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Campagna elettorale che ignora il tema decisivo PDF Stampa E-mail

21 Maggio 2024

 Da Comedonchisciotte del 20-5-2024 (N.d.d.)

Le elezioni per il nuovo parlamento europeo si terranno dal 6 al 9 giugno, a seconda dello Stato membro. I parlamentari avranno solo un potere molto limitato: voteranno le leggi elaborate dalla Commissione che, fin dalla sua istituzione, non è stata altro che cinghia di trasmissione della Nato all’interno delle istituzioni europee. La Commissione si appoggia sia sul Consiglio dei capi di Stato e di governo sia sul padronato europeo (BusinessEurope). I parlamentari hanno anche un altro potere: quello di formulare risoluzioni, ossia pareri a maggioranza semplice, che però nessuno legge né tantomeno gli dà seguito. Poiché l’attuale maggioranza è atlantista, tutti questi pareri riprendono la propaganda logorroica della Nato.

Negli Stati membri queste elezioni sono tradizionalmente sfogatoi per gli elettori. I governi quindi le temono e incoraggiano una proliferazione di liste alternative nei territori dei concorrenti. In Francia, dove la legislazione sul finanziamento delle campagne elettorali è molto restrittiva, il denaro che gli Stati Uniti e l’Eliseo iniettano in queste campagne proviene prioritariamente da Stati esteri (generalmente africani) e dalle imprese che stampano il materiale elettorale dei candidati. Questa strategia porta a un’impressionante proliferazione di liste: già 21 in Francia e 35 in Germania! Sebbene le elezioni avvengano sempre per lista, ogni Stato ha un proprio sistema di voto. Nella maggior parte dei casi si tratta di liste bloccate, come in Germania e in Francia. In altri Stati, come Irlanda e Malta, le liste sono trasferibili: ogni seggio da ricoprire viene votato singolarmente (il che riduce il ruolo dei partiti, pur mantenendo la proporzionalità). In altri casi ancora, come in Svezia e Belgio, gli elettori possono modificare l’ordine della lista da loro scelta. Oppure, come in Lussemburgo, possono votare candidati di liste diverse. Ognuno di questi sistemi di voto presenta vantaggi e svantaggi, ma non misurano tutti la stessa cosa. I Trattati avevano previsto partiti europei, che però non esistono; segno che non esiste un popolo europeo. I partiti nazionali sono quindi spinti a coalizzarsi in alleanze per designare il proprio candidato alla presidenza della Commissione europea. Tra questi candidati il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo sceglierà. Questo metodo di elezione indiretta è stato introdotto nel 2014. In pratica, la coalizione più grande viene identificata in anticipo. Jean-Claude Juncker e in seguito Ursula von der Leyen sono stati quindi designati prima che la loro coalizione conquistasse la maggioranza relativa. Perché Mario Draghi possa imporsi a capo della Commissione, sarà necessario che la coalizione arrivata prima cambi bandiera all’ultimo momento: dopo la presentazione del suo rapporto sulla competitività delle imprese europee, Draghi verrebbe scelto per sostituire la ricandidatura di Ursula von der Leyen. Un maneggio che consentirebbe di cambiare brutalmente i temi in discussione: durante il periodo elettorale si discute dei risultati dell’amministrazione von der Leyen, ma poi, improvvisamente, il tema centrale diventa federare l’Unione europea a scapito degli Stati membri. È un argomento di cui gli elettori non capiscono nulla. Possono capire che «L’Unione fa la forza», ma non capiscono le conseguenze che si ripercuoterebbero su di loro se gli Stati membri scomparissero. L’Unione europea non è affatto un organismo democratico, ancor meno lo sarebbe lo Stato-Europa.

