Avviso Registrazioni

Scusandoci per l'inconveniente, informiamo i nuovi utenti i quali desiderino commentare gli articoli che la registrazione deve essere fatta tramite Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

Login Form






Password dimenticata?
Nessun account? Registrati

Cerca


 
  SiteGround web hostingCredits
Pregi e limiti del populismo PDF Stampa E-mail

2 Maggio 2017

 

Da Rassegna di Arianna del 30-4-2017 (N.d.d.)

 

L’unica novità politica del terzo millennio è la diffusione del populismo. Categoria non nuova, in verità, sempre bistrattata, ma negli ultimi anni dilagante. Il populismo ha un nemico, il sistema globalitario, che è l’incrocio di due retaggi, uno che proviene dalla destra economica e l’altro che proviene dalla sinistra ideologico-politica; il sistema globalitario è infatti la somma di liberismo, tecnocrazia e mercatismo e di progressismo radical, politically correct e internazionalismo. Da una parte il liberismo separato dal profilo nazional-conservatore, che era invece presente nella Thatcher e in parte in Reagan; e dall’altra il progressismo separato dalla lotta di classe proletaria che invece era preminente al tempo del comunismo. Le due prospettive confluiscono nel globalitarismo, il nuovo totalitarismo molecolare dei nostri tempi, fondato sul dominio della tecnocrazia e del mercato globale da una parte e sull’ideologia bioetica e radicale dall’altra: niente più confini tra sessi, tra popoli, tra nazioni, tra culture, ma sconfinamenti, emancipazioni e mutazioni, anche transgeniche. Atomi, automi e flussi di massa.

 

Il populismo è la risposta al sistema globalitario e alle sue oligarchie economico-finanziarie, tecnocratiche e intellettuali. È saltato lo schema che opponeva il modello capitalista della crescita infinita al sogno anticapitalista della decrescita felice. Siamo dentro il neo-capitalismo ma viviamo il tempo della decrescita infelice; il populismo reagisce al declino economico-sociale e al tradimento della sinistra nel rappresentare i ceti popolari. E insieme reagisce al soffocante e ipocrita canone del politically correct, i suoi totem e tabù, i suoi pregiudizi e la sua intolleranza verso le opinioni difformi che sconfina nel codice penale, oltre che nell’oscuramento politico e mediatico. Rappresenta la voglia di tornare alla realtà.

 

Quali sono i fronti che si aprono col populismo? Direi soprattutto quattro. Il primo è la sovranità, ovvero la rivendicazione della sovranità popolare, nazionale, politica ed economica rispetto alle oligarchie dominanti. Rivendicare la sovranità non vuol dire semplicemente che il popolo è la fonte della legittimazione democratica, ma vuol dire anche che l’identità, le tradizioni, le storie e le culture dei popoli non sono fattori secondari, labili e residuali ma sono i fondamenti di un popolo che è nazione e di una società che è una civiltà, con un’origine e un destino. È necessario il passaggio dalla pulsione populistica alla visione comunitaria. Il secondo tema, intrecciato al primo, è la cura prioritaria degli interessi nazionali anche sul piano economico, e dunque la necessità di proteggere e tutelare le economie locali e nazionali, i ceti popolari, i prodotti autoctoni dalla globalizzazione del commercio e del lavoro. I mercati svolgono una funzione positiva dentro le società; ma le società dentro i mercati sono una patologia e i valori di mercato diventano i valori della società. Non si tratta di tornare a economie autarchiche ma di interpretare con duttile intelligenza l’economia tutelata contro la concorrenza sleale e il colonialismo economico, come Trump sta cercando di fare negli Usa che pure furono il principale veicolo della globalizzazione. Terzo fronte, la difesa dei confini contro l’abbattimento di filtri e frontiere in ogni campo e il dilagare dei flussi migratori. È la politica di prossimità: vengono prima nella solidarietà i concittadini, i connazionali e poi a seguire gli altri. Amare il prossimo ma a partire da chi ti è più prossimo, cioè più vicino; prima i famigliari, poi i concittadini, infine gli estranei. È una legge naturale di ogni epoca e di ogni società, un principio di autoconservazione dei popoli. I confini non sono muri ma soglie, frontiere aperte al confronto e al conflitto; sono il senso del limite di popoli e stati, ma anche di persone e comunità, contro il male della dismisura. Infine, quarto fronte, la tutela della famiglia costituita da padre, madre e i loro figli. E dunque difesa della vita, della nascita, delle unioni secondo natura, civiltà e tradizione. La famiglia non è una convenzione cristiano-borghese: ogni civiltà ha fondato sulla famiglia la propria struttura sociale primaria e il primo architrave formativo. È la difesa dei valori tradizionali legati alla famiglia, al diritto naturale e alla tutela dei più deboli, che sono i vecchi e i bambini e non le minoranze sessuali o gli extracomunitari clandestini.

