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Riarmo cinese PDF Stampa E-mail

14 Marzo 2017

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Da Lettera43 del’11-3-2017 (N.d.d.)

 

Con Barack Obama la Cina era un nemico silenzioso. Gli Stati Uniti puntavano a spostare la loro sfera d'influenza dal Medio Oriente all'Asia centrale, piazzando basi militari negli Stati limitrofi alla potenza del Dragone. Frizioni si presentavano periodicamente per la disputa storica con il Giappone e Taiwan sulla sovranità delle isole Senkaku-Diaoyu: navi da guerra e caccia cinesi si avvicinavano al piccolo arcipelago, attorno al quale Pechino ha schierato radar e batterie di missili. Gli Stati Uniti facevano la voce grossa in difesa del Giappone, spedendo anche caccia di ricognizione e navi militari. Ma finiva lì. Con Donald Trump presidente degli Usa le schermaglie tra la nomenclatura di Pechino e diversi vicini di casa filoamericani si sono subito accelerate: la Repubblica popolare cinese è bersagliata dal tycoon come primo nemico economico, un'aggressività che fa montare la militarizzazione crescente dell'antico Celeste impero. «Reagiremo con decisione per difendere la nostra sicurezza. Qualunque conseguenza di tale situazione sarà a carico degli Stati Uniti e della Corea del Sud», ha fatto sapere Pechino in riferimento allo scudo antimissile Thaad degli Usa, al di sotto del 38esimo parallelo. Il sistema antibalistico, in realtà deciso dall'ultima amministrazione Obama ma dispiegato dal marzo 2017, è da sempre criticato dalla Cina, che lo ritiene un «pretesto per creare un'alleanza trilaterale tra Stati Uniti, Corea e Giappone» e non soltanto la dichiarata difesa contro il regime di Pyongyang. Il gigante cinese non si trova in una buona posizione anche per le ultime mosse folli del giovane e inaffidabile dittatore Kim Jong-un – l'uccisione in Malesia del fratello Kim Jong-nam e i quattro missili appena lanciati contro il Giappone – dalle quali Pechino si è dissociata, applicando le sanzioni dell'Onu. La Corea del Nord è un alleato geopolitico chiave della Repubblica popolare, che tuttavia sui missili è stata costretta a dare ragione al Giappone per la «grave violazione territoriale» subita. Per far abbassare la testa a Kim Jong-un, Pechino ha smesso anche di acquistare carbone dalla Corea del Nord. In Corea del Sud stazionano 26 mila truppe statunitensi e Trump, oltre a dichiarare guerra commerciale protezionista alla Cina, ha esortato la nomenclatura comunista a «risolvere il problema di Pyongyang, perché la Cina ha controllo totale sulla Corea del Nord». La Repubblica popolare ha intimato agli Usa di smetterla di fare osservazioni sbagliate sul Giappone, aumentando l'instabilità

 

Non potendosi più fidare di nessuno, la Repubblica popolare corre a potenziare il parco armamenti, finora non eccezionale, per proteggere il miliardo e quasi 400 milioni di suoi abitanti, presidiando anche i territori rivendicati, a Ovest, nel Mar cinese meridionale. Nelle isole parzialmente controllate di Paracel-Xisha (invase dal Giappone, riconsegnate alla fine della Seconda Guerra Mondiale alla Cina ma ancora contese con Vietnam e Taiwan) ha montato delle batterie di missili. E negli atolli di Spratly-Nansha (presidiati anche da Vietnam, Taiwan, Malesia e Filippine), dai fondali ricchi di giacimenti petroliferi, ha costruito delle isole artificiali-portaerei con radar e piste di decollo. Con l'omologo Trump, il capo di Stato cinese Xi Jinping ha avuto un colloquio telefonico dai toni cordiali. Ma sulle Senkaku, nel Mar Cinese Orientale pure scrigno di idrocarburi, la Repubblica popolare ha poi intimato agli Usa di smetterla di fare «osservazioni sbagliate» sulla sovranità nipponica, in nome di un trattato di alleanza «prodotto della guerra fredda» che «aumenta l’instabilità regionale». In risposta allo spiegamento dello scudo Thaad, al confine con l'estremo oriente russo che volge verso l'Alaska la Cina ha sfoderato una batteria di missili balistici intercontinentali avanzati, di ultima generazione. L'annuncio è stato dato a gennaio 2017 in pompa magna dalla stampa ufficiale della nomenclatura comunista. In caso di attacco, i nuovi missili Dongfeng41 (letteralmente, Vento dell'Est) verrebbero intercettati dagli scudi nipponici e sudcoreani, ma quel che preme a Pechino è mostrare i muscoli con un'arma, secondo un rapporto del Pentagono, sviluppata nel 2014 e in grado di impattare il suolo americano a mezz'ora dal lancio, sorvolando il Polo Nord. Nel 2015, alla grande parata in ricordo della vittoria nella Seconda guerra mondiale la Cina fece sfilare un altro gioiello, in grado di imbarcare anche testate atomiche: il Dongfeng DF-21D, versione antinave del missile balistico a medio raggio DF-21, fratello minore del Dongfeng41 e soprattutto minaccia concreta per le portaerei statunitensi nei paraggi del Mar cinese meridionale e orientale, nonché per le flotte rivali asiatiche. Da qualche anno la Repubblica popolare concentra gli sforzi soprattutto nel dotarsi di potenti missili d'avanguardia: nell'aprile 2016 è stato testato il Dongfeng41, la Difesa cinese conta di equipaggiarsi di più di un migliaio di Dongfeng DF-21D. E alla fine del 2016 la China Aerospace Science and Industry corp. (tra i più grandi produttori di armi del Paese) ha annunciato la progettazione del missile supersonico antinave CM-302, «il migliore al mondo», su modelli degli antinave russi. L'anno passato la Cina ha anche tagliato il nastro alla prima portaerei di produzione propria, costruita a tempo record e dai primi mesi del 2017 pronta a solcare i mari territoriali. La grande nave militare 001A arricchisce la flotta della Marina cinese, composta altrimenti dall'unica altra portaerei Liaoning e da 80 sommergibili, e sarà in grado di imbarcare il doppio dei caccia (tra le 40 e le 50 unità, inclusi i multiruolo di ultima generazione ricalcati sui Sukhoi russi), aerei da ricognizione ed elicotteri. In cantiere ci sono infine quattro caccia «invisibili» Chengdu J-20, da sviluppare poi in sei varianti per ogni funzione bellica, che gli strateghi militari degli Usa ritengono capaci di penetrare anche ambienti «pesantemente difesi». Pechino intenderebbe schierarli nel Mar cinese meridionale dal 2018, in supporto alle nuove batterie di missili. Anche per il 2016 la Repubblica popolare ha aumentato del 7% la sua spesa per gli armamenti: un budget di oltre 140 miliardi di dollari che in rapporto al Pil (1,3%) non è la cifra spropositata paventata da Trump ma che, dopo gli Usa, resta il bilancio militare più alto al mondo, per moltiplicare i mezzi a disposizione di oltre 2 milioni di soldati. Clonati dalle altre potenze a ritmi rapidissimi.