Anche se Mario Draghi non potesse presentarsi, la domanda centrale, ma occultata, rimarrebbe questa: «Le popolazioni dell’Unione europea devono o no formare uno Stato unico, benché oggi non formino un popolo unico?». In altre parole, accetteranno che le decisioni vengano loro imposte da una maggioranza di “regioni” (non si parlerebbe più di Stati membri) cui non appartengono? Questa problematica fu esplicitamente posta dal cancelliere tedesco Adolf Hitler nel 1939. Egli voleva creare una Grande Germania, composta da tutti i popoli di lingua tedesca, al centro di una costellazione di piccoli Stati europei, ciascuno fondato su un particolare gruppo etnico. Dopo la caduta del Reich, nel 1946 il primo ministro britannico Winston Churchill avrebbe voluto creare gli Stati Uniti d’Europa, cui il suo Paese non avrebbe in alcun modo partecipato. L’idea era che “l’impero su cui non tramonta mai il sole” potesse confrontarsi con un unico interlocutore, comunque non in grado di competergli. Anche questo progetto non fu realizzato: qui la spuntò il «mercato comune». È su questo che torniamo ora.

In ambito economico, l’Unione si sta muovendo verso una specializzazione del lavoro. Per fare esempi, alla Germania andrebbe l’automobile, alla Francia toccherebbero i prodotti di lusso e alla Polonia i prodotti agricoli. Ma come reagiranno gli agricoltori tedeschi e francesi che saranno sacrificati all’interesse di quelli polacchi, o i produttori di auto polacchi, a loro volta sacrificati a beneficio di quelli tedeschi? In ambito di politica Estera e di Difesa, l’Unione ha sposato la linea atlantista. In altre parole difende le stesse posizioni di Washington e Londra. Ma questa linea potrebbe essere imposta a tutti, anche agli ungheresi, che si rifiutano di diventare antirussi, o agli spagnoli, che si rifiutano di sostenere i genocidari israeliani. Secondo i Trattati, la Difesa dell’Unione è affidata alla Nato. Il presidente statunitense Donald Trump pretendeva che questa difesa non costasse nulla agli Stati Uniti e che gli europei aumentassero le spese militari al 2% del PIL. A oggi solo 8 Stati su 27 lo hanno fatto. Se la Ue diventasse un unico Stato, il desiderio di Washington diventerebbe un obbligo per tutti. Per alcuni Paesi come l’Italia, la Spagna e il Lussemburgo, ciò significherebbe un’improvvisa riduzione dei programmi sociali. È improbabile che le popolazioni lo apprezzerebbero. Inoltre, c’è il caso particolare della Francia, che è membro permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e possiede la bomba atomica. Dovrebbe mettere queste prerogative al servizio dello Stato unico, con il rischio che la maggioranza del Consiglio europeo le usi contro le opinioni dei francesi. Ma anche in questo caso le popolazioni non lo accetterebbero. Tra l’altro, lo Stato-Europa (che non ha nulla a che vedere con il continente europeo, molto più esteso) sarebbe quindi un impero, costretto però ad accettare che parte del suo territorio, Cipro Nord, sia occupata dalla Turchia dal 1974.

Nessuno di questi problemi è nuovo: a causa di essi alcuni politici europei, tra cui il generale Charles De Gaulle, acconsentirono al “mercato comune” e rifiutarono “l’Europa federale”. Oggi sono di nuovo al centro delle preoccupazioni dei leader europei atlantisti, ma non dei loro popoli. Ecco perché faranno di tutto per nasconderli in queste elezioni. È la questione centrale, ma anche quella che inquieta di più. A questi problemi politici si aggiunge quello organizzativo. L’era industriale ha lasciato posto a quella dell’informatica e dell’intelligenza artificiale. Le organizzazioni verticali dell’inizio del XX secolo, in economia e in politica, hanno lasciato posto a organizzazioni orizzontali e in rete. Il modello verticale dello Stato-Europa è quindi superato prima ancora di nascere. Inoltre, chiunque conosca quest’enorme macchina amministrativa, ne ha già visto la futilità: alla fine serve solo a rallentare la crescita che invece sarebbe supposta stimolare. L’Unione è ormai molto indietro rispetto a Cina, Russia e Stati Uniti; il progetto federale non solo le impedirà di riprendersi, ma la farà addirittura retrocedere rispetto alle potenze emergenti.

