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The Movement PDF Stampa E-mail

26 Settembre 2018

 

Da Rassegna di Arianna del 21-9-2018 (N.d.d.)

 

Gratificato di una copertina del Time che lo presentava (febbraio 2017) con l’ambiguo attributo di The Great Manipulator, Stephen (Steve) Bannon riscuote molto interesse non solo nei mezzi di informazione ma anche in movimenti politici e intellettuali europei che lo considerano come portatore a più livelli di un progetto alternativo a una visione politica ingessata e politicamente corretta. Si potrebbe in realtà dire che l’emergere in molti Paesi europei di una forte reazione popolare (il cosiddetto populismo) contro la fallimentare politica dell’Unione Europea in tema di economia e di flussi immigratori ha determinato l’esigenza statunitense di controllare e possibilmente gestire il fenomeno. Così, da un punto di vista geopolitico, prevedere un possibile cambiamento europeo nella sua classe politica impone agli Stati Uniti di prendere posizione riconducendo – o meglio confermando – il ruolo del Vecchio Continente all’interno dell’Occidente e della Globalizzazione a guida nordamericana. The Movement e Bannon sono pienamente inseriti in questa cornice e non si comprenderebbe davvero come Europei alla ricerca di sovranità possano affidarsi a un ideologo che riafferma la supremazia americana e detta le linee di politica internazionale ispirandosi al trito e ritrito conflitto di civiltà. L’intervento di Bannon al convegno dell’Istituto Dignitatis humanae (legato al cardinale statunitense Raymond Burke) realizzato in Vaticano nell’estate 2014 (intervento riportato da Mario Mancini in La visione degli alt-right secondo Steve Bannon), è fin dall’inizio inequivocabile circa i riferimenti culturali e storici di Bannon: dopo l’omaggio all’”eroismo dei popoli liberi”, ai “giovani di Kansas City o del Midwest che presero d’assalto le spiagge della Normandia” e ai “commando che nella battaglia d’Inghilterra vestivano la divisa della Royal Air Force”, seguono infatti:

 

– l’elogio al “capitalismo illuminato che ci ha dato realmente i mezzi per combattere e vincere. È come se il capitalismo avesse organizzato e costruito i materiali necessari per sostenere l’Unione Sovietica, l’Inghilterra, gli Stati Uniti e alla fine per riprendersi l’Europa continentale dal nazismo e per respingere un impero barbarico (sic) in Estremo Oriente”; – l’attestazione che “il capitalismo ha generato davvero un enorme benessere. E quel benessere è stato distribuito fra la classe media e quelle famiglie che provenivano da ambienti della classe operaia. Tutto questo ha creato quella che chiamiamo la pax americana …”.

 

L’Occidente, secondo Bannon – intendendosi con ciò precisamente l’alleanza Stati Uniti/Europa – deve rifondarsi su una rinnovata e consolidata struttura a tre pilastri: il capitalismo appunto, il nazionalismo e i valori giudaico-cristiani; il primo deve liberarsi dagli eccessi introdotti dal “partito di Davos” (l’èlite finanziaria), il secondo garantirà una pluralità di soggetti e identità, mentre i valori giudaico-cristiani devono costituire il fondamento dell’Occidente, le sue radici. Luigi Copertino ha compiuto un’accurata disanima delle concezioni teologiche di Bannon sottolineando come esse rappresentino una datata ripetizione di quella “teologia del capitalismo” (una contro-teologia, in realtà) formulata da cattoconservatori quali Novak, Weigel e Neuhaus. Restiamo perciò in quell’ambito neocon e cristianosionista che non può essere confuso con il cattolicesimo tradizionale, rappresentandone una degenerazione. Come osserva Copertino, ad esempio, i valori “giudaico-cristiani” che Bannon associa al capitalismo illuminato dell’inizio Novecento devono essere ben diversi da quelli sostenuti con coraggio da Papa Leone XIII nella sua Rerum novarum cupiditas, che già nel 1891 sanciva: “doveri dei capitalisti e dei padroni sono non tenere gli operai schiavi, rispettare in essi la dignità della persona umana”; sono semmai quelli di certa etica protestante che nella nascita e affermazione del capitalismo industriale prima e finanziario poi hanno svolto un ruolo importante e forse decisivo (non a caso Bannon preferisce parlare genericamente di cristianesimo senza distinguere al suo interno fra cattolicesimo, ortodossia e correnti protestanti). Ma è nella proposta geopolitica che gli scenari delineati da Bannon confermano e anzi radicalizzano la politica statunitense, a difesa dell’Occidente e contro la sovranità e gli interessi reali dell’Europa: il nemico additato è infatti – nella reiterata e folle prospettiva dello “scontro di civiltà” – l’Islam (talvolta etichettato come fascismo islamico, contro cui “la guerra è cominciata”). In alcuni interventi Bannon sembra propendere all’Islam nella sua generalità e interezza, in altri nella sua accezione “radicale”; cosa significhi radicale lo si capisce meglio dai Paesi che Bannon mette nel mirino: Turchia e Iran, considerati i peggiori “regimi” e i più pericolosi fra i Paesi islamici, cui si accompagna nella graduatoria dei nemici assoluti la Cina. Bannon si scaglia con veemenza contro questo asse della Via della Seta “che unisce queste tre nazioni, frutto di civiltà antiche e combattive, tutte estranee alle cultura giudeocristiana“: “I veri nemici sono a Pechino, Teheran ed Ankara e ci stanno aggredendo nel Mar della Cina, nel Golfo e nel Mediterraneo”.

