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Se non c'è la ricerca della verità, la democrazia è il totalitarismo dei mediocri PDF Stampa E-mail

29 Ottobre 2018

 

Da Rassegna di Arianna del 26-10-2018 (N.d.d.)

 

Lo abbiamo già detto, a noi è toccato in sorte di vivere al tempo della post-verità: quando si può dire impunemente tutto e il contrario di tutto, tanto il risultato è lo stesso ed è sempre a somma zero. Quel che conta, oggi, non è dire la verità, ma dire qualcosa che resti impresso, qualcosa che faccia colpo, qualcosa che sia fruibile e spendibile come un prodotto pre-confezionato, usa-e-getta, a disposizione del cittadino-consumatore del terzo millennio. Al cittadino-consumatore non importa affatto sapere qual è la verità, e perfino se c’è la verità; a lui basta avere la propria verità, perché gli è stato insegnato, fin da quando succhiava il latte materno, che ciascuno ha diritto alla sua verità, e chi siamo noi per giudicare gli altri? Quindi, se uno vuol dire che una torta è una merda, e una merda è una torta, chi siamo noi per affermare che costui si sbaglia, che costui mente, che costui non dice le cose come stanno? Noi non siamo nessuno. Nessuno, infatti, può dire di aver la verità in tasca: sarebbe un atto d’insopportabile presunzione; un atto degno di un fascista, di un razzista, di un populista (che è, oggi, l’offesa peggiore delle tre). Il guaio è che ci stiamo abituando; che molti di noi si sono già abituati. Si sono abituati a vivere in un mondo senza verità, dove la verità non ha più alcuna importanza. Non si chiedono più se una cosa sia vera o falsa, ma semplicemente se sia utile o no, se serva ai loro interessi oppure no. In fondo, è l’estremo approdo, ma perfettamente logico e naturale, della mentalità utilitarista e pragmatista: di quel pragmatismo filosofico che ha celebrato i suoi trionfi nell’Inghilterra del XVIII secolo, e, di lì, si è diffuso in tutto il mondo, convertendo tutti i popoli alla sua logica strumentale. E se vogliamo risalire ancora più indietro, possiamo risalire al relativismo, il cui padre spirituale è stato un altro inglese, Guglielmo di Ockham, un frate francescano vissuto fra il XIII e il XIV secolo, padre del nominalismo e, a ben guardare, di tutto l’indirizzo relativista della cultura moderna. Come si vede, la modernità muove i primi passi all’ombra della cultura tardo medievale, fra l’età di Dante e quella di Petrarca.

 

Ma perché dovrebbe essere un guaio vivere in un mondo che ha relativizzato la verità? In primo luogo, osserviamo che questa è una novità assoluta nella storia del pensiero e in quella della morale. Fino a oggi, anzi, fino a ieri, tutti i popoli e tutte le generazioni hanno ritenuto che la verità sia un bene primario, che sia la condizione per la costruzione di un mondo ordinato e di ordinate relazioni sociali; e che senza di esso l’esistenza umana perderebbe di significato e scivolerebbe nel caos. Esageravano? Siamo più intelligenti noi, noi moderni, o post-moderni, noi che abbiamo eretto un tempio alla post-verità, e che in quel tempio offriamo i nostri quotidiani sacrifici? Oppure avevano capito più cose loro, erano più nel giusto loro, e siamo noi che abbiamo deviato dalla retta via, e ci stiamo smarrendo nella foresta dell’errore? Sia ben chiaro che questa non è una disputa puramente teorica: ne va della nostra dignità, della nostra libertà e della nostra stessa sopravvivenza. Se è vero che non si può vivere in un mondo che abbia voltato le spalle alla verità, allora si tratta di capire se vogliamo continuare a vivere da uomini, o se preferiamo vivere da bruti. Noi siamo dell’opinione che avessero ragione i nostri avi e che un mondo senza verità sia un mondo invivibile, una foresta popolata di mostri. Se tutte le verità si equivalgono, e dunque se non c’è la verità, allora ciò che è mostruoso vale quanto ciò che è armonioso; ciò che è orrido, quanto ciò che è meraviglioso; ciò che è ingiusto, quanto ciò che è giusto; ciò che è stupido, quanto ciò che è intelligente. Se rinunciamo all’idea che la verità esiste, e che noi, almeno fino a un certo punto, possiamo attingere alla sua sorgente, allora non ci resta che sprofondare come rane nel pantano, e gracidare stupidamente per tutto il resto della nostra misera esistenza. Un gracidio in più o in meno non farà alcuna differenza: e gracidare la Divina commedia, o la Summa teologica, o la Toccata e fuga in re minore, sarà la stessa cosa che gracidare, o grugnire, o ragliare, qualsiasi sciocchezza, volgarità o blasfemia ci venga il capriccio d’infliggere al prossimo. Abituarsi a vivere in un mondo senza verità, o, il che è la stessa cosa, dove tutte le verità si equivalgono, anche le più opposte, implica un progressivo ottundimento della coscienza, della sensibilità, del rispetto di se stessi; significa abituarsi a qualsiasi cosa, a mandar giù qualsiasi frode, e anche abituarsi a rifilarla agli altri. Per molte persone, senza dubbio la stragrande maggioranza, questo non rappresenta un problema, semmai il contrario: una semplificazione. La vita moderna è complicata, faticosa, stressante; perciò si sente il bisogno di sbarazzarsi di qualcosa, per potersi concentrare su ciò che è più importante. L’essenziale, per tali persone, è il vestito, o il taglio dei capelli, o l’ultima puntata del Grande Fratello, a parte il lavoro e le altre necessità e i doveri della vita sociale, affrontati più o meno di malavoglia; pertanto, ciò che si può sacrificare è la facoltà del pensiero, l’esercizio di una libertà consapevole. Per costoro, libertà è scegliere un canale televisivo fra cento canali, senza chiedersi se vi è realmente una differenza fra di essi; oppure scegliere una marca di piselli surgelati o di carne in gelatina invece di un’altra, senza chiedersi cosa ci mettano dentro le multinazionali del settore alimentare. Per tali persone, non dover fare i conti con la questione della verità è un fatto positivo, una vera e propria benedizione: in ultima analisi, è scrollarsi di dosso una grossa seccatura. Dopotutto, se la libertà esiste, essa implica una responsabilità: quella di riconoscerla; e, se non la si riconosce, è probabile che ne deriveranno dei sensi di colpa, magari a livello subcosciente. Pertanto, meglio decidere, una volta per tutte, che la verità non esiste, e profittare dell’occasione per sentirsi delle persone migliori, purché si faccia passare quella affermazione per un esercizio di umiltà: chi sono io per dire cos’è la verità? E poco importa che un certo Gesù Cristo abbia detto, pochi minuti prima di essere crocifisso (Gv 18, 37): Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce; e che un certo Ponzio Pilato gli abbia replicato, senza aspettare la risposta: Che cos’è la verità?

