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Giornalisti patetici PDF Stampa E-mail

15 Novembre 2018

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Da Rassegna di Arianna del 13-11-2018 (N.d.d.)

 

Infimi e puttane i giornalisti, chissà. Ma casta di sicuro sì, nonché – con l’intero mainstream – vetrina del conformismo. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista non fanno come faceva un Giulio Andreotti che si raccomandava di non litigare mai e poi mai con la stampa. Loro, figli di un tempo tutto nuovo, prendono spunto dall’assoluzione di Virginia Raggi e vanno addosso ai giornalisti cui è mancato il finale atteso. Forse, i due, fanno come un tempo si divertiva a stuzzicare Massimo D’Alema: jene dattilografe. In ogni modo sfregiano il sussiego di un mestiere – il giornalismo – che è, ormai, dottrina del pensiero unico. Industria culturale di infimi e di puttane a disposizione di una stretta cerchia, sempre la stessa, derivata dal patto di compromesso tra le due ex chiese, quella del Pci e quella democristiana, per quel che sono diventate adesso coi loro eredi – immarcescibili – nell’amministrare il potere assoluto e gli estremi privilegi ora che c’è da difendere il fortino assediato da una realtà sempre più distante dai loro taccuini, dalle loro frequentazioni e dalla loro retorica. Dai nostri taccuini, dalle nostre frequentazioni e dalla nostra retorica, dovremmo dire? Ebbene, no. Se c’è un discrimine, che vale in tema di giornalismo quanto anche nella realtà del dibattitto delle idee, è quello tra un’Italia tenuta sempre ai margini – quella del dissenso – e quella del regime. Lo stesso regime del giornalismo da sempre sistema chiuso che i Leo Longanesi di ieri o i Massimo Fini di oggi, mai e poi mai li fa arrivare nei giornaloni, quelli delle vergini adesso trafitte, ma solo e soltanto nelle testate corsare, dove piove sale e sempre solo sale. Il giornalismo, quello istituzionale su tutti, vive in virtù dell’ipocrisia – del tradimento continuo dei valori cui dice di voler aderire, la famosa libertà di stampa e l’indipendenza – e regge nel mercato grazie allo sfruttamento di precari costretti, tutti, a salari al minimo, anzi, sempre più al ribasso, costringendo all’eterna gavetta chiunque non corrisponde ai loro taccuini, alle loro frequentazioni e alla loro retorica. Ha ragione Michele Fusco, giornalista senza nessun regime, quando ieri – nel bel mezzo delle lagne per la bua subita – così twittava: «Questa catena sul web dell’orgoglio giornalistico è una roba che va oltre il patetico». Ecco, non infimi, non puttane, ma patetici.

 

Pietrangelo Buttafuoco

 

 
Marxisti sovranisti PDF Stampa E-mail

14 Novembre 2018

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Da Rassegna di Arianna del 12-11-2018 (N.d.d.)

 

“Socialismo o barbarie” è uno slogan marxista di vecchia data, Rosa Luxembourg lo attribuisce ad Engels: se non si passa dal capitalismo al socialismo, la caduta nella barbarie è il destino dell’Occidente.  Adesso un saggio scritto da due marxisti, l’italo-inglese Tomas Fazi e William Mitchell, riecheggia quel motto celebre ma al contrario: “Sovranismo o Barbarie”.  Abbiamo capito bene: due marxisti, pubblicati da una editrice “rossa”, invocano il ritorno alla sovranità nazionale, perché (cito dalla recensione che ne fa Carlo Formenti su Micromega) “lo stato-nazione è la sola cornice in cui le classi subalterne possono migliorare le proprie condizioni e allargare gli spazi di democrazia”. Da marxisti, i due sono convinti che l’ordinamento dello stato dipende dall’economia – la “struttura” da cui nasce la “sovrastruttura”.  Quindi attribuiscono la felice lunga stagione dal dopoguerra agli anni ’70, con ”elevati tassi di crescita economica, alti livelli di occupazione, salari e profitti crescenti, un’estensione dei diritti sociali ed economici mai conosciuta nelle ere precedenti, nonché una relativa stabilità finanziaria a livello internazionale” a  uno specifico regime di accumulazione capitalista – il fordismo – associato a un modo di regolazione politica dell’economia fondato sull’interventismo statale”.