 

Nei confronti della Russia, invece, deve sostanzialmente funzionare una strategia di neutralizzazione attraverso la sua integrazione nello schieramento occidentale; rispetto all’attuale politica aggressiva e minacciosa promossa dal governo statunitense (sanzioni, continui attacchi mediatici, potenziamento militare ai confini della Russia, sfida in Ucraina e in Siria) la strategia consigliata da Bannon è diversa, in vista però dello stesso risultato: l’eliminazione della Russia come soggetto autonomo e sovrano in grado di interferire con la supremazia statunitense. Un obiettivo che fortunatamente non sarà facile da raggiungere, così come il rilancio di un disastroso scontro di civiltà che annienti le “civiltà antiche e combattive”.

 

Aldo Braccio

 

 
L'agricoltura naturale può salvare il mondo PDF Stampa E-mail

24 Settembre 2018

 

Da Rassegna di Arianna del 22-9-2018 (N.d.d.)

 

Esistono centinaia di modi di fare agricoltura e tante sfaccettature diverse, ma sommariamente potremmo dividere l’agricoltura in due grandi categorie. La prima categoria è l’agricoltura industriale, caratterizzata dalla costante ricerca per sostituire i sistemi naturali che regolano i cicli della terra con sistemi artificiali che dovrebbero, in teoria, ottenere migliori risultati per l’uomo. La seconda categoria, che si potrebbe definire agricoltura naturale, cerca di capire più a fondo i cicli della terra per imitarli e trarne beneficio. È un’agricoltura che richiede molte più conoscenze e manodopera ed è orientata all’autosufficienza e alla territorialità.

 