 

Il fatto è che la verità esiste: ha la sgradevole caratteristica di esistere, anche a dispetto di quanti la negano. La verità - scegliamo, fra tutte, la classica definizione scolastica - è l’accordo fra la cosa e il giudizio. Che una mela sia una mela, ecco la verità, come direbbe san Tommaso d’Aquino. Certo, noi possiamo anche dire che nessuno è in grado di giudicare con certezza che una mela è una mela; ma il fatto che non si trovi più, in una società come la nostra, qualcuno che sia disposto ad affermare la verità, non significa che la verità non esiste. La verità esiste anche se non c’è nessuno che la affermi. La mela è una mela, e basta guardarla, per vedere e capire che è una mela. Se, poi, nessuno lo vuole fare; se nessuno vuole compromettersi, e affermare che il giudizio: questa è una mela, è un giudizio veritiero, questo non è più un problema gnoseologico, di conoscenza, bensì un problema morale, di coraggio. Non c’è nessuno che abbia il coraggio della verità. Naturalmente, la strategia dei paurosi, quando sono in tanti, è quella di camuffare con nobili ragioni la loro vigliaccheria. Allora, invece di dire: Sì, è scomodo riconoscere e affermare la verità, essi preferiscono dire: Non si sa cosa sia la verità; chi dice di saperlo è un bugiardo; noi, che riconosciamo di non saperlo, siamo persone mature, riflessive e soprattutto rispettose della complessità del reale. Noi non giudichiamo nessuno, quindi non vogliamo imporre la nostra verità agli altri. In questo modo, prendono due piccioni con una fava: si alleggeriscono della fatica e della responsabilità di cercare e affermare la verità, e si danno da se stessi la patente di persone moderne, rispettose del pluralismo, tolleranti, aliene da ogni dogmatismo. Da ciò si capisce come sia conveniente, oggi, dire che la verità non esiste: ci si trova in buona compagnia, anzi: si ha il sostegno di tutta la cultura dominante.  Al contrario, affermare che la verità esiste presenta ben due inconvenienti: primo, implica la fatica di cercarla e riconoscerla; secondo, presuppone la scelta di mettersi contro l’intera cultura dominante, cioè di esporsi alle critiche virulente di tutti gli altri, e, probabilmente, di finire alla berlina. La verità, in altre parole, è diventata un parente povero; tutti si vergognano di lei, nessuno è disposto a riconoscerla in pubblico. Quel che pensano in privato, poi, è un altro paio di maniche. Guai, però, a dire tutto questo a voce alta: si può pensarlo, ma è proibito dirlo in pubblico; guai ad alzare il velo dell’ipocrisia. […]

 

Tutto questo ha a che fare con la democrazia, cioè con la legge della maggioranza. Non è che la democrazia, in se stessa, sia una cosa brutta; al contrario, è sicuramente una bellissima cosa. C’è solo il piccolo dettaglio che essa presuppone che gli uomini siano di pari valore intellettuale e morale e che abbiano lo stesso amore per il bene e per il vero; il che è palesemente falso. E se è falso, allora ne consegue che la democrazia tende fatalmente a trasformarsi nel totalitarismo dei mediocri, dei vili e degli opportunisti; di tutti quelli che sarebbero disposti a testimoniare che una mela è una banana, o un ananas, se ciò rientrasse nel loro interesse o se qualcuno li pagasse profumatamente per dichiararlo sotto giuramento. O se ciò preservasse la loro tranquillità: perché la cosa a cui la maggior parte delle persone aspira è di stare tranquilla, di non aver noie e di potersi concentrare sull’essenziale: che è il consumismo. Per la maggior parte delle persone, potersi godere in pace la partita di pallone in televisione è molto più importante che preoccuparsi per una cosa tanto remota e fastidiosa, come la difesa della verità: in fin dei conti, perché esporsi a conseguenze spiacevoli, se si tratta solo di dichiarare, con un certo entusiasmo, che il re indossa un magnifico vestito, anche se, in realtà, se ne va in giro indossando i soli mutandoni? Il novantacinque per cento della gente è fatta di questa pasta. Non è un dramma: è sempre stato così e sarà sempre così. Solo che la modernità è contrassegnata dalla democrazia e, quel che è peggio, dalla sua assolutizzazione totalitaria,  lo spirito democraticista, per cui quel novantacinque per cento non si contenta di essere indifferente alla verità per puro istinto di sopravvivenza, ma pretende di stabilire, col suo libero raziocinio, che la verità non esiste, ma esistono solo le verità, al plurale, una per ciascun uomo, per ciascun gusto e per ciascuna situazione; e che se qualcuno contesta tale asserzione, ebbene costui va trattato da nemico pubblico, da reazionario, da crociato, da fascista, da nemico del pluralismo e della libertà. In realtà quel 95% di popolazione formata dal gregge non pensante, si lascia persuadere da chi è capace di influenzarlo, specialmente attraverso i mass-media, il cinema e la pubblicità. L’aspetto inquietante risiede nel fatto che tutti costoro credono di essere delle persone libere, addirittura dei liberi pensatori e quindi anche dei liberi ricercatori della verità, mentre non ricercano proprio un bel nulla, ciò che vogliono è un cibo precotto e, se possibile, predigerito, in modo da poterlo mandar giù senza neanche la fatica di doverlo masticare. Però, appunto, guai a dirglielo: diventerebbero feroci! E poi, chi può arrogarsi il diritto di dirlo, se non qualcuno che si pone al di sopra di loro? Ma in democrazia, è proibito porsi al di sopra di chicchessia: questa, almeno, è l’idea di democrazia che si son fatta i pecoroni che formano il 95% della popolazione. I quali, essendo fortemente politicizzati e sindacalizzati, non sono delle pecore bonaccione, come lo erano un tempo, ciascuna dedita al proprio orticello, ma tutto sommato disposte a lasciarsi guidare da chi ne sa più di loro; no: sono tutti dei geni, dei Leonardo, degli Aristotele. Ma siccome non sono dei geni, si lasciano circuire, abbindolare, manipolare: l’importante è che lo si faccia senza dirlo, senza ostentarlo; che lo si faccia, lasciando loro l’illusione di essere soggetti capaci di decidere liberamente. Ecco, questa la perfidia dell’ultima versione della democrazia, o forse dovremmo dire della post-democrazia: riduce in schiavitù l’intera società, lasciando però sussistere l’illusione della libertà universale; di più: dichiarando, per decreto, che i somari sono spariti sulla faccia della terra, e che ci sono soltanto i Leonardo e gli Aristotele. Certo, se fosse così dovremmo vivere in una società straordinariamente efficiente e progredita, cosa che non risulta. Da ciò nasce il fatto che quel 95% passa praticamente la vita a cercare dei colpevoli per le cose che non vanno come dovrebbero, sia nella sua vita che a livello generale. Logico: se viviamo in un mondo popolato di geni, come mai non siamo già in paradiso? Un colpevole deve pur esserci e state certi che prima o poi lo troveranno.