 

Barbara Ciolli

 

 
Un parlare post e preumano PDF Stampa E-mail

13 Marzo 2017

 

Da Lettera43 dell’11-3-2017 (N.d.d.)

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[…] Quando, un quarto di secolo fa (sembra ieri, sembra di più), ci ritrovammo in mano quei mattoni parlanti dentro i quali parlare, si immaginò che la scrittura fosse condannata al mutismo, al profluvio di parole pronunciate e delle chiacchiere portatili. E diluvio fu, per le questioni più inutili: le tariffe feroci non scoraggiavano nessuno dal cavar fuori il pistolone e dare appuntamento al mezzogiorno di cuoco: butta la pasta, sto arrivando. Ogni ora, in ogni dove, raffiche di banalità, meglio se imposte all'universo mondo. Lentamente le suddette tariffe s'abbassavano, per effetto della concorrenza, e i mattoni evaporavano per restringersi fino alle dimensioni d'una suppostina: ma escogitavano nuovi apparecchi più potenti, forniti di schermo, mentre le chiacchiere dilagavano come non mai, deflagravano. Nel contempo si sviluppava l'alluvione parallela delle email e soprattutto dei "messaggini", piccoli insulsi periodi che rivoluzionavano la tendenza a esprimersi per frasi insostenibili: gli italiani, oppressi da modi di dire burocratici, da ministeriali barocchismi, scoprivano, per risparmiar caratteri, inedite essenzialità che si rivelavano incomprensibili e/o stupide, sideralmente lontane dalla genialità d'un Guareschi in lager: "Paccami lancorredo", mandami un pacco con della roba di lana. Sulla soglia del 2000 s'inventavano nuovi lemmi, abbreviazioni criptiche, astrazioni giovaniliste di dubbia efficacia. La scrittura, condannata a morte, si vendicava anche se in una forma malata, involuta. L'avvento delle emoticon ha dato vita a conversazioni fatte di facce. Le telefonate, pur sempre gagliarde, cominciavano impercettibilmente a diradarsi, era più comodo solfeggiare sulla tastierina, aiutati anche - meraviglia - dalle emoticon, gli stati d'animo affidati alla punteggiatura creativa; poco dopo, le faccine avrebbero risolto la questione, spalancando scenari di graffiti: già reperto archeologico la posta elettronica, che sopravvive quasi solo nella pubblicità non voluta, si prendeva a comunicare per strisce di sorrisi, ghigni, occhioni sgranati: i tempi erano maturi per il lancio di computer tascabili in tutto e per tutto, sempre meno tascabili, che favorivano l'esplosione delle app, dei Messenger, dei Whatsapp, delle chat con cui trasformare un popolo di logorroici in uno di afasici (eccetto in treno: dove sarebbe, allora, il divertimento?). Quanto ai messaggini d'antan, rifluiscono oggi in Twitter, che in definitiva è un social appositamente inventato per farsi la pelle. Interi discorsi silenti, conversazioni fatte di facce: promesse impegnative, impegni di lavoro, solenni vaffanculo, rotture definitive affidate non più a una concitata telefonata ma a frigidi disegnini infantili: mani che fanno il pollice, le corna, omini che mostrano il sedere, ballerine che volteggiano e una miriade di simboli, oggetti, ritratti, hanno perfino pensato alle famiglie multigender, in tutte le combinazioni. Per mero esempio, non ci si chiede più che cosa fai a pranzo, si sparano in chat i disegni di un trancio di pizza, un boccale di birra e una tazzina di caffè. Siamo regrediti a una prima elementare perenne. Orwell fosse qui non potrebbe neanche dire - anzi, "emoticare" - un «ve l'avevo detto» perché la faccenda sarebbe troppa anche per lui.