 

Quali sono viceversa i limiti dell’onda populista? La semplificazione demagogica, l’avventurismo e l’improvvisazione, la prevalenza della paura e del rancore, la convinzione di poter risolvere i problemi affidandosi a un Capo, magari d’investitura televisiva, che abbia col popolo un rapporto diretto e immediato, in cui si possa fare a meno di una classe dirigente, di un’élite. In realtà non esiste l’autogoverno del popolo, la democrazia popolare è un’utopia: l’unica distinzione realistica è tra governi dei pochi nell’interesse dei pochi, ossia le oligarchie; e governi dei pochi nell’interesse dei tanti, ossia le aristocrazie. Il populismo è efficace nella denuncia emotiva e nella protesta; assai meno sul piano della proposta e della capacità di governare il futuro. Il compito arduo dei nazionalpopulismi è dotarsi di una visione, una cultura, riconoscere eredità, compiere una rivoluzione conservatrice e insieme formare, selezionare e premiare i migliori, ossia coloro che guideranno i popoli, classi dirigenti e non dominanti. La politica ha bisogno di alta motivazione e perciò non può che attingere al mito, che è racconto di fondazione e proiezione futura.

 

In questo quadro si tratta di ripensare l’esperienza europea. Il problema è rimettere in piedi l’Europa, cioè di capovolgerla. Finora l’Europa ha pensato con le gambe – la tecnica e la finanza – e ha camminato a testa in giù: si tratta invece di partire dalla civiltà, dalla storia e dalla geopolitica, e dalla sua unità militare, strategica e geopolitica. E non dai parametri finanziari e merceologici, che sono conseguenze ma non priorità o presupposti. Il futuro dell’Europa è legato a un nuovo assetto confederale, comunitario nelle sue differenze, duttile sul piano economico e monetario, coeso sul piano della politica estera e della capacità di fronteggiare in modo unitario le emergenze europee comuni come il terrorismo o i flussi migratori. L’Europa si poteva intendere in due modi diversi: come integrazione degli stati nazionali e risposta e argine al sistema globalitario o all’opposto come dis-integrazione degli stati nazionali e gradino verso il globalitarismo.

 

È stata scelta questa seconda strada e noi oggi scontiamo gli effetti di quell’errore.

 

Marcello Veneziani

 

 
Ipocrisia dei globalisti PDF Stampa E-mail

1 Maggio 2017

Image

 

Da Appelloalpopolo del 29-4-2017 (N.d.d.)

 

Vi scandalizzate davvero per l’evasione fiscale di Amazon? Cari amici europeisti-globalisti, coerentemente con il vostro credo dovreste accogliere con giubilo queste notizie, perché certificano che il sistema funziona a dovere. Vi informo che lo stesso giochino è perpetrato dai competitor e da tutte le multinazionali che sfruttano le opportunità offerte dal mercato globale e promosse persino dall’UE (cercate su google "double Irish arrangement" e "Dutch sandwich" per scoprire come evadere legalmente le tasse in Europa). Stamattina su Radio24 si dibatteva con la medesima ignobile ipocrisia di prodotti tessili a basso costo invitando gli ascoltatori all'"acquisto responsabile", evitando i capi low-cost dietro ai quali si cela lo sfruttamento delle persone, come se l'impegno di chi si può permettere di spendere di più fosse sufficiente a sanare gli squilibri.

