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L'utopia invertita PDF Stampa E-mail

3 Agosto 2018

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Da Rassegna di Arianna dell’1-8-2018 (N.d.d.)

 

[…] Nessuno, nel mainstream, farà rilevare che il 1 agosto l’uomo civilizzato consumerà l’intera quantità di risorse naturali in grado di rigenerarsi nell’anno corrente. È una condizione che dura dagli anni 70 del secolo scorso, accelerata dall’ingresso delle masse asiatiche nella cosiddetta civiltà dei consumi. Occorrerebbero due pianeti per reggere il ritmo di quello che viene chiamato sviluppo e sostenere l’altrettanto indiscutibile dogma della crescita. Tutto il creato, ogni vivente non è altro che merce da sfruttare, esaurire, consumare. Ci hanno persuaso che è normale, un’evidenza indiscussa, lo scopo essenziale dell’animale umano, il Consumatore, colui che scambia, compravende, usa, getta per obsolescenza decretata. Civiltà dei rifiuti. Il dibattito resta confinato in cerchie ristrette e tutto procede secondo i piani di lorsignori. Ci sembra di averne individuato un motivo “forte”: il sistema socio economico dominante è riuscito a farsi considerare come naturale e inevitabile. Secondo il neoliberismo, l’uomo è nel mondo per un unico scopo: scambiare beni e servizi, consumarli, accumulare denaro.  La prima operazione culturale, storica e metapolitica da compiere è smontare tale folle credenza. Il neo liberismo è una costruzione umana, un’ideologia relativamente recente, nient’altro che questo. Può e deve essere affrontata e confutata come tale, applicando ad essa il metodo della decostruzione e della demitizzazione utilizzato con tanto successo ai fondamenti della civiltà europea nell’ultimo mezzo secolo. Dovrebbe essere sufficiente, per esprimere un giudizio di merito, la regola evangelica secondo cui l’albero si riconosce dai frutti. Andrebbe però ripristinato il concetto di bene comune; un’ideologia, una società, una visione del mondo che rende ricchissima una piccola minoranza, impoverendo tutti gli altri va respinta in quanto falsa, disfunzionale, basata su fondamenti errati. Presupposti che hanno generato però un senso comune, un clima favorevole utilizzato dai padroni del mondo per assicurarsi non un vero consenso, ma un fatalismo di massa trasformato in servitù volontaria. Lo comprese oltre quattro secoli fa il polemista francese Etienne de la Boétie. Qualunque tiranno, anche il Leviatano oligarchico proprietario del mondo, mantiene il potere fintanto che i sudditi glielo consentono. Corrotto dall’abitudine, convinto dalla megamacchina, per pigrizia, comodità, conformismo, viltà, l’uomo contemporaneo, come il cortigiano aborrito da La Boétie, preferisce la servitù all’aria pulita della libertà.

 

Una delle ragioni per cui il messaggio dissenziente non passa è, a nostro avviso, la fondamentale vittoria riportata dal neoliberismo nell’immaginario collettivo, l’essere riuscito a caratterizzarsi come una sorta di utopia realizzata, sbocco naturale della storia, esito inevitabile della vicenda umana. Un’utopia rovesciata nel suo contrario, ovvero una distopia passata da genere letterario a concreta esperienza per miliardi di esseri umani. Avemmo torto a sottovalutare l’importanza di quanto asserito dall’oscuro scenarista americano Francis Fukuyama, allorché, al momento dell’implosione comunista, proclamava la fine della storia nel trionfale successo dell’economia e della forma mentis neoliberale. Quel determinismo, indizio sicuro del carattere utopico-millenarista dell’ideologia sovrastante, non era che l’ultimo tassello di una costruzione iniziata nel XVIII secolo all’ombra dei Lumi. L’egoismo diventava una positiva caratteristica dell’homo oeconomicus nelle teorie di Adam Smith, preceduto dall’anglo olandese Mandeville (vizi privati ribaltati in virtù pubbliche se alimentano l’economia di scambio, primo abbozzo di una teoria del PIL), ma anche nel lucido disegno dell’economia classica spacciata per scienza esatta. Pensiamo alla “legge ferrea dei salari” di Ricardo, una trappola in cui cadde anche Marx, creatura del medesimo positivismo materialista, sino all’ordoliberismo, alla distruzione programmata di ogni identità comunitaria. Non dimentichiamo la battaglia di Margaret Thatcher (“conosco solo individui”) il cocciuto darwinismo sociale, ultima ridotta economica di una teoria scientifica sulla via del tramonto, per cui non “avere successo” è una colpa, le leggi fiscali favorevoli ai più ricchi, a partire da Reagan sino alla menzogna della tassa unica.

