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Mi piace il Sud PDF Stampa E-mail

9 Novembre 2017

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Da Comedonchisciotte del 7-11-2017 (N.d.d.)

 

“Ad esempio a me piace il Sud”. Così cantava Rino Gaetano. Mi permetto di essere d’accordo con lui. Anche a me, ad esempio, piace il Sud. E non per la semplice ragione – già di per sé valida – per cui, per mia natura, parteggio sempre per i vinti e non per i vincitori: il Sud è stato sconfitto, e quella che resta, ad oggi, l’aggressione violenta e sanguinaria che ha subito continua a essere celebrata enfaticamente come “Risorgimento” e “unificazione”. Ad esempio a me piace il Sud anche per altre ragioni, non meno valide credo. Non solo per una soggettivissima motivazione, da cui pure non posso fare astrazione: come Goethe, ritengo anch’io di poter dire di me di sentirmi un caldo animo mediterraneo gettato in un freddo corpo del nord. Non si fraintenda questo mio discorso. Non ho alcuna intenzione di favorire l’ennesimo scontro in orizzontale: come se, dopo destri e sinistri, migranti e autoctoni, eterosessuali e omosessuali, fosse ora il turno di nord e sud. Lo scrivente è fermo sostenitore dell’interesse nazionale, da Torino a Trapani, da Bolzano a Catanzaro, da Aosta a Lecce. Ad esempio a me piace il Sud perché – e reputo questa la ragione più importante – resiste ed è meno facilmente permeabile alla postmodernizzazione capitalistica dei costumi, dell’immaginario e degli stili di vita. Il Sud è – diciamolo – meno facilmente sussumibile sotto il nuovo ordine reale e simbolico: tutta una lussureggiante gamma di tradizioni e di credenze, costumi e stili di vita (essi stesso spesso non esenti da contraddizioni) rivelano una scarsissima compatibilità con i codici della postmodernità liquido-finanziaria tarata per individui cinici e isolati, post-identitari e post-tradizionali, consumisti e svuotati di ogni credenza che non sia quella nel libero mercato.

 

Pur con le sue contraddizioni, il Sud è ancora in larga parte distante dall’organizzazione postmoderna della vita e del pensiero: è ancora tradizionale e comunitario, ha le sue lingue e le sue usanze. È, anche per questo, un’isola felice di resistenza alla postmodernizzazione capitalistica che ha già letteralmente colonizzato cuori e menti al Nord. Da questo punto di vista, è al Sud che dobbiamo guardare. Con rispetto e gratitudine. Ci insegna a resistere. Non tutto è perduto.

 

Diego Fusaro

 

 
Dissolvimento della chiesa cattolica PDF Stampa E-mail

8 Novembre 2017

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Il 31 ottobre scorso, esattamente nel cinquecentesimo anniversario dell'affissione delle "95 Tesi" alla porta del Duomo di Wittenberg, considerato l’inizio ufficiale della "Riforma protestante luterana", la Città del Vaticano, di cui il pontefice è per inciso Capo di Stato, ha emesso un francobollo commemorativo. Forse è finito in effigie qualche personaggio della Chiesa che fece argine allo straripamento della Riforma, quali Carlo Borromeo o Ignazio di Loyola? O magari il Duomo di Trento, ove la Chiesa si rinnovò ed ebbe una catarsi col famoso Concilio? Nulla di tutto questo: sul francobollo campeggiano, incredibilmente, Martin Lutero e il suo sodale Filippo Melantone ai piedi della croce. Penso e pensiamo di averne viste troppe, negli ultimi anni, ma mai grossa come questa: per intenderci, è come se nella scorsa primavera l'Iran avesse commemorato sui francobolli l'ottantesimo anniversario della nascita di Saddam Hussein o se le poste kosovare celebrassero Milosevic.

