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L'uomo-larva PDF Stampa E-mail

26 Novembre 2017

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Sottratto alla disciplina paterna, privato della strada, protetto contro il bullismo, salvato per legge dalla bocciatura, conosciuta, grazie alla rete, la pornografia prima del sesso, dell'affetto e dell'amore, vissuto al tempo dell'egemonia liberale, concepito ogni desiderio per quanto soggettivo come diritto, drogato dalla tv, dalla musica, dallo sport, dalle mode, immesso nella concorrenza globale, sottratto alla leva o al servizio civile obbligatorio, autorizzato ad avere figli senza ricorrere a una donna (utero in affitto), venne alla luce l'uomo larva.

 

Stefano D’Andrea

 

 
Una dieta micidiale PDF Stampa E-mail

25 Novembre 2017

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Da Appelloalpopolo del 22-11-2017 (N.d.d.)

 

Se un dietologo vi dicesse che dovete perdere ad ogni costo il 30% del vostro peso nel giro di un mese, la riterreste una pretesa illogica e impossibile e dubitereste della sua professionalità. Mirare a un proposito di dimagrimento così drastico e repentino, oltre a determinare l’irraggiungibilità dell’obiettivo prefissato comporterebbe, nel tentativo disperato di perdere più peso possibile, danni collaterali notevoli. L’adozione di un regime dietetico di quasi-digiuno produrrebbe di certo effetti pericolosissimi sulla salute, rischiando di danneggiare irreparabilmente i tessuti di organi vitali. I legittimi dubbi sulla serietà dello specialista diverrebbero certezze nel momento in cui vi proponesse di amputarvi gli arti superiori per aumentare le possibilità di conseguire il risultato prefissato. Di fronte a una simile richiesta, dovreste prendere atto di trovarvi di fronte a un pazzo squilibrato da denunciare immediatamente alle autorità competenti.

 

Nell’Unione Europea accade qualcosa di molto simile. Gli obiettivi di bilancio imposti ai paesi membri sono illogici, perché non si basano su alcuna evidenza scientifica, impossibili da conseguire e, soprattutto, pericolosi per la salute delle economie degli stati aderenti all’unione. Il patto di bilancio europeo, noto come “Fiscal Compact”, viene adottato nel marzo del 2012 e ratificato dal parlamento italiano quattro mesi più tardi, con il voto favorevole di tutte le forze di governo che hanno rappresentanza parlamentare (si opposero solo la Lega con il voto contrario e l’IDV con l’astensione). Questo importante passaggio, che costituisce l’evoluzione del patto di stabilità e crescita sancito con il trattato di Amsterdam del 1997, irrigidisce le già insostenibili regole di bilancio imponendo una dieta drastica, impossibile e dannosa alle finanze pubbliche italiane. L’obiettivo di ridurre significativamente il rapporto del debito sul PIL per portarlo alla soglia del 60% in un ventennio è illogico, irrealizzabile e pericoloso. Illogico, perché non esiste alcuna evidenza scientifica su quale sia il livello di debito pubblico ottimale (in Giappone, per esempio, ha superato il 250% del PIL e verosimilmente toccherà il 300% entro i prossimi dieci anni). Irrealizzabile, perché per l’Italia comporterebbe la necessità di conseguire un avanzo di bilancio di 75 miliardi l’anno, chiaramente un obiettivo impossibile da perseguire. Per fare un esempio, l’abolizione delle Province e la sterilizzazione del Senato che si sarebbero realizzati con la riforma costituzionale bocciata dal referendum dello scorso 4 dicembre, avrebbero comportato, nella migliore delle ipotesi, un risparmio della spesa di 500 milioni di euro. Mezzo miliardo. Il tentativo disperato di inseguire questo obiettivo impossibile ha comportato l’adozione di una legge di rango costituzionale che ha introdotto il pareggio di bilancio nei principi regolatori dei conti pubblici. Questo limite impedisce di dare concretezza ai principi sanciti nella prima parte della Costituzione, perché vincolare per sempre la spesa al conseguimento del pareggio vuol dire rendere incostituzionale qualsiasi misura di deficit spending, cioè rendere impossibile l’investimento pubblico e, in definitiva, arrendersi all’idea di non poter finanziare interventi che incentivino l’occupazione e mitighino le disuguaglianze in periodi di crisi attuando le necessarie politiche anticicliche. Oltre che illogico e irrealizzabile, come dicevo, questo obiettivo di dimagrimento del debito pubblico è dannoso. L’unico modo per tentare disperatamente di recuperare una tale entità di risorse, infatti, è quello di suggerire l’amputazione degli arti cui si accennava.

 

Così l’Italia è costretta a tagliare la spesa pubblica nei settori vitali, chiudendo presidi ospedalieri e provvedendo alla razionalizzazione (che è diventata sinonimo di taglio) dei servizi di quelli che restano in piedi o producendo norme che inducano i medici a ridurre all’essenziale le prescrizioni dei farmaci. Gli organici vengono ridotti all’osso, negli ospedali, come nelle scuole e negli enti pubblici, sovraccaricando il personale restante di incombenze che amplificano i problemi di inefficienza della macchina amministrativa. I plessi scolastici vengono accorpati e le spese di gestione ordinaria caricate sui contributi “facoltativi” richiesti alle famiglie. Le risorse per mettere in sicurezza gli edifici che non rispettano le norme antisismiche languono. Non vengono risparmiate neanche le forze di pubblica sicurezza in questi tagli orizzontali, così non di rado sentiamo i sindacati di polizia lamentarsi della carenza dei mezzi, del contingentamento delle risorse che impone persino il razionamento del carburante per le automobili di pattuglia e degli straordinari estenuanti cui sono costretti uomini spesso sottoposti a ritmi di lavoro inconciliabili con il delicato compito che devono svolgere. Anche lo smantellamento della previdenza pubblica persegue questo obiettivo di dimagrimento. Per noi nati negli anni ‘80 la pensione sarà maturata dopo i settant’anni e sotto la soglia della minima, pertanto sarà certamente necessaria un’integrazione privata, se lo stato non interverrà per compensare il trattamento dell’intera platea. Basterebbe leggere il contenuto dei trattati che ratifichiamo per capire cos’è l’Unione Europea. È quel dietologo che ci convince a morire di fame e a tagliarci le braccia per perdere peso, perché secondo lui, se pesiamo 80 kg, è necessario perdere 24 kg nei prossimi trenta giorni per stare meglio. E noi obbediamo. Chi non l’ha ancora capito lo capirà presto sulla propria pelle.

 

Gianluca Baldini

 

 
La dimensione dell'assurdo PDF Stampa E-mail

24 Novembre 2017

 

Da Rassegna di Arianna del 22-11-2017 (N.d.d.)