 

La “entrata in crisi” del modello fordista di accumulazione capitalistica sarebbe la causa della “entrata in crisi” della sovrastruttura, l’ideologia e le politiche keynesiane con la loro connotazione “sociale”.  Detto così, può sembrare un fenomeno storico inevitabile, e il passaggio al globalismo con l’evirazione dello stato nazionale, la perdita della sovranità monetaria, e dello stato sociale, eventi “oggettivi”.  Inevitabili. Forze storiche contro cui non si vince. Infatti questo ci ripetono le “sinistre” salottiere, stilistiche, botuliniche che parlano da tutti i talk-show televisivi. Le giornaliste botulinate e strapagate perché “progressiste”.  Invece, il vostro cronista che si è occupato (anche) di economia per trent’anni, ha visto e documentato (in “Schiavi delle Banche”) come le “sovrastrutture” del globalismo che ha distrutto il “keynesismo” (e il benessere e la crescita) siano state progettate e imposte da leggi dello Stato, che abolivano le leggi precedenti. Tipicamente, ciò che era punito come “fuga dei capitali” quale crimine, divenne “libera circolazione dei capitali”; i dazi furono abbassati per legge esponendo i nostri lavoratori alla concorrenza di messicani, cinesi, romeni. Le borse internazionali furono coordinate apposta per trasformarle in una borsa mondiale aperta 24 ore su 24, dove quando chiudeva Wall Street aprivano Londra, e poi Tokio. Trucchi della “ingegneria finanziaria” come i derivati, che prima sarebbero stato soggetti ai rigori del codice penale, furono legali.  Le leggi che su imitazione della Glass-Steagall Act vietavano alle banche di giocare nel casinò finanziario i depositi dei risparmiatori, furono abolite in tutti gli Stati occidentali. I mutui concessi dalle banche americane non restarono più nei libri contabili di dette banche, con il loro rischio di insolvenza dei debitori; furono macinati insieme   a migliaia e rivenduti a pezzetti a fondi-pensione con la promessa che questi oggetti “davano un interesse”. In pratica le banche sbolognarono il rischio che s’erano assunte prestando soldi a ragazze-madri negre con salario precario da 600 dollari a mese, a terzi ignari: roba da codice penale, una volta. Le norme penali adesso non valevano più.

 

Insomma il supercapitalismo finanziario terminale non è un fenomeno naturale.  È stato progettato, voluto, preparato con leggi che abolivano le leggi. Apprendo con piacere che anche per Fazi e Mitchell è sbagliato interpretare tale processo come un “indebolimento dello stato”, “occorre al contrario prendere atto che proprio gli stati – a partire dal nostro – hanno scelto autonomamente di subordinare le proprie scelte a vincoli esterni, il che non significa che si sono suicidati, bensì che hanno attuato con successo un progetto radicale di indebolimento delle classi lavoratrici e di svuotamento della democrazia”. I due hanno la franchezza di notare che “le sinistre” hanno responsabilità primarie nell’aver creato la nuova ideologia neoliberale diventata Stato: come le “teorie nate negli stessi ambienti di sinistra, come la tesi secondo cui una delle cause fondamentali della crisi era la spirale incontrollata della spesa pubblica”.   Non dimenticano che “già a partire dagli anni Settanta Enrico Berlinguer tesserà l’elogio dell’austerità come strumento per rilanciare crescita e occupazione”, come un odierno Cottarelli o una tanto de sinistra come la Veronica de Romanis, che si ritiene una economista essendo moglie del banchiere Bini Smaghi, miliardaria, e autrice dell’aureo libretto “L’austerità fa crescere”. Dai primi anni Ottanta all’ingresso nell’area dell’euro – scrive il recensore su Micromega-   la frana diverrà inarrestabile. I Carli, gli Andreatta, i Ciampi e il grande privatizzatore Prodi avranno mano libera per scandire le tappe di una marcia accelerata verso la de-sovranizzazione, de-politicizzazione e de-democratizzazione dello stato italiano: adesione allo SME, divorzio fra Tesoro e Banca centrale, approvazione del Trattato di Maastricht, fino al colpo di grazia della rinuncia al potere di emissione della moneta e all’integrazione nell’area dell’euro, che imporrà “ l’inserimento obbligatorio del neoliberismo in Costituzione e il divieto di adottare politiche keynesiane”. Conclusione dei due marxisti:

 