L’agricoltura artificiale fa ampio uso di attrezzature agricole pesanti e molto energivore, concimi e pesticidi chimici, sementi selezionate e geneticamente manipolate da grandi colossi multinazionali. Questo tipo di agricoltura è sempre sovvenzionata, nel nostro caso dalla Comunità Europea, che dedica il 50% del proprio bilancio all’agricoltura. L’agricoltura naturale, invece, fa ampio uso di manodopera e cerca di utilizzare il più possibile quello che trova in natura per poter fertilizzare e proteggere le proprie culture. Solitamente utilizza semi autoprodotti o comunque ricerca varietà antiche resistenti alle malattie, che sono state selezionate nei secoli. Non può fare uso delle varietà selezionate dalle grandi industrie semenziere, in quanto appositamente studiate per essere utilizzate nel metodo industriale. L’agricoltura artificiale sicuramente crea un PIL (prodotto interno lordo) molto interessante. Grazie a questo tipo di agricoltura le industrie che producono macchinari, l’industria del petrolio, l’industria delle sementi e l’industria della chimica fanno affari d’oro e crescono costantemente. I terreni ogni anno si impoveriscono di più e richiedono sempre più concimi chimici, l’acqua diventa sempre più inquinata e quindi sempre più costosa, i rifiuti e gli scarti sono elevati e permettono ottimi utili per discariche e sistemi di depurazione, la monocoltura che la caratterizza è il terreno ideale per lo sviluppo di malattie e patogeni per cui è necessario l’uso dei pesticidi. L’agricoltura naturale non crea un PIL elevato ma sicuramente aumenta il BIL (benessere interno lordo). Per avere successo con l’agricoltura naturale è indispensabile rendere il terreno sempre più fertile. Per ottenere questo risultato è necessario che ci sia sempre materia organica in decomposizione, come avviene nel bosco. Questo fa sì che il terreno si arricchisca di microorganismi, che rappresentano l’indice di fertilità del suolo. È indispensabile incrementare il più possibile la biodiversità del luogo con più essenze vegetali, fiori, alberi, in modo che vengano attirati anche tanti insetti, uccelli, rettili, anfibi. È necessario mantenere un equilibrio naturale dove ogni insetto e/o animale ha il suo naturale predatore. Conosco un agricoltore che coltiva da solo più di 100 ettari di terreno. È un grande lavoratore e passa gran parte della sua vita dentro un grandissimo trattore. Dissoda i terreni a grande profondità e velocità, li concima e li diserba chimicamente per risparmiare tempo e ogni suo lavoro è meccanizzato. Dovendo programmare qualsiasi operazione che fa in tutti i terreni con grande anticipo, utilizza trattamenti chimici preventivi per tutte le malattie che si potrebbero verificare e in questo modo è certo di non perdere il raccolto. Alla fine dell’anno nel suo bilancio la quota più alta è data dalle spese legate alle macchine agricole, gasolio, concimi e pesticidi. Per fortuna non ha costi di manodopera e prende molti contributi dalla Comunità Europea, quindi riesce ad avere un discreto guadagno dal suo lavoro. La sua produzione è principalmente destinata all’alimentazione zootecnica. Di recente ho conosciuto Charles e Perrine di La Ferme Du Bec Hellouin in Francia. Hanno un’azienda agricola di circa 3 ettari dove lavorano 8 persone. In proporzione in 100 ettari potrebbero essere impiegate oltre 250 persone e si spartirebbero l’introito che, in un’azienda agricola artificiale, viene girato all’industria meccanica, petrolifera e chimica. I loro terreni sono coltivati solo manualmente e nonostante inizialmente fossero molto poveri oggi proliferano di vita. Riescono a produrre in pochissimo spazio un enorme quantità di frutta e di verdure e i loro prodotti sono ricercati dai migliori chef del territorio, i quali sono in grado di esaltarne le incredibili proprietà organolettiche. In pochi anni hanno dimostrato al mondo come il loro modo di fare agricoltura senza chimica e senza macchine a combustibili fossili potrebbe sfamare l’intera umanità e sostenere anche un’ importante crescita demografica. La loro azienda non produce rifiuti, non inquina l’acqua e l’aria e, nonostante ciò, produce molto più reddito di quello che potrebbe fare un’azienda industriale. Qual è il loro segreto? Una grande conoscenza della biologia, della chimica e della botanica grazie a tanti anni di studi e prove sul campo.

 

Cercando di trarre delle conclusioni da ciò che i miei occhi vedono, esiste un’agricoltura industriale che è quella che viene proposta accademicamente come il futuro, che come conseguenze ha la distruzione della vita del terreno, è poco bella da vedere, inquina il suolo, falde acquifere ed aria, non crea impiego, trasferisce la ricchezza lontano da luogo di produzione – in quanto la maggior parte degli introiti va ad industria e petrolchimica – e come risultato dà un prodotto di scarsissima qualità organolettica. Questo tipo di agricoltura oggi viene praticata soprattutto per la folle produzione di alimenti energetici per l’allevamento di animali erbivori, i quali dovrebbero mangiare erba per stare in salute, ma invece vengono pompati con granaglie di vario genere per produrre di più e più velocemente. L’agricoltura naturale è una delle poche opportunità che ci restano per invertire il trend di declino nel quale ci troviamo. È in grado di dare un’occupazione alla popolazione mondiale, come succedeva un tempo, con la differenza che in passato non si avevano le conoscenze che abbiamo oggi e quindi tutto era molto più difficile e faticoso. È in grado di restituirci il contatto con la natura, essenziale per la nostra salute. Esistono tantissimi esempi – molti dei quali ho avuto modo di vederli di persona – di aziende agricole paradisiache guidate da uomini che hanno scelto di andare oltre le consuetudini, di andare oltre gli schemi e hanno iniziato un nuovo percorso. Oggi non esistono più scuse per continuare a promuovere e sovvenzionare un’agricoltura industriale, in quanto gli stessi studi accademici dimostrano come sia una follia, sia in termini economici che in termini ambientali. Nonostante ciò si persiste su questa strada tramite sovvenzioni e propaganda dell’industria petrolchimica, per seguire un disegno ben più ampio, che va oltre l’agricoltura.