 

Considerando che il Vaticano è monarchia assoluta elettiva, dubito che il tutto sia avvenuto contro la volontà di papa Francesco, anzi a ripercorrere i gesti del pontefice (vedi il viaggio a Lund, in Svezia, esattamente un anno fa) oserei quasi scrivere che il Nostro sia ben compiaciuto. Ormai siamo oltre il post-cattolicesimo e il post-moderno nella Chiesa: qua siamo, letteralmente, al dissolvimento stesso dell' istituzione, al suo annichilimento, allo stravolgimento della dottrina, alla rinuncia al Magistero, alla fusione dei rimasugli di un ente ormai desacralizzato e mai, in duemila anni, caduto così in basso, in una specie di "ONU" relativista delle religioni, in un pastrocchio senza capo né coda utile e funzionale ai bisogni dell' uomo-consumatore in corso di mutazione antropologica. Con le acrobazie di un Pensiero Unico si cerca di far passare la Riforma non come un qualcosa di "esterno" che portò, mezzo millennio orsono, alla divisione della "Res Publica Christiana" in due tronconi ostili -che si affrontarono, tra l'altro, per circa un secolo sul campo di battaglia- e ad uno scisma ancor più grave di quello di Oriente (nell' XI secolo) ma come di un rinnovamento "interno" della Chiesa. Tempo pochi anni e per la storiografia lo scisma luterano sarà stato un equivoco, un'azione non compresa dai contemporanei, una "baruffa in famegia" -per citare una commedia un tempo molto di moda del neogoldoniano G.Gallina- risoltasi, dopo un volar di piatti, a tarallucci e vino qualche secolo più tardi…ovviamente riconoscendo che la ragione era degli "altri". Tanto per dire l' "equivoco" protestante, provo a citare qualche complimento che il buon ex frate agostiniano Lutero scrisse nei confronti dei papi passati, presenti, futuri: "cani, boia ,pervertitori della dottrina, fomentatori di scandali, lupi voraci, Anticristi, diavoli infernali" e per motivi di spazio non continuiamo la lista. A parte questo, che potrebbe essere derubricato a folklore antico, vorrei inoltre porre all'attenzione due o tre cosucce della teologia luterana, la quale negando le opere come mezzo per raggiungere la Grazia, rifiutando 5 sacramenti su 7 tra cui la confessione, accettando la sola Bibbia come fonte di scrittura, mirando al sacerdozio universale e al rapporto diretto con Dio rende del tutto inutile l' intera gerarchia cattolica dal papa al cardinale al vescovo, nonché l' azione assolutrice e la mediazione del prete. Se si nega la confessione, la salvezza per mezzo delle opere e se per salvarsi basta solo la Fede, pur nel peccato ("pecca forte, ma credi ancor più forte") tutto l'apparato cattolico, che oggi esalta Lutero, allora risulta essere un carrozzone inutile. Quindi: se si riabilita Lutero, se si va a Lund a celebrarne la portata della sua opera, se si dice chiaro e tondo che " la teologia cattolica e quella luterana sono unite da punti in comune e non divise", se si parla di ecumenismo universale e fratellanza delle religioni, bisognerebbe pure avere l' onestà intellettuale di deporre casula, tiara, stole, pissidi, tonache e quant' altro, lasciare i bei palazzi affrescati (proibiti dalla iconoclastia protestante) e le chiese sontuose e andarsene in qualche seminario luterano, cambiare casacca e diventare tutti pastori protestanti. Per godersi i frutti di mezzo millennio di luteranesimo e calvinismo, tra cui l'individualismo, la formazione del moderno Capitalismo Assoluto tanto diverso da quello fiammingo e italiano dell'epoca medievale, il secolarismo e soprattutto le chiese vuote e le percentuali d' ateismo più alte del mondo.

 

Peccato. L' ultimo baluardo rimasto all' Occidente per contrastare lo sfasciume attuale era la Chiesa; dopo questo francobollo, da malata grave la consideriamo ormai malata terminale. La "barca di Pietro", sopravvissuta a duemila anni, scismi, persecuzioni, sopravvissuta pure a personaggi quali Bonifacio VIII, Alessandro VI e Leone X non ha retto l'urto di un cinquantennio di progressismo postconciliare e dei suoi attuali epigoni, mischiatisi al politicamente corretto e al liberismo e libertarismo più deleterio. Come Manzoni, posso dire-seppur con amarezza da agnostico cristiano-"ei fu..."