 

La caratteristica dell’utopia è l’impossibilità programmatica di immaginare miglioramenti, modifiche, cambi di marcia. Da quando nel Cinquecento divenne un frequentato genere filosofico (Bacone e la Nuova Atlantide retta dai sapienti, Tommaso Moro e Utopia, l’isola in cui tutto è in comune, Tommaso Campanella e la Città del Sole, tardo frutto del neoplatonismo), ciò che accomuna ogni costruzione teorica situata in un altrove senza luogo né tempo è la sua supposta perfezione, la sua natura di Eldorado realizzato. Trasferita nella dura realtà concreta, ogni utopia sfuma. Tutte, tranne una, quella che non si presenta come tale, la società dei consumi organizzata sul mercato misura di tutte le cose, in mano a un’aristocrazia/oligarchia non di illuminati, ma di proprietari di tutto, beni, mezzi di produzione, servizi, denaro. Nell’utopia invertita, dunque nella distopia, non vi è più sogno visionario, ma “solida realtà”, come recita una pubblicità, il rito liturgico della merce/desiderio. La chiave del successo sta nella credenza generalizzata nell’idea di progresso, una visione fondata sul predominio tecnico, sulla tecnologia, sulla rivoluzione informatica, sulla coincidenza tra spazio e tempo determinata dalla comunicazione digitale che invera l’utopia, trasferendola dall’empireo immodificabile al moto perpetuo, all’andamento liquido, alla pentola che bolle (melting pot) e muta continuamente. Di qui l’avversione per le idee ricevute, l’indifferenza verso ogni passato, l’improponibilità di qualunque principio o senso comune. Un mondo scabro, liscio, funzionale, dai consumi continui alimentati dall’industria del desiderio. La Metropolis cupa, ansiogena di Fritz Lang trasformata in Cosmopolis, il rutilante mondo unico in divenire perenne, il centro commerciale totale, la città grande quanto il mondo dove si possono soddisfare a debito, con la carta di credito fornita dal sistema, desideri, vizi, capricci, pulsioni, intronizzati come virtù dalla potente sottocultura dell’intrattenimento, definiti diritti inalienabili dell’uomo nuovo.

 