 

Cari europeisti/globalisti (ormai sono sinonimi), pensavate davvero che l'abbattimento delle frontiere servisse a fare meno file alle dogane o per ridurre le commissioni del bancomat quando siete all'estero? Oggi un'impresa può approvvigionarsi di materie prime nell'Africa nera, trasformarle in Bangladesh e (non) pagare le tasse alle Antille olandesi sfruttando il terzo mondo ed eludendo la raccolta fiscale in occidente (contribuendo all'insostenibilità finanziaria dei nostri sistemi di welfare). Lo stanno facendo anche le imprese italiane, che progressivamente delocalizzano stabilimenti, sedi operative e sedi legali. E nessuno può fare nulla per fermarli, perché per l'UE le quattro liberalizzazioni, cioè la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali, sono principi inderogabili e superiori, avverso le quali qualsivoglia presidio normativo volto ad ostacolarle genererebbe una procedura d'infrazione. Se volete dichiararvi liberali abbiate la decenza di non fare i moralisti, perché il libero mercato nel mondo globalizzato è incompatibile con la sostenibilità ambientale e la giustizia sociale, che richiedono per definizione regimi vincolistici e repressivi delle quattro libertà predette.

 

Gianluca Baldini

 

 
Populismo già in riflusso? PDF Stampa E-mail

30 Aprile 2017

 

Ammettiamolo: benché fosse nell' aria il passaggio al secondo turno delle presidenziali da parte di Marine Le Pen ci ha un poco delusi, non tanto per il personaggio che è forse l'unico attualmente sulla piazza a poter dare una scossa mortale a questa Europa dei banchieri e dei burocrati imprigionata oltretutto nella gabbia della NATO, quanto per le percentuali di voto prese. Ci saremmo aspettati qualcosa di più che il 21% dei suffragi, specialmente considerando che in molti sondaggi i numeri erano più alti e in virtù delle recenti "performances" del Front National in Francia ma anche, principalmente, per le condizioni contingenti in cui i transalpini si sono recati alle urne. Due anni e mezzo di pesanti attacchi terroristici, insicurezza, una economia che ha visto tempi migliori, il fallimento totale senza appello del multiculturalismo e i suoi disastri, le banlieues in rivolta perpetua, lo smarrimento dell'elettorato medio e il senso di declino che grava su un Paese, su un popolo, che ha mantenuto comunque intatto il senso di identità nazionale e collettiva anche in tempi di mondialismo.

 

Premesso che al ballottaggio sarà dura se non impossibile l'affermazione di Le Pen, la domanda è: perché? E poi: forse l'onda del populismo, specialmente dopo i clamorosi voltafaccia e la resa totale al "deep State" americano di Trump è in riflusso? Molte sono le risposte al primo quesito e la più significativa arriva da una di quelle interviste "volanti" fatte all' uscita dai seggi da una troupe del TG1, interviste volanti pregne di significato in quanto parla "l'uomo della strada", il signor Rossi qualunque: "non ho paura, perché è normale, noi dobbiamo convivere con il terrorismo" ha detto una parigina. Eh certo: la vulgata corrente dell'orwellismo imperante alla fine è riuscita, con un subdolo manipolamento mentale di stillicidio quotidiano di notizie ad usum delphini politicamente corretto e punti di vista distorti a far passare l'anormale per il normale. È normale, madama la marchesa, che si combatta il laico Assad (nemico giurato dell' ISIS) anziché l' ISIS stesso a fondo, è normale che immigrati di seconda o terza generazione nella" società multilateralmente e multiculturalmente sviluppata" (a proposito, così parlava anche Ceausescu nei suoi comizi...) prendano camion, furgoni, coltelli, machete, auto e facciano qualche strage nelle isole pedonali o nelle stazioni: due,tre volte la settimana, così, tanto è.."normale": proprio come a primavera è normale uno sbalzo climatico o il mutare repentino del tempo. È normale, c' è sempre stato, come l'Eurasia era sempre stata in guerra con l'Oceania in "1984"-salvo poi correggere all' ultimo minuto per dire che no, è sempre stata l' Estasia il nemico. Non mettiamo in dubbio che in molti si siano destati e le scene degli operai della Whirlpool di Amiens che fischiano Macron e tributano applausi a Le Pen per la difesa di uno stabilimento industriale che chiuderà nel 2018 per delocalizzazione in Polonia sono immagini da conservare, da salvare nella memoria collettiva.

