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Fuori i giornali dalla scuola PDF Stampa E-mail

24 Giugno 2017

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Da Appelloalpopolo del 22-6-2017 (N.d.d.)

 

Il lamento che in Italia si leggono poco i giornali trascura che i loro articoli sono una merce tra le altre e che la scarsa domanda può essere indice di cattiva qualità dell’offerta. In effetti gli articoli dovrebbero dare notizie, in realtà si sforzano di diffondere ideologia, quella che protegge gli interessi degli editori. Per questa pesante ipoteca da cui essi sono gravati, la diffusione dei giornali a scuola è sempre da respingere. La scuola infatti non insegna notizie, ma teorie o, nel peggiore dei casi, nozioni: le notizie assumono significato solo nei contesti teorici e devono senz’altro essere risparmiate a chi non li ha ancora acquisiti. C’è ancora un motivo di profilassi: mentre le notizie, come strumenti di campagne ideologiche, suscitano passioni e contrasti, le teorie sono conoscenze oggettive e universali, valide dunque per tutti, in grado di interrogare la ragione e di unire. Nondimeno, nell’attuale esame di Stato il giornale si è insinuato attraverso due brecce: gli alunni possono redigere i loro elaborati anche in forma giornalistica; inoltre i temi proposti dal MIUR sono corredati da brani tratti per lo più da pagine di quotidiani, anziché da testi qualificati sotto il profilo scientifico ed estetico.

 

Nell’esame di Stato di quest’anno alcuni dei versi più toccanti della letteratura italiana (‘I limoni’ di Montale) sono soffocati da una spiacevole masnada di brani tratti di preferenza dal ‘Sole 24 ore’. Il primo articolo, del giornale appena menzionato, mette in un riferimento esclusivo disoccupazione e progresso tecnico e dimentica di indicare la soluzione che il contrasto consente. In verità il progresso tecnico è solo una causa di disoccupazione; altra e ben più vigorosa è la libertà di movimento dei capitali e delle persone; entrambe aumentano infatti l’offerta di forza lavoro a parità di domanda. Ma esaltando la libertà di movimento dei capitali e delle persone come pezzo forte dei piaceri della vita, l’ideologia liberale, di cui il decotto ‘Sole 24 ore’ era eroico alfiere, preferisce riservare alla sola tecnologia il ruolo ingrato di calmierare i salari gonfiando l’esercito industriale di riserva. L’escamotaggio ha un primo vantaggio: fa del dramma della disoccupazione il lato negativo della marcia inarrestabile del progresso, ne fa cioè un destino, anziché l’effetto delle umanissime scelte libero-scambiste; e ha un vantaggio ulteriore: imputare la vera colpa degli squilibri economici, più che al cambiamento tecnologico in sé, alla scuola, inerte su Leopardi e Manzoni, in ritardo dunque sul prestissimo del cambiamento tecnologico; a detta dell’articolo, infatti, la disoccupazione tecnica si risolverebbe «ridisegnando i sistemi educativi in modo da creare le competenze manageriali, ecc. ». Visto? Se c’è disoccupazione è per colpa della scuola che non si ridisegna. Come se questo aumento delle competenze manageriali e tecnologiche, dando più energico impulso alla tecnologia, non esasperasse il problema, lungi dal risolverlo. L’ideologia liberale, che l’articolo trasuda da ogni suo grafema, tutta sbilanciata a raccomandare lavoro sodo e austerità a chi non sia banchiere o grande azionista, non riesce a concepire che la progressiva diminuzione della giornata lavorativa a parità di salario è il naturale prodotto della progressiva sostituzione del lavoro umano con le macchine.

 

Il secondo e il terzo articolo, tratti il primo da Carcom.it, il secondo da Panorama, raccontano entrambi di sondaggi di opinioni. E già si potrebbe obiettare: perché opinioni nella scuola, dove, come già osservato, non si tratta di eccitare la curiosità spicciola o di pianificare campagne pubblicitarie, ma di costruire competenze? […]

 

Viene poi un pezzo da «Repubblica», una comparazione del tutto improbabile tra la distruzione crudele, vandalica e militarmente insensata della gloriosa abbazia di Montecassino e le distruzioni causate dal sisma in centro Italia. Il filo che dovrebbe tenere insieme eventi tanto diversi, la celerità della ricostruzione, è proprio quello che, come constata proprio oggi lo stesso giornale, manca: mentre l’abbazia fu ricostruita in pochi anni (ma che pena visitarla: sembra la sua copia per Gardaland!), la ricostruzione delle zone terremotate si scontra con i vincoli di bilancio della UE ed è impantanata in una scandalosa inerzia. Il pezzo successivo, in un italiano zoppicante, dal ‘Sole 24 ore’, contiene una frase ad effetto che solo un giornalista potrebbe scrivere: l’alluvione di Firenze insegna «come nulla sia veramente perso se si ha la forza e la fede di non lamentarsi e di rimettersi a lavorare da capo» – un amaro scherno per chi ha avuto la vita schiantata da cataclismi. Si passa poi a uno smagliante climax informatico: a partire da un brano tratto dal sito web dell’INDIRE, una raccolta di luoghi comuni sulle virtù didattiche della robotica, ignorante il dato che la distruzione della scuola italiana va di pari passo con la sua informatizzazione, – attraverso un brano al limite del feticismo, tratto dal sito web della ‘Sant’Anna’ di Pisa, che parla di robot costruiti con materiali morbidi e deformabili, – si finisce nell’estasi del ‘Sole 24 ore’ davanti alla legge sulla responsabilità civile delle macchine considerate come ‘persone elettroniche’. Sembra di capire che l’acquisita morbidezza e deformabilità possa indurre le macchine a delitti sessuali di cui dovranno rispondere davanti al giudice. Forse un esperto giurista potrebbe ricavare qualcosa di sensato da questo pateracchio – non certo dei poveri candidati di un esame di Stato.