Marx sbagliò per difetto. Tra i due materialismi apparentemente opposti, la sua utopia di liberazione prevedeva di soddisfare le necessità fondamentali dell’uomo, non di inventarle e ricrearle ex novo ogni mattina dopo aver screditato quelle di ieri. Non immaginava templi del consumo, outlet o l’esposizione permanente online per la vendita di tutto; non il mondo di Jeff Bezos, ma magazzini aperti in cui un’umanità tutto sommato morigerata, priva di egoismo e sottomessa a una rinnovata legge morale avrebbe prelevato i prodotti “ciascuno secondo i suoi bisogni”. Un utopista di serie B, alla fine, sconfitto dopo un secolo e mezzo di battaglia. Il liberismo, divenuto neo liberismo dopo essersi disfatto della sua sovrastruttura iniziale, il liberalismo nelle sue varianti obsolete, conservatore, nazionale, democratico, ha vinto sul terreno dell’utopia. Se devi sognare, sogna il massimo. Forse è il trionfo postumo di Louis Athusser, il marxista per il quale una rifondazione della società sarebbe stata possibile non rovesciando il passato, ma negandolo in radice. Non più il materialismo storico come chiave di lettura deterministica, ma l’utopismo come modello interpretativo. Il più lesto a capire e mettere in pratica la lezione fu il liberismo nella sua variante post sessantottesca. Un’autentica eterogenesi dei fini, favorita dal trasbordo di diversi intellettuali di ultra sinistra finiti nell’officina neoliberale. L’utopia negativa del marxismo, che non fantasticava mondi lontani, ma, come si legge nell’XI Tesi su Feuerbach, aspirava a rivoltare il mondo come un guanto, è fallita. Per l’utopista la storia è destinata a concludersi una volta raggiunta la meta. Di qui il parziale fraintendimento di Fukuyama, giacché la narrazione neoliberale prosegue nella forma del Progresso, della tecnica, del mutamento, dell’oltrepassamento della stessa umanità nell’ultima distopia, il transumanesimo. Il bastone del comando resta tuttavia nelle stesse mani, quelle degli oligarchi padroni del mondo attraverso la privatizzazione di tutto, il controllo delle risorse finanziarie e dell’emissione monetaria, il dominio sulle coscienze e il monopolio delle idee attraverso la proprietà delle tecnologie più potenti mai realizzate. Obliterato il passato, decade anche l’idea di futuro, se non nella forma astratta del progresso. Padroni di ogni cosa, gli oligarchi lo sono innanzitutto delle parole. Progresso significa quindi ciò che costoro vogliono e decidono. L’eterno presente cristallizza l’umanità in una specie di bolla, definita perfetta, ma immobile, imbalsamata, asfittica. Per questo, all’utopismo ingenuo del passato il neoliberismo ha fornito il di più, il tocco geniale, l’idea lineare del progresso che viene concretizzato e riformulato ogni giorno attraverso la tecnologia. È l’utopia del meglio che avanza, della corsa incessante, del limite varcato, del muro frantumato, del sempre nuovo. Assomiglia al “bianco più bianco del bianco” di una vecchia pubblicità per massaie. Un ulteriore elemento che dimostra il carattere utopico del dogma neoliberale è la sua tenace volontà di cambiare l’essenza dell’uomo. La rottura rispetto al passato avviene con l’utilizzo preferenziale di una violenza indiretta, come comprese un protagonista della Nuova Destra, Julien Freund, già negli anni 80. La nuova modalità della violenza è la propaganda, il condizionamento psicologico, la manipolazione allo scopo di sedurre e irretire con la frode, senza peraltro trascurare di imprigionare o ridurre al silenzio i recalcitranti, le voci non allineate attraverso un apparato di leggi contro il pensiero libero. Una differenza rispetto all’utopia classica è che la distopia neoliberista non ritiene affatto di essere la società perfetta. Si accontenta, diciamo così, di essere l’unica possibile, confermando così la sua natura totalitaria. […] Vi è un altro elemento che induce a ritenere distopico il neo liberismo tecnologico fondato sul mito del progresso: è il suo rapporto con il futuro. La dimensione del tempo che verrà poco interessa il greve materialismo vigente. Ha invece un valore enorme il concetto di previsione, la necessità di organizzare la vita, cioè l’economia, abolendo l’imprevisto, il non considerato, ingabbiando gli attori sociali e gli avvenimenti in una rete fittissima di modelli matematici, algoritmi, statistiche in grado di anticipare, prevedere, incasellare in schemi predefiniti ogni evento, inserire qualsiasi variabile in una asfissiante cornice di razionalità definita scientifica. L’orologiaio dei deisti del XVIII secolo, il Dio possibile ma lontano, dimentico della sua creatura, è sostituito da una sorta di ingegnere e matematico globale. […] La fede utopica, l’ultima rimasta, risiede nella convinzione che la società –computer riuscirà ad eliminare ogni espressione non misurabile, non prevedibile o non quantificata, allo scopo di essere regolata e procedere secondo gli interessi della cupola di comando, mascherati da cieca razionalità e rigorosa certezza. Sotto questo profilo, le idee vincenti, quelle neoliberali progressiste e quelle del collettivismo perdente, tuttora forte nelle casematte delle idee, si incontrano nel materialismo, nell’utopia negativa di una società controllata dall’alto, in cui resta insuperata l’intuizione di George Orwell sul bispensiero e la neo lingua, ovvero il ribaltamento dei significati a scopo di inganno e dominio. Libertà è schiavitù, pace è guerra, ignoranza è forza, sta scritto sul frontone del palazzo del potere nel romanzo simbolo dell’utopia negativa, 1984. Dobbiamo pensare che i suoi dirigenti fossero più onesti dell’oligarchia neoliberale contemporanea, giacché questi ci hanno convinti di vivere nella più perfetta libertà, di godere della pace perpetua e di essere titolari di una cultura superiore a quella di ogni generazione passata. Viviamo non nel migliore dei mondi possibili, come immaginava Leibniz in termini filosofici, ma nell’Unico, l’universo incantato del Mercato, del Consumo, del Desiderio, in cui sono abolite le domande perché le risposte sono già a disposizione, preconfezionate nella forma accattivante di istruzioni per l’uso o di FAQ (le “domande più frequenti” sulla rete). Come in Fahrenheit 451, hanno bruciato i libri, ovvero la memoria, le idee, il patrimonio culturale, la sapienza materiale e spirituale dell’umanità. Nel racconto di Ray Bradbury, un uomo, Guy Montag, insorge e tenta di ricostruire un mondo su basi umane. Nella realtà, siamo a un tornante della storia: la fase è quella di una difficile presa d’atto della verità. Tutte le carte sono in mano all’avversario, milioni di uomini ancora non sanno chi è l’avversario. Ma la storia non si ferma. Se un ciclo si chiude rovinosamente, dalle macerie qualcuno scoprirà un seme per ricostruire. Il neo liberismo, come ogni creazione umana, finirà, sconfitto probabilmente dalla sua stessa presunzione. Come tutte le costruzioni utopiche, verrà travolto, prima o poi, dal principio di realtà. Oppure, nel regno della quantità da esso fondato, dal numero delle sue vittime. Se la servitù cesserà di essere volontaria, se dalla caverna di Platone filtrerà la luce, ricomincerà la partita.

 

Roberto Pecchioli

 

 
Eurogendfor PDF Stampa E-mail

2 Agosto 2018

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Da Comedonchisciotte del 30-7-2018 (N.d.d.)

 

Salvini e Di Maio dovrebbero approfittare del periodo di favore di cui godono ancora presso l’opinione pubblica per uscire dal Trattato di Velsen e togliere agli interessi bancari europei il diritto di mandare le truppe di normalizzazione, ossia l’Eurogendfor, in Italia, in caso di caduta di questo governo. L’autunno e l’inverno presentano insidie per il governo: il pil cala, lo spread sale, diversi miliardi fuggono all’estero, l’” Europa” esige una manovra da 5 miliardi, la flat tax e il reddito di cittadinanza sono in sospeso, la Germania cerca di scaricare sui paesi sottomessi i 55.000-75.000 miliardi di dollari di titoli tossici nella pancia di Deutsche Bank (per non parlare delle perdite sui derivati e dei passivi delle Landesbanken). Potrebbe implodere l’Eurosistema. Le forze politiche della sinistra in Italia sono disorganizzate, ma l’apparato del “golpe”, o “regime change” (Berlino, BCE, Quirinale, mass media, magistratura interventista), già collaudato ripetutamente dal 2011 in poi, è ancora tutto pronto e ultimamente dà segni di attivazione coi barconi e con le toghe.