 

Il problema è che il naufragio della globalizzazione è simile a quello del Titanic: sono i passeggeri di terza classe (tra cui gli operai Whirlpool) i primi a vedere l'acqua alta nelle cabine, a temere di fare la fine del topo. Poi vi sono i passeggeri di seconda classe, quelli che votano Macron per sbarrare la strada alla "fascista" Le Pen, che si illudono di poter tenere i piedi all' asciutto, perché le loro cabine sono al piano superiore e forse perché quelli con la cabina con qualche optional in più hanno tratto o traggono effimeri vantaggi dalla globalizzazione stessa; infine vi sono i passeggeri di prima classe, i padroni del vapore,  quelli che la fanno sempre franca con le scialuppe di salvataggio in quanto la ciurma è addestrata a servirli a scapito degli altri...fin quando la nave non affonda e anche loro muoiono -se non tutti, parecchi-nei flutti. La nave imbarca acqua ma ancora non vi è il panico totale, solo la terza classe si agita perché capisce che sì, qualcosa forse non va per il verso giusto.

 

Circa la seconda domanda, la risposta è che in effetti una lieve contrazione dell'onda populista è in atto, forse indipendentemente da Trump, dal quale poco o nulla abbiamo mai sperato, in quanto la grossa agenda politica USA non è scritta di certo dai presidenti. Forse per disillusione, forse perché a grandi speranze subentra una realtà inserita in una gabbia di ferro che comprime l'azione, forse perché il momento del redde rationem appare sempre a portata di mano, salvo poi non essere mai acchiappato, forse perché l'attuale sistema mondialista-finanziario-turbocapitalista è un'Idra dalle molteplici teste che si autorigenerano e sembra di combattere coi mulini a vento. Sì, se non vincerà Le Pen è prevedibile un fisiologico e marcato riflusso, anche perché, ripetiamo, nessuno attualmente in Europa ha la caratura della francese, men che meno in Italia, dove Lega Nord e pentastellati sono del tutto inadatti e inadeguati e manco paragonabili alla statura e al programma del Front National. Oltretutto i due popoli sono diversi: ancora con qualche guizzo vitale i francesi, totalmente spenti gli italiani. Resta solo la strategia dell'attesa vigile, consapevoli che prima o poi l'acqua salirà al secondo e terzo piano, travolgendo tutto e tutti. Solo allora chi avrà mantenuto i nervi saldi potrà cercare di salvarsi o far da guida a chi è rimasto folle dal panico.

 

Simone Torresani

 

 
Fuori dalla torre d'avorio PDF Stampa E-mail

29 Aprile 2017

 

Da Rassegna di Arianna del 27-4-2017 (N.d.d.)

 

Qual è il nemico numero uno di chi ha a cuore la dignità, la libertà, la giustizia sociale, l’autodeterminazione? La globalizzazione, che è sinonimo di oligarchia finanziaria e omologazione culturale. Qual è lo Stato-guida ideologico e geopolitico suo epicentro e braccio armato? Gli Stati Uniti d’America. Cosa rappresenta l’Unione Europea? Il contrario dell’ideale di Europa umanistica e spirituale: un’organizzazione architettata per tutelare interessi economico-bancari in cui alcuni Paesi predominano su altri, nella logica di potenza propria della politica. Cosa significa “populismo”, fuori dal vocabolario criminalizzante del pensiero unico liberale e finto-democratico? La reazione del popolo di sudditi contro le élites che, al di là della maschera elettorale della decrepita e ingannevole commedia Destra-Sinistra, servono il Potere del denaro, unico vero dio dell’inciviltà moderna.

 