 

Dopo le due guerre mondiali che hanno insanguinato il Novecento, è iniziata la finis Europae. Una lunghissima civiltà si è irrimediabilmente ripiegata su stessa, avviluppata in una crisi il cui titolo più azzeccato sembra essere La terra desolata. La grande opera poetica di Eliot, così poco americano e tanto britannico, ci parla di qualcosa che è irrimediabilmente guasto: waste land è appunto la terra guasta, consumata, in rovina, diventata improduttiva. Un tempo marcito in cui avanza il deserto, testimone di una civilizzazione non più sorretta da un principio, un fine, sterile per mancanza di obiettivi, esaurimento delle idee forza, incredulità, ferma ed inutile come unautomobile che contemporaneamente termina il carburante e fonde il motore. Sono sempre gli artisti i sismografi più precoci dei grandi cambiamenti. Dagli anni 50 del secolo passato, la crisi è diventata insieme oggetto e soggetto della creatività. L’architettura si è involuta, dopo la proibizione dell’ornamento, in semplice ingegneria, senza più un progetto, un’idea generale di città, uno stile. La pittura ha dimenticato prima la natura, quindi ha abbandonato l’essere umano, cessando di raffigurare, rappresentare, sublimare la realtà. Quasi tutto ha perduto un suo centro. Teatro e letteratura non sono stati da meno e, sulle piste della filosofia più seguita dell’epoca, l’esistenzialismo, hanno preso a descrivere la condizione umana come priva di senso, scopo, direzione. Il concetto chiave è diventato l’assurdo, ovvero l’aggettivo che definisce l’insensatezza della condizione umana al tempo della crisi generale della civiltà europea: assurda la vita per smarrimento delle sue ragioni, perdita della fiducia in se stessa, sintomi e prodromi di un percorso di cui in questi anni vediamo il compimento. Insieme con le idee del passato, le menti più febbrili mettevano per la prima volta in causa anche le ragioni del progresso, nelle due versioni trionfanti, quella liberale, tecnologica e borghese e quella marxista. Prime crepe che si trasformeranno presto in voragini, senza indicare tuttavia vie d’uscita, percorsi alternativi, orizzonti di senso su cui ricostruire nuove fondamenta. La vita intera, la condizione individuale, il destino comune, il ruolo della specie umana sulla terra venivano posti in discussione e dichiarati assurdi, a seguito del crollo di un mondo invecchiato.

 

Il racconto dell’esistenzialismo descriveva l’uomo o, nel lessico di Heidegger, l’Esserci come un soggetto gettato, immerso nel mondo in quanto l’esistenza gli è stata imposta come frutto del caso o della volontà altrui. Geworfenheit, gettatezza, è uno dei termini del criptico linguaggio del pensatore di Messkirch, ed indica una sorta di passività esistenziale, una condizione non scelta né voluta. Tutto è quindi assurdo, insensato, inutile dinanzi all’abisso di un’esistenza che lo stesso Heidegger chiamerà “essere per la morte”. Accanto alle altre espressioni del non senso della vita, sorse così un teatro dell’assurdo, i cui massimi esponenti furono Eugéne Ionesco, Samuel Beckett, Harold Pinter, Jean Genet. In Italia, un intellettuale straordinario come Cesare Pavese è noto al grande pubblico per un’espressione, vizio assurdo, simbolo di un morboso desiderio di morte, di un’ansia di autodistruzione, un angoscioso cupio dissolvi che condusse Pavese al suicidio in una stanza d’albergo torinese a soli 42 anni, poco dopo aver raggiunto la definitiva consacrazione letteraria con il premio Strega attribuito al suo capolavoro, La luna e i falò. Uno scrittore romeno emigrato in Francia, Emil Cioran, diventava negli stessi anni una sorta di brillante, azzimato viandante del Nulla, impegnato in un’impietosa autopsia della civiltà agonizzante, a cui vaticinava un lungo, penoso tramonto, convinto dell’infinita vanità del tutto, come scrisse prima di lui, con ben altra profondità, Giacomo Leopardi. L’assurdo, diventato protagonista dell’involuzione della civilizzazione, prendeva così campo, procedeva a tappe forzate ad una dissezione dei temi e del linguaggio, alla decostruzione e revoca dei contenuti e dei messaggi il cui esito fu una generale decomposizione esistenziale. Sciatteria, bruttezza e bizzarria elevate a criterio massimo, rigetto della bellezza, disprezzo per un’estetica della vita che è innanzitutto decoro, rispetto di sé, il nonsenso dell’assurdo che invade come una metastasi ogni espressione e innalza l’informe, l’anomalo, l’oscuro. È un universo senza Dio dove l’esistenza umana ha smarrito senso e significato, un giorno dopo l’altro procede senza scopo. Si frantuma la comunicazione umana, i discorsi si fanno insensati, illogici, le parole si trasformano in rumori in mezzo alla metamorfosi di cose e persone immerse nell’allucinata irrazionalità delle situazioni. Un quadro astratto di una civiltà che ha smarrito ogni filo mentre, come scrisse Eugenio Montale nella Casa dei Doganieri “la bussola va impazzita alla ventura e il calcolo dei dadi più non torna”. Il teatro dell’assurdo, prima che una forma di arte è un documento, un grido d’ allarme, una confessione lancinante di impotenza, un segnavia del Nulla. Eppure, in qualche squarcio resiste un messaggio che potremmo definire di disperata speranza. È il caso, soprattutto, del Rinoceronte di Eugène Ionesco. Il drammaturgo franco romeno scrisse il Rinoceronte nel 1959, allorché la sua opera più famosa, la Cantatrice Calva, era già da due anni nel cartellone del teatro parigino della Huchette, dove è rappresentata ininterrottamente da allora. Il Rinoceronte introduce il personaggio chiave di Ionesco, Bérenger, che comparirà in diverse altre pièces. Da un piccolo paese della Francia si diffonde dovunque l’epidemia di una strana malattia che trasforma uomini e donne in rinoceronti. Poco alla volta, tutti si adattano al nuovo stato, al punto che l’unico abitante rimasto uomo si convince alla fine di essere lui il mostro della città. Bérenger tuttavia resiste ed è forse l’unico squarcio di luce di un pessimismo privo di sbocchi che nega l’esistenza di vie d’uscita al labirinto dell’assurdo, di cui La cantatrice calva è l’espressione più compiuta, insieme con Aspettando Godot di Samuel Beckett. Il primo assurdo è nel titolo: non vi è alcuna cantatrice calva, non è che un errore mnemonico di un personaggio, la citazione diventa una manifestazione del mistero e dell’incoerenza, un’allusione che riaffiora. Ionesco si ispirò ad un manualetto di conversazione di lingua inglese per principianti. Riprodusse nel testo teatrale l’incoerenza, la banalità delle battute, come “il pavimento è in basso, il soffitto in alto”, oppure “i giorni della settimana sono sette”. Una vera e propria anticommedia, senza trama e priva di una conclusione, con l’effetto straniamento ottenuto attraverso l’uso costante di luoghi comuni, frasi fatte, incoerenze, surrealismo verbale, l’incapacità dei sei personaggi di comunicare. In realtà ciascuno parla a se stesso senza dire nulla. Metafora di un tempo sospeso, di una condizione insensata, di una civiltà estenuata, curva su se stessa che Ionesco riprodusse in un’altra delle sue opere, Il re muore. Qui Bérenger è il re dell’universo, ma è solo di fronte alla morte, lo scandalo massimo senza rimedio dell’annientamento. Nessuna speranza, nessuna consolazione, nessun Dio: solo la coscienza dell’assurdo, del destino in fondo grottesco dell’uomo, la sua estraneità reale al mondo. Unica espressione diventa il tragico ridicolo, l’assurdo come baricentro di un uomo ridotto a fantoccio, asservito ad un mondo estraneo ed ostile, intrappolato in atroci banalità destituite di qualsiasi logica. Non troppo diverso è il senso dell’assurdo nell’opera di Samuel Beckett, come Ionesco portatore di una doppia identità culturale e di due diversi registri linguistici. Irlandese trapiantato a Parigi, scrisse sia in inglese sia in francese. I suoi personaggi sono misteriosamente infermi e disperatamente monologanti. Incarnano la solitudine esistenziale dell’uomo contemporaneo, insieme con una paradossale resistenza all’oscuro destino che li sovrasta. La perdita di ogni fede, trascendente o secolare, è in loro radicale, definitiva. Aspettando Godot, come la Cantatrice, non ha una vera trama e non possiede un finale compiuto. Protagonisti sono due vagabondi, Vladimir ed Estragon, figure enigmatiche e dolenti che rappresentano l’irraggiungibilità o forse la stessa inesistenza di Dio. Giovanni Raboni riconobbe in loro – e nell’intera opera beckettiana – “una strana euforia che si sprigiona in questa discesa eroica ed implacabile nello spessore del Nulla.” Forse il poeta milanese colse nel segno, intuendo un elemento in più della condizione – assurda davvero – dell’uomo europeo contemporaneo, una stramba allegria di naufraghi, per citare Ungaretti. Beckett, tuttavia, è uomo della rinuncia ad ogni forma di illusione o presunzione. Nessun autoinganno. Non vi è salvezza, e la mente umana nulla può conoscere dell’immenso mistero che rende inesplicabile l’intera la realtà. Godot non arriverà mai. Al calar della sera, per due giorni successivi un ragazzo annuncia che Godot non verrà. Lo spettatore sa che l’attesa sarà vana, ma i due non cessano di aspettare, tra dialoghi sconnessi accanto all’albero rinsecchito, unica scenografia. Quell’attesa lunga ed infruttuosa, probabilmente, dà loro l’illusione di esistere. Vladimir “Questo ci ha fatto passare il tempo”. Estragon: “Ma sarebbe passato in ogni caso”. V. “Sì, ma non così rapidamente.” Il senso dell’assurdo pervade dunque la vita dell’uomo occidentale da almeno settant’anni, lo mina alle fondamenta, lo disincarna, lo rende una marionetta, capace solo di far passare il tempo. […]