 

Mattarella (scelto da Renzi), Conte (amico di Mattarella e socio del figlio di Napolitano), la Casellati (fedele di Berlusconi), Fico (Boldrini bis), Tria (allineato) possono formare un fronte europeista istituzionale capace di mandare a casa Lega e Di Maio, di concerto con i potentati finanziari esterni, aiutati da qualche opportuno naufragio di migranti da gettare addosso alla Lega e da un deciso aumento dei tassi sul debito pubblico. I recenti invii di migranti su improbabili barconi hanno chiaramente lo scopo di mettere in difficoltà Salvini e magari occasionare un incidente mortale che consentirebbe di estrometterlo sostituendo la Lega col PD e l’appoggio esterno di Berlusconi. Nella crisi finanziaria scatterebbe un intervento del Meccanismo Europeo di Stabilità, col fondo salva stati e probabile arrivo della troika, come in Grecia, a completare il saccheggio dell’Italia, aiutando la Germania a gestire i suoi guai finanziari suddetti.  Vi sarebbe opposizione politica e popolare, e allora interverrebbe la polizia militare di crisi, la European Gendarmery Force (Eurogendfor, EGF), istituita dal Trattato di Velsen nel 2010. Una polizia militare internazionale praticamente irresponsabile, avente la sua principale sede nella caserma Chinotto di Vicenza. Raccomando quindi che il governo, e soprattutto il Ministro degli interni, per non vederci nuovamente occupati da militari stranieri, operino per tirar fuori l’Italia dal Trattato di Velsen e per convertire ad altro uso la caserma Chinotto. Raccomando che vengono date direttive ai questori, quali comandanti locali di tutte le forze dell’ordine (non però dell’Eurogendfor!), di prevenire e controbattere eventuali azioni di forze straniere (ricordate l’incursione della Gendarmerie francese in Italia? Saggiava il terreno). In questo dovrebbero essere affiancate dalle forze armate, previe opportune consegne da impartire ad esse.

 

Marco Della Luna

 

 
Durezza del vivere PDF Stampa E-mail

1 Agosto 2018

 

Non ho capito perché la durezza del vivere la deve insegnare il mercato e non la scuola pubblica.

 

Stefano Rosati

 

 
Una gabbia di interconnessioni planetarie PDF Stampa E-mail

31 Luglio 2018 

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Da L’intellettuale dissidente del 28-7-2018 (N.d.d.)

 

Che c’entrano Marchionne (pace all’anima sua) e il governo grillo-leghista di Di Maio e Salvini? C’entrano, c’entrano. Il fil rouge si chiama globalizzazione. O meglio, l’alternativa globalismo/sovranismo. Un’alternativa, come vedremo, più sognata – anche e soprattutto in senso nobile – che reale, purtroppo. O forse no, chissà. Ma andiamo con ordine. Ha scritto Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano del 26 luglio: Marchionne ha salvato la Fiat, ma ha distrutto tutto quello che la Fiat rappresentava per questo Paese. Perché non rispondeva a logiche di politica industriale o di ricerca del consenso, ma strettamente finanziarie (…) Nei 14 anni in cui ha salvato più che la Fiat il valore del pacchetto azionario di controllo di Fiat, Marchionne ha costretto la classe dirigente di questo Paese ad ammettere il proprio declino.

 

Senza avventurarci in questa sede in una disamina puntuale del bilancio professionale dell’italo-canadese che ha de-italianizzato la Fiat cambiandole financo il nome, la chiave per capire il successo in vita e le celebrazioni in morte (in troppi casi di una piaggeria rivoltante, da parte delle grandi firme agiografe della stampa nostrana) è racchiusa in una parola: globalizzazione. Il manager che lavorava sempre, ignorando confini di tempo e di spazio è stato il prototipo per eccellenza dell’uomo d’affari dell’era globale: per lui sovrana era solo l’azienda, il bene dell’impresa stava sopra tutto e tutti, la responsabilità sociale e l’appartenenza nazionale un cumulo di residui nostalgici che, coerentemente, sarebbe stato semplicemente illogico che intralciasse il passo dell’unica e sola bussola, il business. Punto. Di qui il coro d’esaltazione da parte di un pensiero stradominante, beninteso nell’élite politico-economico-giornalistica, che vede in lui il campione delle magnifiche sorti progressive del modello di sviluppo in cui siamo invischiati, dove a contare è il risultato di profitto, e solo dopo, e in subordine, il benessere vivo, qualitativo, esistenziale di quel popolo che secondo santa Costituzione dovrebbe essere depositario della sovranità e in diritto di reclamare una esistenza libera e dignitosa per ciascun cittadino.