 

Ma, quando tutto sembra irreversibile, ecco la distruzione creativa, la rivoluzione inaspettata, il tornare alle parole pronunciate, alle voci veraci, al riscatto del verbo espresso. Il messaggio vocale è metodo di non-parlare comodo, veloce, in apparenza spontaneo, in sostanza clamorosamente antidemocratico: io parlo, io dico, affari tuoi Però non al telefono, in diretta. Sarebbe troppo facile e troppo sensato. No, la nuova frontiera è una sintesi hegeliana delle deviazioni prodotte dalla tecnologia; si chiama "messaggino vocale" e sta in una registrazione di pochi secondi (o minuti, nei casi più gravi) da imporre all'interlocutore - il quale replicherà allo stesso modo, a riplasmare una conversazione dissociata, fatta di stringhe di concetti liofilizzati. Questo metodo di non-parlare sta soppiantando tutto: telefonate, messaggi, cartoni animati. Perché più comodo, veloce, in apparenza spontaneo, in sostanza clamorosamente antidemocratico: io parlo, io dico, affari tuoi. Se hai qualcosa da obiettare, e ovviamente ce l'hai, tu parli, tu dici, e così via. Nessuna interruzione, nessun gesticolare, de profundis per la fantastica pantomima di Gigi Proietti che, alle prese con un misterioso interlocutore, non riusciva mai a spiccicare parola e si produceva in una sterile sequela di conati, di versi. Dai messaggi vocali viene fuori un dialogo autistico, ma vuoi mettere? E si usano per tutti i gusti, tutte le occasioni: per avvertire, invocare, convocare, dare appuntamento (e vanno perlopiù perduti, perché una urgenza non la puoi deferire); ma come si fa a raccontarsi e maledirsi in differita, con queste conversazioni-Lego, con questi discorsi-puzzle? E abbiamo già avuto il dispiacere di "vedere" intere interviste assemblate in questo modo: tante domande in vocalmessaggio, tante risposte: solo che il tutto viene frullato e shakerato a piacere, principalmente quello dell'intervistato, che, specie se altolocato, con sovrana noncuranza spara le sue repliche random e l'intervistatore più che sbobinare deve orientarsi in una selva oscura di battute maledettamente surreali, tipo gli esperimenti poetici del cut-up o quelli del Gruppo '63.

 

WhatsApp è solo una delle applicazioni per chattare. I neurobiologi come Manfred Spitzer, gli studiosi apocalittici come Nicholas Carr, Andrew Keen o Valery Morozov dicono che questo modo di procedere, di approcciarsi, in definitiva di esistere, perché stare al mondo significa stare negli altri, ci scardina la mente, scassina le strutture cerebrali, origina nuove manie, fobie sconosciute, inedite frustrazioni violente; uccidendo il normale ordine psicologico, costringe il pensiero a ricoagularsi da una confusione sempre più strampalata, da cui quel senso di stanchezza perenne, il crollo dell'attenzione, la concentrazione ridotta a quella d'un moscerino e altri malanni irreversibili. Brutalità benaccette, che si aggiungono alla perdita di facoltà conseguenti all'uso compulsivo di app - una per tutte: il senso dell'orientamento -, alle truffe del multitasking (il cervello non può dare attenzioni parallele, se una ne privilegia, mette in stand by le altre e solo l'automatismo ci salva, ma l'automatismo non è comprensione). Noi rotoliamo, bufali post sociali, verso conseguenze che non sappiamo né vogliamo conoscere: ci penseremo poi, ammesso che ancora si riuscirà a pensare. L'indole dell'uomo è ostinata, la sua conquista regina, la parola, torna fuori, si ribella alla dittatura della "comodità", ma finisce in nuovi imbuti, decisi da altri da noi, automi senz'anima che in una valle al silicone inventano invenzioni devastanti. Neppure la potenza del linguaggio, che da millenni affascina e fa dannare filosofi e mistici, può restare immune all'attacco di dottori Stranamore sempre più alienati. Per comunicare, comunichiamo ancora: ma in modo sempre più frammentato, innaturale, approssimativo, un parlare insieme post e preumano, che dice ma non conversa, non cerca il contraddittorio, non lo regge, lo sfugge. Sempre meno abituati a discutere, a confrontarci, a sopportarci, abbiamo imparato a scannarci e isolarci anche via messaggio vocale. Chissà cosa troveremo nel domani che ci aspetta al varco, ma già così non è vivere insieme. Non lo è più.