 

L’ultimo brano è dal ‘Corriere della sera’. Il tono, che in precedenza aveva preso tratti abnormi, qui diventa pretenzioso. Si parla di progresso. Ce ne sono due: uno tecnico-scientifico, che sarebbe esterno, collettivo, culturale e veloce, e uno morale e civile, che sarebbe interno, individuale, biologico e lento o lentissimo. La distinzione è del tutto incomprensibile: il progresso morale e civile – ammesso che si dia qualcosa del genere – è non meno esterno (mos, da cui morale, è costume, civis, da cui civile, è cittadino), collettivo (civis è da civitas) e culturale (a meno che non ci si voglia far portavoce del razzismo) del tecnico-scientifico. Da tanto rovinosa caduta il brano non si risolleva più. Questo è ciò che accade nella scuola italiana da quando si è distrutto l’argine che tratteneva nel suo letto il fiume torbido dell’opinione: il terreno della scienza è sommerso dalla chiacchiera giornalistica e il lavoro didattico diventa sempre più disperato.

 

Paolo Di Remigio

 

 
I conti della serva PDF Stampa E-mail

23 Giugno 2017

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Da Comedonchisciotte del 13-6-2017 (N.d.d.)

 

Una sera qualunque, a casa d’amici: senza saperlo, sto per accedere ai veri conti dell’economia spicciola, quelli che gli italiani fanno tutti i giorni. In questo caso, i conti dei padroni. Sono conti della serva fatti a spanne, però ci danno il “polso” di come s’è trasformata l’economia della produzione dei comuni beni di consumo, quelli che troverete nelle grandi catene commerciali, nei franchising, negli ipermercati. Sono le 22,30: arriva, visibilmente stanco, il figlio che ha terminato il turno in fabbrica. Si siede, assaggia una torta, beve un bicchiere di vino. Ha gli occhi fissi su qualcosa di lontano, come quelli di una persona che non riesce a staccarsi da un sogno. O da un incubo. Domanda banale: come va il lavoro? Risposta scontata: bene, ho finito il secondo turno, quello dalle 14 alle 22, la prossima settimana farò la notte. Sgranocchia la torta, sorseggia il vino: non riesce a staccarsi da qualcosa che gli ronza in testa, come un’ipnosi che ancora lo pervade. Lavora in una fabbrica dove si fanno oggetti abbastanza costosi, di largo consumo: due macchine automatiche le quali necessitano solo d’essere alimentate manualmente. Ossia, si prende un pezzo, lo si sistema sulla macchina, si preme un pulsante ed una resina calda scende nello stampo: 15 secondi, la resina è solida, si stacca e si ricomincia. Il pezzo finito esce già pronto per la vendita. Come avrete compreso, mi tengo sul vago per non rendere riconoscibile il bene prodotto o la fabbrica di produzione, ma si tratta di qualcosa che milioni di persone usano quotidianamente. Quanti pezzi riesci a produrre in un turno? 1.400 circa. Tre turni, due macchine: 8.400 pezzi il giorno. Ogni tanto, capita un piccolo intoppo (il pezzo non si stacca subito, oppure il pezzo superiore ha un difetto, ecc.): scendiamo ad 8.000 per fare cifra tonda. Quanto costano questi beni? Sono di ottima qualità – racconta – e, alla vendita, il costo d’acquisto s’aggira sui 140 euro. Mi fa vedere un esemplare: veramente bello e robusto. I conti sono presto fatti: ipotizzando che i pezzi siano venduti al grossista (od alla grande distribuzione) alla metà del prezzo di vendita (una stima abbastanza realistica), fanno 70 euro x 8000: 560.000 euro il giorno. Sì, avete letto bene: incassano più di mezzo milione di euro il giorno. 15 milioni di euro il mese, perché – ovviamente – la produzione è continua e non ci sono Domeniche, Pasque o Natali che tengano.

 

Approfondiamo l’analisi, tenendo conto che sono conti della serva: utili, però, per comprendere – a grandi linee – qual è la ripartizione fra capitale e salario. I pezzi che assemblate, li fate voi? No, li comprano in un piccolo Paese dell’estremo Oriente: li pagano pochi spiccioli. Li osservo e non ho difficoltà a crederlo: ben fatti, precisi, Immagino mani di donne o di bambini che cuciono, legano, rivettano…e poi una grande portacontainer che giunge a Porto Vado (praticamente, Savona) dove vomita i suoi container dai quali schizzano fuori migliaia, milioni di pezzi. Cosa vuoi dire con “pochi spiccioli”? Scuote la testa: “proprio pochi, un’inezia”. Non riesco a sapere di più: pochi spiccioli vorrà dire 5 o 10 euro? Mettiamo 10, tanto per strafare. E la resina? Qui, ne so più io di lui. La resina che utilizzano è comunissima: deriva – ovviamente – dagli intermedi di reazione i quali, altrettanto chiaramente, si ricavano dal petrolio, mediante processi di cracking e di reforming. Come giocare con il Lego: ho una molecola grande? La rompo in due, od in quattro…poi la unisco ad un pezzo da sei, ci attacco un pezzo da tre e…voilà, la resina è pronta. Si può venderla solida per comodità di trasporto, oppure mantenuta fluida mediante autobotti riscaldate…dipende dal tipo di produzione e dal tipo di resina. Il 5% del petrolio che importiamo va all’industria petrolchimica, che si distingue per il bassissimo apporto di manodopera rispetto al capitale investito in tubi, cisterne, refrigeratori, riscaldatori…perché quel gioco del “rompi e incolla” avviene semplicemente tramite temperature, pressioni e catalizzatori. E si producono – veramente a fiumi – gli intermedi, che poi prenderanno la via delle vernici, dei medicinali, delle materie plastiche, ecc. Tanto per capirci, i medicinali dal costo contenuto – diciamo la fascia da 0 a 20 euro – sono tutti prodotti da intermedi del petrolio. Idem le vernici, e tutto il resto. Un chilogrammo di resina per pezzo è un costo che è addirittura difficile stimare: più centesimi che euro, tanto per intenderci. Quindi, per le materie prime, possiamo ipotizzare 12 euro: 10 per il pezzo che è importato, qualche centesimo di resina ed un euro per la confezione.