 

Il governo gialloverde (o gialloblù) sorto dall’alleanza fra Movimento 5 Stelle e Lega – contrattuale, temporanea e di convenienza: basti leggere l’ultima polemica sulla famiglia omo – sta invece cercando, a tentoni e con inevitabili contraddizioni interne, di rovesciare l’assunto per cui uno Stato sovrano debba obbligatoriamente mantenersi ligio ai binari prestabiliti dell’ordine globale, che per immediatezza possiamo plasticamente rappresentare nella famosa trojka Ue-Bce-Fmi, o ancor meglio nel Patto Quadripartito Ue-Bce-Fmi-Nato (con salottini strategici annessi come il Bilderberg e Trilaterale). Lo sta facendo poco? Lo sta facendo male? Sì, anzitutto per l’oggettiva ragione che la classe dirigente delle due forze politiche è in media decisamente inadeguata al compito, mancando di uno spessore intellettuale e di una visione politica a lungo termine degna di questo nome. Ma l’indirizzo di fondo è inequivocabile: un tentativo di recupero dell’autodeterminazione. Lo si chiami pure sovranismo, ma questo è. Da un lato il Decreto Dignità nel campo sociale e lavorativo, e dall’altro il ridirezionamento sull’accoglienza dei migranti in contrasto con il solito, peloso immigrazionismo rinunciatario, sono due segnali, perfettibili e con punte rimarchevoli finché si vuole, ma di una benvenuta inversione di marcia. Ma c’è uno scoglio che difficilmente, molto difficilmente sarà superabile. Perché strutturale, per usare una vecchia fraseologia. Ed è appunto il meccanismo stesso del sistema globale. Che, per quanto un singolo governo di un singolo Stato possa fissare strette sulle delocalizzazioni o contestare i paletti dei contabili liberal-liberisti di Bruxelles, oppure sfruttare gli spazi ancora liberi per le rivendicazioni nazionali sul limes o, che so, arrischiare salutari politiche autonome d’amicizia verso la Russia, resta pur sempre una gabbia di interconnessioni planetarie, fra geopolitica egemonizzata (sempre più a fatica) dagli Usa e dai suoi ancillari scagnozzi, e mercati finanziari con multinazionali con capitale legale qua e capitale fiscale là (come la Fca, giusto per fare un esempio a caso), tale per cui un governo democraticamente eletto che poniamo voglia far valere la volontà popolare, ha minor peso di uno spread coi titoli statali della nazione-guida dell’Unione Europea, o di un andamento di Borsa occultato come fatalità naturale di cui prendere atto e a cui rassegnatamente obbedire, o dell’equilibrio di forza militare e politica di un’Alleanza Atlantica che ha perduto la sua ragion d’essere originaria da un pezzo abbondante. Hai voglia tu a spingere verso la sovranità: istanza verace ma dai contorni confusi e priva di una teoria di lungo raggio (oè, stiamo sempre parlando, per grillini e leghisti, di gente che si muove nell’alveo liberale, per quanto venati di anti-liberalismo de facto), ti troverai a rassicurare contemporaneamente che né euro né Nato sono in discussione, accettando di buon grado le abituali condizioni di sempre. Vedasi l’acquisto degli F 35 confermato per non dispiacere a mister Trump, che dal canto suo fa anche bene a voler scrollarsi di dosso parte delle spese statunitensi nella Nato (peccato che in cambio non intenda cedere il comando del carrozzone, ‘sto yankee). Diciamolo chiaro: il sovranismo all’italiana (da non confondere con il fascismo, imperialista a tutto tondo, né col nazionalismo otto-novecentesco, per il banale motivo che non siamo più da nessun punto di vista nell’Otto-Novecento) è una linea d’orizzonte giusta e sacrosanta, perché fa rima con libertà dei popoli, comunque si concepisca il significato della parola popolo, che al momento è inquadrato nei limiti statuali, poco da fare; ma è una battaglia persa in partenza, se lo si pensa come riconquista utopica e ritorno puro allo status quo ante globalizzazione. E tuttavia resta la lotta per cui vale la pena far politica oggi, più realisticamente intesa come agire al meglio per ottenere il possibile. Con una battuta: sempre meglio gli ambigui e insufficienti no-global sovranisti Di Maio e Salvini degli invotabili Renzi, Letta, Monti, Berlusconi e globalisti vari de noantri. Ciò che importa è non deflettere dal principio-guida: essere liberi di decidere il proprio destino. Idealismo di granito e realismo flessibile, Don Chisciotte e Sancho Panza fusi in uno, sarebbero Grande Politica, oggi. Come del resto era ieri, e come sarà domani.

 

Alessio Mannino

 

 
Presstitute in allarme PDF Stampa E-mail

30 Luglio 2018

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Da Rassegna di Arianna del 29-7-2018 (N.d.d.)