Se si è d’accordo su questi presupposti fondamentali, se ci si è accorti che è in atto una guerra fra alto e basso, fra schiavi salariati e global class di privilegiati, si deve fare esattamente come si fa in guerra: prima, abbattere il nemico principale. Senza auto-paralizzarsi in distinguo e pregiudizi, badando al sodo, guardando all’obiettivo. Quando si combatte, ci si trova ad agire in una situazione data, e l’intelligenza del combattente sta nel muoversi con spregiudicatezza, rimandando al dopo tutte le considerazioni che bloccano l’azione. Nel nostro caso, in Francia al ballottaggio delle presidenziali c’è una Marine Le Pen che incarna parte delle istanze essenziali della lotta in corso. Fosse al suo posto Jean-Luc Mélenchon, assolverebbe al medesimo ruolo. Astenersi pilatescamente perché il partito della Le Pen, il Front National, ha difetti e limiti anche gravi (è filo-Israele, l’anti-islamismo è rozzo ed estremista, ha un’idea, tutta francese, di Patria che fa a pugni con quella, secondo chi scrive più europea, di piccole patrie, nella sua base sobbolle un certo istinto nazionalista spesso sgradevole), senza avvedersi della sua funzione utile e necessaria di contrapposizione al globalismo, significherebbe, all’inverso, mettersi a fare gli schizzinosi con un Mélenchon perché non anti-eurocratico o perché si dice ancora de gauche. Certo, non sono uguali. Ma visti in un’ottica realista, calando le aspirazioni sul terreno concreto del momento, sono entrambi attori di una scena nuova. Dove il barrage républicain è invece il vecchio, mantiene lo status quo, è conservatore e pure reazionario (ci arriva anche un bambino, che convergere tutti su Macron è fare il gioco dell’establishment, gentaglia tipo Attali). Attendere l’avvento della forza politica ideale, che soddisfi al 100% i propri sogni, significa rintanarsi nel cantuccio della Storia: ogni torre d’avorio è uno spreco di energie. Ogni occasione va sfruttata – anche turandosi il naso, se serve. Basta aspettare Godot, freghiamocene, uccidiamolo piuttosto: nell’attesa contribuiamo con tutti i mezzi ad aprire crepe, allargare contraddizioni, liberare varchi (in Spagna con Podemos, in Gran Bretagna con la Brexit, esponendosi a delusioni con Trump, accontentandosi di quel che passa il convento in Italia – e ciò, naturalmente, non rinunciando a lavorare in proprio, dal basso, autonomamente a livello intellettuale e locale). Ovunque, e con chiunque adempia al ruolo di contrastare il Nemico.

 

Alessio Mannino

 

 
Non "né destra né sinistra" ma "e destra e sinistra" PDF Stampa E-mail

28 Aprile 2017

 

Da Rassegna di Arianna del 26-4-2017 (N.d.d.)

 

Dai risultati del primo turno delle presidenziali francesi emerge comunque una avanzata delle forze populiste anti europee: i voti di destra della Le Pen, sommati a quelli della sinistra di Mélenchon arrivano al 40% e, se ad essi si sommano una larga quota degli astenuti, il dissenso raggiunge verosimilmente quasi il 50% della popolazione. È lecito affermare che si sta verificando in Francia una verticale spaccatura interna nella popolazione tra filo – europeisti e anti – europeisti. Inoltre, dato che il partito di Macron è stato costituito da appena un anno, nelle elezioni legislative di giugno è assai improbabile che raggiunga la quota di 289 seggi necessari per conseguire la maggioranza, e pertanto, per formare un governo, potrebbe rivelarsi necessaria la formazione di una maggioranza di coalizione composita, differenziata, potenzialmente conflittuale e ad elevato rischio di instabilità. In realtà, oltre alla contrapposizione pro o contro l’Europa, da questa tornata elettorale emergono contrapposizioni di carattere sociale e territoriale assai più profonde. Infatti il voto anti – sistema si concentra nella provincia e nella parte est e sud del paese, nelle aree agricole e industriali colpite dalla crisi e dal conseguente dissesto sociale. Inoltre il voto anti – sistema è maggioritario nelle classi operaie e impiegatizie, su cui si sono rovesciati i costi sociali della crisi, mentre nelle grandi città nelle classi medio alte e negli immigrati si è concentrato il voto favorevole a Macron. È stato rilevato (A. Cazzullo “Il Corriere della Sera” 25/04/2017), che la protesta nei confronti dell’immigrazione si incentra nella lotta tra poveri francesi e immigrati scaturita per l’assegnazione delle case popolari, i posti negli asili nido e i posti letto in ospedale. Ma soprattutto la protesta anti – sistema trae origine dalla disoccupazione che in Francia ha raggiunto il 10,5%, dalla deindustrializzazione del paese conseguente alla delocalizzazione delle fabbriche, oltre che dalle penalizzazioni subite dall’agricoltura con la concorrenza selvaggia imposta dalla importazione massiccia dei prodotti esteri, che ha determinato il crollo dei prodotti francesi. Secondo l’ideologia neoliberista dominante, trattasi della reazione dei ceti marginalizzati, perché incapaci di inserirsi nel nuovo corso della storia istituito dalla globalizzazione economica. Quindi ogni forma di critica sociale è per definizione antistorica. Ma nel nuovo modello sociale neoliberista, dominato da crescenti diseguaglianze sociali, vediamo invece delinearsi una spaccatura profonda nella popolazione in cui si ravvisano le potenzialità incipienti di nuovi conflitti di classe, di una dissidenza anti – sistemica i cui sviluppi travalicano le problematiche inerenti queste elezioni presidenziali, peraltro assai diverse negli uomini e nelle tematiche rispetto a quelle precedenti.