 

Massimo Del Papa

 

 

 
L'anarchismo di Kropotkin PDF Stampa E-mail

11 Marzo 2017

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Da Comedonchisciotte del 9-3-2017 (N.d.d.)

 

L’8 febbraio 1921, venti mila persone, sfidando temperature talmente basse da congelare gli strumenti musicali, marciarono in un corteo funebre nella città di Dimitrov, un sobborgo di Mosca. Andarono per omaggiare un uomo, Petr Kropotkin e la sua filosofia, l’anarchismo. Novant’anni dopo, solo pochi conoscono Kropotkin. E La parola anarchismo è stata spogliata così tanto della sua sostanza da essere equiparata a caos e nichilismo. Questo è deplorevole, sia per l’uomo, che per la filosofia per il cui sviluppo ha fatto molto, e che ha molto da insegnarci. Sono meravigliato che Hollywood non abbia ancora scoperto Kropotkin. Perché la sua vita è materiale di grandi film. Nato tra i privilegiati, ha trascorso la sua vita lottando contro povertà e ingiustizia. Un rivoluzionario eterno, era anche un geografo e zoologo famoso in tutto il mondo. Infatti, l’intersezione fra politica e scienza caratterizzò molto la sua vita. Le sue battaglie contro la tirannia lo portano ad anni nelle prigioni russe e francesi. La prima volta che venne imprigionato in Russia, un grido di protesta di alcuni fra gli studiosi più famosi al mondo, portò al suo rilascio. La seconda volta progettò una fuga spettacolare e scappò dal paese. Gli ultimi anni di vita, nuovamente nella sua Russia natale, supportò con entusiasmo il rovesciamento dello zar, ma allo stesso tempo condannò i metodi sempre più autoritari e violenti di Lenin. […]

 

Per i nostri obiettivi l’eredità più duratura di Kropotkin è il suo lavoro sull’anarchismo, una filosofia della quale egli fu forse il massimo esponente. Egli arrivò alla visione che la società si stesse dirigendo nella direzione errata […] Il principale evento che portò Kropotkin ad abbracciare l’anarchismo fu la pubblicazione de “L’origine delle specie” di Charles Darwin nel 1859. Mentre la tesi di Darwin in base alla quale discendiamo dalle scimmie era fortemente discussa, la sua tesi sul fatto che la selezione naturale implica una “sopravvivenza del più adatto” attraverso una battaglia tra specie, venne condivisa con entusiasmo dall’1% in quei tempi, per giustificare ogni ingiustizia sociale come un inevitabile effetto secondario della lotta per l’esistenza. Andrew Carnegie sosteneva che la “legge” della competizione è “il meglio per la razza perché assicura la sopravvivenza del più adatto in ogni settore”. “Accettiamo e diamo il benvenuto alla grande diseguaglianza (e) al concentramento dell’economia… nelle mani di pochi”. L’uomo più ricco del pianeta, John D. Rockefeller, asserì senza giri di parole: “La crescita di una grande economia è solamente la sopravvivenza del più adatto… il prodotto di una legge di natura”. In risposta ad un saggio ampiamente diffuso di Thomas Huxley nel diciannovesimo secolo “The Struggle for Existence in Human Society”, Kropotkin scrisse una serie di articoli per la stessa rivista che furono in seguito pubblicati, come il libro Mutual Aid. Egli trovò la visione dei darwinisti sociali contraddetta dalla propria ricerca empirica. In seguito a cinque anni di esame della fauna selvatica in Siberia, Kropotkin scrisse: “Ho fallito nel trovare- nonostante la stessi cercando impazientemente- quella lotta aspra per le risorse dell’esistenza… che era considerata da molti darwinisti… come la caratteristica dominante- e il fattore principale dell’evoluzione”. Kropotkin onorò le intuizioni di Darwin sulla selezione naturale ma credeva che il principio reggente della selezione naturale fosse la cooperazione, non la competizione. I più adatti erano coloro che cooperavano. “Le specie animali, nei quali la lotta individuale è stata ridotta ai suoi limiti più ristretti, e in cui la pratica dell’aiuto reciproco ha raggiunto il più grande sviluppo, sono inevitabilmente le più numerose, le più prosperose, e le più aperte al progresso più distante… Le specie meno socievoli, al contrario, sono condannate al declino”. Egli trascorse il resto della propria vita a promuovere questo concetto e la teoria della struttura sociale conosciuta come anarchismo. […] Nel suo articolo sull’Anarchia del 1910 su Encyclopedia Britannica, Kropotkin definisce anarchismo una società “senza governo- armonia ottenuta dalla società, non con la sottomissione alla legge, o con l’obbedienza ad un’autorità, ma attraverso liberi accordi stipulati tra i vari gruppi, territoriali e professionali, liberamente costituiti per l’interesse di produzione e consumo…”

 