 

Veniamo al personale. Le macchine sono due e lavorano su tre turni: 6 persone. Ovviamente, dobbiamo calcolare anche eventuali rimpiazzi. Facciamo 8? Poi, tre addetti per l’impianto delle resine (uno per turno), qualche meccanico, elettricista, magazziniere, confezionatore, e poi due impiegati, un paio di dirigenti…quanto fa? 25 persone? Ma facciamo 30, dai…ad abundantiam… 30 persone che non ricevono identico salario: per gli operai stimiamo un costo di 3.000 euro il mese ciascuno, e fanno circa 70.000 euro, poi ci sono i dirigenti…100.000 euro in tutto? Ma sì, dai, non lesiniamo. Sono paghe mensili, non dimentichiamo. Energia: certo, di corrente elettrica, acqua, spazzatura e tutto il resto ne fanno andare…stimiamo 10.000 euro il mese? Proviamo. Infine, ci sono i costi d’ammortamento del capitale investito, provenienti – di norma – dalle banche. Qui le ipotesi sono più difficili: ricordo che una macchina che assemblava – da sola, bastava alimentarla con le componenti – le porte blindate, in anni lontani, costava due miliardi di lire. Un impianto per produrre pellet si aggira (secondo le dimensioni) fra il milione ed i 10 milioni di euro. Con due macchine per l’estrusione della resina, più l’impianto di alimentazione della resina stessa, quadri elettrici, tubature, e poi il magazzino con l’immancabile furgone e l’elevatore per le merci…beh…ritengo che l’investimento sia stato di 5 milioni di euro, forse meno che più. Le banche cosa chiedono? Per un investimento di 5.000.000 di euro, restituibile in 5 anni, la rata mensile s’aggira intorno ai 70.000 euro. Infine, c’è il socio occulto: lo Stato. Quanto saranno le tasse? Qui ci sono le mille alchimie dei bilanci…proviamo con la massima, ovvero il 43%? Possiamo, a questo punto, scrivere un conto economico che ci darà, a grandi linee, la “fotografia” di una piccola azienda.

 

INCASSO ANNUO: 204.400.000 euro

 

SPESE ANNUE:

 

Materiali (pezzi, resine, energia, ecc.): 35.160.000. Spese per il personale (13 mensilità): 1.300.000 euro. Spese finanziarie (banche, mutui, ecc.): 840.000 euro

 

TOTALE SPESE: 37.300.000 euro. AVANZO (al lordo delle tasse): 167.100.000 euro. Tassazione (43%, massima): 71.853.000 euro. GUADAGNO (al netto di spese e tasse): 95.247.000 euro.

 

Non pretendiamo d’aver definito con precisione la “vita” di quell’azienda, ma d’aver tracciato almeno gli ordini di grandezza all’interno dei quali opera. Come noterete, non è stata considerata l’IVA, perché l’IVA è una partita di giro, ma non a risultato zero: sarebbe troppo difficile calcolare, per ogni singolo passaggio, il dare/avere dell’IVA. Così come non sono state considerate le tasse d’importazione ed i trasporti. Oppure le agevolazioni che l’azienda incassa dallo Stato per l’assunzione di personale. Ci sono una miriade d’altre variabili, ma sono soltanto un corollario che non muta il quadro generale. Un dato, però, è chiaro: le retribuzioni – soprattutto quelle degli operai – sono una frazione infinitesima del guadagno netto: circa il 2%. In altre parole, se l’orario di lavoro fosse di 20 ore settimanali (la metà, a parità di salario) per l’azienda i costi per il personale salirebbero soltanto al 4%. Un po’ la vecchia idea di “lavorare meno e lavorare tutti”. Ma i costi per il personale sono comprimibili, mentre non lo sono la tassazione (che fa la parte del leone), le banche, che sono praticamente un “cartello” ed i costi di produzione, l’energia, le tasse comunali, ecc. Come si è arrivati a questa situazione? Il grande colpevole è stato il sindacato: venduto è ancora dire poco. Connivente, partecipativo con il capitale. Questo ha condotto alla crescita dell’indice di Gini, e dunque alla sperequazione nella ripartizione della ricchezza. Lo vediamo tutti: per un imprenditore, acquistare un’automobile da 80.000 euro è come, per noi, comprare una bicicletta usata. Se non ci credete, recatevi al porto di Varazze ed osservate. I cantieri navali sfornano a ripetizione yacht – i cosiddetti “ferri da stiro” – di 20-30 metri, con motori di migliaia di Cv. Costo: 2-3 milioni di euro. Una parte di questi mastodonti viene usata per le tangenti: giri e rigiri di denaro per far impazzire i magistrati che indagano, quando non sono anch’essi conniventi. Oppure sono destinati alla vendita, ma qui avviene un paradosso: si vende più facilmente un colosso del genere (iscritto alla Cayman, ovviamente) che una piccola barca per uso familiare. La classe media è sparita, fagocitata dai grandi capitalisti, mentre la classe operaia vive condizioni al limite della schiavitù. Del resto, la classe politica – e questo è un leitmotiv che dura dall’Unificazione – preferisce prendere poco a tanti, piuttosto che tanto a pochi. Se osserviamo come vanno le cose in Germania, notiamo che – grazie alla cogestione – il sistema, seppur parzialmente, si riequilibra, poiché 4-6000 euro l’anno di premio di produzione, oltre al salario, fanno la differenza fra una vita di stenti ed una da cittadini. Inoltre, la facilità del “far soldi” non stimola a produrre beni innovativi, non incentiva la ricerca: se guadagno tanto fabbricando scarpe, pneumatici o pentole a pressione, perché devo impegnarmi a studiare soluzioni innovative sul fronte energetico o nei trasporti? La nostra classe politica potrebbe mettere in Costituzione (come fece la Germania) la partecipazione agli utili dell’azienda, ma se ne guarda bene: riceve troppe pressioni (leggi: soldi) per applicarsi in questo campo e nessuno ne parla mai. Loro, discutono di legge elettorale, perché è il mezzo mediante il quale definiranno gli equilibri interni alle forze politiche per i prossimi decenni: che gliene frega di noi? Beh, se le cose stanno così…non vado più a metter crocette su delle schede elettorali fasulle, almeno mi risparmio la rottura di scatole. Almeno, all’orizzonte, ci fosse qualche prospettiva, ma così no, non ne vale la pena.