 

La prevedibile vittoria di Macron, secondo i media ufficiali, rappresenta l’avvento dell’uomo nuovo che ha determinato la crisi irreversibile dei partiti tradizionali francesi e che vede nell’integrazione europea la via obbligata al progresso del paese. Ma in cosa consiste “il nuovo” di Macron? Egli ha 39 anni, è stato ispettore delle finanze, poi nel 2008 banchiere d’affari presso i Rothschild, nel 2012 segretario aggiunto e consigliere economico di Hollande, nel 2014 ministro dell’economia nel governo Valls e quindi figura di primo piano nel processo di riforme liberiste e antisociali varate dal governo socialista uscente. Nel contesto della decadenza dei partiti tradizionali, Macron ne ha ereditato i consensi, fondando un partito centrista (“En Marche” costituito nel 2016). Macron, in quanto europeista convinto si è dichiarato né di destra né di sinistra: è facile interpretare tale scelta, come una forma di decostruzione della vecchia politica di stampo ideologico, in favore di una nuova politica che sia sufficientemente adeguata e subalterna alle decisioni della oligarchia finanziaria europea, che non necessita di programmi politici, né di consenso popolare. L’europeista Macron gode del sostegno della Germania di Schäuble e dei marcati finanziari. Afferma di voler rifondare l’Europa, con la riaffermazione dell’asse franco – tedesco che comunque sancisce la continuità dell’attuale UE. Probabilmente la politica di Macron perseguirà il programma di riforme in senso liberista prescritto dalla UE e già imposto dal governo socialista di Valls. Negozierà con la Germania una interpretazione meno restrittiva dei parametri europei in tema di bilancio, in cambio delle riforme liberiste. È prevedibile quindi un asse franco – tedesco palesemente sbilanciato a favore della Germania, con la Francia in posizione subalterna. Non è in programma alcuna revisione dei trattati europei. Progresso e integrazione europea sono le parole d’ordine di Macron, nuovo astro politico impostosi grazie allo strapotere della cultura dell’immagine mediatica e del personalismo del leader piuttosto che in virtù dei suoi programmi politici. Macron è sostenuto dalla Germania e dall’oligarchia tecno – finanziaria europea, in difesa della continuità della attuale politica economico – finanziaria europea contro i populismi euro – scettici. È evidente che la novità si traduce in continuità e il progresso si tramuta in conservazione dell’ordine oligarchico europeo. Il suo convinto europeismo si contrappone alla rappresentatività popolare, poiché il dogma della integrazione europea presuppone il primato nella UE di organi tecnocratici non elettivi congiuntamente alla espropriazione della sovranità degli stati e dei loro ordinamenti democratici. In Europa l’europeismo non è un ideale, né una dottrina politica, né tanto meno un modello socio – economico originale. L’europeismo si identifica con un establishment oligarchico, blindato nei suoi organi tecnocratici, autoreferente, teso alla conservazione e alla difesa di sé stesso. Nel contesto politico si traduce in anti – populismo. Si esprime in Francia in una mera coalizione elettorale antilepenista. Le forze anti – europeiste, il “Front National” della Le Pen e “La France Insoumise” di Mélenchon, pur interpretando la diffusa protesta sociale francese, non possono essere definite anti – sistemiche. Esse possono essere considerate delle riproduzioni delle destre e delle sinistre novecentesche, adeguate alla realtà del secolo XXI°. Sono tuttavia forze politiche depotenziate politicamente e culturalmente della forza propulsiva antisistemica che ebbero le ideologie novecentescheCostituiscono comunque un elemento di rottura necessario contro l’eurocrazia finanziaria, in difesa della sovranità degli stati e della democrazia politica. Al “né di destra né di sinistra” di Macron dovrebbe essere contrapposta l’idea di Alain de Benoist “e destra e sinistra”, perché non può esservi alcun futuro per l’Europa se non attraverso la continuità politica e culturale con il novecento: occorrono nuove sintesi per costituire alternative sistemiche all’eurocrazia e soprattutto al dominio neoliberista americano. Si è comunque realizzata una divaricazione sociale e politica che produrrà nuovi conflitti di classe poi destinati a riprodursi in nuove conflittualità nell’ambito europeo tra stati dominanti e stati subalterni. Si delineano nuovi percorsi di un processo storico di trasformazione che è solo alle fasi iniziali, ma che è suscettibile di sviluppi, per ora non prevedibili, in un futuro non troppo lontano.