Mutual Aid venne pubblicato nel 1902. Con capitoli sulle società animali, tribù, città medievali e società moderne, crea il caso scientifico per la cooperazione. I lettori di oggi potrebbero trovare il capitolo sulle città medievali il più interessante. Nei secoli XII e XIV, centinaia di città emersero intorno ai recentemente formati mercati. Questi mercati erano talmente importanti che le leggi adottate da re, vescovi e città proteggevano i loro fornitori e consumatori. Con la crescita dei mercati, le città guadagnavano autonomia, si organizzavano in strutture politiche, economiche e sociali ciò che secondo Kropotkin fece di loro un modello operativo educativo di anarchismo. La città medievale non era uno stato centralizzato. Era una confederazione, divisa in quattro quartieri o in cinque o sette sezioni che si diffondevano a raggio dal centro. In un certo senso era strutturata come una doppia federazione. Una, formata da tutti i proprietari di case uniti in piccole unità territoriali: la strada, la parrocchia, il distretto. L’altra, formata da singoli uniti da un giuramento in corporazioni, in base alla loro professione. Le corporazioni stabilivano le regole economiche. Ma la corporazione in sé comprendeva molti interessi. “Il fatto è che, la corporazione medievale… era un’unione di uomini uniti da un dato commercio: compratori di prodotti grezzi, venditori di prodotti manifatturieri, artigiani- mastri ed apprendisti”. Era governata all’interno della propria sfera, ma non poteva sviluppare regole che interferissero con i lavori di altre corporazioni. Quattrocento anni prima di Adam Smith, le città medievali avevano sviluppato regole che permettevano la ricerca dell’interesse personale per supportare l’interesse pubblico. Diversamente dal progetto di Adam Smith, il loro strumento era invece una mano molto visibile. Il mini-mondo di cooperazione portò a risultati notevoli. In città di 20.000-90.000 persone affiorò la tecnologia, così come uno sviluppo artistico che ancora ci meraviglia. La vita in queste città non era neanche lontanamente la vita primitiva dei Secoli Bui che vengono descritti dai nostri libri di storia. I lavoratori in queste città medievali guadagnavano un salario minimo. Molte città avevano una giornata di lavoro di 8 ore. Firenze nel 1336 aveva 90.000 abitanti. Circa 8-10.000 ragazzi e ragazze (sì, ragazze) frequentavano la scuola primaria e c’erano 600 studenti in quattro università diverse. La città vantava 30 ospedali con oltre 1000 letti. Inoltre, scrive Kropotkin: “ più impariamo dalla città medievale, più ci convinciamo che in nessun momento la classe operaia ha goduto di condizioni simili di prosperità e di tale rispetto come quando la vita in città si alzava al suo massimo”.

 

Mutual Aid viene letto raramente oggi. Nessuno si ricorda di Petr Kropotkin. Ma il suo messaggio, e la sua prova empirica, che la cooperazione e non la competizione è la spinta dietro la selezione naturale, che la decentralizzazione è superiore alla centralizzazione sia nell’amministrazione che in economia, e che l’aiuto reciproco e la coesione sociale dovrebbero spingere al di sopra della forte ineguaglianza sociale e che l’esaltazione dell’individuo al di sopra della società è rilevante nei dibattiti centrali dei nostri tempi, così come lo era nei dibattiti del suo tempo. Nell’anniversario della morte di Kropotkin sarebbe benefico per il mondo riscoprire i suoi straordinari scritti, i quali sono liberamente disponibili online, e rivedere la sua filosofia.

 

David Morris (traduzione di Steflowers)

 

 
Spionaggio informatico PDF Stampa E-mail

10 Marzo 2017

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Da Libero Pensare dell’8-3-2017 (N.d.d.)

 

Mi sono ripetutamente occupato della rete di spionaggio globale che da qualche anno, grazie soprattutto a Julian Assange e ad Edward Snowden, è venuta alla ribalta ed ha prodotto dei consistenti effetti sull’opinione pubblica mondiale. Tutti ricorderanno il clamore mediatico che costrinse, due anni fa, il governo americano a varare delle misure di controllo sulla cosiddetta bulk data collection. Era tuttavia chiaro, come paventavo in un precedente articolo, che le Agenzie avrebbero trovato facilmente il modo di aggirare l’ostacolo e di continuare indisturbate a spiare tutto lo spiabile. È di ieri, infatti, la notizia di oltre 8.700 documenti della CIA messi in circolazione da parte di Wikileaks. Nonostante Snowden sia in esilio in Russia e Assange confinato in una stanza dell'Ambasciata dell'Ecuador a Londra, Wikileaks - pur con tutti i distinguo e i dubbi che lecitamente si possono avere su questa organizzazione - prosegue la sua opera di disvelamento della hybris dei poteri forti.  Tali documenti aprono uno scenario terrificante sull’evoluzione dei sistemi di spionaggio informatico che le élite portano avanti da decenni - e questa è la cosa che più colpisce - nella sostanziale indifferenza dei popoli. Ci infuriamo se qualcuno ascolta una nostra telefonata o se un familiare legge un nostro messaggio su WhatsApp - magari a fin di bene - ma tolleriamo distrattamente se poteri disumani controllano - e questi certamente non a fin di bene - ogni nostro sussurro mentre sediamo davanti alla televisione o usiamo il nostro smartphone. Come le rane non ci accorgiamo che l’acqua diventa sempre più calda, ma quando vorremo saltar fuori dalla pentola sarà troppo tardi…