Si potrebbe pensare che i sostenitori dello Stato-Europa abbiano interesse ad attrarre un’ampia partecipazione per legittimare il loro progetto. Non è così: il progetto federale non viene discusso in questa campagna elettorale, ma se ne discuterà il giorno successivo, con Mario Draghi. Quindi tutti stanno facendo il possibile per sottolineare che l’Unione organizza delle elezioni (fatto ritenuto sufficiente a renderla democratica) ma al tempo stesso si assicurano che il minor numero possibile di persone s’intrometta. La partecipazione, nell’intera Unione, potrebbe non raggiungere la metà degli elettori.

Thierry Meyssan ( Traduzione di Rachele Marmetti)

 
La giornata mondiale della libertà di stampa PDF Stampa E-mail

19 Maggio 2024

 Da Rassegna di Arianna del 5-5-2024 (N.d.d.)

Il 3 maggio è la “giornata internazionale della libertà di stampa”. La ricorrenza, come altre simili, è stata promossa dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1993, in piena fase di trionfo neoliberale, in un periodo in cui si assumeva che oramai esistesse una sola forma di civiltà in procinto di diffondersi nel mondo, quella esemplificata dagli USA. Che gli USA da sempre avessero un rapporto piuttosto controverso con la “libertà di stampa” e con il senso da attribuire all’informazione pubblica (vedi “Quinto Potere” di Sydney Lumet) non pareva più essere un problema.

Anche la libertà di stampa fa parte di quei diritti umani sanciti dalla carta del 1948 (art. 19) e che iniziarono ad assumere uno statuto significativo solo all’indomani del crollo dell’URSS, quando si riteneva che quei diritti potessero essere gestiti senza troppi problemi dall’unica superpotenza egemone rimasta. È questa la fase in cui i diritti umani vengono branditi come un mezzo per lanciare campagne militari o di discredito sempre rigorosamente rivolte ai nemici degli USA (l’era delle “guerre umanitarie”: Iraq, Afghanistan, Serbia, ecc.) Ma inaspettatamente, più o meno a partire dagli esiti della crisi subprime, dunque dagli anni ’10 del XXI secolo, alcuni contropoteri hanno iniziato ad emergere nel mondo a guida americana, minacciando il monopolio della verità e dell’informazione internazionale. Inizia con ciò una fase nuova, in cui l’Occidente, cioè i bungalow dell’Impero americano, iniziano ad avere reazioni sempre più isteriche di fronte alle pretese della libertà di informazione.

È del 2010 l’inizio della persecuzione di Assange (del novembre 2010 è l’accusa, oramai certificata come farlocca, di stupro in Svezia). Con il Covid si arriva ad un’ulteriore stretta, che dura tutt’ora: inizia la sistematica chiusura di siti, pagine web, la cancellazione di video, la chiusura di piattaforme in rete, l’utilizzo sistematico di algoritmi di oscuramento per parole chiave, ecc. L’utilizzo delle costruzioni di stampa con intenti militanti diviene ora costante. Oggi sappiamo che erano costrutti di stampa già alcuni eventi decisivi (stragi, bombardamenti con armi chimiche) per gli interventi in Serbia o in Siria. Ma per venire a eventi ancora in corso, è notizia di stamane la conferma che i famosi “40 bambini decapitati” da Hamas a inizio conflitto è stata anch’essa una menzogna costruita e propagata ad arte per giustificare ciò che è seguito. Con adeguato ritardo, quando non serve più, alcune smentite riescono ancora a trovare la luce. Sulla vicenda pandemica solo con enorme fatica inizia, qua e là, ad emergere qualche scampolo di verità, e anche lì soltanto per i più vigili, perché l’apparato mainstream continua a tacere e coprire pervicacemente. È dubbio che, con questo ritmo, il grande pubblico perverrà mai a comprendere l’entità della manipolazione avvenuta (non volendo subire ban, mi esimo dal ricordare qui la camionata di menzogne che sono passate come verità scientifiche).