 

Luigi Tedeschi

 

 
Chi ci tocca di rivalutare... PDF Stampa E-mail

27 Aprile 2017

Image

 

Da Appelloalpopolo del 24-4-2017 (N.d.d.)

 

Per alcuni aspetti, sia biografici sia culturali e ideologici, la figura di un protagonista del “trentennio glorioso” come Amintore Fanfani (1908-1990) ci parla da un passato ormai sepolto, cioè dall’Italia democristiana che Pannella non aveva ancora sconfitto e dal mondo tradizionale che l’occidentalizzazione non aveva ancora annientato.  A quel passato improponibile appartiene l’aspirazione di Fanfani a propugnare, come sul finire degli anni Cinquanta osserva Lelio Basso, un “regime clericale fondato sul rispetto delle gerarchie sociali accompagnato da una certa sollecitudine degli interessi popolari”. Dall’altro lato, è anche vero, però, che Fanfani, sostiene Basso, “concepisce il partito come lo strumento autonomo dell’attività politica”, in quanto egli muove dalla “idea centrale che l’economia può essere regolata dalla politica” (G. Galli). Sotto questo aspetto, invece, le convinzioni dello statista democristiano, mantenute con coerenza lungo l’intero arco della sua carriera accademica e politica, si rivelano oggi vive e attuali, se non proprio rivoluzionarie.

 