 

Tempo di rinoceronti, il presente più di sempre: conformismo, adesione al pensiero dominante, disprezzo della personalità critica. Il Bérenger di Ionesco è l’unico che non vuole diventare rinoceronte, il solo che non cede alla nuova verità. “In fondo, un uomo non è poi tanto brutto”, conclude, senza credere al nuovo criterio estetico dei rinoceronti. Chi è in minoranza, vive sempre nell’assurdo: talora si convince addirittura di essere dalla parte del torto, si definisce brutto perché solo, estraneo all’ideario dominante, scettico di fronte ai canoni in vigore. In un mondo di rinoceronti, Bérenger resta l’unico ribelle, il solo dotato di una individualità propria che trascende le regole sociali – vecchie o nuove – le norme precostituite, le idee imposte. Attraverso di lui, Ionesco, l’uomo dell’assurdo, attacca l’opportunismo, il doppiogiochismo, la standardizzazione. Lasciato dall’ultimo amico, che si unisce ai rinoceronti, abbandonato anche dalla sua donna, Daisy, Bèrenger sta per cedere, ma ha un ultimo sussulto, evade dalla prigione dell’assurdo e, guardandosi allo specchio e trovandosi brutto (guai a chi vuole conservare la propria originalità!), prorompe in un grido estremo di resistenza, enfatizzato dal raddoppio delle frasi. “E allora, tanto peggio, mi difenderò contro tutti. La mia carabina, la mia carabina. Contro tutti quanti mi difenderò, contro tutti quanti. Sono l’ultimo uomo, e lo resterò fino alla fine. Io non mi arrendo. Non mi arrendo!”. Fine della rappresentazione. Nell’estremo pericolo, ritrova il senso, imbocca una direzione, guarisce dalla malattia dell’assurdo. Contro vecchi e nuovi rinoceronti, è la resa il trionfo dell’assurdo.

 

Roberto Pecchioli

 

 
Un pazzo col dito sul grilletto atomico? PDF Stampa E-mail

23 Novembre 2017

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Da Comedonchisciotte del 21-11-2017 (N.d.d.)

 

Questa settimana, in un’udienza straordinaria al Senato, legislatori e funzionari militari si sono coalizzati contro Trump, ritenendolo un pericolo per la pace mondiale a causa del suo potere di lancio di armi nucleari. Il momento clou è venuto quando è stato detto che gli ufficiali militari hanno il diritto costituzionale di disobbedire al presidente. Un palese appello all’ammutinamento contro l’autorità presidenziale. L’udienza al Senato rappresenta un momento eccezionale in un anno in cui la politica è stata messa sottosopra dall’elezione di Trump. Quel momento di potenziale sommossa tuttavia sembrava essere un evento piuttosto improbabile. La Commissione del Senato per le Relazioni Estere si è riunita martedì per discutere degli aspetti legali riguardanti il ​​presunto potere esecutivo del presidente di lanciare missili nucleari. Lultima volta avvenne nel 76, poco prima che Nixon venisse deposto. Questo da solo dice quanto sia in gioco per The Donald.