Ecco, in questo quadro, è difficile poter conferire un qualunque senso che non sia sarcastico alla “giornata mondiale della libertà di stampa”. La speranza che nel nuovo contesto di tensione internazionale, di nuova “guerra fredda”, si produca una qualche approssimazione di informazione non manipolata è bassissima. Sono peraltro certo che oggi le “grandi firme” della stampa italiana si scambieranno reciprocamente grandi medaglie al merito per la loro integerrima lotta contro le “fake news”, cioè nella lotta ad ogni notizia che pro-tempore disturbi il manovratore / procacciatore di salario. E questa è invero l’unica funzione che gli è ancora rimasta. Che l’informazione ufficiale sia poco credibile è oramai ampiamente percepito, e ciò si mostra plasticamente nel crollo delle vendite e degli ascolti. A credervi ciecamente sono rimaste solo quelle minoranze da ZTL che nel continuare a credervi hanno un sostanzioso interesse (niente conferisce maggior potere persuasivo ad una presunta verità del fatto di essere comoda).

La funzione rimasta all’informazione ufficiale non è dunque più quella di produrre forti convincimenti nel grande pubblico. Può accadere su temi inediti, come è accaduto durante la pandemia, ma questo tipo di presa è sempre più fioca. No, il ruolo rimasto alla “grande informazione pubblica” (in ciò simile al ruolo dei “grandi partiti”) è soprattutto quello di creare un tappo che impedisca la crescita del nuovo. Essi non riescono più a convincere, figuriamoci a istruire, ma riescono ad occupare con il rumore bianco delle proprie narrazioni di comodo quasi ogni spazio mentale. E rispetto ai pochi spazi che non occupano si producono costantemente in un’attività di discredito e delegittimazione delle voci indipendenti, trattate come complottismo, come “bufale” da sottoporre al proprio integerrimo fact-checking. L’informazione odierna non è più davvero in grado di produrre una convincente verità pubblica, ma le è rimasto il compito di impedire a qualunque altra verità di farsi largo, e questo compito lo svolge ancora egregiamente.

Andrea Zhok

 
Unico Stato tra il fiume e il mare PDF Stampa E-mail

17 Maggio 2024

 Da Comedonchisciotte dell’8-5-2024 (N.d.d.)

Molti dei dirigenti in carica nell’America istituzionale sono Sionisti liberali o Evangelici. Questa situazione non deve sorprendere. Il Washington Post, ad esempio, ha chiesto a Matthew Brooks, amministratore delegato della Republican Jewish Coalition (RJC), se avesse intenzione di finanziare gli sfidanti elettorali dei venti Repubblicani che alla Camera hanno votato contro la legge sugli aiuti ad Israele: “La RJC si sta preparando a spendere fino a 15 milioni di dollari in quello che sarà il più grande sforzo mirato verso la comunità ebraica negli Stati critici del Paese… Abbiamo una storia di lunga data nel parlare contro le persone che sono anti-Israele, sia che si tratti di Democratici come ‘La Squadra’ e i progressisti di sinistra, ma anche contro le persone di destra che esprimono sentimenti anti-Israele. Siamo il gruppo responsabile della sconfitta del deputato Steve King. In questa tornata elettorale stiamo spendendo più di un milione di dollari in Indiana per battere l’ex deputato John Hostettler, che è stato una delle voci più anti-israeliane del Congresso durante il suo mandato”.Domanda: Altri venti Repubblicani della Camera hanno votato contro la legge sui finanziamenti ad Israele. Intende appoggiare gli sfidanti che si candideranno contro qualcuno di loro?”. “Brooks: Se [al ballottaggio] ci sarà uno sfidante credibile per qualcuno di loro – saremo assolutamente coinvolti”.

In questo contesto, non deve sorprendere che, come scrive Edward Luce sul Financial Times, i leader delle istituzioni statunitensi siano in ansia per le proteste nei campus. L’angoscia è in gran parte legata all’indubbio potere dell’AIPAC e del RJC di far vincere – o perdere – gli aspiranti al Congresso: “In pratica“, scrive Luce, “persone di ogni schieramento – Repubblicani, Democratici, media e amministrazioni universitarie – stanno mostrando i tratti di isteria e dogmatismo che deplorano nei giovani. Non deve sorprendere che le proteste siano sempre più rabbiose. Gli studenti hanno tutto il diritto di protestare anche con discorsi che molti dei loro coetanei trovano ripugnanti“.