 

Ma non vi vergognate di accusare il governo in carica e Salvini in particolare, di spartirsi le nomine come voi praticate da una vita? Non vi vergognate – voi sinistra, voi clero intellettuale di sinistra, voi giornali e tg di sinistra, voi navigati sindacalisti Rai e voi più ipocriti e paludati benpensanti di cripto-sinistra – di gridare allo scandalo e di indignarvi solo perché i grillini e i leghisti, in modo naïf, ricalcano le vie della lottizzazione che voi praticate con professionismo servile da decenni? Anzi, al tempo di Renzi toccò perfino rimpiangere la spartizione di sempre, perché prese tutto lui, in Rai e non solo. Stavolta la pietra dello scandalo è stato Marcello Foa, venuto dal Giornale di Montanelli e poi rimasto nel Giornale di Feltri fino a quando si è trasferito nel Canton Ticino a insegnare scienza della comunicazione e a amministrare un gruppo editoriale ticinese. Mai fatto politica, nessuna macchia nella fedina penale e nella reputazione, nessun legame sospetto. Nulla di scandaloso. Ma per il valoroso Collettivo dell’Informazione italiana più Pd, a cominciare dalla Corazzata Repubblika, Foa dice di essere allievo di Montanelli (un millantatore, dunque), insegna manipolazione delle notizie cioè fake news e non scienza della comunicazione, è addirittura ospite di Russia Today e dunque è un prezzolato al servizio di Putin, ha persino ritwittato qualcosa di tale Francesca Totolo, “patriota finanziata da Casa Pound” (che notoriamente dispone di miliardi, altro che il povero Renzi col suo piccolo aereo di carta, a spese nostre, che costava qualche centinaio di milioni). E poi, è un depravato: pedofilo? Serial killer? Terrorista? Magari, peggio: “sovranista”. No, questo non si può sentire, condivide il turpe vizio del 60% degli italiani, secondo gli ultimi sondaggi. Volete la controprova? Ha scritto un tweet contro Mattarella. Il crimine, anzi il regicidio, che suscita l’orrore anche del mite Corriere della sera, è il seguente e lo ha tirato fuori il cane poliziotto sanbernardo Emanuele Fiano, della squadra omicidi del Pd. Ecco il testo: “il senso del discorso di Mattarella: io rispondo agli operatori economici e all’Unione europea, non ai cittadini. Disgusto”. Se non lo avesse firmato anche col suo cognome avrei potuto riconoscerlo come mio. Lo condivido, e non per questione di marcelleria, nel disgusto; non verso il Capo dello Stato ma verso questa sua posizione che offende la democrazia, la costituzione e il popolo sovrano. Se fossi Foa lo metterei nel curriculum…

 

Non lo hanno ancora accusato di razzismo e antisemitismo per via del cognome, ma presto dimostreranno che Foa nel suo caso è l’acronimo di Fascisti Organizzati Antieuropei e si fa chiamare così per confondersi con gli ebrei vittime del fascismo. Gentiloni almeno è stato spiritoso, dicendo che un sovranista come Foa ci farà uscire dall’Eurovisione. Ma gli altri… ho provato imbarazzo per loro, per la loro faccia reversibile col retro, per la loro verità e dignità ridotte – come dicono a Napoli – a mappine e’ ciess. Non so se Foa otterrà il via libera dalla commissione vigilanza e che ordini darà il Faraone Berluscone, ma Foa è semplicemente uno che non la pensa come l’Establishment ma come gran parte degli italiani. Non so se ci andrà in Rai e cosa farà, ma a me sembra un bel segnale di rottura. Non sul piano del metodo di nomina (decide la politica, come sempre) ma sul piano della discontinuità con le precedenti ondate di servizievoli ripetitori dell’Unica Opinione Autorizzata. Sarà dura per lui scendere dalla felpata Svizzera al Piano di Sotto, il Canton Tapino. Addio Lugano bella, bentornato nell’Inferno italo-italiano.

 

Marcello Veneziani

 

 
Parlamenti inutili? PDF Stampa E-mail

29 Luglio 2018

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Da Rassegna di Arianna del 26-7-2018 (N.d.d.)

 