 

Simone Torresani

 

 
L'economia è l'unica motivazione del secessionismo PDF Stampa E-mail

7 Novembre 2017

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Da Comedonchisciotte del 5-11-2017 (N.d.d.)

 

I Catalani accusano Madrid per il loro malessere economico. Ma i veri colpevoli sono a Bruxelles, Francoforte e Berlino e questa dissociazione non può che alimentare un maggior separatismo regionale in tutta Europa. La disunità si sente nell’aria in tutta Europa. La Catalogna è il luogo dove si è acceso il fuoco, ma non è l’unico. Il suo referendum illegale, ma goffamente annullato (insieme alla dichiarazione di indipendenza), è stato preceduto dal referendum scozzese sull’indipendenza dal Regno Unito – perso per poco –  dal successo del referendum della Brexit e dai referendum legali ma inopportuni in Veneto e Lombardia, regioni che, all’inizio di ottobre, hanno chiesto in modo schiacciante maggior autonomia in Italia. Ma perché, e perché ora? È facile perdersi in chiacchiere parlando di fattori locali e di recenti fattori storici, la Spagna ne ha in abbondanza. Certo che contano e possono spiegare perché proprio in Spagna si è sviluppata la più conflittuale tra le lotte separatiste, nazionaliste e sovranazionali di questo continente. Ma i motivi fondamentali sono molto più profondi e in sostanza sono molto più semplici.

 

Persino la piccola Catalogna, con i suoi 7,5 milioni di abitanti, è molto più grande di quel tipo di società – per dimensioni – in cui si è evoluta l’umanità, perché le grandi aggregazioni possono essere tenute insieme solo da forze travolgenti o da una prosperità travolgente. L’Unione Europea, che fu pensata per unire tutti gli europei, è sempre stata destinata al fallimento su questo fronte, come vide tanto chiaramente, un quarto di secolo fa, Wynne Godley. Così si deve tornare a parlarne insieme agli strumenti che servono per tenerla ancora insieme. Il numero massimo di persone che possono mantenere legami personali efficaci e reciproci arriva a circa 150, come nelle società dell’ “Età della Pietra”, che erano formate da circa 150 persone, e come i villaggi ai tempi di Guglielmo il conquistatore, che erano abitate dallo stesso numero di persone. Questa scala, conosciuta come Dunbar Number, fu ipotizzata per la prima volta dal biologo evolutivo Robin Dunbar negli anni ’80 e successivamente confermata dagli antropologi. La logica di un numero così piccolo è semplice. Noi – gli esseri umani – siamo una specie sociale e per interagire in una società è necessario riconoscersi, non solo cioè sapere cosa significa interagire con ciascun individuo che incontriamo, ma anche comprendere come ogni altro individuo nell’ambito della società si comporta con gli altri membri della società.  Quando abbiamo ospiti a cena, non mettiamo due persone che si detestano sedute una accanto all’altra (a meno che non vogliamo creare un incidente, ma lasciamo stare). Il numero dei rapporti interpersonali aumenta rapidamente con l’aumentare dei numeri sulla scala. Con dieci persone, ci sono 45 relazioni personali ogni persona; con 100 persone, le relazioni sono 4.950. Con 150, diventano circa 10.000 (il numero esatto è 11.175, il numero indicato dalla scala è approssimativamente il quadrato del numero delle persone, diviso due), che sembra essere il limite massimo delle relazioni che il nostro cervello può gestire. In Catalogna, si dovrebbero gestire circa 30.000 miliardi di relazioni interpersonali a persona. Una cifra che equivale a più di quattro volte gli abitanti della Terra.  […] Questi concetti astratti di regione, nazione o impero sono stati inventati solo nell’ultimo 2% del tempo che l’umanità esiste, come specie, su questo pianeta, da quando cioè è diventato fastidioso gestire un rapporto con tanti piccoli gruppi di persone, da cui si è evoluta la nostra specie. Eppure oggi, questi concetti astratti costituiscono il prisma attraverso cui noi cerchiamo di comprendere tutto ciò che accade. […] Il vero mistero, dunque, non è perché la Catalogna vuole l’indipendenza dalla Spagna o la Scozia la voglia dal Regno Unito, ma è come queste enormi aggregazioni – anche quelle relativamente piccole come la Catalogna – siano riuscite ad imporsi e come possano sopravvivere, malgrado una nostra intima e confortevole zona di tribalismo che alberga in ognuno di noi. La risposta è un fattore che gli economisti hanno chiamato, ma che di solito ignorano: “economie di scala”, per cui un grande gruppo di persone può specializzarsi molto di più di quanto può fare un gruppo di 150 persone, e con quella specializzazione la società riesce a sviluppare una capacità molto maggiore. Un gruppo di cacciatori-raccoglitori non poteva avere partita contro una società agricola, dove gli schiavi lavoravano i campi e i soldati controllavano ed estendevano i loro confini. Come prima nelle città-stato e poi negli stati nazionali sviluppati, la nostra capacità di proiettare la nostra gamma di legami intimi –  da 150 persone a 149 persone + uno stato – ha dato luogo ad alcune strane dicotomie mentali. All’interno della comunità stessa, ci aspettiamo un certo riconoscimento sia per la nostra individualità che per i nostri legami. Ma per mantenere in vita questa comunità, accettiamo che certi individui, fuori della nostra comunità o sottomessi, possano essere trattati come “altri” ed effettivamente de-umanizzati. Quindi, noi chiediamo democrazia nell’ambito del nostro gruppo, ma accettiamo l’uso della forza al di fuori del nostro gruppo. Questa tensione è viva fin dai primi giorni della democrazia. Celebriamo Atene come il luogo dove nacque la democrazia e Aristotele come il più importante dei filosofi.  Tuttavia, nel discutere della schiavitù, Aristotele avrebbe potuto dire che “anche la tirannide è la regola di un padrone sugli schiavi; perché la schiavitù offre un vantaggio per il padrone” e comunque aggiungere il commento che ”Ora questa sembra essere una forma di governo corretta”. Era “corretta” solo perché la proprietà degli schiavi diede ad Atene un potere economico con cui permetteva ai suoi cittadini una vita confortevole. Oggi nessuna società con 150 individui sarebbe autosufficiente fuori da una foresta pluviale e le nostre piccole comunità interpersonali sono inestricabilmente intrecciate con tecnologie prodotte in massa che non si sarebbero mai sviluppate se gli umani fossero rimasti bloccati nei loro limiti sociali biologici. Di conseguenza, siamo invece rimasti bloccati nella tensione tra comunità ed economie di scala. Questa tensione può essere contenuta solo se un grande raggruppamento di persone produce vantaggi economici innegabili rispetto ad un piccolo raggruppamento di persone oppure se qualsiasi malcontento viene soffocato con la forza.