 

 Carlo Bertani

 

 
In quali mani siamo PDF Stampa E-mail

22 Giugno 2017

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Da Rassegna di Arianna del 13-6-2017 (N.d.d.)

 

Charles Bukowsky, dall’alto della sua saggezza, soleva dire che: “La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto.” Ed aveva ragione. Da alcuni giorni per svariati motivi ho del tempo a mia disposizione e una parte di esso l’ho utilizzato per fermarmi ed osservare. Cosa? la vita e chi la costruisce. Estraniarsi per qualche minuto o qualche ora durante la giornata e semplicemente osservare come prosegue la vita mia e altrui, dal di fuori, è un sano esercizio per rendersi conto in quale circo ci siamo cacciati.

 

In queste ore ho osservato traffico infernale anche in piccoli centri. Dalle prime ore della giornata fino a quelle pomeridiane. Per quelle di punta meglio non parlarne. Ho visto gente correre avanti e indietro su auto e motorini e nel mentre sbirciare anche qualche notifica al cellulare. Ho visto persone affannarsi ed urlare per la propria azienda o attività lavorative, litigare per uno sconto non dato o un prezzo di vendita troppo basso. Ho visto persone vantarsi della propria attività commerciale senza rendersi conto della totale inutilità di tale attività. Ho osservato persone lavorare otto, nove ore al giorno per vendere oggetti e servizi poco utili o totalmente inutili o superflue. Persone alienate da tale attività ma costrette a farlo perché “si deve pur campare”. E vai a dargli torto. Nonostante ciò perdere interi mesi di vita che non torneranno mai più indietro. Persone che hanno smarrito l’entusiasmo del vivere e che coltivano solo la speranza in un futuro sempre più lontano. Vite rimandate. Ho visto file chilometriche di persone, farsi due, tre, quattro ore di traffico solo per vedere un paesaggio, pagare un parcheggio salatissimo, visitare un’ora o più un posto turistico e svenarsi per un pranzo o un souvenir, per poi tornare ad imbottigliarsi nel traffico a senso inverso. Così, per regalarsi qualche ora di “svago”. Ho visto persone spendere una vita intera per guadagnare soldi spesi in cose poco salutari o in medicine che servirebbero per tentare di riparare quello che una certa vita ha danneggiato. Ho visto mari inquinati dall’uomo, terre bruciate dalla mano dell’uomo e ambienti distrutti dalla volontà di possesso e potere che abitano la razza umana.

 

