto ibride ed elettriche, da realizzarsi attraverso una tassazione delle auto a benzina e diesel. Questa proposta ha causato un’ondata di polemiche, in quanto è stata vista da molti come una forma di “Robin Hood alla rovescia”. In generale, vi è la percezione che l’auto elettrica sia un giocattolo da ricchi, e per certi versi oggi è proprio così, per quanto sia già possibile acquistare sul mercato dell’usato veicoli elettrici a prezzi contenuti (ed era questo il senso dell’uscita di Griveaux), o, avendo la disponibilità iniziale di denaro, sia comunque possibile acquistare un veicolo nuovo e comunque, nell’arco della sua vita utile, risparmiare grazie ai minori costi operativi e di manutenzione.

 

In realtà, la mobilità elettrica sta decollando, come mostrano i dati relativi alle nuove immatricolazioni, che illustrano l’inizio di una crescita esponenziale. Si tratta di una situazione per certi versi analoga a quella degli impianti fotovoltaici dieci o quindici anni fa, quando erano ancora molto costosi ma stava iniziando un “boom” che avrebbe avuto come conseguenza una drastica riduzione dei costi. Qui non vogliamo però analizzare in dettaglio questo fenomeno, quanto illustrare le potenzialità di questa nuova tecnologia sia in termini di vantaggi ambientali che di complessiva efficienza del sistema della mobilità, e questa considerazione serve solo per evidenziare che si tratta di un enorme mercato in via di formazione in cui una adeguata politica industriale consentirebbe un vantaggioso inserimento.

 

Iniziamo col dire che non c’è dubbio sul fatto che la modalità di trasporto di persone migliore dal punto di vista ambientale sia quella del trasporto pubblico collettivo. Questa convinzione non deve però portare ad assumere l’atteggiamento fondamentalista di disinteressarsi al trasporto privato: l’automobile è parte delle nostre vite, e per quanto si tratti di un sistema complessivamente insostenibile, che è fonte di costi sociali elevatissimi, non è un paradigma modificabile nel giro di pochi anni. Quindi, ha un suo senso, a fianco del deciso sostegno allo sviluppo del trasporto pubblico, interrogarsi su possibili trasformazioni di quello privato nella direzione di una maggiore sostenibilità ambientale. Una volta stabilito che l’auto privata è qui per restare, almeno nel breve e medio termine, e che il massimo che si può fare è contenerne l’utilizzo, integrandolo con quello del trasporto pubblico per gli spostamenti abitudinari, si comprende come tale oggetto costituisca ormai a tutti gli effetti il tramite per il soddisfacimento di un bisogno fondamentale per i cittadini di un paese industrializzato: per molti, non poter usare l’auto significa di fatto non poter lavorare, e per molti altri significa dover sacrificare quantità abnormi di tempo per spostamenti con mezzi alternativi. E allora, risulta anche chiaro che va ribaltata la prospettiva con cui si guarda a questo bene: non più un prodotto da lasciare in mano all’iniziativa privata, ma un bene strategico di cui deve occuparsi lo Stato, non solo attraverso incentivi, ma soprattutto realizzando un’industria automobilistica pubblica, che possa prefiggersi obiettivi diversi da quelli del puro e semplice profitto, quali durevolezza, economicità per l’utente e preservazione dell’ambiente naturale. Possiamo quindi ripensare all’auto elettrica non in termini di bene ad alto costo e riservato a pochi, ma come opzione che uno Stato interessato al benessere dei suoi cittadini deve riuscire a fornire a tutti a prezzi popolari. Una volta abbracciata quest’ottica, la scelta di orientarsi verso la mobilità elettrica risulta ampiamente giustificata da una serie di considerazioni: 1) il motore elettrico è enormemente più semplice e compatto di quello a combustione interna: quest’ultimo ha centinaia di parti in movimento, contrariamente al primo, che tipicamente ne ha solo due, ed è quindi molto più soggetto ad usura e a possibilità di guasti. Un motore elettrico può percorrere una distanza dell’ordine del milione di chilometri, prima di richiedere una verifica, e può durare un secolo, richiedendo soltanto la sostituzione dei cuscinetti: si tratta quindi di un bene durevole. Inoltre, esso elimina la necessità del cambio, semplificando ulteriormente la vettura. Tutto ciò si traduce in costi di gestione molto inferiori, anche se è chiaro che per sfruttare appieno queste potenzialità occorre un’adeguata filosofia progettuale, che difficilmente potrà ottenersi da parte di aziende che hanno nel mercato dei pezzi di ricambio una delle sorgenti di utile più significative. 2) l’auto elettrica non richiede lubrificanti: questo significa risparmiare le 200.000 tonnellate all’anno consumate dalle auto italiane, e soprattutto il relativo smaltimento.  3) l’auto elettrica, grazie all’assenza di combustione e al maggior uso del freno motore, con conseguente molto minore usura delle pastiglie dei freni, ha una produzione di particolato molto inferiore a quella tradizionale, il che consentirebbe di alleviare la difficile situazione dell’inquinamento da PM10 che caratterizza molte zone italiane, e in particolare la pianura padana (il maggior responsabile di questo tipo di inquinamento non sono le auto, ma queste danno comunque un contributo rilevante). 4) il problema dello smaltimento delle batterie può essere affrontato in parte riciclando le batterie la cui capacità di accumulo si sia ridotta in maniera consistente a causa dell’utilizzo in usi diversi, in particolare nei sistemi di accumulo stazionari che costituiscono un elemento importante della transizione ad un’economia basata sulle fonti rinnovabili, e in parte attraverso adeguate scelte progettuali che ne favoriscano il riciclo a fine vita: anche qui, risulta evidente l’importanza di un approccio non basato solo sul profitto, per cui questo aspetto diventi centrale nelle scelte tecnologiche future.