L’intervista di Davide Casaleggio alla Verità dà ragione, una volta di più, all’intuizione di Carl Schmitt secondo cui le categorie del politico sono concetti teologici secolarizzati. Il pensiero del figlio ed erede di Gianroberto, ideatore del Movimento 5 Stelle, prima forza politica italiana, ne è la conferma. Un misto di utopismo, ambiguità, confusione, silenzi e banalità con al centro un concetto fuorviante e molto post moderno: la politica è un fatto tecnico, anzi un problema tecnico, che può essere risolto con appositi algoritmi. Il suo pensiero è articolato, ma si è tentati di dare ragione a Carlo Calenda, il rampante oligarca in quota PD, che a proposito di Casaleggio junior, conosciuto nell’evento semi riservato tenuto a Ivrea, ha commentato che gli è parso più “un ragazzino sprovveduto che un Darth Vader”. Premesso ad uso di chi ignora la saga di Guerre Stellari che Darth Vader è l’eroe negativo dal mantello nero, i giudizi liquidatori sono in genere frutto di arroganza. Il nuovo titolare della Casaleggio & Associati ci appare piuttosto una persona priva di cultura politica, dunque assai pericolosa, tenuto conto del suo ruolo e del controllo che esercita, attraverso la piattaforma informatica Rousseau, sul primo partito italiano. Il brano dell’intervista che ha suscitato le reazioni più negative è quello in cui teorizza il superamento della democrazia rappresentativa a favore di quella partecipativa incardinata nella Rete. Non sappiamo se sia stata una scelta dell’abile intervistatore, Mario Giordano, ma scrivere rete con la maiuscola ci ha colpito. Sostiene Casaleggio che “Internet deve essere inteso come un diritto essenziale a cui tutti i cittadini devono avere accesso.” La portata epocale di Internet non sfugge ad alcuno, ma uno strumento non può essere un diritto essenziale.  Grazie alla Rete e alle tecnologie, prosegue Casaleggio, possediamo strumenti di partecipazione più efficaci in termini di rappresentatività del volere popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile. Il giovanotto si spinge a profetizzare che tra qualche lustro il parlamento non esisterà più.

 

Per lui, dunque, la formazione del consenso e la conseguente decisione politica si risolvono in un fatto essenzialmente tecnico. La democrazia partecipativa è migliore non in sé, ma in quanto più facilmente in grado, grazie alla connessione informatica, di fondare la volontà generale. Non è per caso che l’invenzione dei Casaleggio, la piattaforma Rousseau, ha questo nome. Noi consideriamo il pensatore ginevrino uno dei personaggi più negativi della filosofia politica moderna. La sua influenza resta uno degli elementi degenerativi più insidiosi da due secoli e mezzo. I capisaldi del pensiero di Jean Jacques Rousseau passati per osmosi a Casaleggio sono il mito dell’uguaglianza naturale, l’utopia della democrazia diretta e l’inganno della volontà generale. La volontà generale russoviana non coincide con la decisione maggioritaria, ma è la realizzazione dell’ambiguo “io comune”, ovvero il volere collettivo degli individui suppostamente costituiti in corpo unico, senza garanzia alcuna per il dissenso e le minoranze. Una teoria dell’acclamazione (eterodiretta). Nella realtà, la volontà generale si trasforma facilmente nella legge del più forte, o con le parole di Roberto Michels, del più organizzato. […] Ci si chiede se Casaleggio abbia una scarsa cultura politica (la tesi estremizzata di Calenda) o sia il consapevole banditore di un’era post politica e post ideologica fondata sulla tecnica, non diversa dalle premesse poste da Bernays o Lippman, con mezzi più pervasivi, la rete appunto. Tutto diventa questione tecnica da risolvere tecnicamente, come aveva compreso Martin Heidegger definendo gestell, impianto, ossatura essenziale della società contemporanea, l’imposizione della tecnica ancella della scienza, strumento di potere, mezzo di dominazione.

 

