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Darsi alla macchia PDF Stampa E-mail

20 Aprile 2023

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 Da Comedonchisciotte del 16-4-2023 (N.d.d.)

Il passaggio al bosco (Der Waldgang) è un celebre concetto di Ernst Jünger, discusso nel suo saggio omonimo del 1952, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo “Trattato del ribelle”. Esso è l’atto sovrano con cui l’uomo libero si separa da una comunità in cui non gli è più possibile riconoscersi, per farsi legge a se stesso. Nel suo significato letterale di “darsi alla macchia”, rappresenta la sola contromisura possibile di fronte all’avanzata della tirannia, che ai tempi di Jünger si manifestava nella forma del totalitarismo politico, mentre oggi assume le sembianze della dittatura tecno-sanitaria e dello stato emergenziale permanente. In senso metaforico, esso si riferisce a quello spazio di sovranità interiore disposto a resistere a qualsiasi costo alle lusinghe come alle minacce del potere. Va da sé che il “passaggio al bosco” non ha nulla di idilliaco, corrispondendo invece a un’assunzione di responsabilità, parallela ad una presa di coscienza, che strappa il ribelle alla falsa sicurezza del recinto per proiettarlo verso l’ignoto, esponendolo a pericoli d’ogni genere. Ma si tratta di una scelta obbligata, quando l’alternativa è la schiavitù. E l’imposizione del siero genico sperimentale è stata senza alcun dubbio una forma di schiavitù: la perfida, derisoria finzione del “consenso informato”, con cui la vittima era costretta ad assumersi la responsabilità di una scelta che le veniva imposta sotto coercizione, richiama alla mente i paragrafi dedicati da Jünger alla passione delle burocrazie totalitarie per i questionari e i formulari, ossia la raccolta sistematica dei dati personali finalizzata alla schedatura dei sudditi:

Il lettore saprà, per sua stessa esperienza, che la natura dell’interrogazione è cambiata. Nell’epoca in cui viviamo gli organi del potere ci interrogano senza posa, e certo non si può dire che siano animati esclusivamente da un ideale bisogno di conoscenza. Quando ci interpellano con le loro domande, non cercano il nostro contributo alla verità oggettiva né, tanto meno, alla soluzione di questo o quel problema particolare. Ciò che gli importa non è la nostra soluzione, bensì la nostra risposta. (…) Il nostro contemporaneo, che si vede costretto a riempire un questionario, è ben lontano da quella sicurezza (l’anonimato del voto). Le sue risposte sono gravide di conseguenza; spesso decidono il suo destino. L’essere umano è ridotto al punto che da lui si pretendono le pezze d’appoggio destinate a mandarlo in rovina. E oggi bastano delle inezie a decidere la sua rovina. Il Ribelle (der Waldgänger nella terminologia di Jünger, “colui che passa al bosco”) è costretto dalle circostanze a prendere atto di non avere più una patria né delle istituzioni in cui riconoscersi, e di non potere più attendersi giustizia né protezione dalle leggi dello stato. Posto di fronte alla drammatica alternativa di sottomettersi o diventare un paria, quando non un fuorilegge, egli prende partito per se stesso, ed abbandona il gregge e i suoi pastori per internarsi nel bosco: la sua però non è una fuga, ma solo una ritirata, poiché si riserva il diritto al contrattacco:

Questi stati armati fino ai denti, che si vantano di possedere il monopolio del potere, e al tempo stesso appaiono tanto vulnerabili, offrono davvero uno strano spettacolo. La cura e l’attenzione che devono dedicare alle forze di polizia minano la loro politica estera. La polizia erode il bilancio dell’esercito, e non quello soltanto. Se le grandi masse fossero così trasparenti, così compatte fin nei singoli atomi come sostiene la propaganda dello Stato, basterebbero tanti poliziotti quanti sono i cani che servono a un pastore per le sue greggi. Ma le cose stanno diversamente, poiché tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos’è la libertà. E non soltanto quegli esseri sono forti in se stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in branco. È questo l’incubo dei potenti.

Mi sembra che queste parole rimangano pienamente attuali in tempi di database, telecamere e tecnologia biometrica. Infine, ritengo opportuno ricordare che il bosco rappresenta un archetipo fortemente evocativo per i popoli europei – si è detto che le cattedrali gotiche, coi loro giochi di luce, costituissero delle foreste pietrificate, in cui si venerava il Sacro riproducendo inconsciamente i riti pagani celebrati anticamente presso radure e sorgenti, nelle profondità delle foreste d’abeti, di querce o di betulle. Il bosco ha costituito infatti il paesaggio primordiale dei nostri antenati, e non è priva di suggestione l’ipotesi che il deserto, all’opposto, potrebbe essere l’ambiente originario delle forze che vogliono distruggerci.