“Oggi, dopo decenni di smantellamento sistematico, non resta altra alternativa se non riconquistare la sovranità nazionale e popolare come presupposti irrinunciabili per rilanciare quel progetto politico che venne accantonato quarant’anni fa, a partire dalla sovranità monetaria e dalla conseguente possibilità di finanziare il fabbisogno della spesa pubblica attraverso l’emissione di moneta”.  Le ragioni dell’esplosione del debito pubblico italiano negli anni Ottanta non sono da ricercare in un improvviso aumento della spesa pubblica – che anzi è rimasta in linea con la media europea per tutto il periodo – ma piuttosto nella decisione di far aumentare vertiginosamente i tassi di interesse (funzionale alla partecipazione dell’Italia al Sistema monetario europea (SME), in primis attraverso il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981 (Fazi). Insomma i due marxisti arrivano alle stesse conclusioni di Claudio Borghi,  Savona  e Bagnai. Tornare a quegli anni ’70 “in cui abbiamo fatto ampiamente ricorso alla spesa in deficit –   e il nostro rapporto debito/PIL è rimasto relativamente stabile intorno al 50-60%, grazie soprattutto alla parziale monetizzazione del deficit pubblico e al calmieramento dei tassi di interesse da parte della Banca d’Italia” (Thomas Fazi).

 

Che dire?  È evidente che tutte le personalità che nello spazio pubblico, giornalistico, televisivo e accademico, parteggiano per l’euro e fanno il tifo per lo spread, invocano il ritorno dei “tecnici” e idolatrano Draghi che ci punirà e farà cadere il governo “fascista” e “razzista” – i Formigli e le Gruber, i Floris e i direttori di Repubblica – stanno usurpando. Usurpano il nome di “sinistra” – l’hanno portato via a Fazi e Michell – e usurpano lo spazio pubblico televisivo – politico che spetterebbe a loro, i marxisti. A  ben pensarci, la cosa è evidente. Salvo errori, mai Thomas Fazi o Fassina vengono invitati nel salottino della Gruber o della Berlinguer. Nei talk show “progressisti” pro-euro invitano sì Diego Fusaro, ma come si mostra in gabbia un animale estinto, pittoresco per il suo linguaggio antiquato, il “Marxista di un tempo”; avendo cura di tagliarne l’audio al momento giusto e farne svanire il collegamento.  Gli usurpatori del nome Sinistra non danno alcuno spazio a quelli di cui hanno usurpato lo spazio politico, e lo danno alle miliardari-economiste. E i Fazi e i Fassina sono dei senza-casa, impossibilitati ad esporre le loro idee di sinistra vera nei media di massa. Esiliati. Chi può capirli meglio del vostro cronista. Da cattolico, constata e soffre l’occupazione del Vaticano della setta sodomitica, che usurpa il nome di “Chiesa” per benedire nozze gay, lavare piedi a musulmani, e proclamarla “accoglienza senza limiti”, facendo passare tutto questo per “misericordia”. Da   vecchio “conservatore”, ha visto usurpare il nome e il concetto dalla potente setta degli ebrei ex trotzkisti americani, definitisi “neocon”, ossia neoconservatori, e compiere sovversioni dall’Ucraina alla Siria ed oltre, e cercare di distruggere ogni valore di destra e chi lo incarna, come Putin. È un’epoca dove dominano le contraffazioni in ogni campo, di mascherature e di camuffamenti dovunque.  In questo politica “populismo” diventa “l’anatema da scagliare contro ogni forma di opposizione al pensiero unico liberal liberista”.  Sovranismo, per accreditare cioè l’associazione automatica fra ogni posizione politica che rivendichi la riconquista della sovranità nazionale e l’uscita dall’Unione europea –   e i nazionalismi di destra” (Formenti).  Marxisti che siano allo stesso tempo sovranisti, sono in grado di dimostrare e argomentare che il recupero della sovranità non è una patologia “identitaria” pulsionale parafascista, ma una necessità democratica e dello stato di diritto.  Quindi l’esilio tv. La contraffazione universale sembra essere la necessità conseguente all’usurpazione generale del potere legittimo, in ogni campo, da parte di poteri indebiti, che si reggono sulla menzogna. […]

 

Maurizio Blondet

 

 
Il sovranismo non nasce dalla crisi economica PDF Stampa E-mail

13 Novembre 2018

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Da Rassegna di Arianna dell’11-11-2018 (N.d.d.)