Casaleggio è tutt’altro che un rivoluzionario. Nessuna messa in discussione del sistema socio-economico vigente, nessuna analisi critica del neoliberismo tecnologico, accolto come fatto compiuto, indubitabile datità unica del secolo XXI. Quali sarebbero dunque i compiti della democrazia partecipativa a base di clic, se non si discute l’” impianto”, base del sistema? Su questo punto, l’imprenditore tecnologico, piccolo Mark Zuckerberg de noantri, tace. In compenso, interrogato sul ruolo futuro dei robot e sull’intelligenza artificiale che minaccia, insieme con milioni di posti di lavoro, l’umanità come l’abbiamo conosciuta finora, la risposta non è diversa da quella di ogni progressista e materialista: è un’opportunità, né vede o coglie controindicazioni, in termini morali, antropologici e politici. Al contrario, sembra inclinare verso un transumanesimo light, giacché “stiamo assistendo a un’evoluzione incredibile sul fronte della computazione dei processori e nello studio del cervello umano. Credo più in un’estensione delle capacità umane (…) che nella creazione di robot umanoidi come quelli che vediamo nei film”. Le preoccupazioni non sono che indici di arretratezza culturale, incapacità di antivedere, tanto da fargli affermare che “l’innovazione tecnologica consentirà la nascita di un nuovo umanesimo”. Nessuna critica ai giganti della new economy, i suoi modelli. Essi sono diventati tali per essere stati i più lesti a cogliere le opportunità, generando, udite udite, “profitti e lavoro diretto e indotto per milioni di persone. Nessun accenno al lavoro distrutto e alla qualità infima di quello nuovo, la triste gig economy. Anche rispetto ai social media, Casaleggio non vede problemi o controindicazioni: basta saper scegliere. Ma quale pensiero critico insegna a distinguere tra vero e falso, giusto e sbagliato, se tutte le carte sono in mano ai colossi della tecnologia, che controllano ormai il nostro cervello, sanno letteralmente a che stiamo pensando in questo momento? Il buon giorno dato da Cristiano Ronaldo via Internet scatena in pochi minuti quattro milioni di “like”. L’intera popolazione della Croazia cui “piace” il saluto di un calciatore e lo dimostra con il gesto dell’invio sulla tastiera. Casaleggio addirittura nega che le nuove tecnologie ci rendano più controllabili. Taglia corto con un infastidito “direi che il tema risieda altrove”, un luogo che si guarda bene dall’identificare. Del resto, non si può chiedere a un attore dell’economia tecnologica di andare contro i propri interessi. Preoccupa molto, tuttavia, poiché la piattaforma Rousseau forma, determina e mette a tema il pensiero politico del maggiore partito italiano, peraltro con poche decine di migliaia di partecipanti attivi, smentendo la narrazione sulla democrazia diretta. Casaleggio ha imparato dai politici di vecchio stampo la capacità di non dire, di rimanere nel vago su temi decisivi. Alla domanda se abbia paura di un mondo in cui la tecnologia permetterà di cambiare i geni dell’uomo con un clic, ci fa sapere che “il metodo Crispr di editing (!!!) del DNA è sicuramente rivoluzionario e le sue applicazioni dovranno essere valutate dal punto di vista bioetico come altre innovazioni mediche del passato.” Non è così, giacché le vecchie scoperte mediche non ambivano a mutare l’essenza umana, ma si limitavano a curare specifiche patologie. Desta turbamento che non prenda posizione su questioni centrali: ciò che si può fare tecnicamente fare, si faccia, sembra concludere, magari dopo l’opportuna convocazione della piazza informatica, a cui i “competenti” avranno formulato la domanda nella forma più adatta per ottenere la risposta voluta, con il corollario, forse, delle consuete FAQ (le domande più frequenti) predisposte da chi controlla il sistema e fornisce, chiavi in mano, domanda e risposta. […] Bontà sua, Casaleggio ammette che il famoso “uno vale uno” teorizzato dal padre non significa uno vale l’altro, ma la dichiarazione d’intenti non va oltre, naufraga nel fumo di un contratto sociale alla Rousseau in cui prevale l’umore immediato, la facile demagogia, l’egalitarismo programmatico, l’indistinta volontà generale da giacobini fuori tempo massimo […]

 

La domanda resta la solita: quis custodiet custodes? chi ci garantisce un uso corretto, imparziale e volto al bene comune della Rete (maiuscola, per fare contento Casaleggio), se l’idea di Stato, di potere pubblico, sovranità resta indeterminata, un fondale rimovibile nel quale sguazzano i colossi transnazionali deterritorializzati? Chi sceglie i soggetti autorizzati a formulare le domande su cui i nuovi liberi cittadini digitali dovranno pronunciarsi, con un sì o un no perentorio entro il termine prefissato per la chiusura del sistema? I parlamenti, le assemblee reali, le discussioni concrete di uomini e donne in carne e ossa, pur con tutti i loro limiti, difetti e espedienti di potere, restano il mezzo migliore per alimentare il dibattito, conoscere i problemi nei loro risvolti, scoprire gli interessi in ballo, misurare le idee, infine, come disse un rispettabile politico del passato, Luigi Einaudi, “conoscere per deliberare”. Davide Casaleggio ci appare come un volto in più del sistema dominante, dall’ approccio benevolo, mite, un tecnocrate dal volto umano, un simil Zuckerberg senza maglietta grigia, ma con le stesse convinzioni, identica visione della vita e del futuro. […] Il neoliberismo tecnocratico imperante può dormire sonni tranquilli, la rivoluzione non arriverà da Casaleggio, né verranno poste domande di senso, indicati progetti che cambino la direzione di marcia. Un nuovo elemento di stabilizzazione del sistema è in pista. I suoi sostenitori potrebbero non gradire e pretendere davvero il cambiamento, a partire dal modello di società. Ma “i competenti” permetteranno che la domanda venga posta? Più semplice, sicuro e innocuo lo sfogatoio della Rete, il nuovo diritto offerto graziosamente dai dominatori.   Alla fine, un bel referendum a base di clic incontrollabili non si nega a nessuno. Temiamo di dover rimpiangere persino i pessimi parlamenti partitocratici della fallita democrazia rappresentativa, se l’alternativa è una piattaforma Rousseau generalizzata, gestita da un’azienda privata che tira i fili del primo partito postmoderno. Non avranno il nostro “like”, la nostra Patria non sarà mai la Rete.  Casaleggio ci sembra la declinazione postmoderna dei pilastri della società di Ibsen, banditori del nuovo per convenienza. Ci vuole ben altro per opporsi al modello tecno-liberista nemico. Stabilizzatore del sistema, teso a cambiare qualcosa perché poco cambi ai piani alti, come il Tancredi del Gattopardo, al secondo Casaleggio si attaglia il commento sprezzante di un monatto al povero Renzo Tramaglino, scambiato per untore della peste.” Va, va, povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano”. Purtroppo.

 

Roberto Pecchioli

 

 
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