 

Per quanto concerne l’obiezione spesso espressa che l’auto elettrica non riduce il consumo di idrocarburi, se l’elettricità viene prodotta a partire da combustibili fossili, ad essa si può ribattere in due modi: intanto, nel panorama energetico attuale è già presente una frazione rilevante di generazione elettrica a partire da fonti rinnovabili; poi, anche nel caso di elettricità prodotta da fonti fossili, a causa della bassa efficienza del motore a combustione interna il consumo equivalente di idrocarburi dell’auto elettrica risulta paragonabile o addirittura minore di quello dell’auto tradizionale, a fronte dei vantaggi elencati sopra; ma soprattutto, l’auto elettrica, potendo comunque utilizzare elettricità da fonti rinnovabili, costituisce una tecnologia che favorisce la transizione in corso verso un sistema interamente basato sulle rinnovabili: mentre un’auto a benzina avrà sempre bisogno di benzina, un’auto elettrica che oggi usa elettricità da fonti fossili domani potrà ricavarla da fonti rinnovabili, e inoltre andrà a costituire uno stimolo all’installazione dei piccoli impianti fotovoltaici casalinghi. Una parola merita invece quello che è ancora oggi il maggior limite tecnologico dei veicoli elettrici, ossia quello della percorrenza. Va notato che questo limite si sta rapidamente espandendo, e che non esistono limiti “forti” ai valori raggiungibili. Nuove tecnologie, come le batterie a stato solido, promettono di raggiungere densità di energia pari a quelle degli idrocarburi, e c’è quindi ragione di essere ottimisti sul fatto che la percorrenza aumenterà rapidamente nel prossimo decennio. Per quanto riguarda invece la facilità di trovare punti di ricarica, è chiaro che una politica industriale volta a creare un’industria nazionale di produzione di veicoli elettrici dovrà prevedere anche una strategia di disseminazione di punti di ricarica sul territorio nazionale.

 

In conclusione, questo breve articolo propone un modello in cui lo Stato diventi imprenditore, al fine di fornire ai propri cittadini veicoli elettrici economici, durevoli e facilmente riciclabili a fine vita, sviluppando al contempo elevate competenze tecnologiche nel settore della trazione elettrica e delle batterie, cogliendo l’onda dell’impetuoso sviluppo di queste tecnologie, anche attraverso un robusto investimento in ricerca e sviluppo. Tali competenze sarebbero anche utilizzabili per la produzione di veicoli elettrici per il trasporto pubblico collettivo, imitando la strategia della Cina nell’ambito di un generale potenziamento del trasporto pubblico su strada e su rotaia, di cui i veicoli privati dovrebbero diventare, per gli spostamenti periodici, lo strumento dedicato all’”ultimo miglio”. Ciò creerebbe lavoro e ricchezza, oltre ad avere ricadute importanti in termini ambientali e di indipendenza energetica, costituendo una costola della transizione ad un sistema energetico interamente basato sulle fonti rinnovabili.

 

Emilio Martines

 

 
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