 

I sovranisti non rappresentano per forza un voto di pancia o di protesta. E se anche il vento “populista” ha iniziato a soffiare nel 2009, con l’avvento della crisi economica, è impossibile oggi ribadire che quel voto sia frutto della crisi. Lo ha spiegato bene Foreign Policy, in un editoriale che ripercorre le ultime tappe della fine dei leader della socialdemocrazia e dell’avvento degli uomini nuovi che hanno preso il potere o stanno scalzando la vecchia guardia. Per molto tempo, ci è stato detto che i movimenti sovranisti fossero il frutto di una protesta. L’intellighenzia mainstream ha etichettato il fenomeno come una sorta di esaltazione demagogica delle classi popolari, in cerca di certezze dopo l’impoverimento causato dalla grande crisi che ha sconvolto l’Occidente. Ma relegarlo al pericolo di perdere potere d’acquisto o posti di lavoro rischia di essere superficiale, o quantomeno fuorviante. Non è solo la crisi economica ad alimentare i nuovi grandi partiti politici. Perché la crisi economica, che ancora c’è, evidentemente, in molti Paesi, non è più quella che sconvolto gli Stati europei e l’America nel 2008. E molti Stati dove crescono i movimenti “di protesta” sono in realtà estranei alla crisi. La disoccupazione non ha dati che indicano un malcontento diffuso, il popolo non è affamato. E in alcuni casi, i Paesi dove cresce il sovranismo, che viene etichettato come una sorta di “populismo di destra”, sono in realtà tra i più avanzati e ricchi d’Europa.

 

In questo senso, fanno riflettere i casi di tre Paesi: Germania, Olanda e Polonia. A Varsavia, i sovranisti sono esplosi quando il Paese era considerato la vera locomotiva dell’Europa orientale. Era il 2015 quando Beata Szydło di Dritto e Giustizia è diventata primo ministro. Poi è stato il turno di Mateusz Morawiecki, sempre della destra polacca. Il partito di Jarosław Kaczyński ha da sempre portato avanti una retorica nazionalista, fortemente legata ai valori cattolici della Polonia e ancorata a una visione conservatrice della società civile. Ha strappato le redini del Paese al partito di Donald Tusk, che promuoveva l’europeismo dalla sua Piattaforma civica per traghettare Varsavia nell’alveo dell’Europa occidentale. E invece la Polonia, nonostante la crescita economica e nonostante l’interesse nell’entrare nell’Unione europea, si è scoperta sovranista e anti-Ue. Lo stesso può dirsi dell’Olanda. Un Paese ricco che non ha sofferto la crisi economica come altri Paesi dell’Unione europea. I Paesi Bassi non hanno avuto l’emigrazione dei giovani, non sono crollati i salari, la disoccupazione, ad agosto 2018, era del 3,9%, con un picco massimo del 6 per cento nel 2016. Anche qui l’economia è in crescita, eppure l’ultradestra di Geert Wilders non domina ma è una costante. Idem per la Svezia, dove i Democratici svedesi di Jimmie Akesson hanno invaso il parlamento di Stoccolma. Il caso della Germania, invece, è ancora più eclatante. Angela Merkel sta lentamente collassando. E se la Cdu vuole spostarsi a destra, il vento del sovranismo sta prendendo piede in tutto il Paese. Non c’è parlamento locale in cui l’Alternative fur Deutschland non abbia preso seggi. Il partito dell’ultradestra ha guadagnato consensi e continua ad accrescere il suo peso in tutto il territorio tedesco. E questo nonostante la Germania resti la locomotiva d’Europa e il Paese che di fatto rappresenta il cuore economico e industriale dell’Unione europea. La Baviera, in questo senso, è stata un esempio perfetto: un Land ricco, produttivo eppure con un elettorato che si è spostato a destra.

 

Perché quindi la crisi non serve a spiegare il sovranismo? Perché i sovranisti si fondano su altre esigenze. Che sono le stesse che negli Stati Uniti hanno condotto all’elezione di Donald Trump nel 2016 o alla conferma dei repubblicani nell’America profonda, rurale e industriale. Non c’è solo l’economia. C’è una crisi di identità, una volontà di riavere una società da cui le persone della parte più profonda del Paese si sentono escluse. Non è una lotta per la sopravvivenza economica, ma una lotta quasi antropologica, culturale, che sposta l’attenzione non sul portafogli, ma su altri valori. C’è l’immigrazione, c’è la sovranità politica ed economica, c’è la sfida verso il progressismo ultra-liberale. Steve Bannon, parlando del voto negli Stati Uniti, non ha parlato di economia, ma di lotta fra “nazionalisti” e “cosmopoliti”. I sovranisti europei non prendono consenso parlando di lavoro e tasse, ma di chiusura dei confini e di identità perduta, di cultura patria e di valori da ripristinare. È per questo che il sovranismo è destinato a rimanere saldo in tutto l’Occidente, mentre la socialdemocrazia perde colpi. Perché i partiti del mondo liberale non rispondono alle esigenze della popolazione che si sente sempre più esclusa non a livello economico, ma a livello culturale. C’è un senso di estraneità a un mondo di cui non ci sente più parte. E quei valori che hanno costituito le basi delle società occidentali, sono colpiti costantemente da un mondo progressista che sta mettendo sotto assedio parti sempre più ampie delle popolazioni facendo riaffiorare un sentimento identitario sopito negli ultimi decenni. I sovranisti vincono perché hanno infiammato l’identità nazionale delle persone. Ma lo stanno facendo soprattutto perché il mondo progressista ha messo in dubbio le diversità. E queste, sotto attacco, riaffiorano. E riaffioreranno sempre finché il progressismo non cambierà obiettivi.