 

Quello che oggi succede con l’agricoltura purtroppo accade in egual modo con gli esseri umani, ma forse facciamo più fatica a comprenderlo e proprio per questo l’agricoltura naturale può essere un nuovo portale, una direzione che può cambiare le nostre vite. Non esiste alcuna differenza fra un farmaco e un pesticida, se non che uno inquina l’essere umano e l’altro inquina la terra. In continuazione veniamo bombardati da una propaganda, spesso occulta, che ci induce sempre più ad allontanarci dalla vita naturale. L’uomo ha vissuto per centinaia di migliaia di anni come parte della Natura: ora, nel giro di pochi decenni, si è trovato a vivere in mezzo a cemento, asfalto, inquinamento, onde elettromagnetiche, smog, facendo cose che non aveva mai fatto prima, entrando a contatto con prodotti chimici di ogni sorta che non aveva mai conosciuto prima… fino al punto che oggi parliamo di Natura come un elemento terzo rispetto a noi stessi. Dobbiamo uscire dalle prigioni a cui ci hanno indotto le grandi multinazionali. Siamo parte della Natura e il nostro compito è di custodirla, non di distruggerla.

 

Francesco Rosso

 

 
Un diritto universale PDF Stampa E-mail

23 Settembre 2018

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Da Rassegna di Arianna del 21-9-2018 (N.d.d.)

 

La Commissione Ambiente del parlamento europeo ha respinto la richiesta di riconoscere l’acqua come bene comune e universale nel silenzio dei mezzi di comunicazione. La petizione era stata avanzata dal movimento Right2Water, supportata da ben un milione e seicentomila firme di cittadini europei. In compenso a Strasburgo hanno votato una raccomandazione che impegna a disincentivare l’uso delle bottiglie di plastica come recipiente idrico. Guardano il dito e ignorano la luna, gli inutili deputati tanto vicini agli interessi delle lobby. Al di là dell’orientamento politico di chi ha lanciato la proposta, va gridato alto e forte che l’acqua è per tutti i viventi un bene comune e universale. Non esitiamo a definirlo un diritto naturale. Il mercato misura di tutte le cose non è d’accordo; la ricerca, captazione, conservazione e distribuzione idrica è un grande affare, specie in epoca di cambi climatici e rischio di desertificazione per tratti di territorio che lambiscono la stessa Unione Europea. Non si faranno sottrarre facilmente lo sfruttamento di una risorsa tanto importante, ma occorre ribadire e dichiarare obiettivo politico che l’acqua va sottratta all’arbitrio del profitto e posta sotto il controllo dell’autorità pubblica, cioè dello Stato. È urgente restituire significato concreto al concetto di beni comuni. Vale la pena riportare la definizione tratta dall’enciclopedia Treccani: l’insieme delle risorse, materiali e immateriali, utilizzate da più individui e che possono essere considerate patrimonio collettivo dell’umanità. Si tratta generalmente di risorse che non presentano restrizioni nell’accesso e sono indispensabili alla sopravvivenza umana e/o oggetto di accrescimento con l’uso. Secondo l’economista Giovanna Ricoveri, “in quanto risorse collettive, tutte le specie esercitano un uguale diritto su di esse e rappresentano uno dei fondamenti del benessere e della ricchezza reale.” I beni comuni, necessari per la vita o preordinati a realizzare interessi di particolare rilevanza per le persone, di cui investono diritti fondamentali, si caratterizzano per l’uso generale, con conseguente non assoggettabilità ad un prezzo quale corrispettivo del loro utilizzo. Ciò li sottrae alle logiche del mercato, soprattutto nelle forme della privatizzazione.

 