 

La rivista Time ha pubblicato l’articolo: “Trump dovrebbe avere il potere esclusivo di lanciare missili nucleari?” Il senatore Chris Murphy (D) ha definito il tono e lo scopo dell’udienza: “Siamo preoccupati che il Presidente sia così instabile da poter ordinare un attacco nucleare, cosa che va palesemente contro gli interessi di sicurezza del paese”. Riferendosi alla grave implicazione costituzionale, Murphy ha aggiunto: “Riconosciamo l’eccezionale natura di questo momento, della discussione che stiamo avendo oggi”. È difficile immaginare un modo più degradante di riferirsi al capo dello stato. Trump, in pratica, viene dipinto come un pazzo con il dito sul pulsante per l’Armageddon. Come fa il presidente a mantenere l’autorità in un contesto del genere? Queste schiere anti-Trump sono state spinte dai suoi oppositori politici, dai media democrats e dall’intelligence, nell’ultimo anno ed oltre. Ricordate quando, durante un dibattito tv, la Clinton lo rimproverò di essere un pericolo per la sicurezza a causa del suo temperamento instabile e del suo potenziale accesso ai codici nucleari? Persino i membri del Partito Repubblicano lo hanno dipinto come una minaccia alla sicurezza nazionale. Il senatore repubblicano Bob Corker, il mese scorso, ha aspramente criticato la sua retorica di fuoco verso la Corea del Nord, dicendo che “instrada gli Stati Uniti sulla via della terza guerra mondiale”. Il presidente è appena tornato da un tour asiatico di 12 giorni, rivendicandolo come un grande successo in termini di promozione degli interessi commerciali americani. Ma gli ex capi dell’intelligence gli sono sùbito entrati in scivolata definendolo una “minaccia alla sicurezza nazionale” in varie interviste. L’ex capo della CIA John Brennan e l’ex direttore dell’Intelligence nazionale James Clapper si riferivano alla conversazione di Trump con Putin durante il vertice APEC in Vietnam. Entrambe le ex spie, che presumibilmente conservano ancora stretti contatti all’interno dell’establishment della sicurezza militare, lo hanno accusato di “aver accettato le rassicurazioni di Putin che la Russia non ha interferito nelle elezioni americane”. Trump, hanno detto, è stato “preso in giro da Putin” e stava pertanto mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. Tali commenti sono stati ripresi questa settimana da Brian Hook, alto funzionario del Dipartimento di Stato, che in una conferenza a Washington ha dichiarato che “la Russia è una chiara e concreta minaccia per l’Occidente.” Come riferito da Radio Free Europe: “La linea dura di Hook su Mosca sembra essere in contrasto con i tentativi dichiarati dall’amministrazione Trump di migliorare le relazioni con la Russia”.

 

Ancora una volta, è difficile immaginare quanto più dispregiativi possano essere gli insulti espressi contro un presidente in carica. Le deboli accuse di “collusione” tra Trump e la Russia lo hanno bollato come “burattino del Cremlino”. Inoltre, è una presumibile minaccia alla sicurezza nazionale; e ora questa settimana, un pazzo che deve essere allontanato dal bottone nucleare. Un ufficiale militare presente alle udienze dice che ha un “potere simil divino di porre fine al mondo”. Bruce Blair, ex comandante del lancio nucleare, ha dichiarato in un’intervista ai media: “Il potere di distruggere la civiltà umana è unilateralmente maneggiato da un tizio che è un rinomato genio della truffa e star tv nota per la sua impulsiva petulanza, irascibilità ed ancor più breve durata di attenzione”. Il commento forse più significativo è giunto dal generale Robert Kehler, che ha diretto il Comando Strategico statunitense a capo dell’arsenale nucleare nel periodo 2011-2013. Ha detto dalla commissione del Senato: “Se viene presentato un ordine illegale ai militari, questi hanno l’obbligo di rifiutarsi di seguirlo”. Kehler ha detto che questo dovere si applica a tutti i presidenti. Tuttavia, visti gli attacchi mediatici senza precedenti ed incessanti a Trump dell’ultimo anno, la chiamata alla disobbedienza assume un significato particolare. È una sfida aperta all’autorità ultima di Trump.

 

Cerchiamo di essere chiari. La personalità ed il comportamento di Trump sono sospetti. È impetuoso e spericolato nella sua retorica. Le sue minacce di scatenare “fuoco e furia come il mondo non ha mai visto” sulla Corea del Nord sono profondamente inquietanti. Così come le sue minacce, fatte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre, di “distruggere totalmente” la nazione asiatica a causa del suo programma nucleare. I tweet con cui definisce il leader nordcoreano “Little Rocket Man”, e più recentemente “basso e grasso”, sono provocazioni gratuite, ed hanno intensificato le paure dello scoppio di una guerra nucleare. Sembra esserci tuttavia che la classe politica americana, che non ha mai mandato giù l’elezione di Trump, abbia un’ulteriore agenda. Ritrarlo come un tirapiedi russo, un traditore ed un pericolo per la sicurezza nazionale sono tutti step della campagna in corso per deporlo e ribaltare il risultato delle elezioni dello scorso anno. Ma ecco la cosa intrigante. I senatori questa settimana non hanno previsto di modificare la legislazione per frenare i poteri nucleari del presidente. Il senatore Bob Corker ha detto ai giornalisti: “Non credo accadrà”. Brian McKeon, Sottosegretario alla Difesa per la politica militare durante l’amministrazione Obama, ha dichiarato: “Se dovessimo cambiare il processo decisionale per la sfiducia nei confronti di questo presidente, sarebbe un’infelice decisione per il prossimo”. Così il gioco è fatto. I legislatori e gli ufficiali militari non sembrano avere alcun problema con il fatto che un presidente possa lanciare attacchi nucleari preventivi contro uno stato percepito nemico. Se obiettassero, allora spingerebbero per limitare l’uso delle armi nucleari. Il vero problema qui dovrebbe riguardare il modo in cui a qualsiasi presidente americano viene data l’autorità di lanciare una guerra nucleare, non solo a Trump. Ciò a cui i suoi oppositori nell’establishment politico-militare mirano veramente è trovare un pretesto per indebolire la sua carica e, in ultima analisi, sfidarne l’autorità presidenziale, sulla base del fatto che non è idoneo. L’appello di questa settimana affinché l’esercito disobbedisca ai suoi ordini è un avvertimento: un colpo di Stato non è impensabile.

 

 Finian Cunningham (traduzione a cura di HMG)

 

 
Paradisi fiscali PDF Stampa E-mail

22 Novembre 2017

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Da Rassegna di Arianna del 20-11-2017 (N.d.d.)

 