 

I quasi 9.000 files - 8.761 per la precisione - di Vault-7, così si chiama questo leak, sono, a detta di Wikileaks, solo la prima parte di un più ampio programma di rivelazioni che si riferiscono al periodo 2013-2016 ed aprono uno scenario terrificante sul controllo globale da parte delle super-agenzie militari. Non solo controllo totale dei nostri smartphone ma monitoraggio delle nostre parole ed attività tramite i nostri apparecchi televisivi, senza parlare del progetto di controllare persino le autovetture che utilizziamo per spostarci. Quello che emerge da questi leaks è non solo lo stato di avanzamento tecnologico che consente un controllo pressoché totale sulla vita della gente ma anche la più assoluta indifferenza, da parte delle Agenzie, nei confronti delle leggi che dovrebbero tutelare la privacy di ogni cittadino. Ma forse il concetto di privacy vale solo per i membri dell’élite, per gli altri vale invece il totem della ‘sicurezza nazionale’… Vault-7 ci rivela altresì che la sede centrale del Grande Fratello di Langley, in Virginia, ha una succursale - totalmente illegale secondo il diritto internazionale - presso il consolato USA di Francoforte, che ficca il naso negli affari di Europa, Medio Oriente e Africa. Ma non è tutto. Dai documenti risulta anche che software di hackeraggio come SwampMonkey o Shamoon - che consente di rubare i dati e anche di distruggere completamente l’hardware - permettono di controllare totalmente i nostri apparati elettronici, PC, iPhone o Android.  Last but not least, dai leaks emerge, infine, che alcuni di questi sistemi di controllo sarebbero stati sottratti alla CIA e potrebbero essere nelle mani di altre organizzazioni o altre Nazioni. La CIA, interpellata, ha risposto - indovinate - con il solito No comment.

 

Pensate dunque a questo scenario - per ostacolare il quale Wikileaks ha deciso di rivelare i files - di ordinaria follia: sono seduto sul divano a guardare il telegiornale - ma l’apparecchio TV potrebbe essere anche apparentemente spento - e pronuncio parole di critica verso il governo, magari parole che, attraverso i programmi di ricerca automatica di keywords, mi identificano come un ‘terrorista’.  Continuo poi a dire o scrivere qualcosa di negativo sul governo o la polizia tramite il mio smartphone - che a mia insaputa è del tutto nelle mani degli spioni - e poi salgo in macchina per andare al lavoro o ad un appuntamento. Tramite la geolocalizzazione - che tutti attiviamo allegramente sul nostro iphone per trovare la pizzeria più vicina - o attraverso un controllo remoto attivato a mia insaputa sulla mia automobile, quest’ultima non risponde più ai comandi e io finisco fuori strada schiantandomi da qualche parte. Fantascienza? 

 

No, realtà già pienamente possibile. Il tutto giustificato dall’esigenza di combattere quel terrorismo che è stato creato ad arte per giustificare a sua volta il controllo globale. “A me non interessa essere spiato, tanto non ho niente da nascondere”. “Meglio essere spiato e tranquillo che rischiare un attentato”. “La sicurezza prima di tutto”. Chi la pensa così - e non sono pochi - sta collaborando al progetto di una umanità totalmente asservita ai poteri oscuri delle élite dominanti che - tramite la tecnologia e la realtà virtuale - da anni perseguono instancabilmente questo obiettivo. Far sì che l’uomo scelga liberamente la sua schiavitù. Il che deve portare, a mio avviso, a due conclusioni: prima di tutto che siamo corresponsabili di quanto ci accade e, in secondo luogo, che forse dobbiamo iniziare a ridimensionare la nostra dipendenza dal mondo della realtà virtuale per dedicare più tempo ed energie al mondo reale, quello che ci collega ai nostri simili in vincoli di sentimento e di libera azione.

 

Piero Cammerinesi

 

 
Politicanti e statisti PDF Stampa E-mail

9 Marzo 2017

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Da Appelloalpopolo del 7-3-2017 (N.d.d.)

 

Uno dei miei articoli più recenti ha un po’ disorientato i lettori al punto che uno mi scrive: “Sono confuso… prima malediciamo i professionisti della politica…causa principe dell’allontanamento dalla politica dai cittadini … gente che è stata in politica per decenni, produttrice di disastri, servi dei poteri forti e allergici alla democrazia...ora me ne si esce con la necessità di avere dei professionisti della politica, gente che conosce i meccanismi istituzionali ecc… Dunque: I politici di professione. No!  Allora cittadini impreparati ma onesti, No! Allora mettiamo dei Tecnici superspecializzati, No! sarebbe un altro Monti. Mi permetta una battuta di colore: Ma chi minchia ci dobbiamo mettere al Governo? Vi ricordo che attualmente abbiamo Alfano …al ministero degli esteri …mi vorreste dire che un Di Battista o un Di Maio sarebbero peggio?? …. Mister Giannuli, questa volta mi ha proprio confuso le idee! Al che torniamo al punto di partenza…meglio un incompetente onesto alla Di Battista che un incompetente ma “professionista della politica” come quel simpaticone di Alfano!”