 

Francesco Lamendola

 

 
L'arte di creare mostri PDF Stampa E-mail

28 Ottobre 2018

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Da Rassegna di Arianna del 22-10-2018 (N.d.d.)

 

Sempre più spesso le guerre dell'era moderna non si combattono solamente con i missili "intelligenti", i droni e l'ausilio del satellite, ma anche e soprattutto attraverso il controllo e la gestione della realtà a proprio uso e consumo. La creazione di mostri ed eroi all'interno dell'immaginario collettivo, attraverso la distorsione e la manipolazione del reale è infatti di gran lunga l'arma più letale fra quelle usate dall'Occidente per schiacciare qualsiasi figura ritenuta "scomoda" ed annientare interi stati sovrani con l'ausilio di operazioni militari sanguinarie che godano dell'appoggio dell'opinione pubblica... Il metodo in sé è di una semplicità disarmante (ma proprio per questo ancora più letale) e consiste nello screditare il "nemico" attraverso l'attribuzione ad esso dei crimini più indicibili, senza che esista alcun fondamento per farlo, ma semplicemente usando il sistema mediatico e gli organismi internazionali controllati, come cassa di risonanza per influenzare pesantemente la percezione dell'opinione pubblica nella direzione voluta. La guerra al "mostro" verrà così avallata e giustificata da tutti, pur non avendo giustificazione alcuna, e poco importa se poi a distanza di anni emergerà la verità, perché ormai l'obiettivo voluto sarà stato raggiunto da tempo e quella verità verrà lasciata giacere nell'oblio mediatico, senza che la maggior parte dell'opinione pubblica ne venga a conoscenza o se ne curi e senza che gli organismi internazionali compiacenti perseguano in qualche maniera i mistificatori.

 

È accaduto nel 1990 a Saddam Hussein, diventato per il mondo intero un novello Erode che sterminava i bimbi nelle incubatrici dell'ospedale di Kuwait City, secondo la testimonianza di Navirah, profuga quindicenne che dichiarò dinanzi a 700 stazioni televisive di avere assistito personalmente a tale atrocità. Mentre solamente anni più tardi, quando la prima guerra del golfo era ormai terminata da tempo, lasciando sul terreno il suo carico di morte e disperazione, si scoprì che Navirah era in realtà la figlia dell'ambasciatore saudita negli Stati Uniti, non aveva mai soggiornato in Kuwait e l'intera messinscena era stata confezionata ad arte da un'agenzia pubblicitaria statunitense, ingaggiata per costruire il mostro e legittimare il conflitto. Accadde nuovamente nel 2003, quando la seconda invasione dell'Iraq fu giustificata con il fatto che Saddam Hussein fosse in possesso d'ingenti quantitativi di armi chimiche pericolosissime, mentre solamente una decina di anni più tardi, quando da tempo Saddam era stato giustiziato e l'Iraq sprofondato nel medioevo in cui giace ancora oggi, venne alla luce il fatto che in realtà quelle armi chimiche non esistevano affatto e rappresentavano solamente un escamotage finalizzato a giustificare quello che in realtà era ingiustificabile. Nel 2011 toccò al leader libico Gheddafi, rappresentato come un mostro responsabile del ferimento di 50mila civili e dello sterminio di altri 10mila "contestatori", interrati all'interno delle fosse comuni. Mentre qualche tempo dopo, quando la Libia era ormai tornata ad essere uno stato tribale e Gheddafi non aveva potuto sfuggire al proprio assassinio, emerse come in verità quei morti e feriti non fossero mai esistiti, mentre le fosse comuni in questione erano in realtà un normale cimitero nel quale erano stati spostati i resti dei defunti di vecchia data. Ma lo stato dell'arte nella manipolazione della realtà è stato senza ombra di dubbio raggiunto per quanto riguarda il Presidente Bashar al - Assad e la guerra condotta da gruppi terroristici di varia estrazione che ormai insanguina la Siria da sette anni. Fin dal primo momento, quando una serie di gruppi terroristici destinati a confluire successivamente "nell'Esercito siriano libero" iniziano a creare disordini, tentando di sfruttare l'onda lunga della "primavera araba" che ha destabilizzato larga parte dell'area, i media occidentali s'impegnano nel dipingere il Presidente Assad come un tiranno sanguinario, non perdendo occasione per etichettare il legittimo governo siriano come un regime, nonostante in realtà Assad sia un leader amato ed apprezzato dalla stragrande maggioranza del suo popolo, alla guida di un governo di stampo socialista che gode di un ampio appoggio popolare. Durante tutti gli anni del conflitto, nel corso del quale all'ESL si succederanno i gruppi islamisti, da Al Nusra fino all'Isis, spesso finanziati dall'Occidente, dalla Turchia, dall'Arabia Saudita e dal Qatar ed autori di massacri e violenze indicibili nei confronti della popolazione siriana, l'unico mostro dipinto ad uso e consumo dell'immaginario collettivo occidentale continuerà a rimanere il Presidente Assad. Rappresentato (senza che esista alcuna prova oggettiva a dimostrarlo) come il colpevole di tutta una serie di crimini dei quali molto spesso sono responsabili proprio i terroristi che l'esercito siriano sotto il comando di Assad combatte strenuamente. Il campionario è vasto e comprende tutte le accuse mistificatorie già viste in precedenza, dallo sterminio dei civili alle fosse comuni, ma è proprio sull'uso di armi chimiche che la macchina del fango manipolatrice si concentra maggiormente. Il primo tentativo avviene nell'agosto 2013, quando l'Osservatorio siriano per i Diritti Umani di stanza a Londra e vicino a fonti locali legate ai "ribelli", denuncia 350 vittime nella zona di Jobar a causa di un presunto attacco con armi chimiche compiuto dall'esercito di Assad. Notizia ripresa immediatamente (senza che esista alcuna prova tangibile dell'accaduto) da tutti i media internazionali e cavalcata dall'allora Presidente statunitense Barack Obama che si mostra pronto ad usarla come pretesto per un intervento armato degli Stati Uniti volto a spodestare Assad, intervento che non vedrà mai la luce solamente perché il Presidente russo Vladimir Putin si schiera fermamente in sua difesa. La successiva inchiesta portata avanti dall'Onu dimostra come forse a Jobar siano state realmente usate armi chimiche, senza però essere in grado di dimostrare se i colpevoli del gesto siano stati i terroristi o l'esercito siriano. Il secondo è dell'aprile 2017, quando una settantina di persone trovano la morte durante un presunto attacco chimico nella cittadina di Khan Shaykhun. Come già in precedenza tanto la macchina mediatica quanto i leader occidentali attribuiscono l'attacco in questione all'esercito di Assad, senza che sia stata portata a termine alcuna analisi internazionale sull'accaduto. Gli USA colgono l'occasione per effettuare un attacco missilistico contro una base militare siriana, ma la questione si chiude in tempi brevi senza che se ne parli più e 10 mesi più tardi lo stesso ministro della Difesa americano James Matis è costretto ad ammettere come non esista alcuna prova dell'uso di armi chimiche da parte di Assad a Khan Shaykhun. L'ultimo è dello scorso aprile 2018, quando la grancassa mediatica ed alcuni leader occidentali accusano Assad di avere compiuto un attacco aereo con armi chimiche a Douma, causando 100 morti e 1000 feriti. Emmanuel Macron, Donald Trump e Theresa May organizzano meno di una settimana dopo un attacco missilistico congiunto, finalizzato secondo le loro parole a punire "l'animale Assad" delle cui responsabilità possiedono prove granitiche. Nel mese di luglio l'Onu porta a termine l'inchiesta ufficiale sull'accaduto, arrivando a concludere come Assad non abbia usato nessuna arma chimica a Douma, dove oltretutto le vittime sono state 40 e non 100 come millantato dalla propaganda mediatica. Naturalmente, come sempre accade in questi casi, i risultati dell'inchiesta vengono sottaciuti dai media che invece avevano dato il massimo risalto alle accuse prive di fondamento lanciate qualche mese prima.