Francisco Quevedo, uno dei grandi della letteratura universale, scrisse, nelle Poesie infantili, alcuni versi divenuti famosissimi: “poderoso caballero es Don Dinero. Madre, yo al oro me humillo, él es mi amante y mi amado.” Non crediamo occorra traduzione. A questo pensavamo, leggendo dei cosiddetti Panama Papers, ovvero le informazioni rese pubbliche dal gruppo Mosack Fonseca, uno studio legale panamense “che fornisce informazioni su oltre 214.000 società offshore, includendo le identità degli azionisti e dei manager” (Wikipedia). Le rivelazioni dei giornalisti investigativi che hanno lavorato al caso sono assai interessanti. Tra gli undici milioni di file, alcuni gettano una luce nuova – quella vera – su alcuni personaggi amati dal pubblico, beniamini della stampa internazionale, alfieri del messaggio politicamente corretto. Tra i detentori di conti e affari nei paradisi fiscali figurano infatti stelle della musica pop come Madonna e del rock come Bono, leader degli U2. Si tratta di campioni del buonismo internazionale, sempre pronti a cavalcare le cause umanitarie ed ergersi a difensori dei poveri e degli sfruttati. Non manca il più stretto collaboratore di un’altra icona progressista, il primo ministro candese Justin Trudeau, giovane, bello e “de sinistra”, eccetto quando si tratta del portafogli, né qualche esponente del partito laburista inglese. La vera star dei Panama Papers, tuttavia, è Sua Graziosa Maestà la Regina Elisabetta II d’Inghilterra, che avrebbe messo al sicuro almeno dieci milioni di sterline. Che volete che sia, fanno sapere da casa reale, non si tratta che dello 0,3 per cento del patrimonio degli Windsor, e certamente l’anziana sovrana non ne sapeva nulla, fiduciosa nei suoi consulenti ed amministratori. Tutte queste notizie, peraltro, non sono che folclore, poco più che aneddoti su un mondo, quello della finanza, che avrebbe bisogno di far scoprire ben altro rispetto a quanto emerso dai documenti panamensi. In più, la notizia si è ormai raffreddata sui grandi media mainstream, i cui padroni e mandatari – pochi grandi gruppi internazionali – sono parte integrante del sistema ed hanno tutto l’interesse a concentrare l’attenzione su singole persone, fossero pure esponenti della monarchia di una vecchia potenza imperiale, sviando il pubblico da un fenomeno, quello dell’elusione fiscale, del labirinto del denaro, dei luoghi e dei modi in cui si esercita il vero potere, la cui conoscenza, anche parziale, cambierebbe in maniera irreversibile la visione del mondo di miliardi di esseri umani. Lasciamo dunque la Regina alle sue dubbie giustificazioni sulla modestia delle somme oggetto della marachella, magari facendo una mano di conti sul patrimonio (quello ammesso!) della casa di Windsor, sul cui Commonwealth non tramonta mai il sole, che sarebbe, calcolatrice alla mano, di almeno tre miliardi di sterline. Cerchiamo invece di andare al sodo, ovvero all’immenso problema dei paradisi fiscali. La prima notazione strappa un sorriso: il termine inglese tax haven non significa paradiso fiscale, come è tradotto in diverse lingue, ma rifugio, porto. L’equivoco nasce dalla confusione tra heaven, paradiso, e haven. Un caso, o un capolavoro di programmazione neurolinguistica? Anni fa, un liberista a ventiquattro carati, il senatore e professore Antonio Martino dichiarò che se esistono i paradisi fiscali è perché ci sono gli inferni tributari. C’è del vero nella battuta del cattedratico siciliano, peccato che l’inferno, in genere, riguardi, in Italia e fuori, soprattutto la massa dei lavoratori dipendenti, dei pensionati, dei piccoli e medi imprenditori e non i giganti, comprese le entità finanziarie globali. Un dato su tutti: Facebook ha dichiarato in Francia un giro d’affari di oltre 210 milioni di euro nel 2015, ma ha pagato imposte per poco più di 300 mila euro, lo zero virgola quindici per cento. Forse i paradisi, o rifugi fiscali, c’entrano qualcosa, insieme con l’apparato legislativo di molti paesi che consente di celare redditi, creare passività, organizzare vorticosi giri del pianeta da attribuire a società controllate o a veri e propri fantasmi, giocare con i bilanci, realizzare mille spericolate operazioni di ingegneria finanziaria. Desta altresì un certo stupore digitare il sintagma “paradisi fiscali” su un grande motore di ricerca, ed imbattersi in numerosi, serissimi siti che offrono la più ampia assistenza per mettere in piedi società offshore. Anche in questo caso, il significato è assai indicativo della forma mentis che ci viene imposta. Offshore, infatti, significa “fuori costa”, ma nell’uso corrente si tratta del nome attribuito a società localizzate in territori, situati spesso in piccole isole oceaniche (lett. “al largo della costa”) in cui vigono legislazioni particolarmente permissive per quanto riguarda il trattamento fiscale, gli adempimenti contabili e societari, combinati con rigide garanzie di riservatezza e anonimato sui movimenti bancari e societari. La definizione è assai autorevole, giacché è tratta dall’enciclopedia Treccani. I siti, molto professionali, con linguaggio impeccabile e dovizia di riferimenti legislativi spiegano molte cose anche a chi non intende costituire società offshore. Una delle società specializzate individuate in rete, ad esempio fornisce un apprezzato servizio, come dire, chiavi in mano, affermando che “le grosse società riescono ad ottimizzare il proprio carico fiscale, facendo figurare in perdita le succursali che si trovano nei paesi ad alta tassazione e realizzando profitti – occultati alle amministrazioni fiscali aggressive – attraverso società schermo”. […] Ognuno tragga le sue conclusioni, senza dimenticare che gli stessi promotori parlano di società schermo, dunque ammettono pacificamente il carattere fittizio, strumentale di un numero sterminato di società, dunque di milioni di transazioni.

 