 

Lorenzo Vita

 

 
Socialista, perciò non "di sinistra" PDF Stampa E-mail

12 Novembre 2018

 

Secondo alcuni la cameriera che diventa deputato è una gran cosa e una grande lezione proveniente dall'America, mentre Di Maio presidente del consiglio sarebbe ridicolo e rimarrà per sempre, ai loro occhi, "il bibitaro". È evidente lo squallore morale di coloro che adottano nelle due identiche situazioni due distinti punti di vista. Sono persone incoerenti. Ma questo è soltanto il minimo. Sono evidentemente incoerenti perché anti-italiani ossia sono dei razzisti. Ma questo è soltanto l'aspetto di media gravità. La cosa più grave è l'idolatria per gli Stati Uniti.

 

In definitiva, a sinistra si trovano miserabili che idolatrano gli Stati Uniti, disprezzano l'Italia e sono persino incapaci di comprendere che sono e appaiono incoerenti. Ora, fin quando queste persone non saranno disprezzate dalle rimanenti persone di sinistra, perché stupide (incoerenti) classiste (l'accusa di essere bibitaro), razziste e idolatre (si condanna in Italia ciò che si esalta negli Stati Uniti), è evidente che nessuna persona di buon senso vorrà mai più essere definita di sinistra, perché di sinistra significherà o essere miserabili o non disprezzare i miserabili. In fondo è questa la ragione per la quale da oltre diciotto anni mi auto-qualifico socialista patriota e democratico e ho rinnegato l'auto-qualifica "di sinistra". Una scelta che serviva a dire che non avevo nulla a che vedere con gentaglia che, sotto il velo "di sinistra", è classista (e quindi liberale), razzista, esterofila ed anche enormemente stupida, perché incapace di capire cosa palesemente è.

 

Stefano D’Andrea

 

 
Sovranisti sono solo gli statalisti PDF Stampa E-mail

11 Novembre 2018

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Da Appelloalpopolo del 9-11-2018 (N.d.d.)

 

L’uscita dall’euro è un tema che non esiste. I sedicenti “sovranisti” che propongono questa posizione, sostenendo l’ipotesi di un abbandono dell’unione monetaria che non contempli il recesso dall’UE, mentono sapendo di mentire. Come gli unionisti che brandiscono sempre questo manganello dello spread, accusando i predetti di farci “cacciare” dall’euro.

 

L’unione monetaria non prevede meccanismi di risoluzione (per precisa volontà politica) e la procedura di recesso dall’UE ex art. 50 del TUE è un processo lungo e articolato, che prevede una fase negoziale nel corso della quale le parti sono sottoposte a pressioni mediatiche e politiche che producono conseguenze sugli effetti del negozio giuridico. Se l’Italia dovesse arrivare a un passo dal default, scatterebbero i meccanismi automatici di salvataggio (si chiamano di salvataggio ma invero ti affogano definitivamente), ma mai nessuno si sognerebbe di mettere al voto un’eventuale esclusione della terza economia dell’UE, secondo manifatturiero e primo paese per risparmio privato. Vorrebbe dire la fine di tutto. Senza l’Italia l’unione si dissolverebbe. Ecco perché l’UE durerà finché non decideremo di uscire, cioè finché al governo non ci saranno forze politiche intenzionate a riportare la Costituzione al vertice delle fonti normative cui deve conformarsi l’ordinamento statale italiano. E non saranno di certo quelli che odiano lo Stato da sempre a rivendicare questo primato.