Però poi Luce si chiede: “A che punto l’antisionismo diventa antisemitismo? Il confine è labile. Ma la maggior parte delle persone – tranne i responsabili, a quanto pare – sa distinguere tra una protesta legittima e un appello alla violenza“. Ma solo per confondere ulteriormente la distinzione. La Camera degli Stati Uniti sta portando avanti un progetto di legge per codificare la controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance. La definizione è controversa perché la maggior parte dei suoi esempi di antisemitismo riguardano le critiche a “Israele”, compreso il fatto di definire “Israele” una “entità razzista”. L’approvazione del disegno di legge significherebbe che la definizione si applicherebbe anche nel caso degli esposti che si rifanno al Titolo VI [il Titolo VI proibisce la discriminazione sulla base della razza, del colore o dell’origine nazionale nei programmi o nelle attività che ricevono assistenza finanziaria federale N.D.T.] e che denunciano l’antisemitismo nei campus. Il disegno di legge è passato alla Camera con 320 voti favorevoli e 91 contrari. [Sempre secondo Luce:] “C’è però un altro fattore dietro l’isteria del Congresso: le proteste hanno scatenato il timore di una ripetizione dei fatti del 1968. Come allora, i disordini sono iniziati alla Columbia University. Come nel 1968, la convention democratica di quest’anno si terrà a Chicago. La convention del 1968 era stata un disastro anche perché il sindaco di Chicago, Richard Daley, aveva mandato la sua polizia a reprimere le manifestazioni. La battaglia di strada aveva dominato l’attenzione dei media”.

Luce, tuttavia, fa una netta distinzione con il 1968: “Il motore principale di queste proteste è umanitario” (ma non lo era per la guerra in Vietnam). Poi, però, Luce ricorre alla vecchia scusa: “Alcuni dei manifestanti aderiscono consapevolmente alla visione del mondo di Hamas, che vorrebbe cancellare Israele dalla carta geografica. A che punto l’antisionismo diventa antisemitismo…?” È qui che la questione si confonde. Cancellare “Israele”, in quanto sionismo, dalla carta geografica non significa cancellarlo con la violenza (anche se esiste un diritto legale di resistenza per coloro che vivono sotto occupazione).

Seyed Hassan Nasrallah (in qualità di portavoce dell’unità dei Fronti di Resistenza) ha chiarito che l’obiettivo della Resistenza è quello di sfiancare “Israele” – e di portarlo ad uno stato di sconfitta e di disperazione – in modo tale che gli israeliani inizino a ritrattare la loro pretesa di diritti speciali e di eccezionalità e si accontentino di vivere “tra il fiume e il mare” con gli altri (i palestinesi), condividendo una parità di diritti. Cioè, Ebrei, Musulmani e Cristiani che vivono in un territorio comune. Non ci sarebbe quindi alcun Sionismo. Seyed Nasrallah ha esplicitamente previsto la possibilità di un tale risultato, senza una grande guerra. È quindi un “gioco di prestigio” presentare la “visione del mondo” di Hamas come quella di una “cancellazione di Israele dalla carta geografica”, come se ciò implicasse lo “sterminio” o l’uccisione degli Ebrei. “Israele” sarebbe “fuori dalla carta geografica” nel senso che questo futuro Stato non sarebbe di natura esclusivamente ebraica, ma multireligiosa.

La subdola imputazione di antisemitismo riferita alla “visione del mondo” di Hamas è una calunnia quasi alla pari dello slogan “Hamas è l’ISIS”. (L’ISIS ha inserito funzionari di Hamas nella sua lista di persone da assassinare). La visione del mondo di Hamas non può essere estrapolata dal contesto degli odi accesi dalla guerra a Gaza. La maggior parte dell’articolo di Luce riguarda la questione dell’antisemitismo, ma anche l’islamofobia sta crescendo ad un ritmo accelerato. In Occidente è importante smontare il meme “Hamas è l’ISIS” per evitare che tali falsità ci facciano scivolare in un’altra “guerra al terrore”.

Alastair Crooke (tradotto da Markus) 

 
L'Ospizio occidentale PDF Stampa E-mail

15 Maggio 2024

 Da Rassegna di Arianna del 12-5-2024 (N.d.d.)