Questo è il sistema, però, non la sua degenerazione o la sua patologia. Il mercato sovrano questo è e su queste regole prospera, inutile nascondersi dietro un dito. Senza i paradisi, o rifugi non tanto fiscali, ma finanziari, senza questa infrastruttura, una sorta di perfetta fognatura della struttura globale, non potrebbero sussistere i buchi neri che inghiottono il denaro, ne celano la vera provenienza, la destinazione finale e i loro obiettivi; il mercato misura di tutte le cose, la globalizzazione, la privatizzazione del mondo non funzionerebbero.  Tanto più che le informazioni tratte dagli addetti ai lavori parlano di cifre impressionanti. L’insider Bsd stima attorno al 60 per cento la quota di capitali internazionali allocati offshore. […] Elisabetta d’Inghilterra, in fin dei conti, non ha fatto altro che depositare un poco del suo sudato tesoretto in uno dei numerosissimi conti riconducibili a società residenti in qualche angolo del mondo sotto l’influenza dell’impero britannico. I paradisi, o rifugi, se preferiamo la traduzione letterale di Tax haven, sono in numero impressionante. Sono sparsi equamente in tutto il mondo, con preferenza per l’Europa e le Americhe, ed in genere si tratta di staterelli, isole o enclaves legate al vecchio impero britannico, senza dimenticare gli antichi possedimenti di un’altra ricchissima monarchia di mercanti, l’Olanda degli Orange. Nuovi paradisi sono sorti un po’ ovunque, poiché, come sapeva già Vespasiano imperatore, il denaro non puzza. Teoricamente, esiste una lista nera di paesi e luoghi che la stessa comunità internazionale considera sentina di illegalità, ma la realtà è assai più complessa ed articolata, e fa impallidire la stessa Svizzera, la cui secolare neutralità è la ragione stessa della reputazione della confederazione crociata come porto sicuro per capitali alla ricerca di tranquillità, silenzio, stanze ovattate dove svolgere ogni genere di acrobazie con al centro Don Dinero, Don Denaro. Pensiamo all’ Unione Europea: Cipro, Lussemburgo, Malta sono paesi membri, ma, in modi e con clientele diverse (pensiamo ai capitali russi allocati a Cipro) sono anche paradisi fiscali, in barba alle norme comunitarie. I microstati come Monaco, San Marino, Andorra, Liechtenstein, Gibilterra non hanno altra ragione d’esistenza se non la funzione di comodo rifugio per affari di ogni genere. Una delle cause scatenanti dell’attuale crisi catalana è la circostanza che dal 2018 il minuscolo principato pirenaico di Andorra eliminerà in gran parte il segreto bancario, facendo emergere le prove di corruzione e probabilmente di coinvolgimenti in affari indicibili da parte di settori politici, economici, finanziari ed imprenditoriali di Barcellona, disposti a giocare la carta della separazione dalla madre patria. Del ruolo dell’Istituto per le Opere di Religione vaticano è opportuno tacere per carità cristiana, ma figure come quella di monsignor Marcinkus sono note in tutto il mondo. Poi ci sono le isole del canale (Jersey e Guernsey) e l’isola di Man tra Irlanda e Gran Bretagna, entrambe dipendenze dirette della Corona inglese, ma, opportunamente, non facenti parte del Regno Unito, tanto che i loro cittadini esibiscono un passaporto con la dicitura Isole Britanniche anziché United Kingdom. Gli stati, staterelli e protettorati vari che fungono da paradisi fiscali sono in genere privi di valuta propria, senza esercito, la loro vita politica è spesso caratterizzata dall’assenza di partiti e sindacati. È evidente che se esistesse una volontà chiara di farla finita con le pratiche di finanza ombra e con il lucroso sistema delle sedi sociali di comodo, l’esito sarebbe certo e persino rapido: sanzioni economiche, interruzione delle linee informatiche, blocco nelle comunicazioni metterebbero in ginocchio l’intera filiera. Quanto all’eventualità di ricorrere alla guerra, gli Stati Uniti invasero senza problemi Grenada e lo stesso Panama, allorché il presidente Noriega cessò di essere funzionale ai loro interessi. Dunque, si deve concludere che i tax haven sono parte integrante ed insostituibile di un sistema generale opaco, antipopolare, con non pochi tratti criminali. John Kennedy provò nel 1962 senza successo ad istituire la tassazione dei profitti esteri delle corporazioni americane. Chissà che tale sgarro, unito al tentativo di emettere banconote governative al posto della Federal Reserve, non sia tra i moventi di chi ha armato la mano del sicario di Dallas nel novembre 1963. I Caraibi fanno la parte del leone, nell’universo offshore: vicini agli Usa, cuore dell’impero, protetti da svariate formule giuridiche in quanto alla forma statuale ed istituzionale, sono la colonna vertebrale della finanza ombra: Barbados, Bahamas, Bermude, le Isole Vergini Britanniche, e poi Anguilla, Grenada, Trinidad e Tobago, le Cayman, senza dimenticare l’Honduras Britannico o Belize in America centrale. Poi ci sono le Antille Olandesi (Curaçao), naturalmente Panama, culla degli interessi americani per via del canale e tante altre piccole realtà. Poiché oggi il cuore del denaro si è spostato ad oriente, citiamo le opache monarchie del petrolio, Singapore, Hong Kong, Macao, persino Taiwan. Infine, resta l’immensa area oceanica del Pacifico, con Tonga, Vaunatu, la Nuova Caledonia (Francia), le Isole Marshall.

 

L’elenco è lungo, incompleto ed impreciso, ma dimostra un fatto: il denaro non vuole controlli, odia gli Stati sovrani, sfugge non solo e non tanto il fisco, ma la chiarezza e la trasparenza. Ama scomparire e ricomparire, celare i suoi viaggi e soprattutto non far sapere da dove viene e dove va, chi e cosa paga, chi muove i fili e chi finanzia, di quali vergogne, crimini, misfatti è ragione, prova, protagonista. Il suo fine ultimo non è l’arricchimento, ma il dominio, a vantaggio di una cupola (possiamo chiamarla cricca, o direttamente banda?) che ha nel sistema finanziario il proprio santuario e nelle nuove tecnologie, specie quelle informatiche e di controllo, il più potente strumento di potere mai apparso sulla scena del mondo. Non è un caso che ai colossi tradizionali – le grandi banche d’affari, i gruppi petroliferi, alcune centinaia di multinazionali- si siano aggiunti i giganti dell’elettronica, i GAFU, Google, Apple, Facebook, Amazon, più Microsoft. La sola Irlanda, per restare in Europa, ha abbonato tasse ad Apple per 13 miliardi di euro, mentre il conto dell’elusione realizzata nei grandi Stati europei è pressoché incalcolabile, e la reazione debole, tardiva, difensiva, destinata alla sconfitta se il sistema non cambia alla radice. I paradisi fiscali, infatti, non sono che uno dei tasselli di una gigantesca costruzione in cui i padroni delle tecnologie digitali ed informatiche, in perfetta sinergia con i vertici del sistema finanziario ed economico,  all’ombra del potere politico militare e degli apparati riservati statunitensi, sono contemporaneamente utenti e fornitori delle tecniche per nascondere i flussi di denaro, dei grandi server di controllo, conservazione e presumibilmente manipolazione dei dati, oltreché i massimi beneficiari. È per capirci, una partita in cui lo stadio, il pallone, l’arbitro e le squadre in campo dipendono dallo stesso padrone. Unica variabile, il pubblico pagante a cui deve essere fatto credere che il risultato non è prestabilito. In mezzo, ci sono gli Stati, che non hanno obiettivamente strumenti per opporsi al fiume di dati, di denaro, di transazioni di cui non riescono ad avere né il controllo né la stessa conoscenza. Qualcuno parla di un minimo di 21 mila miliardi nascosti, un trenta per cento del PIL mondiale, altre fonti parlano di cifre diverse. Si parla, oltretutto, delle sole ricchezze finanziarie, non dei beni di lusso, come navi, quadri, oro o gioielli. Ciò che è chiaro a tutti coloro che hanno studiato il fenomeno è che l’80 per cento delle somme nascoste nei paradisi fiscali sono in capo allo 0,1 per cento dei più ricchi del mondo. Di questo tesoro pressoché incommensurabile, la metà sarebbe saldamente nelle mani dello 0,01 di super ricchi. Viene in mente Aristotele e la sua distinzione tra economia e crematistica, ovvero l’accumulazione di ricchezza derivante esclusivamente dall’uso del denaro. All’orizzonte, è intanto apparso un nuovo paradiso fiscale, virtuale questa volta, in linea con la dematerializzazione di tutto generata dall’alleanza tra finanza e tecnologia informatica ed elettronica. È il sistema delle criptovalute, le monete virtuali che possono essere trattate in un mercato parallelo e sottostante agli altri. La capitalizzazione delle criptovalute, tra le quali spiccano il Bitcoin e l’Ethereum (nomen omen…) è in costante ascesa e supera ormai i 155 miliardi di dollari. Poco o nulla, dinanzi ad Apple, con 815 miliardi, o Amazon (474 miliardi), ma un nuovo attore globale è entrato in campo, un filone che sfuggirà ad ogni controllo indipendente. Il giornalista economico Paolo Panerai segnala lo strano caso della risoluzione 72/E del 2016 dell’Agenzia italiana delle Entrate che ha dichiarato “non imponibili mancando la finalità speculativa” le operazioni in criptovalute. Misteriosamente quanto opportunamente, il documento ministeriale è scomparso dal sito dell’Agenzia. Un altro settore è quello del cosiddetto “shadow banking” le transazioni ombra, specie di titoli derivati, che avvengono prevalentemente utilizzando i canali dei paradisi fiscali. Altrettanto interessante sarebbe poter seguire il denaro che transita nel grande mare del clearing, ossia del sistema di compensazione interbancario tra crediti e debiti, dominato da Claistream ed Eurostram con sede a Lussemburgo, le due società che possiedono anche il circuito Swift che permette i pagamenti e bonifici internazionali. In realtà Swift è controllato dal governo statunitense e, si dice, bloccò per alcune settimane le operazioni della banca vaticana, sino alle inspiegabili dimissioni di Benedetto XVI.