 

La zona euro doveva portare degli innegabili vantaggi economici ai suoi Stati membri: creare gli “Stati Uniti d’Europa” con una forza economica capace di competere con gli Stati Uniti d’America. Ma ora che questo progetto è fallito e quella colla che doveva portare prosperità si è rivelata illusoria, la Spagna ha scelto la via della forza per restare unita. Questo non doveva succedere. La Spagna è la rappresentazione di tutti i difetti dell’euro, ancor più della Grecia, perché secondo le regole della zona euro la Spagna ha fatto ogni cosa per benino. […] La Spagna è entrata nell’area dell’euro con un livello di debito pubblico al 70% del PIL e lo ha ridotto costantemente fino al 40 %, prima della crisi. Nemmeno la Germania ha fatto altrettanto bene, secondo le regole i suoi politici hanno svolto un ruolo dominante nello scegliere le regole. La Germania è entrata nell’euro con un livello di indebitamento del governo del 60%, esattamente come previsto dagli obiettivi (divertente no?). Ma, nonostante le sue aspettative e la sua propensione alla disciplina fiscale, la percentuale non è migliorata. […] Ma la Spagna ha fatto veramente solo bene nel debito pubblico prima della crisi a causa del suo debito privato – completamente ignorato dalle norme della zona euro –  che era fuori controllo, poi l’euro ha indubbiamente svolto un ruolo significativo nel creare altro debito privato. Quando la Spagna aveva la propria moneta, l’indebitamento privato raramente superava l’80% del PIL. Ma appena prima dell’entrata nell’euro, il debito privato ha cominciato ad aumentare più rapidamente del PIL ed è decollato con l’euro. Il debito privato si è quasi triplicato rispetto al PIL ed ha alimentato una bolla immobiliare senza precedenti. È passato dall’80% del PIL, al 200% dopo la grande crisi per arrivare a quasi il 220% nel 2010. Questa bolla del debito privato ha provocato una apparente prosperità della Spagna all’inizio della crisi e la fine di questa illusione ha causato la seconda grande depressione della Spagna. […] Solo l’Italia si è avvicinata all’obiettivo UE di una inflazione al 2%. Il vantaggio commerciale della Germania deriva dalla sottoquotazione del cambio fisso che ha bloccato la concorrenza. La Germania, in netto contrasto con il resto della OCSE, è riuscita a pagare sia il debito pubblico che quello privato, perché il tasso di cambio fisso che ha condiviso con l’Europa ha significato sfruttare un cambio fisso con un tasso di inflazione più basso – e per essere chiari –    per fottere i paesi dell’area euro che avevano tassi di inflazione maggiori. […]  i prezzi delle merci tedesche sono scese del 20% rispetto ai prodotti spagnoli, dopo arrivo dell’euro. I prezzi in Germania sono più bassi di circa il 15% di quanto era stato concordato e i prezzi in Spagna sono di circa il 5% più alti. Con le ridicole regolamentazioni fiscali dell’euro e con l’assenza di una Tesoreria Euro per riequilibrare e per compensare entrate fiscali e spese pubbliche e per l’impossibilità di svalutare, l’unico modo per tornare ad una parità con la Germania è la deflazione. È questo che l’austerità ha imposto di raggiungere al governo Rajoy. […]

 

Con la deflazione come l’unica ed inefficace arma per ripristinare la parità con la Germania, l’adesione della Spagna nella zona euro impone la povertà nelle proprie regioni, tra cui la – una volta – prospera Catalogna. Questo è il motivo principale per cui la Catalogna vuole uscire dalla Spagna, ma […] non sembra rendersi conto che il fallimento della Spagna è dovuto alla sua adesione alla zona euro. La UE, nel frattempo, appoggia il suo vassallo Spagna nella repressione della ribellione catalana. Il comportamento dell’UE in questo caso è stato tanto deludente quanto i paramilitari mandati da Rajoy per far fronte agli elettori, anziché ignorare semplicemente un voto illegale. […] E comunque non si metterà un fermo contro le forze secessioniste all’interno dell’Europa. Le uniche cose che vogliono sono abbandonare l’euro e quelle stupide regole dei trattati di Lisbona e di Maastricht che hanno reso la zona euro una forza che produce povertà e non prosperità.

 

Steeve Keen (traduzione di Bosque Primario)

 

 
Congrega confusionaria PDF Stampa E-mail

6 Novembre 2017

 