“La Russia si è assunta la grande responsabilità storica di aver riportato la guerra sul suolo europeo”, ha detto Sergio Mattarella alle Nazioni Unite a New York. Per la verità, sul piano storico, la guerra in Europa fu portata dagli Stati Uniti venticinque anni fa, nella primavera del 1999, intervenendo in Serbia. E l’Italia fu coinvolta per la prima volta direttamente in un’operazione di guerra a due passi da casa: era presidente del consiglio Massimo D’Alema e vice-presidente del consiglio, con delega ai servizi segreti e poi ministro della Difesa Sergio Mattarella (omonimo?). Diciannove basi Nato sul suolo italiano furono utilizzate per due mesi per attacchi contro la Serbia, in un’operazione chiamata Allied Force, per farvi decollare gli aerei, per la logistica e la copertura radar: furono bombardate centrali elettriche e la sede della televisione serba a Belgrado. I bombardamenti e le operazioni militari, a cui partecipò il nostro Paese con nostri aerei e nostre portaerei, non ebbero l’autorizzazione dell’ONU anche se furono giustificati come un intervento umanitario. Le famose bombe umanitarie del progressista dem Clinton, con l’appoggio del governo progressista e umanitario nostrano… Fu quella la prima guerra europea dei nostri anni, ai confini di casa nostra, con diretta partecipazione italiana. Il precedente, ma lontano dall’Europa, era stato pochi anni prima in Iraq. Non ricordo grandi mobilitazioni pacifiste né discorsi istituzionali sul pericolo di una guerra alle porte dell’Europa, col diretto coinvolgimento dei paesi europei. Eppure quella fu una guerra molto più vicina al cuore dell’Europa e ai nostri confini, rispetto all’Ucraina. […]

Ogni posizione che assume l’Occidente è ormai minoritaria sul piano mondiale, sia per quel che riguarda la guerra russo-ucraina sia per quel che riguarda la tragedia israelo-palestinese (salvo una parvenza di ravvedimento estremo). Ha senso in questa situazione e avendo davanti agli occhi gli sviluppi di quelle due catastrofi, insistere sulla linea filo-atlantista e interventista? La riflessione a questo punto si sposta dall’attualità al piano più profondo della condizione occidentale. Che cos’è oggi l’Occidente sul piano mondiale? Temo che la definizione riassuntiva più efficace sia quella che ha dato qualche anno fa Eduard Limonov, scrittore russo-ucraino morto quattro anni fa: il grande ospizio occidentale. E’ il titolo di un suo libro pubblicato in Italia da Bietti, con un’introduzione di Alain de Benoist. Secondo Limonov gli euroatlantici “non sentono più la vita”, non hanno più energia, l’Europa è morta da un pezzo, ma il suo cadavere è mummificato nell’Unione europea. Vivere nelle società occidentali significa campare in un ospizio, gestito dagli amministratori pubblici e popolato non da cittadini ma da pazienti che vivono sotto sedativi, tranquillanti e antidepressivi. Ospizio anche per l’età media, ben rappresentato dal malandato Biden. Il totalitarismo soft occidentale per Limonov si copre di moralismo, diritti umani e “impero del bene” che Cristopher Lasch definì Stato terapeutico, tra infantilizzazione programmata e opinioni prefabbricate. I bastioni di questo canone occidentale sono la teoria gender, la cancel culture e l’ideologia woke, che si riassumono in una sindrome diffusa: l’autodisprezzo, la vergogna di essere quel che siamo e che fummo nella storia. Spingendosi oltre Limonov, de Benoist nota che l’Ospizio Occidentale, alla luce di questa ideologia, è diventato una specie di ospedale psichiatrico. A un regime dispotico, nota Limonov è possibile ribellarsi, ma è difficile rivoltarsi contro le proprie debolezze. Impossibile l’agitazione dentro un ospizio, tutto viene sedato e ricondotto alla quiete, anzi al quieto non vivere, alla sua longeva e ricoverata sopravvivenza. L’amministrazione dell’ospizio non è nemica dei suoi pazienti, ma si presenta come loro complice e protettrice, e se limita la loro libertà e i loro orizzonti lo fa solo per il loro bene. Curiosamente, nota Limonov, la libertà è la parola-feticcio più inflazionata, con democrazia, negli ospizi occidentali. L’aggressività, nota lo scrittore russo, è scaricata in Occidente contro la natura, che è il secondo nemico, insieme alla storia. I suoi abitanti, post storici e snaturati, sono “infantili oltre che effemminati”, gli scarsi giovani sono “vecchietti in erba” che vivono digitando; la musica pop provvede ad abbrutirli. La rivoluzione sessuale e il femminismo, più che innalzare la donna abbassano l’uomo; la pornografia è l’erotismo per i poveri. Ma oggi, aggiungiamo noi, siamo entrati in una fase di desessualizzazione dell’occidente, come si conviene del resto a un ospizio.