 

Esiste dunque, all’insaputa dei popoli, un immenso fiume carsico legato al denaro che appare, scompare, riaffiora a seconda degli interessi di pochi. Non vi è dubbio che i paradisi fiscali siano il luogo privilegiato del riciclaggio del denaro proveniente dalle più odiose attività criminali, traffico di armi, droga, organi, tratta di esseri umani. Un capitolo a parte meriterebbe la pratica del signoraggio, ovvero i profitti occultati che il sistema finanziario trae dalla creazione monetaria sottratta agli Stati sovrani. In tutto ciò, gioca sicuramente un ruolo chiave il sistema delle banche centrali, il cui cardine è la BRI di Basilea (Banca dei Regolamenti Internazionali) la cupola delle banche centrali. Vale la pena ricordare che la BRI, insieme con le sue consociate, tra le quali spiccano la BCE e la Federal Reserve, gode di statuto privilegiato, passaporto diplomatico per i dirigenti, divieto di ispezioni, perquisizioni e controlli, tanto da parte di autorità pubbliche che di entità indipendenti. Non vi è quindi alcun dubbio che l’intero sistema finanziario mondiale, di cui i cosiddetti paradisi fiscali sono un importante tassello, sfugga non solo a qualunque controllo di legalità tributaria, ma rappresenti il massimo potere planetario, con legami inconfessabili con tutte le forme di ingiustizia, coercizione, illegalità che rappresentano il dominio di pochi su miliardi di esseri umani. I Panama Papers insomma sono una piccola goccia di verità e non cambieranno la storia, ma almeno adesso sappiamo che persino le istituzioni più antiche e prestigiose, come la stessa casa reale britannica, sono parte integrante di un sistema vergognoso. Se anche la regina Elisabetta va in paradiso (fiscale), l’inferno è per tutti noi.

 

Roberto Pecchioli

 

 
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21 Novembre 2017

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Da Rassegna di Arianna del 13-11-2017 (N.d.d.)

 

Quanto si sta ultimamente verificando in quel di Catalogna, nonostante le parvenze di una questione prettamente iberica, dal carattere di passeggera rivendicazione a carattere localistico, riveste, invece, un carattere di problematicità tale, da non poter essere passato sotto silenzio o, quanto meno, giustificato e spiegato con le solite nenie buoniste e solidariste, che identificano in quel problema, un fatto di egoismo contrapposto allo strabordante e nauseabondo buonismo legalitario delle istituzioni statuali europee. È praticamente dall’inizio del processo di nascita degli Stati Nazionali europei e dal suo venire a compimento nel Secolo Breve che in Europa si verificano periodici conati di autonomismo ed indipendenza delle varie regioni o macro regioni considerate. Tale fenomeno è andato poi amplificandosi a livello globale, in quel lasso di tempo che va tra le due guerre mondiali, con la fine degli Imperi Centrali e quella, per lo più successiva al Secondo Conflitto Mondiale, degli Imperi Coloniali. Da quel momento in poi, sarà tutto un fiorire di rivendicazioni a livello europeo e mondiale. Palestina e Kurdistan, in Medio Oriente, Kashmir in India, Tibet e Turkestan in Cina, Cecenia ed Abkhazia in Russia, Regione Miskito in Nicaragua, Casamance in Senegal, Sahara Spagnolo in Marocco, Moros nelle Filippine, Timor Est, Molucche, Banda Aceh e West Papua in Indonesia, ma in Europa anche Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Corsica, Sud Tirolo, Val d’Aosta, Vallonia, Scozia, Bretagna, Galles, Catalogna e tanti altri ancora…tutti accomunati da frettolose suddivisioni territoriali operate a colpi di matita, all’insegna di quella “ragion di stato” che, alla fine dei vari Risorgimenti nazionali e dei vari conflitti mondiali, determinarono confini e stati, troppo spesso senza tener conto delle popolazioni che abitavano i territori presi in considerazione. Rivendicazioni spesso sfociate in sanguinosi conflitti (Palestina, Kurdistan, Ulster, Paesi Baschi, etc.) o rimaste allo stadio di rivendicazioni politiche “forti” (Scozia, Bretagna, Catalogna ed altri…).

 