 

Insomma l’alternativa è fra politici di lungo corso, arraffoni ed incompetenti, oppure onesti sprovveduti o, al massimo, tecnocrati alla Monti. Messa così, stiamo a posto. Bene, allora è il caso di chiarirsi un po’ le idee. In primo luogo rassegniamoci all’idea che la politica è uno specialismo che, soprattutto ai livelli più alti, esige una preparazione di qualità corrispondente. Non c’è motivo per ritenere che la politica sia una cosa più semplice della medicina, dell’informatica, del diritto o dell’economia, che richiedono una preparazione specifica: o voi vi fareste operare da una persona onestissima, ma che confonde il polmone col pancreas e non sa leggere una analisi? Certo l’onestà è una qualità importante in un politico ma ricordiamoci che ricoprire un’importante carica dello Stato senza essere all’altezza del compito è l’atto più disonesto che si possa fare. Il guaio è che gli ominicchi della seconda repubblica –salvo rarissime eccezioni su cui potremmo discutere- non sono affatto politici, ma volgari politicanti, che hanno come unica competenza quella di arrampicarsi nel sistema sino alla poltrona più alta possibile. E questo ha caratterizzato la grande maggioranza di parlamentari, ministri e sottosegretari di questo quarto di secolo di tutti i partiti: da An al Pds-Ds-Pd, da Rifondazione Comunista (che esprimeva gruppi parlamentari imbarazzanti) a Forza Italia, dalla Lega alla Margherita. Il ceto politico della Seconda Repubblica, prodotto dal sistema elettorale maggioritario, non sarà mai abbastanza maledetto per aver distrutto la stessa idea di politica ed averla avvilita al livello del peggiore politicantismo e, se un cittadino vede un personaggio come Alfano ministro di Grazia e Giustizia, poi dell’Interno, poi degli Esteri, giustamente pensa: “Ma perché non lo posso fare io? Cosa sa più di me?”. E qui c’è un altro chiarimento necessario: ma in cosa consiste questo specialismo e come deve prepararsi un politico vero? Al politico si chiede soprattutto di saper assumere decisioni adeguate ai problemi da affrontare: concludere un trattato commerciale, fare una legge per il contrasto alla corruzione, introdurre o abolire una tassa, affrontare il problema delle ondate di immigrati, modificare o meno il testo della Costituzione, progettare una riforma della scuola o della sanità sono tutte decisioni che presuppongono una preparazione in merito, e non solo sul singolo problema, ma capace di individuare gli effetti imprevisti. Ad esempio, se decidi di obbligare i medici a denunciare l’immigrato clandestino che curano, devi mettere in conto che questo potrebbe avere conseguenze molto pericolose nel caso di malattie contagiose. Se per combattere il terrorismo decidi di autorizzare intercettazioni di massa, devi anche capire che questo comporta un giro di vite nei confronti della privacy di tanti cittadini che con il terrorismo non c’entrano nulla. Se aumenti le tasse devi prevedere una caduta del Pil. Se concedi il reddito di cittadinanza, poi devi prevedere che una intera generazione fra 20 o 30 anni andrà in pensione con poche centinaia di euro al mese. E se ci sono dei tagli da fare alla spesa pubblica non è la stessa cosa se tagli su pensioni, sanità e istruzione o se tagli le super retribuzioni di manager e consulenti che lavorano per lo stato o sui lavori pubblici e quali, così come fare una patrimoniale è meno semplice di quel che si pensa, perché le soluzioni possibili sono molte e molto diverse fra loro. Dunque, occorre che ogni singola politica di settore sia inquadrata in una linea politica generale che abbia caratteri di coerenza ed organicità. E neanche questo è sufficiente, perché ogni decisione lede interessi di alcuni e favorisce quelli di altri, per cui occorre poi saper mediare fra le parti sociali, cercando una composizione degli interessi che confermi e non minacci la coesione sociale. Soprattutto, ad un politico si richiede di avere molta fantasia per trovare le soluzioni migliori, magari nuove, man mano che i problemi vengono avanti. Come si vede, un’attività piuttosto complessa, che non ammette semplificazioni arbitrarie e richiede conoscenze, decisione, fantasia, coraggio nell’affrontare le resistenze dei nemici più forti,

 