 

Per la prima volta però, grazie all'appoggio della Russia di Putin ed al commovente sostegno del popolo siriano, la creazione del mostro che non c'è non ha dato i risultati sperati e nonostante 7 anni di attacchi terroristici e guerra mediatica, la posizione di Assad come leader della Siria è oggi più salda che mai, mentre progressivamente l'intero Paese sta tornando sotto il suo controllo, a dimostrazione del fatto che anche la manipolazione dell'immaginario collettivo può fallire quando viene sottovalutato l'avversario che si ha di fronte.

 

Marco Cedolin

 

 
Identità delle persone e dei popoli PDF Stampa E-mail

27 Ottobre 2018

 

Da Rassegna di Arianna del 22-10-2018 (N.d.d.)

 

Il nocciolo della questione, the Hearth of the Matter, come dicono gli inglesi, è l'identità. Tutti i problemi e tutte le questioni si riconducono a questo: sapere chi si è. Identità significa consapevolezza, e consapevolezza significa padronanza di se stessi e capacità progettuale riguardo ai mezzi e ai fini che ci si prefigge nella vita. Senza dubbio vi sono molte persone le quali non si prefiggono un bel nulla e che scelgono a caso, di volta in volta, i mezzi da adoperare per fare questa o quella cosa, ma ciò significa una cosa soltanto: che tali persone hanno obliato la loro identità - o, peggio, che non l'hanno mai avuta. L'identità, infatti, è sia l'impronta che si riceve dal mondo esterno, fin dal concepimento (e non dalla nascita, questo è ormai assodato), sia la sua rielaborazione in chiave personale. Pertanto, noi siamo sia il frutto di ciò che - per dirla col buon vecchio Taine - la razza (intesa come eredità genetica), l'ambiente e il momento storico hanno fatto di noi, sia di ciò che noi abbiamo deciso (o cui abbiamo rinunciato) di essere. Se avesse ragione Taine, se avessero ragione i positivisti, i materialisti e i deterministi, noi saremmo solo il frutto di cose che non dipendono da noi, ma, apparentemente, dal caso, o forse dal destino; se invece, come noi crediamo, ha torto, allora diventa decisivo il fatto che noi assumiamo coscienza di noi stessi, che decidiamo che cosa vogliamo essere, e che rielaboriamo i dati esteriori della nostra vita per indirizzarli verso una meta da noi stessi determinata. Nel primo caso, si vive sostanzialmente a caso, senza speranza, zimbelli del caso o del destino, e con la prospettiva di scivolare, infine, nel nulla; nel secondo, si concepisce la vita come una chiamata, si valutano i fattori che giocano a favore o contro di essa, e si sceglie se si vuol rispondere positivamente o negativamente nei suoi confronti. Sono due maniere radicalmente diverse di vivere la vita, alle quali corrispondono quasi due forme differenti di umanità. Solo nel secondo caso la vita diviene qualcosa di dinamico, e cioè una evoluzione (o, al limite, una involuzione); nel primo caso, essa è e rimane qualcosa di statico, che non ci insegna nulla, perché non vi è in essa nulla da imparare, tranne le abilità necessarie a barcamenarsi nella foresta della contingenza, senza però arrivare mai a intravedere il cielo, al di sopra delle chiome degli alberi. E vivere nel folto della foresta, senza mai uscirne, equivale a vivere senza capire nemmeno se è giorno o notte, se è mattino o sera, cioè, fuori di metafora, se ci troviamo sul sentiero giusto, o no; se stiamo andando verso la luce o verso le tenebre sempre più fitte. […] Estendendo il ragionamento alle società, ai popoli e alle nazioni, appare chiaro che qualcuno ha interesse a inibire il senso della identità personale e collettiva, perché la società destrutturata e i popoli ridotti a masse di individui egoisti e narcisisti, sono solo bestiame da macello nelle mani di chi tiene le redini del gioco. Le redini del gioco sono nelle mani della grande finanza, il cui potere, negli ultimi cento anni, è cresciuto in misura esponenziale, e che sono giunti, oggi, a controllare la quasi totalità dell'informazione e anche di ciò che va pomposamente sotto il nome di cultura. Come esiste l'identità delle persone, infatti, esiste anche l'identità dei popoli; e sia l'una che l'altra sono sotto attacco da parte di quei poteri globalisti che vorrebbero fare tabula rasa di ogni identità, perché le identità sono definite dalle differenze, così come gli Stati sono definiti dei confini che li separano dagli altri Stati. Uno Stato che non abbia dei veri confini, non è più un vero Stato (ed è precisamente quel che ci sta accadendo, oggi, come Italia e come Europa, di fronte all'invasione massiccia di migranti e falsi profughi), così come un popolo senza differenze - etniche, linguistiche, culturali, religiose, perfino gastronomiche - non è più veramente un popolo, ma una massa confusa d'individui, privi di quelle individualità che rappresentano gli anticorpi necessari a contrastare quella forma di patologia tumorale che è la mondializzazione. Se non c'è più una cucina napoletana, una cucina bavarese, una cucina greca, resta solo McDonald's, resta solo un mondo dove tutti mangiano hamburger e patatine fritte. Si estenda questo ragionamento al cinema, alla letteratura, alla musica, al teatro, alla televisione, allo spettacolo, al tempo libero, allo sport, per non parlare della scuola, il luogo privilegiato dell'appiattimento e dell'omologazione, e si capirà quale sia la posta in gioco. Similmente, se un individuo non si sente se stesso neppure riguardo all'identità sessuale, ma considera una conquista di civiltà il fatto di poter cambiare sesso, o il proprio orientamento sessuale, qualora lo decida, e di pretendere che gli altri lo chiamino "lui" o "lei" secondo quel che egli decide soggettivamente, in barba alla propria identità biologica, allora viene a cadere anche uno dei fattori determinanti dell'identità in quanto tale, e subentra una realtà precaria, liquida, continuamente modificabile, indefinita e indefinibile, dove i ruoli sessuali mutano secondo un atto soggettivo della volontà. In un quadro di questo genere, viene meno, anche rispetto ai bambini, il concetto di "maschio" e "femmina", di "padre" e "madre", per non parlare del radicale stravolgimento che subisce il concetto di “genitorialità”, visto che basta affittare l’utero di una donna bisognosa e poi comprare il bebè, pagandolo in contanti per poi portarselo a casa, per divenire genitori anche in senso legale – almeno in alcuni Paesi, ma gli altri si adegueranno quanto prima, vista la tendenza generale. Oppure visto che fra poco si potrà scegliere su catalogo il bambino che si desidera avere, pagandolo da 75 mila a 120 mila dollari, con la tecnica degli ovuli e degli uteri in affitto, coinvolgendo una sola donna oppure due, una per i gameti e l’altra per l’utero, mentre al “cliente” – che sia una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale o anche un single - resta solo da consegnare lo sperma, e il gioco è fatto, cioè, la merce viene consegnata a domicilio, chiavi n mano, aggirando tutte le leggi in contrario.

 