Poi siccome rischiavo di entrare in pericoloso vortice di depressione ho deciso di fermarmi altrove. Di provare a capire se esistesse qualcosa di diverso, se fosse possibile auspicare almeno una soluzione migliore. Sono andato da coloro che da almeno 250 anni sono sotto assedio e ridotti alla quasi impotenza: i contadini. Ne ho trovato uno dalle mie parti. Una persona buona, verso la terra, gli animali e gli uomini. Poi mi ha mostrato dove lavora e come lavora e vi ho intravisto non una certezza (non esistono) ma una possibilità di futuro. Nessuno sconto alla fatica o all’impegno ma tanto senso e bellezza. E l’ho scorto non solo nei suoi occhi ma anche nella sua terra coltivata come un figlio, negli animali che cura, nei prodotti del suo orto (senza pesticidi) che ha voluto regalarmi. Parlando poi della vita giù a valle (5 minuti di auto) dall’alto della sua saggezza mi ha detto una cosa tanto ovvia quanto troppo dimenticata: “Ogni volta che entra il profitto, tutto è destinato a rovinarsi. Anche io se ho tremila metri quadri di terreno per la mia autoproduzione e sussistenza, sono costretto a pagare tasse e spese come se ne avessi trentamila. L’obiettivo è annientarci perché non siamo utili alla grande produzione.” Ed è vero. Anche la più lodevole delle iniziative quando diventa schiava della crescita del profitto finisce per pervertirsi e da mezzo diventa fine pericoloso. Tutti noi siamo schiavi del potere e del denaro. Facciamo parte di un sistema talmente marcio e malato che abbiamo finito per amarlo e giustificarlo, nonostante il male quotidiano che ci offre. Ne soffriamo se non riusciamo a farne parte. Soffriamo lo stesso quando ne facciamo parte e ne subiamo le pressioni e i ritmi infernali ed alienanti. È l’assurdità di questo sistema della crescita, che ha messo al centro il profitto e il guadagno. Un vortice sempre più veloce che non ammette cedimenti. Se rallenti sei fuori ed è difficile rientrarvi. Se rallenti, inneschi perversi meccanismi per i quali diventi sempre più schiavo e sempre più nevrotico. Una società fondata su questo e che persegue quotidianamente questo, quale frutto positivo può dare? A chi giova tutto questo? Dove ci sta portando? Credo che stiamo vivendo una forte schizofrenia collettiva. Da un lato abbiamo bisogno di lavoro salariato per vivere e da un lato facciamo di tutto per uscirne (giustamente). Nel mezzo abbiamo il pianeta terra, che subisce tutto questo fin quando riuscirà a farlo. Per quest’anno ad esempio, l’overshoot day (il giorno cioè il cui il pianeta va “a riserva” e deve usare le sue risorse nascoste) è anticipato al 2 agosto. Mentre fino a qualche anno fa era fine agosto o ferragosto. Ma tutto è concesso se la grande industria cresce, anche dello zero virgola qualcosa… Tutto questo quindi giova soltanto nel breve periodo ai pochi miliardari che governano il mondo e che ci stanno conducendo verso un baratro senza possibilità di ritorno. E questo non lo dice una cassandra di turno, ma i dati scientifici sul riscaldamento globale. Ma ancora di più lo urlano le nostre vite che non trovano più il giusto senso nel fare qualcosa di veramente utile per sé e per il pianeta e per chi lo abiterà dopo di noi. Sempre che un dopo vi sia e che comprenda anche la nostra razza. Lo grida la voglia – sempre maggiore – di cambiare vita, di avere stili diversi, più umani ed umanizzanti; recuperare ritmi migliori, mettere al centro gli affetti, la propria anima, il proprio talento e creatività. Vivere insomma.

 

Credo che oggi risuonino forti e attuali le parole contenute nel vangelo di Luca, nel passo in cui il demonio tenta Cristo nel deserto e parlando fa una interessante e spesso taciuta rivelazione: ”Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse:  «Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio.  Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo”. (Vangelo di Luca, capitolo 4, versetti 5 – 7).

 

Credo sia giunto il momento di capire in quale mani stiamo. E di uscirne.

 

Alessandro Lauro

 

 
Punizione preventiva PDF Stampa E-mail

21 Giugno 2017

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Da Comedonchisciotte del 19-6-2017 (N.d.d.)

 

Il discorso di Trump ai leader del Golfo riuniti in Arabia Saudita il 21 maggio merita una lettura. È molto inquietante. Dopo essersi elogiato per l’affare di armi da $110 miliardi con i sauditi, parla della minaccia del terrorismo e del grande lavoro che Stati Uniti e paesi del Golfo – ossia i principali sponsor delle razziste squadre di morte della regione e delle loro affiliate – stanno facendo per combatterlo. Poi sostiene che alla radice del terrorismo della regione ci sia… indovinate chi? L’unico argine contro ISIS e Al-Qaeda, cioè l’Iran. “Togliere ai terroristi i loro territori, i loro finanziamenti e la falsa aura della loro codarda ideologia: queste sono le basi per sconfiggerli”, dice. “Ma bisogna dire che c’è un governo che dà loro tre cose: un porto sicuro, un sostegno finanziario e la statura sociale necessaria per poter reclutare”. Così Joe Biden – nel suo tentativo di giustificare il coinvolgimento statunitense – ha descritto tre anni prima gli ospiti Sauditi di Trump. Ma Trump non parla dei sostenitori sauditi dell’ISIS; sta parlando dell’Iran – paese grazie al quale, anche con l’ausilio degli alleati siriani e russi, la bandiera IS non è issata su Damasco. Ma c’è di peggio. Leggete il seguente passaggio. Proprio dopo aver chiamato “tutte le nazioni di coscienza a lavorare insieme per isolare l’Iran”, dice: “Se non affrontiamo il terrorismo, sappiamo cosa porterà il futuro: più sofferenze e disperazione. Ma se siamo determinati a fare ciò che serve per distruggere il terrore che minaccia il mondo – allora non ci sono limiti al grande futuro che i nostri cittadini avranno”, ha detto. “La culla della civiltà sta aspettando una nuova rinascita. Immaginate cosa può portare il domani. Gloriose meraviglie della scienza, dell’arte, della medicina e del commercio, che ispirino l’umanità. Grandi città costruite sulle rovine di città distrutte. Nuovi posti di lavoro e industrie che risolleveranno milioni di persone”.

 

Questo è un linguaggio da genocidio. Eroismo e genocidio sono sempre andati fianco a fianco nell’ideologia coloniale, interiorizzata da Trump, per la quale «costruire grandi città sulle rovine di città frantumate», siano esse di nativi americani, palestinesi o, a quanto pare, iraniani, è sempre stato il più alto riconoscimento. Alcuni hanno accusato Trump di aver fatto errori da novizio durante il suo primo viaggio nel gorgo mediorientale. Ma credo che sappia benissimo quel che sta facendo. Sa molto bene che l’ideologia che lui definisce come “veleno” sarà interpretata dai suoi ospiti come lo Sciismo – il credo iraniano – e non come il Wahhabismo, l’ideologia settaria di IS, Al-Qaeda e stato saudita. E giusto per chiarire cosa chiede venga fatto contro questo malintenzionato nemico, spiega: “Un futuro migliore è possibile solo se le vostre nazioni cacciano terroristi ed estremisti. Bisogna cacciarli da questa Terra”. Sembra proprio che stia dando luce verde ad una guerra di eradicazione contro lo Sciismo della regione – cioè una guerra molto simile a quella effettivamente intrapresa, in Siria, in Yemen e altrove, dal governo americano, i suoi alleati e i suoi proxy. Allo stesso tempo, dopo aver trovato più difficile del previsto stracciare l’accordo sull’Iran, Trump spera di renderlo nullo semplicemente minacciando le singole nazioni a non trattare con quel paese, assicurandosi che le sanzioni vengano sostituite da un blocco informale.