Ma come formare un uomo politico che sappia muoversi su un terreno così complesso? Ovviamente è necessario che ci sia una preparazione teorica di fondo: la politica è anche studiata da una scienza specifica, appunto la scienza della politica o politologia, ed è opportuno che ci sia una preparazione di questo tipo, così come è opportuno che chi si prepara alla carriera politica abbia nozioni di sociologia, di diritto ma, soprattutto di economia (ed io direi anche di storia). Poi è necessario avere competenze specifiche nel settore in cui vuoi operare: se vuoi fare il ministro degli esteri, magari è bene che tu sappia qualcosa di relazioni internazionali, geopolitica, diritto internazionale eccetera. Detto questo, dovremmo concludere che un buon politico debba necessariamente essere laureato in Scienze Politiche? No, direi di no, anche perché un laureato in qualsiasi altra disciplina, o anche un non laureato, può benissimo apprendere queste cose con studi personali o, magari, attraverso le scuole di politica che ogni partito dovrebbe organizzare. Poi la lettura dei giornali e delle riviste specializzate, la partecipazione a convegni e le conversazioni con i colleghi sono altri veicoli di formazione. Ma questo non basta: una formazione puramente teorica può produrre un buon accademico (forse) ma non è sufficiente per un politico. Neanche il governatore di una banca centrale può basarsi solo sulla sua formazione universitaria: una preparazione teorica è necessaria, ma non basta, a meno di non avere un approccio tutto libresco ai problemi. Poi quello che conta è la prassi: si impara a far politica facendola. La formazione di base serve a capire e valutare le proprie esperienze nel bene e nel male. Un eccesso di teoria porta ad un approccio dogmatico e sterile, ma l’assenza di una formazione di base precipita poi nell’empiria più pura, che impedisce di capire quello che si sta facendo. Dunque, la pratica è la seconda metà della mela, ugualmente necessaria quanto la prima. Ma, ovviamente si tratta di una pratica che ha un valore se è costruita nel tempo: nessuno “nasce imparato” si dice nella mia città d’origine, e la pratica politica è formativa se avviene in un periodo abbastanza lungo. L’idea che si ottenga un personale di governo con, al massimo, cinque anni di partecipazione istituzionale, per poi congedarlo dopo altri cinque anni, è un’idea semplicemente delirante, scusatemi. Ovviamente, un simile specialismo non si costruisce in tre o quattro anni, ma esige un tempo necessario di maturazione. Però non è affatto vero il contrario: cioè che un personaggio politico che sta sulla scena da 20 anni sia anche un politico preparato, anzi è possibile che sia una capra assoluta. Durata non significa competenza, ma soprattutto, occorre non confondere un decisore politico vero con un volgare politicante. La politique politicienne (come dicono i francesi) è cosa deteriore da non confondere con la politica e non tutti i politici professionali sono politicanti: Nenni, De Gasperi, Togliatti, Berlinguer, Lombardi, Moro, Fanfani e dico anche Almirante o Romualdi hanno fatto politica per tutta la vita, ma non erano affatto politicanti, erano politici di notevole livello ed alcuni di loro veri statisti. Ovviamente c’è un rischio: che a furia di metter radici nel Palazzo (quello con la P maiuscola) un politico anche di buona stoffa, un po’ alla volta, si affezioni troppo al ruolo e diventi un politicante. È un rischio molto forte, con il quale occorre misurarsi. La classe dirigente va formata (possibilmente dal basso se crediamo nella democrazia), va selezionata con cura, badando tanto al disinteresse personale quanto alla preparazione e capacità, poi va responsabilizzata, controllata, periodicamente “potata” almeno in parte, quindi vigilata nei comportamenti, interrogata normalmente sui propri atti e decisioni, trattata con parsimonia quanto a incentivi selettivi, costantemente obbligata al confronto con possibili successori. Anche le classi dirigenti prodotte dal basso, magari da una rivoluzione (e il caso Russo mi pare abbastanza istruttivo) fanno presto ad abituarsi alle soffici poltrone del potere: meglio delle poltrone sono le sedie, possibilmente dure e scomode… Il punto debole più pericoloso del M5s non è quello di non avere una classe dirigente, ma di non aver fatto assolutamente nulla per formarsela. Cari amici ricordatevi di aver avuto successo perché avevate come pietra di paragone i cialtroni della Seconda Repubblica, ma la gente ora vuole di più. Non basta che Di Maio o Di Battista non facciano peggio di Alfano o Del Rio: devono fare di meglio e di molto meglio. Pensateci.

 

Aldo Giannuli

 

 
Il marketing delle idee PDF Stampa E-mail

8 Marzo 2017

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Da Appelloalpopolo del 4-3-2017 (N.d.d.)

 

Se auspichi la disgregazione dell’UE sei un populista. Se parli di identità, Patria e Nazione sei un fascista. Se vuoi ripristinare le frontiere sei uno xenofobo. Se resisti agli eccessi nell’avanzamento dei diritti individuali sei un bigotto.

 

Esprimere una posizione difforme dal mainstream sui temi esposti è un atto di coraggio.

 

Auspicare la dissoluzione dell’Unione Europea, il ripristino del controllo sulla circolazione dei capitali, delle merci e delle persone, il recupero dell’identità e della cultura nazionale ci espone a critiche feroci e in certi ambiti al pubblico ludibrio. Il “marketing delle idee” ha promosso un’identità globale, cioè una non-identità, a un popolo che non aveva gli anticorpi per resistere all’invasione del mercato. Questo lento processo di spersonalizzazione ha consentito di procedere alla progressiva distruzione dei diritti sociali, di quelle protezioni che ci hanno reso uno dei paesi più avanzati del mondo, senza che nessuno alzasse un dito.

 

Gianluca Baldini

 

 
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