Dunque, riassumendo. Oggi è in corso una partita decisiva fra le forze che mirano alla distruzione delle identità e quelle che, mediante una necessaria presa di coscienza, mirano a difenderla, preservarla e svilupparla: perché, come abbiamo visto, l'identità fa parte della consapevolezza, e la consapevolezza non è un elemento statico, ma dinamico, necessario all'evoluzione della vita. Tradizione e progresso sono i due corni della questione identitaria: è inconcepibile un progresso senza tradizione, ma anche una tradizione senza progresso. I due elementi devono trovare un equilibrio, almeno se si vuol realizzare una vita armoniosa, sia per il singolo che per la società. Chi nega la tradizione in nome del progresso è un barbaro, chi nega il progresso in nome della tradizione è un fossile. L'identità è il risultato del gioco dialettico fra i due elementi, entrambi necessari alla vita. Le forze interessate alla manipolazione degli uomini e dei popoli puntano le loro carte su un progresso senza tradizione, e, per giunta, su un progresso di tipo meramente materiale e quantitativo, specialmente il progresso tecnologico, mentre il vero progresso è innanzitutto un progresso della coscienza e quindi della spiritualità (fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza, dice il padre Dante). Perciò, oggi, è relativamente facile, se si possiedono ancora due occhi per vedere, due orecchi per udire e una testa per pensare, individuare il nemico: il nemico è tutto ciò che va nella direzione di un progresso senza la tradizione e contro la tradizione; di una modernità che abolisce i confini, le regole e le differenze; di un filantropismo e un umanitarismo a senso unico, che prescindono completamente dal dato della identità, per propagandare incessantemente un modello di individuo e di società che siano sostanzialmente intercambiabili, dove A è la stessa cosa di B, ma anche di C, D, E, ecc.; e dove, ecco il lato oscuro, e veramente diabolico, è la stessa cosa di non-A, non-B, ecc. In altre parole, la strategia di cui si serve il grande capitale finanziario, attraverso l'enorme macchina dei suoi servitori e dei suoi strumenti, per sottrarci l'identità, cioè la consapevolezza di noi stessi, e ridurci allo stato di piccoli narcisisti e consumatori compulsivi, cioè utili idioti passivi e totalmente manovrabili, mira a diffondere la post-verità: nulla deve più essere vero in senso assoluto, ogni verità deve  essere relativa, cioè deve essere rovesciabile nel suo contrario - in ultima analisi, deve scomparire, perché una verità relativa non è una quasi verità, ma è il contrario della verità. Ed ecco che la battaglia per difendere l'identità è una battaglia contro il relativismo, in tutte le sue forme, e spacciato sotto qualsiasi maschera. Fateci caso: i nemici dell'identità si riempiono la bocca con slogan dall'apparenza gradevole, o comunque suggestiva: abbattere muri, gettare ponti... ma la sostanza del discorso è che, abbattendo tutti i muri e gettando ponti ovunque, alla fine si distrugge ogni identità e si trasforma il mondo in un immenso campo di concentramento, i cui prigionieri non sanno di essere tali, ma lo sono, eccome. Anzi, non vi è condizione più infelice del prigioniero che non si rende conto della sua prigionia, dello schiavo che non vede le catene della sua schiavitù, perché quel prigioniero e quello schiavo non saranno mai sfiorati dal desiderio di recuperare la loro libertà. Evidentemente, stanno bene così. Questo è il pericolo più grande: che si arrivi al punto di essere contenti della propria schiavitù, del proprio abbrutimento. Vivere in maniera inconsapevole è proprio dei bruti: essere uomini, infatti, nel vero senso della parola, cioè uomini liberi, significa essere consapevoli della propria identità: sapere chi si è. Considerate la filosofia, l'arte, la letteratura e la poesia del secolo che ci siamo lasciati alle spalle: sono una incessante variazione sul tema della perdita dell'identità. Invece un paese ci vuole, come diceva Cesare Pavese: sì, un paese ci vuole per non regredire allo stato di bestie, o di schiavi. Che cosa saremmo noi, senza un paese, cioè senza una identità? Nient'altro che bestiame, creature irrilevanti. E precisiamo: il paese esteriore, quello della terra, dei parenti, del campanile, del lavoro, ma anche il paese interiore, quello dell'anima, fatto di radici, di ricordi, di memoria, di affetti. Se li abbiamo entrambi, siamo ancora uomini vivi; se no, è come se fossimo già morti: pronti per essere comprati o venduti in massa, al