 

È qui che entra il Qatar. Esso chiaramente non aderisce al progetto di isolare l’Iran, guidato dai sauditi e approvato dagli americani. Questo in parte perché, sin da quando l’attuale emiro ha rovesciato suo padre, pro-saudita, nel ’95, il paese ha reso l’indipendenza dall’Arabia Saudita un segno distintivo della propria politica estera. Ma è soprattutto perché Qatar ed Iran condividono il più grande giacimento di gas naturale a livello mondiale, conosciuto in Qatar come North Field e in Iran come South Pars. I due paesi infatti è da un po’ che hanno buoni rapporti: nel maggio 2010, ad esempio, in netto contrasto con l’atteggiamento duro dei suoi vicini del Golfo, l’emiro qatariota Al-Thani si unì ad Assad niente meno che per sostenere le proposte diplomatiche della Turchia sul programma nucleare iraniano. Poi, nel 2014, i Sauditi, gli Emirati Arabi Uniti ed il Bahrain ritirarono i propri ambasciatori da Doha dopo una proposta del Qatar di aiutare l’Iran a sviluppare la propria parte del giacimento di gas North Field/South Pars. Ma quel che sta succedendo ora è ben più grave. E questo è in gran parte dovuto al probabile impatto delle decisioni prese dai due paese su dove il loro gas andrà, e come ci andrà. E in quale valuta sarà venduto. Ad aprile, un’auto-imposta moratoria di 12 anni sullo sviluppo della quota del Qatar del North Field si è conclusa, aprendo così potenzialmente un fiume di Gas Naturale Liquefatto (LNG) sul mercato negli anni a venire. Ma dove andrà? Il Qatar originariamente aveva sperato di costruire un gasdotto LNG per il Mediterraneo attraverso Arabia Saudita, Siria e Turchia; anzi, molti hanno ipotizzato che il blocco di Assad su questa proposta, a favore di un itinerario Iran-Iraq-Turchia, sia stato un forte motivo al sostegno qatariota all’insurrezione anti-Assad. Il fallimento di questa ribellione, tuttavia, ha sancito la morte di questa proposta, lasciando al Qatar solo lo sbocco ad est, verso l’Asia – già la sua maggior cliente. Ma la maggior parte dell’attuale infrastruttura di LNG ad est è controllata dall’Iran. Per il Qatar, allora, tagliare i legami con l’Iran sarebbe come tagliarsi il naso. Questo è il motivo per cui i Sauditi vogliono far capire che l’alternativa è quella di avere l’intera faccia tagliata. Per gli Stati Uniti, la posta in gioco non potrebbe essere più alta. Nel 2012 l’Iran ha cominciato ad accettare lo yuan per i suoi pagamenti di petrolio e gas, seguita dalla Russia nel 2015. Se questo continuerà, potrebbe letteralmente indicare l’inizio della fine del potere globale statunitense. Il dollaro è la principale moneta di riserva del mondo in primo luogo perché il petrolio è attualmente negoziato con esso. I paesi che cercano riserve di valuta estera come assicurazione contro le crisi delle proprie valute tendono a guardare al dollaro proprio perché è effettivamente “convertibile” in petrolio, la principale commodity mondiale. Questa sete globale per i dollari è ciò che consente agli Stati Uniti di stamparne quantità infinite, praticamente gratis, poi scambiabili con beni e servizi reali di altri paesi. Questi sono i cosiddetti “privilegi del signoraggio”, ovvero la capacità di assorbire quantità sempre crescenti di beni e servizi da altri paesi senza dover fornire in cambio qualcosa di equivalente valore. A sua volta, è questo privilegio che aiuta a finanziare i clamorosi costi della macchina militare statunitense, che al momento vanno oltre i 600 miliardi di dollari annui. Tuttavia, tutto questo sistema si sfascerà se anche altri paesi smetteranno di usare il dollaro come principale valuta di riserva. E smetteranno di farlo una volta che le fonti di petrolio non verranno più negoziate in dollari. Questo è uno dei motivi per cui gli Stati Uniti volevano così tanto far fuori Saddam dopo che aveva iniziato a trattare il petrolio iracheno in euro. Ma pian piano questo cambiamento sta avvenendo. Nel 2012 la Banca Popolare Cinese ha annunciato che non avrebbe più incrementato le proprie dotazioni di dollari statunitensi, e due anni dopo la Nigeria ha aumentato le proprie partecipazioni di yuan nelle sue riserve valutarie estere dal 2% al 7%. Molti altri paesi si stanno muovendo nella stessa direzione. Allo stesso tempo, la Cina ha fatto shopping d’oro, stabilendo il suo prezzo per l’oro in yuan due volte al giorno nel 2012 come parte di ciò che il presidente dello Shanghai Gold Exchange ha definito l'”internazionalizzazione del renminbi [yuan]”, col fine di rendere il yuan completamente convertibile in oro. Quando questo accadrà, la scelta per i paesi produttori di petrolio, tra il negoziarlo in dollari sempre più inutili o in renminbi convertibili in oro, sarà un problema. Per il Qatar, l’attrazione potrebbe essere irresistibile già da ora. Da qui l’urgenza di punire in modo preventivo il Qatar per la sua probabile mossa verso un accordo con l’Iran per rifornire l’Asia di LNG a prezzi yuan. L’obiettivo è quello di dimostrare che, per quanto a lungo termine possa essere economicamente suicida infastidire l’Iran e continuare a scambiare in dollari, nel breve sarà politicamente suicida fare qualsiasi altra cosa. Quanto Trump e i suoi amici arabi siano pronti ad accettarlo, resta da vedere. Ma il presidente ha ripetutamente detto che il precipuo motivo di avere un esercito è quello di usarlo.