Ad onor del vero, per dare una prima risposta al problema, bisognerebbe risalire all’origine dello Stato Occidentale Moderno, ovverosia, così come esso è andato prefigurandosi dal 16° e dal 17° secolo in poi, per voce dei vari Bodin, Grozio, Pufendorf e Hobbes e che, per quanto assurdo possa sembrare, troverà la propria più compiuta espressione in quel Giacobinismo che della Rivoluzione Francese costituirà l’anima più radicale e contraddittoria. Da Luigi XVI a Robespierre, va quindi determinandosi un percorso volto a fare dello Stato un’Entità centripeta ed accentratrice al massimo livello. Un monolite sorretto da reciproci interessi commerciali, all’insegna dell’ “homo homini lupus”, ben lontano quindi dall’ethos comunitario che caratterizzava le Città-Stato dell’Evo Medio, quanto le più antiche Poleis Elleniche e la Res Publica Romana. Uno Stato animato dall’intento di uniformare e distruggere qualunque forma di residuale autonomia interna, eredità di quegli ordinamenti universalistici dell’Evo Medio e dell’Evo Antico che, invece, con tutti i propri limiti, nel nome di un superiore ideale, avevano saputo concedere statuti ed autonomie a Gilde, Corporazioni, Compagnonnage, ma anche a Feudi, Principati, Contee, Comuni. Lo Stato della nascente Modernità va, pertanto, prefigurandosi quale ottuso Moloch uniformatore, creando la premessa per tutti i problemi a venire, a cui abbiamo poc’anzi accennato. Il primo episodio-simbolo di questa nuova situazione, sarà la vicenda vandeana, immediatamente succedanea a quella Rivoluzione Francese, sulla quale getterà un primo, oscuro, velo di ambiguità, lasciando scomodi interrogativi sul tavolino della storiografia ufficiale. A questa iniziale trasformazione dello Stato, se ne andrà presto aggiungendo un’altra, se vogliamo, ancor più esiziale e micidiale di questa prima, nelle sue conseguenze: quella della graduale perdita del primato della politica e del peso specifico dello Stato stesso, in favore dell’economia e dei suoi aggregati sociali, inizialmente nel ruolo di assoluti detentori del primato tecnologico, quale volano della Rivoluzione industriale, a cui avrebbe fatto seguito una graduale virtualizzazione dei processi economici attraverso la loro finanziarizzazione a livello globale. La disumanizzazione dello Stato, dei processi economici e delle relazioni che ne stanno alla base, finiscono con il disconoscere qualsiasi dignità a rivendicazioni, istanze o esigenze che non siano strettamente finalizzate a questo scopo. Le premesse sin qui trattate, vengono a determinare scenari geopolitici e geoeconomici del tutto differenti da quelli sin qui succedutisi, nel corso della lunga vicenda occidentale. Gli Stati si muovono all’interno di uno scenario caratterizzato da aggregati macroeconomici, coordinati da organismi a carattere politico o economico sovrastante i singoli ordinamenti (Comunità Europea, Nafta, etc.) e che, a loro volta, rispondono ad altri organismi che in qualche modo ne sovrastano o limitano l’attività (FMI, Nazioni Unite, Accordi WTO, etc.). Se, apparentemente, questo interrelarsi e coordinarsi di forze sembra aver la parvenza di una egualitaria combinazione e redistribuzione di risorse economiche, finanziarie e politiche, in verità così non è. Anzi. Lo scettro del comando oggi è saldamente detenuto da una potenza mondiale, gli Usa, in stretta simbiosi con quei centri del potere economico e finanziario globale che, guarda un po’, ad oggi continuano per lo più a concentrarsi proprio sul territorio di questi ultimi. Questo, anche e nonostante il processo di deterritorializzazione della finanza e dell’economia, che vede il sorgere di nuovi attori come la Cina ma che non potrà mai fare a meno degli Usa, detentori del primato assoluto di stampa, emissione ed esportazione di valuta (dollari) al mondo. E si sa, chi detiene il primato nella produzione ed esportazione del denaro, ad oggi, problemi o non problemi, ha saldamente nelle proprie mani le redini del potere mondiale. In uno scenario del genere, qualsiasi lotta o frizione di tipo meramente geopolitico, perde di qualsiasi rilevanza, poiché a mutare radicalmente ora, sono le esigenze dei singoli Stati e dei loro popoli che, sempre più, dovranno pensare a preservare la propria indipendenza economico-finanziaria e la propria identità politica, per non soccombere schiacciati da un sistema mondiale, caratterizzato da una sempre maggior volatilità delle prospettive economiche e finanziarie, su cui un sempre minor numero di speculatori trae profitto, a fronte di un sempre più diffuso stato di indigenza e povertà. Un sistema che, nella perdita di identità e coscienza dei singoli popoli, fonda la propria forza di perpetuazione, spingendo su una massiccia leva migratoria dal Terzo Mondo da immettere nei delicati equilibri sistemici del Vecchio Mondo, al fine di alterarne irrimediabilmente quelle componenti caratteriali, in grado di opporre una qualsivoglia resistenza a tale progetto. Lo stesso degrado delle condizioni dell’ecosistema globale, è portato avanti al fine di portare all’estremo e nel più breve termine possibile il lucro delle varie lobby economiche e finanziarie legate all’utilizzo degli idrocarburi. Un confronto o, per meglio dire, uno scontro di dimensioni ed entità tali, da non poter permettere l’esistenza di micro entità statuali, scollegate e distaccate da un contesto comunitario più forte, quale quello rappresentato dagli stati- nazione. Questo, a meno di non voler addivenire, di comune accordo, alla costituzione di un mondo equamente diviso e frazionato dall’ “A” alla “Zeta” dei suoi componenti, economici, politici, statuali e spirituali. Un’Europa spezzettata in tanti staterelli e macro regioni, non ha alcun senso se non avremo anche degli Usa spezzettati, magari con una New York indipendente, accanto agli antichi Stati Sioux e magari un New Mexico libero ed ispanico al 100%. Né avrà senso, se non avremo una Cina altrettanto spezzettata, con un Tibet finalmente libero, un Turkestan Islamico Indipendente e, magari, una Mongolia e uno Guangxi altrettanto liberi. Stesso discorso, per paesi come la Russia, l’India o il Brasile, senza parlare di Israele che dovrebbe di nuovo lasciare molte terre alle rivendicazioni Palestinesi. Senza contare la ridefinizione dei confini tra Iraq, Turchia, Siria ed Iran, con la nascita di un Kurdistan libero. Gli stessi organismi sovranazionali andrebbero ridefiniti su base etnica e regionale, pertanto, tutti a pari potere decisionale. Ma questo non servirebbe a nulla, se quanto sin qui prospettato non venisse realizzato anche nell’ambito della finanza e dell’economia globali. Tutte le grandi concentrazioni di potere economico e finanziario dovrebbero essere immancabilmente spezzettate e suddivise nel nome di un principio di proprietà ed azionariato diffuso, di modo che nessuno possa mai più detenere quote di maggioranza o di potere, tali da condizionare (come ora invece avviene…) gli equilibri di un contesto geoeconomico o geopolitico che dir si voglia. Stesso destino dovrebbe immancabilmente toccare a tutte le istituzioni religiose, doverosamente e doviziosamente suddivise per regione, etnia o popolo d’appartenenza, senza fare sconti proprio a nessuno.

 

Siamo forse al ritorno delle suggestioni anarchiche di Fourier, Proudhon e Bakunin? Forse, chi lo può dire… Certo è che, se si vuole essere coerenti con se stessi e, specialmente, con il proprio istinto di autoconservazione, non si può permettere un’Europa spezzettata, a fronte di un contesto di strabordante presenza di forti aggregati di natura macro politica (Usa, Cina, etc.) o economico-finanziaria (Multinazionali, Bilderberg, etc.). Pertanto, la conclusione più ovvia è che, visto lo scenario attuale che, almeno per ora, per nulla propende a soluzioni come quella poc’anzi indicata, la riscoperta delle “piccole patrie” deve sicuramente fungere da volano per una riscoperta più profonda ed autentica delle radici di un Popolo, varie e multiformi come deve essere la sua storia, non senza però dimenticarne quell’ultimo orizzonte dato da una imprescindibile comunanza di Destino, che solo l’idea di nazione può incarnare.

 

Umberto Bianchi

 

 
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