L’attacco a Manhattan dell’uzbeco Sayfullo Saipov deve preoccupare, oltre che l’America, la Russia. Da tutta una serie di elementi raccolti in questi giorni, ma che non potevano essere ignoti né all’Intelligence americana né a quella russa, in Uzbekistan, paese musulmano dove l’88% della popolazione pratica la religione sunnita, ci sono forti agganci con la jihad. Proprio per questo il governo di Putin ha recentemente riconosciuto ufficialmente ai Talebani afghani lo status di “movimento politico e non terrorista” e li sta rifornendo di mitragliatori, lanciagranate e anche di armi più sofisticate, ma non dei micidiali missili terra-aria Stinger che porrebbero fine in poco tempo all’occupazione militare americana e Nato (chiamata ora, pudicamente e ipocritamente, Resolute Support Mission) così come avvenne quando erano i russi a occupare l’Afghanistan e gli americani si decisero a supportare i mujaheddin anche con gli Stinger. Qual è la strategia di Putin? L’Isis è penetrato profondamente in Afghanistan, tant’è che di recente ha compiuto una serie di attentati a Kabul e se sfonda il quel Paese dilaga non solo in Uzbekistan ma in Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, tutti a maggioranza musulmana. Cioè la jihad si avvicina pericolosamente a Mosca. I Talebani afghani combattono contro l’Isis da quando si è affacciato in Afghanistan (la settimana scorsa ci sono stati sanguinosi scontri fra i Talebani e gli jihadisti nella provincia settentrionale afghana di Jawzjan, notizia puntualmente ignorata dalla stampa occidentale). I russi considerano quindi i Talebani oggettivamente degli alleati. Li armano, ma non in modo decisivo per poter continuare così a logorare gli occupanti occidentali che si ostinano a restar lì. Di segno diametralmente opposto è la strategia americana che invece di considerare, come fanno i russi, i Talebani afghani degli alleati, sia pur indiretti, continua a combatterli favorendo l’Isis. Perché gli americani si ostinano a restare in Afghanistan favorendo così l’Isis e indirettamente i russi? Per nessuna ragione ragionevole. Gli stessi osservatori occidentali, in primis quelli americani, ammettono che quella afghana “è una guerra che non si può vincere”. Che senso ha allora continuare a restare a logorarsi in quel Paese per decenni, avendolo tra l’altro distrutto invece di ricostruirlo, fino a quando verranno inesorabilmente cacciati come ci racconta tutta la storia degli afghani che buttarono fuori dal loro Paese gli inglesi nell’Ottocento e i russi nel 1989 dopo dieci anni di occupazione sovietica? Restano, insieme agli italiani complici, “per salvare la faccia”, la loro bella faccia, cosa di cui non si preoccuparono, tenendo conto di quella che era la realtà, né i sovietici né, andando indietro nel tempo e riferendosi a un’altra area geopolitica, Nixon quando decise di lasciare il Vietnam. Conclusione: Putin è un vero uomo di Stato, che ragiona da uomo di Stato, la dirigenza statunitense, almeno da George W. Bush in poi, assomiglia molto di più a una congrega confusionaria e confusa di incapaci autolesionisti e pericolosi.

 

Massimo Fini

 

 
Violenza levatrice della storia PDF Stampa E-mail

5 Novembre 2017

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Fummo i primi a domandare: rivoluzionari o quaquaraquà?  Agli ingenui sembrò "offensivo", sia perché un po' tutti hanno rimosso la naturalità e la necessità della disponibilità alla violenza e al martirio da parte di chi si collochi in posizione di rivoluzionario, sia perché chi "tifa", doppiamente ingenuo, vorrebbe che una rivoluzione riesca senza che chi la subisce reagisca alla rivoluzione e offende chi reagisce (bambinismo allo Stato puro).

 

Non sono passati molti giorni e sono ormai centinaia di migliaia i convinti, non soltanto che Puigdschettino sia un quaquaraquà ma che la violenza rivoluzionaria e il martirio dei rivoluzionari, nonché la violenza e il martirio controrivoluzionari, non sono né un male in sé né un bene in sé, bensì necessità logiche. Vedremo ancora violenza in Europa e ciò non è di per sé un male o un bene. Tutto dipende dalle ragioni della violenza e dai criteri che si adottano per valutarla. La violenza è levatrice della storia. Senza di essa non ci sarebbero state la rivoluzione francese, quella americana o quella russa o la resistenza afghana e irachena contro i sovietici e gli statunitensi o l'Unità d'Italia. E senza questi (ed altri) casi di violenza, le idee delle rivoluzioni francese, statunitense, d'ottobre, della resistenza afghana e irachena non si sarebbero diffuse e l'Italia non sarebbe esistita. Questi sono fatti dei quali si deve prendere atto, senza esaltare la violenza o rimuoverla, due atteggiamenti da disturbati mentali: esaltati pericolosi in un caso e pavidi moralisti destinati alla schiavitù nel secondo.