 

Dan Glazebrook (traduzione a cura di HMG)

 

 
Una torta già spartita PDF Stampa E-mail

20 Giugno 2017

 

Da Rassegna di Arianna del 13-6-2017 (N.d.d.)

 

Un tempo la guerra prevedeva l’invasione di un territorio con un esercito e la costrizione dei suoi abitanti al pagamento di tributi. Oggi sono i capitali ad invadere o a lasciare senza rumore le nazioni, e i “tributi” vengono succhiati inducendo psicologicamente le masse a lavorare per un tozzo di pane ed eccitandole mediaticamente a comperare i beni venduti dai loro padroni. Qualcuno aspetta ancora che scoppi, ma siamo in piena terza guerra mondiale.

 

Dominare il mondo intero non è più un sogno irrealizzabile; per conquistarlo non è più necessario disporre di una complicata rete di governatori, proconsoli e satrapi, basta acquisire il dominio delle banche centrali, delle valute, delle fonti energetiche, delle televisioni e di internet. La torta Mondo è già nelle mani di pochi superbi.

 

Lorenzo Parolin

 

 
Nell'occhio del ciclone PDF Stampa E-mail

19 Giugno 2017

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Da Comedonchisciotte del 17-6-2017 (N.d.d.)

 

Il 2017, subentrato giugno, ha compiuto il giro di boa: è quindi il momento di tirare le prime somme di un anno che, dopo la Brexit e l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, prometteva grandi cambiamenti, soprattutto in Europa. La vittoria di Emmanuel Macron, l’ammorbidimento della direttiva sul “bail in” e la continuazione dell’allentamento quantitativo da parte della BCE, hanno regalato all’Unione Europea una breve tregua dopo lunghe fibrillazioni: l’intera eurozona è però semplicemente sedata dalle politiche monetarie ultra-espansive delle banche centrali mondiali. Il collaudato schema “tassi bassi-bolla speculativa-rialzo tassi-scoppio della bolla” produrrà nei prossimi 6-18 mesi una crisi peggiore del crack di Lehman Brothers, man mano che la FED aumenterà il costo del denaro: per l’unione monetaria, oggi nell’occhio del ciclone, si avvicina l’ultima tempesta. Le banche centrali conducono le danze, come sempre

 

Le speranze riposte nel 2017 erano alte: dopo la vittoria degli anti-europeisti al referendum inglese ed il successo di Donald Trump alle presidenziali americane, c’erano i presupposti perché la marea “populista” esondasse sul Vecchio Continente, travolgendo l’Unione Europea. Il ciclo elettorale era particolarmente favorevole, grazie alle elezioni che si sarebbero tenute in un Paese chiave come la Francia: se la “populista” Marine Le Pen avesse espugnato l’Eliseo (scenario statisticamente improbabile, ma matematicamente possibile), l’intera architettura euro-atlantica sarebbe implosa. La strategia dell’oligarchia atlantica (frantumazione della sinistra, eliminazione di François Fillon attraverso scandalo mediatico-giudiziario, demonizzazione di Marine Le Pen e ricorso al rodato “fronte repubblicano”) si è però rivelata vincente: l’ex-Rothschild Emmanuel Macron ha conquistato la presidenza ed una schiacciante maggioranza all’Assemblea Nazionale. Il crollo dell’affluenza alle urne e la misera base elettorale su cui poggia il nuovo governo francese sono dettagli irrilevanti per un’analisi che abbracci il breve-medio periodo: il capitale politico di Macron sarà dilapidato nei prossimi tre anni, man mano che saranno implementate le ricette di svalutazione interna, ma l’orizzonte è troppo lontano perché possa interessare oggi. Data per scontata la rielezione di Angela Merkel alla Cancelleria Federale (dopo la provvidenziale chiusura della “via balcanica” nella primavera 2016) ed il voto per il rinnovo del Parlamento italiano da collocarsi non prima del 2018 (voto da cui, peraltro, è inutile attendersi particolari scossoni), c’è da chiedersi dove sia finita la “carica rivoluzionaria” che sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro: arrivati a metà dell’anno, regna una calma apparente. Anche l’altro focolaio di tensione, la crisi bancaria nell’euro-periferia conseguente all’adozione del bail-in, è stato infatti circoscritto: come dimostra il caso di MPS, le autorità europee hanno ammorbidito di molto la direttiva, così da non costringere i membri più deboli dell’eurozona a gesti inconsulti come l’abbandono dell’euro. Oggi, il panorama europeo si presenta sostanzialmente stabile, permettendo a politici, tecnocrati, banchieri e giornalisti di parlare di una “sconfitta dei populismi” e di nuove fondamenta per il futuro di Bruxelles.