Non sappiamo immaginare un altro bene più universale dell’acqua, elemento senza il quale non vi è vita. Il beniamino della superstizione apocrifa del mercato, Adam Smith, scrisse, a proposito dell’avidità, “tutto per noi e niente per gli altri sembra essere stata la vile massima di tutti i padroni del genere umano”. Chi è proprietario dell’acqua, ne controlla prezzo e distribuzione, si converte in padrone del genere umano, dunque non possiamo permettere che sia una società anonima per azioni, magari una multinazionale che irrompe sul mercato di quei beni che vengono chiamati, nella lingua di legno del mondo economico finanziario, utilities, ciò che occorre alla vita. Un pensatore che mosse dal marxismo per approdare a un intransigente antitotalitarismo, Karl August Wittfogel dedicò il suo capolavoro, Il dispotismo orientale, a spiegare la sua originale “teoria idraulica”, in base alla quale le grandi civiltà africane ed asiatiche si formarono lungo le vie d’acque (Nilo, Tigri, Eufrate, Indo, Fiume Azzurro), con la necessità di controllare la risorsa fondamentale attraverso una forte centralizzazione del potere. Secondo lo studioso tedesco, ciò spiegherebbe la natura autoritaria delle forme di potere orientali, ereditate dal marxismo novecentesco. Oggi l’erede di quel dispotismo è il liberismo economico che concentra in pochissime mani ricchezza e beni, dichiarando naturale la logica sovrastante, ovvero quella di un mercato rovesciato in monopolio o cartello. Il potere sottilmente dispotico delle oligarchie economico-finanziarie sottrae risorse, cancella la libertà e persino la proprietà. Non vi è poi molto da stupirsi, se rileggiamo un passo della mitizzata dichiarazione giacobina dei diritti dell’uomo e del cittadino, che proclama la proprietà diritto “inviolabile e sacro”. Sorprende tutt’al più l’utilizzo di un termine, sacro, tipico del lessico religioso e spirituale, per definire un elemento tanto materiale. Immuni da pulsioni collettiviste, siamo convinti che alcuni beni non possano essere definiti che in termini di diritto pubblico. […] Una volta ancora, l’Europa reale si schiera contro la logica e contro i popoli che ne hanno forgiato la civiltà. Più in profondità, oltre le scelte improvvide di membri di un simil-parlamento prigioniero di gruppi di interesse, si impone una riflessione amara sulla fase discendente della nostra civilizzazione. Ogni gesto, ogni scelta dell’uomo occidentale, ribattezzato dal grande psichiatra Vittorino Andreoli homo stupidus stupidus, si rivela come una lotta contro l’ordine della natura. Si nega il carattere di bene comune dell’acqua, l’elemento senza il quale la vita cessa, negando la sua evidente qualità di diritto universale, ma si definisce diritto ogni capriccio o desiderio. Un brano del rapper J-Ax diffonde l’idea che avere figli è un diritto da realizzare con qualunque mezzo; Obama considerò “diritto umano fondamentale” le nozze omosessuali; potenti settori del femminismo radicale negano l’evidenza biologica della maternità femminile, attribuendola al potere patriarcale. Avanza da ogni lato, nell’Occidente terminale, una visione anti naturale dell’esistenza umana, dietro la quale c’è la mano, tutt’altro che invisibile, del dominus Denaro. Tutto deve essere oggetto di scambio economico, compravendita, nulla è sottratto alla logica meccanica del profitto che si fa ideologia di dominio, schiavitù, abolendo qualunque limite, a partire dell’oggettività della Natura. Privato della “coscienza infelice”, l’uomo nuovo si allontana dalla consapevolezza della propria caducità e dal desiderio di immutabile, si sottrae al giudizio morale, si disfa di ogni retaggio etico e si consegna a un destino di bestia intelligente, ma non più ragionevole.  Nulla di tutto questo, ovviamente, ha sfiorato la mente degli europarlamentari sulla questione dell’acqua, ma il dispotismo oligarchico da cui siamo pervasi sottrae quotidianamente spazi di libertà che attribuisce a se stesso, l’Iperpadrone Globale in grado di derubarci dell’acqua, al limite di determinare la vita e la morte chiudendo rubinetti e paratie. Viene in mente il tema della morte per acqua nella Terra desolata di T.S. Eliot. La figura è quella di Fleba il fenicio, “che un tempo è stato bello e ben fatto”, l’uomo che trascorse la vita intera secondo la logica del “guadagno e della perdita”. Una futile vita cui pose fine l’annegamento durante un viaggio commerciale. Tale sarà il destino dei padroni dell’acqua; annegheranno in ciò che ci sottraggono, se prenderemo atto che la tirannia progressiva in nome del finto mercato, divinità inesistente, non è inevitabile ma vincente solo in quanto da noi accettata. L’Homo Stupidus Stupidus, sembra posseduto, insieme con una febbrile ebbrezza di libertà, da un oscuro desiderio di schiavitù, la servitù volontaria che ci consegna ai detentori di un composto chimico molecolare vitale, l’unione miracolosa di due atomi di idrogeno legati a uno di ossigeno.