Ecco perché un’opera come Capitalismo, socialità, partecipazione, edita nel 1976 da Mursia, non ci fa conoscere solo un brillante intellettuale (giovane storico dell’economia, già negli anni Trenta Fanfani aveva pubblicato il saggio Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, che ebbe una notevole risonanza internazionale) ma offre anche importanti spunti alla riflessione sovranista sulla natura e sulle origini del capitalismo.  Dopo una lenta ascesa i cui prodromi sono ravvisabili nel tardo Medioevo, il capitalismo si impone a partire dal Settecento. Le sue peculiarità sono riassunte da Fanfani in uno schema piuttosto preciso e articolato dal quale si evince che lo “spirito capitalistico” mira essenzialmente alla razionalizzazione integrale della società, dalla politica alla religione, e abbatte qualsiasi genere di ostacolo si presenti sulla sua strada, anche quelli di carattere culturale e immateriale.  Al capitalismo non basta abolire i monopoli e le corporazioni o piegare ai propri fini l’architettura stessa dello Stato.  In sostanza, l’avanzata del capitalismo si verifica (come, secondo Fanfani, dimostra la storia della pubblicità) a spregio di “proibizioni morali e politiche” e in nome di un uso della ricchezza tradottosi nel “godimento illimitato” della ricchezza stessa e nella creazione di squilibri sociali intollerabili. La critica al capitalismo non è animata dal rimpianto per un’ipotetica età dell’oro premoderna ma viene sempre ricondotta al tempo presente, non senza polemica con il comunismo: “non serve il collettivizzare la proprietà”, scrive Fanfani, “occorre universalizzare la responsabilità”. L’invito all’universalizzazione della responsabilità esprime anche, lo si vede bene nelle righe finali del saggio, un ideale ecumenico di concordia fra popoli liberi di decidere del proprio destino “in condizioni di parità” e immuni da interferenze esterne. Rifuggendo dalle nostalgie tradizionaliste e reazionarie tipiche di alcuni ambienti cattolici, Fanfani riconosce che il moderno Stato nazionale e democratico, pur essendo un’invenzione capitalista, protegge gli interessi dei lavoratori, dei ceti subalterni, e crea le tre condizioni necessarie all’economia perché questa possa raggiungere i suoi fini autentici, cioè “la libertà, il benessere, la crescita civile, la pace di ogni uomo e della intera società”. Tali condizioni sono: la piena occupazione (“Sia consentito”, scrive Fanfani, “a chi propose il primo articolo della Costituzione, per definire l’Italia ‘una repubblica fondata sul lavoro’, di ricordare che con quella proposta non s’intese promuovere una dichiarazione retorica”); la giusta retribuzione del lavoro; la “corresponsabilità” attiva dei lavoratori, cioè “la partecipazione organica continua, e non soltanto consultiva” alle scelte delle classi dirigenti che, precisa Fanfani, deve concentrarsi in particolare su materie delicate come il diritto del lavoro e la previdenza. Il punto più interessante e insieme lo snodo del saggio di Fanfani è però un altro: mi riferisco all’individuazione del legame fra indebolimento della fede religiosa e trionfo del capitalismo. Fanfani cita l’opinione pressoché unanime degli storici dell’economia novecenteschi secondo cui il capitalismo non poteva affermarsi nella società integralmente cristiana del Medioevo, dominata da “una concezione della vita ispirata ad alti ideali di socialità”. Di contro, spiega Fanfani, “l’affievolirsi della fede rarefà i rimorsi, non permette più confronti tra il dover essere e l’essere (…) allenta i legami morali con il prossimo, muta il senso della solidarietà umana, cambia la posizione di ciascun individuo rispetto all’intera società”.  Dove prevale lo spirito comunitario protetto dalla Chiesa, dallo Stato e dalle corporazioni, il capitalismo non attecchisce perché in quel contesto il principio del profitto risulta subordinato alla liceità etico-sociale dei mezzi necessari a ottenerlo: nella concezione cristiana, medievale e “precapitalista”, come ricorda Fanfani citando san Tommaso d’Aquino, la ricchezza “diventa un male quando da mezzo diventa fine ed assorbe l’attività umana a scapito del raggiungimento delle mete eterne”.  Ne consegue che i princìpi cristiani di moderazione, equilibrio, socialità nell’uso dei beni non possono conciliarsi, scrive ancora Fanfani, “con le preoccupazioni di chi in ogni azione economica vede unicamente l’operazione che produce ricchezza”. I beni materiali, in ultima analisi, si offrono agli uomini come strumenti utili ai fini mondani e soprannaturali (cioè la felicità in questo mondo e nell’altro) dell’intera comunità: non siamo forse nei paraggi del concetto di uso sociale della ricchezza sancito dall’articolo 41 della Costituzione?

 

Se è vero che gli embrioni del capitalismo si formano in ambiente cattolico, il loro sviluppo viene agevolato dalla complicità del protestantesimo. Al di là delle confische delle proprietà ecclesiastiche e della chiusura dei monasteri che privano i poveri di aiuti e assistenza (non è un caso, osserva Fanfani, che proprio nei paesi da poco riformati aumentasse vistosamente il numero dei vagabondi e dei disoccupati), ciò che colpisce al cuore la tradizionale economia solidaristica è il principio protestante in base al quale la salvezza non dipende dalle opere.  La distruzione del “nesso tra l’azione terrena ed il premio eterno”, secondo Fanfani, determina inevitabilmente la “santificazione del reale”, cosicché “è risolta in senso umano la lotta che l’uomo doveva combattere tra il proprio istinto, i propri bisogni e il comando divino”. Incline al naturalismo economico e all’individualismo, il protestantesimo si mostra tendenzialmente liberista; di contro, essendo incline al volontarismo, il cattolicesimo ispira politiche vincolistiche di controllo dell’economia. “Tutte le circostanze che nel Medioevo fecero diminuire la fede spiegano il progressivo affermarsi dello spirito capitalistico”, afferma Fanfani. Ma quali furono queste circostanze? Quali aspetti della tradizione si inabissarono, mentre il Medioevo volgeva al tramonto, segnando così il destino del Cristianesimo e dello stesso Occidente? A differenza di quanto negli stessi anni faceva un altro economista cattolico, il geniale e coltissimo Giuseppe Palomba, studiando anch’egli l’espansione del capitalismo, Fanfani non si pone questi interrogativi essenziali, e ciò segna indubbiamente il limite della sua pur profonda riflessione.

 

Giampiero Marano

 

 
<< Inizio < Prec. 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130 Pross. > Fine >>

Risultati 1985 - 2000 di 3745