 

La realtà è, ovviamente, opposta alla narrazione del Potere. l’Unione Europea non ha superato la tempesta, ma sta vivendo la sua breve, ed ultima, tregua: si trova nell’occhio del ciclone, un illusorio periodo di tranquillità prima dello sconquasso finale. L’elezione di Emmanuel Macron coincide con l’ultima fase dell’allentamento quantitativo della Banca Centrale Europea, parallelo alle politiche monetarie ultra-espansive della Federal Reserve, della Bank of England e della Bank of Japan: è la marea di liquidità che ha inondato i mercati finanziari dal 2009 in avanti, a garantire “la tregua” in Europa, non la prospettiva di una rifondazione politica ed economica dell’euro. Il denaro a costo zero è penetrato in ogni capillare del sistema finanziario, come morfina nel sistema sanguigno: ha apportato ovunque sollievo, anche nella martoriata europeriferia, ma non ha risolto nessun problema sostanziale. Si prenda il caso dell’Italia: nonostante il differenziale tra Btp e Bund viaggi oggi attorno ai 170 punti basi rispetto ai 500 toccati nel biennio 2011-2012, il debito pubblico inanella record mese dopo mese ed il deflusso di capitali, ben visibile sul sistema Target 2, sta assumendo ormai i connotati di un’emorragia (-421 mld a maggio). Il nostro Paese è tenuto a galla (e pure male) da quella stessa marea di denaro facile che ha spinto la borsa americana e tedesca verso record storici e compresso quasi ovunque i rendimenti obbligazionari. La “tregua” europea durerà quindi soltanto finché la Banca Centrale Europea e le sue omologhe sorelle proseguiranno con le loro politiche monetaria ultra-espansive. Francoforte, incalzata dai falchi tedeschi, ha già ridotto gli acquisti di titoli sul mercato secondario da 80 a 60 miliardi al mese e, in teoria, dovrebbe sospendere a fine anno l’allentamento quantitativo: in realtà è probabile che la politica monetaria non subisca mutamenti finché Mario Draghi occuperà la poltrona di governatore, spostando così il cambio di registro all’ottobre 2019. Più imminente, e più rilevante ai fini della nostra analisi, è invece quanto sta avvenendo negli USA, dove la Riserva Federale sta lentamente invertendo la politica monetaria adottata all’indomani del crack di Lehman Brothers. Se la ripresa economica fosse davvero in corso ed il sistema finanziario in buona salute, il rialzo del saggio di risconto non avrebbe impatti significativi. Come abbiamo però detto poco prima, il denaro facile sinora creato dalla FED e dalle sue “sorelle” non ha tirato l’economia fuori dalle secche della Grande Recessione, ma ha semplicemente portato alle stelle i valori azionari ed obbligazionari, negli USA come in Germania. Chi ha veramente giovato dell’allentamento quantitativo varato dalle banche centrali sono, ça va sans rien dire, gli stessi che hanno macinato utili miliardari con i mutui spazzatura. In Occidente sta quindi per andare in onda l’ultima fase di un classico ciclo del capitalismo anglosassone: lo scoppio della bolla. Prima la bolla è incubata (tassi a zero post-Lehman Brothers), poi è alimentata (politiche monetarie ultra-espansive a scala mondiale), poi si prepara l’ago (rialzo dei tassi) ed è fatta scoppiare (improvviso deflusso dei capitali da azioni ed obbligazioni). È lo stesso identico schema del crack del 1929 e del 2008, con una significativa differenza: questa volta sarà molto peggio, perché le munizioni delle banche centrali sono state ormai esaurite. Con buona pace dei liberisti, tornerà il controllo politico sulle banche centrali, lo Stato-imprenditore e (orrore!) varie forme di socialismo/fascismo. Il temuto “ritorno agli anni ‘30”, pronosticato da alcuni osservatori, non è stato scongiurato dalla sconfitta di Marine Le Pen, ma è tuttora in nuce: cova sotto la bolla finanziaria in attesa che questa esploda. E la nostra eurozona? Come collocarla in questo scenario dove il rialzo dei tassi della FED sta per innescare l’ennesimo terremoto finanziario? La zona euro non solo sarà colpita dallo scoppio della bolla finanziaria, ma sarà addirittura uno dei maggiori epicentri della prossima crisi. Come abbiamo più volte sottolineato nelle nostre analisi, la moneta unica è un regime a cambi fissi tale e quale al gold standard, dove le valute nazionali (lira, franco, pesetas, etc.), anziché essere agganciate ad una quantità d’oro, sono agganciate al marco tedesco: le politiche di svalutazione interna nascono proprio dalla necessità di aggiustare la bilancia dei pagamenti in assenza di un cambio flessibile. Ora, come il gold-standard saltò a distanza di pochi anni dal crack del 1929 (la Gran Bretagna esce per prima nel 1931), è pressoché certo che lo scoppio della prossima bolla speculativa comporterà a ruota il collasso dell’eurozona, destinata ed eclissare il crollo di Wall Street proprio come l’eurocrisi ha rapidamente offuscato la crisi dei mutui spazzatura. Prima il rialzo dei tassi da parte della FED, poi lo scoppio della bolla speculativa, ed in rapida successione il contagio dell’eurozona: che tempi si possono prevedere? 6, 12, 18 mesi.  L’Unione Europea non sta vivendo una nuova primavera. Sopravvissuta a stento in questi anni di relativa calma finanziaria, è oggi nell’occhio del ciclone, in attesa che la tempesta torni ad abbattersi per un’ultima volta in concomitanza con il rialzo dei tassi. È un finale già scritto, come testimonia sia la continua emorragia di capitali dall’europeriferia che il rifiuto tedesco, mai venuto meno, a qualsiasi condivisione dei debiti pubblici: si attende soltanto, come sempre, la prima mossa delle banche centrali.

 

Federico Dezzani

 

 
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