 

Roberto Pecchioli

 

 

 
L'Occidente senz'anima PDF Stampa E-mail

22 Settembre 2018

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Da cent’anni a questa parte indubbiamente la qualità di vita nel mondo Occidentale ha avuto un’accelerazione e un miglioramento inavvicinabile da parte dei restanti Paesi del mondo. La tecnica e la tecnologia, applicate a tutte le branche della nostra vita, individuale e collettiva (lavorativa e sociale), ne hanno migliorato la qualità, contribuendo all’allungamento della vita media, al godimento del tempo libero e degli hobbies, alla possibilità di viaggiare e di conoscenza.  Si pensi alla tecnologia medica e farmaceutica, indispensabili per la cura di malattie e il benessere, per non dire dell’alimentazione, con un’immensa disponibilità di varietà di cibi lungo tutto l’arco dell’anno, per concludere con i mezzi e gli strumenti utilizzati nello svolgimento del lavoro, sempre più digitalizzato e sempre meno fisico.

 

Ma quanto detto non basta a prefigurare il Paradiso in terra, infatti tutto questo (e anche di più) ha un costo, sia in termini economici propriamente detti, che in termini di tempo dedicato al lavoro per potersi permettere le “cose”, reputate necessarie alla vita di oggigiorno.  Perché nella società del benessere entrano in gioco dinamiche psicologiche individuali e di rango sociale, quali lo spirito di emulazione e l’invidia, oltre al concetto di “status” sociale, in base alle cose che si posseggono, al ruolo lavorativo che si ricopre e lo stipendio che si percepisce. Nel mondo Occidentale il valore di un individuo non è dato dai valori di onestà, fedeltà, sincerità, bensì da quello che si possiede, in particolare l’abitazione e l’automobile. Dire di un conoscente che è una “brava persona”, non crea nessun effetto, non ha la stessa rilevanza nel dire che vive nella tal villa, possiede la tal auto o percepisce un determinato stipendio. A caratterizzarci sono le cose o i numeri, non i valori. Metro di misura dell’uomo Occidentale è il consumismo, di più, ne è la religione laica che ha sostituito a spallate la religione cristiana, nelle sue diramazioni dell’essere cattolica, protestante e ortodossa, con i suoi precetti, la sua dottrina e gli insegnamenti dei suoi Santi. Immersi in un cristianesimo di facciata, buono solo da esternare nelle cosiddette “occasioni”, il Natale, la Pasqua, gli avvenimenti spot quali il Giubileo, le giornate mondiali della Gioventù, le proclamazioni di Santi e Beati, rimane nel dimenticatoio per la gran parte del resto dell’anno, se si pensa che le frequentazioni delle Messe domenicali sono semi-deserte, che i matrimoni in Chiesa sono in calo, che divorzi e separazioni sono in netto aumento, e che le conversioni sono in diminuzione. Segno che l’aspetto spirituale e della fede sono relegati in un angolo, sempre più minuscolo, del nostro essere persone e della nostra società.

 

Ogni medaglia ha il suo rovescio, il cortocircuito mentale della nostra società Occidentale è tale per cui le “cose” che si possono avere sono infinitamente meno delle cose che possiamo permetterci, ciò porta a crisi profonde dell’individuo, che in una ricerca spasmodica di cose e nell’ invidia verso gli altri, va in difficoltà morale e mentale. A fronte della larga disponibilità di beni, c’è un malessere profondo che si annida nella mente e nel cuore dell’individuo Occidentale, che non riesce a trovare dentro di sé equilibrio e soddisfazione nell’accumulo smodato di cose, in una continua competizione e manifestazione di sé agli occhi del vicino e della società cui appartiene. La conseguenza è che crescono malesseri più o meno profondi legati a stati d’ansia, psicosi, malattie mentali, fobie, dipendenze da gioco, alcool, droga, utili a tamponare solo momentaneamente l’insoddisfazione che si annida nella mente e nel corpo, in un vortice che, se non superato, può portare alla scelta di non voler più vivere, di togliersi la vita. Al culmine del laicismo e del consumismo che dagli anni Settanta del Novecento hanno iniziato a farsi sempre più largo nell’Occidente, il colpo finale lo sta dando la tecnologia digitale, con internet e i social-network, le cui reali conseguenze si potranno contemplare nella loro interezza solamente tra qualche anno, essendo un fenomeno relativamente recente e che interesserà a pieno la generazione Z, quella dei Post-Millennials. Questi strumenti di comunicazione, interazione e socializzazione, stanno creando nelle giovani generazioni una frattura tra vita reale e vita virtuale, che vediamo manifesta in tutta la sua drammaticità in occasione di notizie di cronaca legate a violenze o stupri di gruppo, con i responsabili che non si rendono conto della gravità dei propri atti perché hanno le menti obnubilate dallo schermo, dal virtuale, da filmati online visti, rivisti, introiettati e metabolizzati, senza averne capito significato, circostanze, e senza quella distanza che solo una adeguata maturità e capacità di discernimento possono permettere. I concetti di vero e falso, reale e virtuale, giusto e sbagliato, saranno la vera sfida del futuro, come in una sorta di nuova civilizzazione dopo la barbarie, perché conoscenza e cultura possono persino essere nocive se non vi è la capacità di vivere la vita giorno per giorno con maturità.