 

Stefano D’Andrea

 

 
Potenza dell'invidia PDF Stampa E-mail

4 Novembre 2017

 

In un bell’ articolo sul Corriere (26/10) Paolo Di Stefano cerca di definire quello sfuggevolissimo stato d’animo, più sfuggente anche dell’amore, che chiamiamo felicità. E lo fa attraverso le definizioni che ne hanno dato importantissimi personaggi: da Einstein a Montale, da Aristotele a Seneca, da Tolstoj a Winston Churchill. Ma nessuno ci azzecca. Naturalmente, a cospetto di tali cervelli, non posso certo esser io a farcela quando nella mia opera teatrale Cyrano, se vi pare… dico: “Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità”. Chi ci arriva più vicino è quel genio di Oscar Wilde, che oltre a essere un grande scrittore era anche un filosofo non preso sul serio in questa veste perché lui stesso, per il gusto della battuta a cui era disposto a sacrificar tutto, era il primo a non prendersi sul serio (“Nella mia vita ho messo la mia arte, nella mia opera ho messo solo il mio talento”. È vero il contrario). Nel suo modo paradossale Wilde definisce la felicità attraverso il suo contrario, l’infelicità: “Felicità non è avere tutto ciò che si desidera, ma desiderare ciò che si ha”.  Purtroppo la società moderna ha preso, intellettualmente e concretamente, la direzione opposta. Gli americani nella loro Dichiarazione di indipendenza del 1776 sanciscono “il diritto alla ricerca della Felicità”, che però l’edonismo straccione contemporaneo ha trasformato in un diritto alla felicità che è cosa ben diversa. Perché, come tale, non solo è un diritto impossibile ma si rovescia nel suo opposto. Pensare che l’uomo abbia un diritto alla felicità significa renderlo ipso facto, e per ciò stesso, infelice. La sapienza antica era invece consapevole che la vita è innanzitutto fatica e dolore, per cui tutto ciò che viene in più è un frutto insperato.

 

L’uomo occidentale, che ha creato un modello di sviluppo imperniato sull’inseguimento spasmodico del bene, anzi del meglio, invece che sulla ricerca dell’armonia in ciò che già c’è, come dice indirettamente Wilde, si è costruito, con le sue stesse mani, il meccanismo perfetto e infallibile dell’infelicità. Perché ciò che si ha è un bene circoscritto, invece ciò che non si ha e si desidera non ha limiti. Ma è proprio su questo meccanismo psicologico che si sostiene tutta l’economia dell’Occidente e ormai anche di buona parte dell’Oriente. Rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e orientale (“è bene accontentarsi di ciò che si ha”) Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche coerenti teorici dell’industrialcapitalismo, afferma: “Non è una virtù accontentarsi di ciò che già si ha”. E così prosegue parlando della situazione dei suoi tempi (Mises scrive La mentalità anticapitalistica negli anni ‘50 del Novecento): il vagabondo invidia l’operaio, l’operaio invidia il capo officina, il capo officina invidia il dirigente, il dirigente invidia il padrone che guadagna un milione di dollari, costui quello che ne guadagna tre. E così via. Mises quindi ammette, come cosa positiva, che l’intero meccanismo economico e sociale è basato sull’invidia che non è certamente un sentimento che ti fa star bene. Però centra perfettamente il cuore dell’industrialcapitalismo. Oggi la stragrande maggioranza di noi vive di questo sentimento e su questo sentimento si regge tutta la filiera economica. Se noi smettessimo di invidiare il vicino più ricco tutto il castello dell’attuale modello economico franerebbe miseramente su se stesso. Ma c’è un ulteriore paradosso, che era stato già avvertito da Adam Smith che pure è, insieme a David Ricardo, uno dei padri e dei teorici del libero mercato, che oggi è arrivato al suo culmine: noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre, cioè per perpetuare il meccanismo. Siamo i lavandini, i water attraverso cui deve passare il più rapidamente possibile ciò che altrettanto rapidamente dobbiamo produrre. Non siamo noi, poveri o ricchi che si sia, a governare la macchina ma è la macchina a governar noi. L’uomo, nella modernità, è stato degradato a consumatore. Ci sono Associazioni di consumatori che non si vergognano di definirsi tali, hanno accettato, con un realismo che provoca un brivido di orrore, la degradazione. Non siamo nemmeno consumatori coscienti e volontari, ma ranocchie che, opportunamente stimolate, devono saltare anche quando vorrebbero star ferme, per non inceppare l’onnipotente meccanismo che ci sovrasta. Se questo è un uomo…

 

Massimo Fini

 

 
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