migliore offerente che si presenti sul mercato degli schiavi. Quello che più colpisce, oggi, parlando con i giovani, e anche con le persone fino a quarant’anni circa, è l’apparente indifferenza che dimostrano rispetto al loro paese natio, alle radici, ai genitori, ai parenti, e la disinvoltura con cui sono disposti a stabilirsi altrove, magari in Australia, senza troppi rimpianti, e, a volte, senza nessun rimpianto. […] Bisogna guardar le cose in faccia: per molti giovani, espatriare in cerca di un’occupazione è una sofferta necessità, ma per altri è l’occasione sognata da sempre, la possibilità di spiccare il volo. Il pensiero di lasciare il paese, gli amici, la famiglia di origine non li rattrista troppo, o non li preoccupa per niente: la verità è che non si sono mai sentiti particolarmente legati al luogo di nascita o al luogo di residenza, alla casa, ai genitori e agli amici. La casa, la famiglia e la patria, per loro, sono i luoghi dove c’è lavoro, ma anche dove ci sono delle cose più stimolanti, progredite, moderne. Il paese dove sono nati, la chiesa ove sono stati battezzati, l’asilo e la scuola che hanno frequentato da bambini, il cimitero dove riposano i loro nonni, il campetto da calcio dove giocavano coi loro amici, tutte queste cose non sono tali da trattenerli neppure un istante, né cose la cui lontananza sarà motivo di nostalgia: non si sentono legati ad alcun luogo, ad alcun momento del passato. In altre parole, hanno perso le radici; e chi perde le radici, perde la propria identità, diventa un numero nella massa, una rotella anonima dell’ingranaggio mondiale. Ora, proprio questo è l’obiettivo dei padroni della grande finanza: ridurre gli abitanti del pianeta a una turba senza radici, senza identità, senza coscienza di sé. Meglio ancora se costoro non sanno più neppure se restare con il sesso che la natura ha dato loro, oppure cambiarlo, visto che la cosa, che un tempo pareva impossibile, ora è lì, dietro l’angolo. L’unica istituzione che, a livello mondiale, ma specialmente in Occidente, avrebbe potuto - e dovuto - contrastare questo processo di distruzione dell’identità, era la Chiesa cattolica, coi suoi duemila anni di tradizione, di esperienza e di saggezza accumulate, con la sua autonoma visione del mondo, radicalmente opposta a quella del relativismo edonista oggi prevalente. Era perciò necessario metter le mani anche su di essa, o almeno sul suo vertice, ponendo gli uomini “giusti” nei posti-chiave, in modo che anche lei si adoperasse attivamente per favorire i processi di decostruzione dell’identità, a cominciare dalle invasioni/migrazioni. E la cosa ha funzionato così bene, che ormai neppure un cattolico è ancora certo di essere cattolico, o di non esser diventato, senza saperlo, qualcosa d’altro...

 

Francesco Lamendola

 

 
Nazionalizzazioni impossibili per l'UE PDF Stampa E-mail

26 Ottobre 2018

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Da Appelloalpopolo del 23-10-2018 (N.d.d.)

 

Il punto è molto semplice: uno Stato sovrano può nazionalizzare qualunque settore ritenga senza nessun bisogno dell’intervento della Magistratura. Nazionalizzare è una scelta politica e ci mancherebbe altro che non lo fosse. Questo è vero per tutti gli Stati, ma lo è in particolare per lo Stato italiano, laddove un giorno si decida di rimettere al vertice dell’ordinamento la Costituzione del 1948. Nel caso specifico di Autostrade per l’Italia, però, il governo in carica si trova a dover agire in un perimetro disegnato da altri. C’è una concessione che dura fino al 2042, ideata e poi rinnovata per periodi sempre più lunghi dai governi di centro-sinistra. Una concessione che interessa un monopolio naturale, il quale per sua natura non dovrebbe essere privatizzato nemmeno secondo i teorici liberali, ma tant’è. Nel concreto, quindi, il governo può trattare con il concessionario per ridurre i tempi della concessione e/o cambiarne consensualmente il contenuto, oppure può iniziare il lungo percorso di revoca della concessione che dipende però dall’esito giudiziario sulle gravi inadempienze di Autostrade per l’Italia. C’è una terza ipotesi: comprarsi le quote e nazionalizzare l’azienda attraverso un’operazione di mercato invece che in punta di diritto. Le ovvie difficoltà finanziarie di Autostrade per l’Italia, dopo il crollo di Genova, dovrebbero aiutare in questo senso, ma per cosa si nazionalizza se non per investire pesantemente in manutenzione, rinnovamento e potenziamento della rete stradale compensando i bassi investimenti dei Benetton?