 

La nostra quotidianità è sicuramente molto meno faticosa sotto l’aspetto fisico ma sollecita terribilmente l’aspetto mentale, e la differenza la farà la maturità dell’individuo, la capacità di selezionare ciò che realmente ha valore d’essere vissuto da ciò che non ha importanza. La società Occidentale, sempre più un mondo senz’anima, stritolato tra consumismo, relativismo e realtà virtuale, deve riscoprire la filosofia, la pienezza e il mistero della fede cristiana, la capacità di meravigliarsi dinnanzi alla natura, deve nutrire il suo spirito tanto quanto nutre la sua pancia e accumula le cose, perché “non di solo pane vive l’uomo”, ed è inutile terminare la propria esistenza con il triste primato di essere il più ricco del cimitero.

 

Roberto Locatelli

 

 
Gender X PDF Stampa E-mail

21 Settembre 2018

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A New York i genitori potranno scrivere sul certificato di nascita dei propri figli "Gender X" senza ricorrere al parere di un medico. Una svolta "storica" applaudita come un faro del "progresso" e dei diritti. Qua si parla di NEONATI che si vorrebbe far crescere con un'identità liquida, non di diritti di adulti in grado di intendere e volere. Non dobbiamo meravigliarci se poi si arriva a "mode" come quelle di bloccare in via preventiva con somministrazione di ormoni lo sviluppo sessuali dei bambini finché non decideranno se essere maschi e femmine (il caso David Reimer non ha insegnato nulla?). Come scrivevamo Gianluca Marletta ed io in UNISEX (Arianna Editrice), questa è l'ennesima riprova che ci troviamo davanti una rivoluzione senza precedenti, che mira a colpire e a trasformare ciò che l’essere ha più di profondo e irrinunciabile: la propria natura. La propaganda gender (che fino a poco tempo fa si sosteneva essere una fake news e non esistere!) investe ormai ogni ambito della vita, dalla cultura ai media, dal mondo dello spettacolo alla scuola: campeggia sulle riviste, nelle serie tv e nei talk show, sulle passerelle di moda, in modo da abituare per gradi lo spettatore passivo (il cittadino) a questo cambio di paradigma. Un cambiamento che non è solo culturale ma antropologico.

 

Si sta rimodellando l'immagine stessa dell'uomo, saldandosi ad altre istanze estreme nel campo del post-umano che sembrano annunciare il prossimo avvento di un “uomo artificiale”, un uomo-OGM. Si sta creando un “uomo nuovo” totalmente manipolato e coerente con le prospettive egemoniche del mondialismo. Un uomo che si vuole senza identità, cultura, religione, famiglia; un uomo che si vuole “monade” solitaria, senza sicurezze, spiritualmente e socialmente “precario”, insicuro di fronte all’esistenza, privo della mediazione dei corpi sociali intermedi, e reso in tal modo servo di desideri, bisogni e idee indotte. Un individuo omologato e omologabile, spersonalizzato e liquido, amorfo (senza forma), facilmente controllabile fin nei suoi più profondi bisogni e desideri, totalmente allineato al pensiero unico dominante. Siamo davvero consapevoli dell'orizzonte distopico verso cui ci stiamo muovendo?

 

Enrica Perucchietti

 

 
Hikikomori PDF Stampa E-mail

20 Settembre 2018

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Da Rassegna di Arianna del 18-9-2018 (N.d.d.)