In questo quadro, conclude Limonov, l’unico patriottismo ammesso è il patriottismo del nichilismo: non difendere la civiltà, le eredità, il mondo di valori, ma la loro assenza, smerciata per libertà e diritti umani. Pensate che l’Ospizio occidentale possa ingaggiare con questi presupposti una guerra contro i mondi vitali che premono ai suoi bordi, a est, a sud? Non vi sembra velleitario questo occidente in tuta militare che si prepara alla guerra e al riarmo quando è interiormente disarmato e demotivato?

Marcello Veneziani

 

 
Servitù volontaria PDF Stampa E-mail

14 Maggio 2024

 Da Comedonchisciotte dell’11-5-2024 (N.d.d.)

Lo scorso 3 maggio era la giornata internazionale della libertà di stampa. Ossia, si è festeggiato un fantasma, uno spettro, un simulacro. In Italia non esiste alcuna libertà di stampa, dal gossip alla politica internazionale esiste un’unica libertà: quella delle classi dominanti di celebrare se stesse e la propria narrazione tramite l’ausilio di un gruppo sociale cooptato, dominato e compiacente: gli influencer. La società odierna è infatti rigidamente tripartita: oligarchi, influencer, moltitudini. I primi, tra l’altro, dominano e selezionano i secondi. I secondi conferiscono significato al sistema. Le terze fanno largo uso della prassi, così ben descritta da Étienne de la Boétie sin dal XVI secolo, della “servitù volontaria”.

Sono le moltitudini, infatti, che coi loro comportamenti servili alimentano gli influencer con like e visualizzazioni, e incoronano de facto gli oligarchi, permettendo di dominarle a piacimento. Il servilismo e il masochismo dei dominati, influencer e moltitudini, sono spesso all’origine dell’assenza di libertà e della tirannia dell’ingiustizia (in ogni ambito).

Paolo Borgognone

 
I veri negazionisti PDF Stampa E-mail

12 Maggio 2024

 Da Rassegna di Arianna del 10-5-2024 (N.d.d.)

Il dato storico, la verità dei fatti accaduti va rimossa, nessun inciampo è ammesso, negare innanzitutto, negare e poi negare, altro che negazionismo col quale si vogliono bollare posizioni critiche e scomode al sistema.

E così accade che il presidente Mattarella a New York, intervenendo all’assemblea generale delle Nazioni Unite, pronuncia un discorso curiale, di quelli graditi all’ambiente di corte, in questo caso la Nato, che sempre più oscenamente confeziona il “discorso pubblico” occidentale nel modo a essa utile e funzionale. L’essenza del discorso di Mattarella si esprime in queste sue parole: «La Russia si è assunta la grande responsabilità storica di aver riportato la guerra sul suolo europeo». Riportato la guerra sul suolo europeo? Eppure il nostro presidente 25 anni fa era ministro della Difesa nel governo D’Alema quando l’Italia decise di partecipare con propri aerei e portaerei ai bombardamenti della Serbia in quella operazione Nato (neanche autorizzata dall’Onu) chiamata “Allied Force”. Smemorato? O semplicemente che negare l’evidenza è ormai la linea di condotta delle nostre corrotte e subalterne classi dirigenti europee? La guerra alla Serbia (ultimo frammento di una Jugoslavia che andava smantellata perché di impedimento all’avanzata verso est della Nato) fu condotta a suon di quelle che spudoratamente, e vigliaccamente, furono chiamate “bombe umanitarie”, in ossequio alla nascente religione neopagana del diritto-civilismo.

Antonio Catalano

 
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