 

Gianluca Baldini

 

 
La distruzione del nostro ordinamento economico-giuridico PDF Stampa E-mail

9 Novembre 2018

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Da Appelloalpopolo del 5-11-2018 (N.d.d.)

 

La parità fra Stati di cui all’art. 11 commi 2 e 3 della Costituzione (che disciplina le nostre eventuali limitazioni di sovranità a vantaggio di organizzazioni internazionali) non è intesa in senso formale, come vorrebbero i liberali. Cioè non coincide con l’applicazione delle stesse regole a Stati dotati di ordinamenti giuridici molto diversi (frutto di peculiari evoluzioni sociali e politiche, spesso lunghe secoli). È una parità sostanziale, che si deve tradurre nella parità di poteri e quindi di sovranità. Se applichiamo la Costituzione economica tedesca all’Italia, attraverso il Trattato di Maastricht e le successive integrazioni, stiamo andando nella direzione opposta dell’art. 11 della Costituzione italiana. La Germania infatti ha continuato a godere dei poteri di cui disponeva precedentemente, ma l’Italia ha perduto gran parte dei suoi. In termini relativi il guadagno di sovranità tedesco è immenso, e le condizioni di parità richieste dalla nostra Carta sono inesistenti. Meglio spiegarsi più concretamente: la Germania del secondo dopoguerra ha adottato un ordinamento ostile all’inflazione e orientato alle esportazioni, indirizzato ad un’economia (sociale) di mercato fortemente competitiva nella quale lo Stato riveste un ruolo diretto tutto sommato marginale, preferendo regolamentare più che intervenire (è il cosiddetto ordoliberalismo).

 

L’Italia ha adottato nel 1948 un ordinamento che, sia pure nell’alveo della democrazia formale, si può definire opposto a quello tedesco. La nostra Costituzione impone ai governi, di qualsiasi colore, la piena occupazione (derivata dall’art. 1: la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro) e una protezione notevole dei diritti dei lavoratori di fronte alle naturali pretese del capitale privato. Lo Stato deve piegare l’iniziativa privata a fini sociali e intervenire direttamente e indirettamente per valorizzare i grandi complessi industriali del Paese. È un ordinamento fondato sulla domanda interna piuttosto che su quella estera, e che quindi necessita di un’inflazione strutturalmente maggiore di quella richiesta dal sistema tedesco. Ciò premesso, come si può definire paritario un insieme di Trattati che impongono all’Italia come alla Germania gli stessi rigidi vincoli di finanza pubblica (3% di deficit e poi pareggio di bilancio), lo stesso divieto di aiuti di Stato alle imprese (con l’Italia che aveva una quota pubblica di valore aggiunto nel settore manifatturiero pari al 18% nel 1992, contro il 9% della Germania), lo stesso divieto di vincolare la circolazione dei capitali (con l’Italia che aveva bisogno di proteggere il lavoro più che la concorrenza) e lo stesso divieto di utilizzare le leve di politica monetaria e valutaria (con l’Italia che aveva bisogno di scaricare sul valore della moneta la maggiore inflazione, a differenza della Germania)? Questa non è parità, è distruzione di un ordinamento giuridico-economico che aveva portato benessere diffuso e sviluppo industriale attraverso l’importazione di un modello che non ci appartiene, e che ci impone di favorire il grande capitale globalizzato invece che il lavoro (e con esso la piccola impresa privata che dipende dai salari). È tipico dei liberali sostituire l’interpretazione formale della realtà a quella sostanziale, svuotando il significato dei concetti così da manipolarne più facilmente l’indirizzo prescrittivo. Lo hanno fatto innanzitutto col concetto di Libertà, trasformata nella semplice rivendicazione di diritti slegati dai doveri, e quindi nella libertà di non contare nulla (senza vincoli famigliari, di partito e di appartenenza nazionale non c’è alcun argine alla spoliazione dei diritti) e subito dopo con quello di Democrazia, che si esaurirebbe nel processo elettorale e nella semplice presenza dell’istituzione parlamentare, comunque sia declinata (un sistema maggioritario e presidenziale equivale formalmente ad un sistema proporzionale e parlamentare). Ecco allora che nel mondo liberale in cui ci troviamo da quasi quarant’anni il Trattato di Lisbona e la Costituzione italiana, cioè due ordinamenti giuridici antitetici, formalmente possono convivere insieme. La sostanza invece è che il primo produce effetti concreti nella società e nell’economia, mentre la seconda è stata disattivata. Solo una volta compreso questo si può rivendicare seriamente la sovranità.

 

Simone Garilli

 

 
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