 

Molti esponenti della politica, dall'alto dei propri scranni dorati, li hanno etichettati come "bamboccioni", oppure "choosy", o più genericamente "neet", dando sfoggio di quell'insensibilità che appartiene a chiunque viva lontano dal Paese reale e guardi senza comprendere il mondo che lo circonda, sempre pronto ad esprimere giudizi lapidari su tutto ciò che non comprende. Ma al di là delle esternazioni di cattivo gusto di un Padoa Schioppa o di una Elsa Fornero, le giovani generazioni stanno vivendo senza dubbio un periodo di forti contraddizioni all'interno della società occidentale fondata sul mito della crescita e del progresso, ma ormai totalmente incapace tanto di crescere quanto di progredire...

 

In Giappone, dove il fenomeno esiste e progredisce fin dalla metà degli anni ‘80, oltre un milione di giovani fra i 14 ed i 25 anni, etichettati come hikikomori (coloro che stanno in disparte) vivono completamente avulsi da qualsiasi contesto sociale praticamente reclusi nelle proprie abitazioni. Non lavorano, non studiano, non praticano sport e passano le proprie giornate dormendo, giocando ai videogiochi o navigando su internet, a malapena consumano i propri pasti e spesso trascorrono anche la notte appiccicati ad una console o nei meandri di un social network. La questione ha assunto nel tempo connotati di una tale gravità da indurre perfino il governo ad interessarsene, studiandone a fondo le dinamiche ed allargando il censimento alle fasce di età superiori, dove il fenomeno ha dimostrato di esistere comunque, anche se con un'incidenza minore. In Italia gli hikikomori, secondo le ultime stime sono almeno 100mila ed il loro numero risulta in costante aumento, di pari passo con il livello di disgregazione di una società all'interno della quale il giovane finisce per ritrovarsi ad essere un corpo estraneo, deprivato della propria identità e del proprio diritto ad avere un futuro sulla falsariga di quello che hanno avuto le generazioni precedenti. Secondo un sondaggio portato a termine dall'Università Cattolica nel 2017, in Italia i giovani fra i 15 ed i 29 anni che risultano disoccupati, non studiano, non fanno corsi di aggiornamento ed hanno perfino smesso di cercare lavoro (etichettati con l'acronimo Neet) ammontano a 2,2 milioni, costituendo un dato fra i peggiori in Europa, dove comunque la situazione non è molto differente. Fortunatamente non tutti sono destinati a diventare hikikomori, ma senza dubbio si tratta dell'humus ideale perché la "patologia" abbia modo di proliferare in maniera preoccupante. Abbiamo parlato di patologia, perché molto spesso la condizione dell'hikikomori riveste un carattere di tale gravità da travalicare l'ambito dei disturbi comportamentali, per entrare in quello della malattia mentale vera e propria, pregiudicando seriamente la vita dei giovani e quella dei familiari costretti a farsene carico.

 

Ma perché mai un giovane nel fiore degli anni dovrebbe estraniarsi dalla società, per richiudersi in un bozzolo dove condurre una vita ascetica, in assenza di qualsiasi elemento mistico o contemplativo e con la sola compagnia del proprio disagio interiore? Naturalmente questa domanda non si presta ad una risposta univoca, dal momento che entrano in gioco molti fattori, ma senza dubbio le responsabilità preponderanti sono quelle di una società come quella occidentale, basata sulla competizione sfrenata, sul culto dell'immagine, sul mito del vincente, all'interno della quale troppo spesso il giovane finisce per rimanere schiacciato, fra un presente vissuto nella sensazione d'inadeguatezza ed un futuro fatto di speranze destinate a venire regolarmente disattese. L'hikikomori insomma decide di autoescludersi da un contesto sociale che non sente proprio e ritiene lo abbia già escluso da tempo, ritenendolo inadeguato a tenere il passo. Il suo per molti versi è un rifiuto verso un mondo che non capisce e che non lo capisce, attraverso il rifugio all'interno dell'unica realtà che sente propria e di cui comprende le dinamiche, cioè sé stesso. Per quanto possa sembrare banale, il fenomeno degli hikikomori dovrebbe rappresentare lo spunto per una riflessione, non soltanto nel merito della patologia che affligge troppi giovani, ma anche sulle dinamiche una società che ha nella competizione sfrenata, nell'ipercinetismo, nell'individualismo di massa le proprie caratteristiche salienti e rischia di perdere per strada i propri figli migliori, ai quali sta dimostrando ogni giorno di più di non essere in grado di garantire un futuro.

 

Marco Cedolin

 

 
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