 

Ecco allora che sorge il problema dei vincoli europei, che tanti soloni in questi giorni hanno negato, spesso perché in malafede e talvolta perché disabituati dalla tirannia della cronaca a ragionare in maniera un minimo sistemica. Oltre al vincolo legale (concessione già in essere e molto lunga) facilmente aggirabile da uno Stato con pieni poteri, esiste dunque un vincolo ben più stringente, seppur indiretto: il vincolo esterno che una classe dirigente liberale ci ha imposto per attuare la sua rivoluzione silenziosa. Lo Stato italiano non può spendere perché deve rispettare il percorso verso il pareggio di bilancio, e se lo facesse dovrebbe pagare sempre maggiori interessi sul debito dato che la Bce, non garantendolo, lascerebbe campo libero ai cosiddetti mercati. È il vincolo europeista che impone allo Stato italiano la strada impervia della trattativa o quella lunga e incerta della revoca. Un governo che ha cuore la sovranità nazionale e l’interesse dei cittadini dovrebbe porre con forza la questione del vincolo esterno europeo e agire di conseguenza, altrimenti la partita si gioca in trasferta, ed è persa in partenza.

 

Simone Garilli

 

 
L'antifascismo degli antisocialisti PDF Stampa E-mail

25 Ottobre 2018

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Da Rassegna di Arianna del 23-10-2018 (N.d.d.)

 

Partiamo dal convincimento che la verità sia nel tutto, come Hegel insegna, quindi anche nelle sue necessarie interne contraddizioni. L’antifascismo, cosi come il neofascismo, prescinde da questo tutto, trasformando il fascismo in un archetipo che è quello che gli altri hanno deciso per lui. Una valutazione unica è doverosa non certo per una volontà riabilitativa, ma soltanto per avere un’arma in più per una corretta interpretazione, non del passato, ma del presente che, stando così le cose, pesa molto di più perché drogato. Per questo è particolarmente illuminante il significato del termine fascismo così come evocato dagli antifascisti. Il suo uso prescinde da una valutazione storica, così come da una politica o filosofica, il suo uso non è neanche quello di un semplice aggettivo denigratorio, ma è un investimento per garantirsi sempre il diritto all’ esistenza e alla ragione. Prescinde persino dallo spazio temporale, persino da una prospettiva manichea, come se il fascismo, in quanto Male Assoluto, fosse sempre esistito. Una cloaca comunque da contrapporre alla propria autoreferenzialità. Al suo cospetto, tutto sembra svanire, dal colonialismo, alla tratta degli schiavi, allo sterminio degli Indiani d’America, al genocidio degli abitanti della Tasmania, persino lo sfruttamento sembra così sopportabile dinanzi al fascismo, la “legge bronzea dei salari” di Ricardo finisce per coincidere con una piattaforma per il rinnovo contrattuale. L’antifascismo diventa l’abito buono che dà i super poteri, un mezzo per diventare dei fuoriclasse. L’antifascismo è così potente da far scomparire non solo Giovanni Gentile, ma anche Karl Marx e Antonio Gramsci. La gravità di una tale liturgica investitura risiede tutta nell’inautenticità dell’antifascismo. […]

 

Fino al 1936, malgrado tutto, al PCI il fascismo, almeno non tutto, non doveva apparire così orrido, visto “L’appello ai fratelli in camicia nera” firmato da sessanta dirigenti del Partito, compreso Togliatti. Nello stesso anno iniziano le purghe staliniane ed i processi ai trotskisti. Con la guerra di Spagna s’assiste forse al primo tentativo di usare l’antifascismo come fosse un’arma, e questa volta l’uso che se ne fa è senz’altro politico. I compagni anarchici e trotskisti del POUM vengono massacrati perché inspiegabilmente s’erano messi al soldo del fascismo secondo l’accusa. Il format calunnioso, di una sola maschera da mettere in faccia a tutti i nemici, viene sperimentato anche altrove, sempre con buoni risultati. Si trovano infuocate pagine su l’Unità, siamo nel gennaio del 1944, che invitano a schiacciare tutti gli infiltrati, sempre trotskisti, fattisi oramai la quinta colonna del nazifascismo. Il messaggio probabilmente era rivolto anche al più grande gruppo partigiano di Roma, il Movimento Comunità d’Italia riunito sotto il quotidiano Bandiera Rossa che, cosa da non crederci, era più diffuso de l’Unità. Il gruppo Bandiera Rossa era distante anni luce dal CLN, cosi come dal PCI, in quanto antimonarchico, antibadogliano, ma soprattutto avrebbe voluto non consegnare Roma agli Alleati, ma bensì proclamare “La Repubblica Romana dei Lavoratori”. Stranamente questi compagni, malgrado il loro grandissimo contributo alla resistenza, non appariranno negli annali della epopea dell’ANPI, mentre molti di loro moriranno sotto le provvidenziali raffiche naziste delle Fosse Ardeatine. Fondamentale è il documento di chiusura della III Internazionale comunista, maggio 1943, in esso scompare esplicitamente il concetto di rivoluzione socialista lasciando il posto alla necessità d’aderire al “blocco antifascista”. Bordiga, altro fondatore del PCI, ebbe modo d’affermare che la cosa peggiore che aveva prodotto il fascismo era proprio l’antifascismo, il tronfio antifascismo che abbracciava anche l’odiato nemico borghese. Alla affermazione di Bordiga farà eco più di mezzo secolo dopo, confermando il mortale abbraccio con il nemico di classe, quella di Costanzo Preve quando disse che peggio del fascismo c’era solo l’antifascismo. Tra i due comunisti, solo qualche bagliore di lucidità, primo fra tutti quello di Pier Paolo Pasolini.

 

L’inautenticità dell’antifascismo risiede nel suo essere antistorico e non contestuale, quindi non un momento antitetico da opporre alla sua affermazione, ma un opporsi che diventa evanescente perché il farlo non contempla il momento della tesi reale e di conseguenza quello del divenire nella sintesi. La sua pretesa di autenticità necessaria passerà allora esclusivamente nel vedere nel qualunque altro, quello fuori da sé, un fascista. Non si tratta più di un solo uso mistificante del termine, ma questo diventa una piattaforma pseudo ideologica onnivora, capace per questo di procedere ad un processo di metamorfosi genetica. La rimozione della missione storica del corpo sociale, sedato dall’antifascismo nel tempo, è stata lenta ma costante, fino ad essere completa. Dallo scambiare il socialismo per un riformismo che nel suo procedere non aveva neanche più il coraggio di nominarlo, fino al rendere inutile tutta la critica marxiana al capitalismo. Mentre l’orchestrina intonava “Bella Ciao”, si scoprivano nuove icone sovrastrutturali, da Kennedy ad Obama, da Blair a Clinton, da Paolo di Tarso a Papa Francesco, da Macron a Juncker, dalla troika alla NATO, da Chicco Testa a Vladimir Luxuria. La globalizzazione diventa l’internazionalismo realizzato, il meticciato è la società senza classi, il consumismo la distribuzione della ricchezza, il precariato altro non è che un’opportunità.

 

Ed allora, in fase oramai matura, al dogma dell’antifascismo si può affiancare con orgoglio il dogma del neoliberismo, la tanto agognata lotta per la libertà e la giustizia sociale possono finalmente rispecchiarsi realizzate nelle libertà dei diritti umani e nelle pari opportunità che il mercato a tutti offre. In conclusione, l’oscenità dell’antifascismo risiede tutta nell’aver abbandonato il Socialismo, foss’anche come sogno raggiungibile del non ancora, appiattendosi invece acriticamente su quest’attimo presuntuoso ritenuto eterno a cui non manca niente. Questo è stato il vero profondo potere di questo antifascismo inautentico, ma anche la sua più grande e indelebile colpa.

 

Lorenzo Chialastri

 

 
Ancora la parola alle armi in Kosovo? PDF Stampa E-mail

24 Ottobre 2018

 

Da Rassegna di Arianna del 22-10-2018 (N.d.d.)

 

Nikki Haley colpisce anche una volta dimessa dal ruolo di ambasciatrice alle Nazioni Unite. Nella lettera rivolta al segretario generale Antonio Guterres con cui l’ambasciatrice Usa ha comunicato la volontà di lasciare l’incarico, c’era un passaggio che rischia di creare nuove tensioni in una regione già di per sé bollente: i Balcani.

 

In quella lettera, la Haley ha affermato la volontà degli Stati Uniti di abbandonare il Kosovo. La missione Onu, secondo i funzionari americani, è diventata ormai inutile. E Washington, attraverso la lettera di addio della rappresentante, ha chiesto al Palazzo di Vetro di fare in modo di creare una exit strategy. E la questione non è affatto così semplice come potrebbe apparire da queste parole. In molti potrebbero pensare che la fine della presenza Onu e il generale disinteresse degli Stati Uniti siano un bene per la regione balcanica. In sostanza, sembrerebbe trattarsi della fine di una sorta di “stato d’emergenza”. E il termine della missione Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo) vorrebbe dire l’inizio di una fase di stabilizzazione e quindi di conseguente inutilità delle forze delle Nazioni Unite e dell’Occidente. La realtà però è più complessa. E non è un caso che sia stata proprio la Serbia a reagire in maniera durissima a quanto scritto all’interno della lettera di Haley a Guterres. E il motivo è da ricercare nell’effetto politico e strategico che avrebbe la fine di Unmik. Ovvero il possibile riconoscimento del Kosovo come Stato indipendente, strategicamente e militarmente autonomo, e la fine del controllo delle Nazioni Unite su quel Paese.

 

La missione Unmik, nata nel 1999, si basa sulla risoluzione 1244 dell’Onu. Nelle intenzioni dell’Unione europea, le Nazioni Unite avrebbero dovuto concedere sempre maggiori poteri all’Ue, in particolare alla missione Eulex (European Union Rule of Law Mission in Kosovo). Ma questo non è avvenuto per il “veto” posto da Russia e Serbia, preoccupate da sempre dalla fine di Unmik. E questo perché la missione internazionale del Palazzo di Vetro non prevede, in base alla risoluzione 1244, un Kosovo indipendente. Il documento concede all’Onu la giurisdizione su Pristina senza prevedere altri particolari sul futuro del Kosovo. Per esempio, proprio con riguardo al possibile riconoscimento di un Kosovo indipendente, la risoluzione autorizza le Nazioni Unite a fare in modo che si sviluppi un processo per determinare lo status della terra kosovara e le eventuali forme di autonomia. Ma l’amministrazione provvisoria non garantiva un riconoscimento internazionale della statualità del Kosovo. Certo, le cose sono cambiate dal 1999. Proprio per questo motivo, non devono sorprendere le parole di Marko Djurić, direttore dell’ufficio di Belgrado per il Kosovo. Come riporta Il Piccolo, l’alto funzionario ha detto che la Serbia “si opporrà con ogni mezzo, legale e politico” alla fine della missione Unmik.  Parole non diverse quelle del presidente serbo, Aleksandar Vučić, preoccupato dalla volontà di togliere valore alla risoluzione 1244. Il presidente serbo ha anche lanciato un messaggio chiaro agli Stati Uniti. Se la Serbia verrà messa all’angolo, ha spiegato Vučić, potrebbe non avere altra scelta che “difendere il Paese” e “il nostro popolo”, fra cui quello rimasto in Kosovo. Una scelta di parole che, in quella regione, per molti significa un richiamo alle armi. Vučić ha detto che il ritiro delle truppe internazionali e l’eventuale nascita di un esercito kosovaro avranno “tragiche conseguenze”. E queste dichiarazioni sono avvenuto dopo aver incontrato a Belgrado il vice-segretario aggiunto degli Stati Uniti Matthew Palmer.

 

Un richiamo alle armi che, in questi giorni, rischia di essere estremamente serio. Giovedì scorso, il parlamento del Kosovo ha votato tre leggi con cui autorizza la creazione di un esercito nazionale di 5mila uomini. Il primo ministro Ramush Haradinaj, prima del voto, ha dichiarato che “le tre leggi hanno il compito, per proteggere l’integrità territoriale del Kosovo e servono per proteggere i cittadini di tutte le comunità”. Ma i deputati della minoranza serba hanno denunciato come illegale qualsiasi tipo di modifica del mandato e delle capacità delle Kosovo Security Force (Ksf) senza passare per una modifica della Costituzione. Anche la Nato ha esortato il Kosovo a non creare un esercito nazionale senza che vi sia una revisione costituzionale realizzata anche con il voto dei deputati serbi. Ma da parte di Pristina, non sembra esserci interesse a seguire quanto suggerito dall’Alleanza atlantica. E del resto, le idee dell’amministrazione americana sembrano orientate a liberare il campo, sostenendo di fatto le spinte autonomiste kosovare.

 

Lorenzo Vita

 

 
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