Bruno Wald

 

 
Un rimedio semplice PDF Stampa E-mail

18 Aprile 2023

 Da Comedonchisciotte del 14-4-2023 (N.d.d.)

Ho avuto l’ardire di guardare (parzialmente) un telegiornale nonostante sappia benissimo che non dovrei farlo perché finisco per innervosirmi. Dopo penose interviste a qualche politico semianalfabeta e reportage di propagandisti inviati a spese nostre in Ucraina (non potrebbero dire le stesse sciocchezze standosene comodamente seduti in una sede televisiva e risparmiarci almeno le spese di viaggio?), siamo finalmente approdati (è il caso di dirlo), all’immancabile collegamento in diretta col celebre ”hot spot” perennemente sull’orlo del collasso di Lampedusa. Il propagandista inviato in loco (sempre perfettamente inutile e sempre perfettamente a nostre spese), oltre a sputacchiare ogni dieci parole l’odiosa espressione “hot spot” (cosa minchia è un “hot spot”? Perché questi entusiasti ripetitori di retorica non usano la loro lingua madre almeno quando non si rivolgono direttamente ai loro padroni  e lo chiamano correttamente centro di ingresso, smistamento, accoglienza o qualche altro eufemismo simile?), cercava di convincere il pubblico pagante della generosità degli indigeni che invece di essere infastiditi dai continui arrivi, che si direbbe dovrebbero causar loro non pochi problemi,  accolgono con entusiasmo i “migranti” ed anzi sono quasi contenti di questo nuovo tipo di turisti che non amano l’abbronzatura ed i soldi li spendono solo presso gli scafisti. Segue tutta la pantomima che si ripete eternamente e quotidianamente  di storielle strappalacrime con minori e donne incinte, nonché ammaestramenti pastorali delle massime cariche ecclesiastiche e ammaestramenti laici, ma non troppo, e moniti delle massime autorità costituite o, in mancanza di meglio, di qualche capitano dei carabinieri che finge di parlare a braccio, ma pare leggere un polveroso bollettino ufficiale d’altri tempi.

Mi chiedo: ma perché, di grazia, invece di tenere occupate le navi e gli aerei della guardia costiera (sempre a nostre spese) in compiti diversi dal loro vero lavoro, invece di lasciare che le navi delle “ong” facciano la spola da poco fuori le spiagge africane ai nostri porti, invece di mettere isole intere in perpetua emergenza, non organizzano un regolare servizio di traghetti dalla Libia e dalla Tunisia con tanto di moli dedicati e servizi a bordo? In questo modo tutto sarebbe più semplice, chiaro ed efficiente: si eviterebbe di far arricchire la mafia degli scafisti, si potrebbero costruire “hot spot” più efficienti nei pressi di porti di sbarco organizzati più razionalmente con tutta la loro brava burocrazia e soprattutto si eviterebbero i pericoli delle traversate su mezzi inadeguati e i susseguenti ipocriti piagnistei mediatici e rimproveri papali come fosse colpa più mia che sua quando qualcuno inevitabilmente affoga. Che senso ha continuare con questa risibile sceneggiata dell’”immigrazione clandestina”? Se qualcosa è illegale, lo stato non può che combatterla: così come adesso ha piuttosto l’aria di favorirla e proibirla al medesimo tempo rendendosi perciò solo ridicolo. E in questo non vedo alcuna reale differenza tra l’attuale amministrazione e la precedente, tra la maggioranza e l’opposizione se non modesti cambiamenti di accento nei toni della  propaganda. Per fortuna il rimedio è semplice: basta organizzare una bella linea di traghetti sicuri, dichiarare tutto legale facendo finalmente un poco di chiarezza su tutta l’operazione: capire chi fa cosa e perché. I trafficanti sarebbero finalmente rovinati e le “ong”, con il loro carico di utili idioti, si potrebbero dedicare a qualche rivoluzione colorata là dove lo Zio Sam vorrà loro indicare o, in mancanza, potrebbero sempre salvare la foca monaca dai gitanti domenicali. Lo stato si prenderebbe le sue responsabilità di fronte ai cittadini facendo delle scelte politiche chiare e palesi senza nascondersi dietro il dito delle “ragioni umanitarie”. D’altra parte chi vogliono far fesso? Se le ragioni umanitarie contassero davvero qualcosa rispetto a quelle politiche, non invierebbero armi in Ucraina, non avrebbero partecipato attivamente al bombardamento della Jugoslavia o alla brutale invasione dell’Iraq o dell’Afghanistan che hanno provocato centinaia di migliaia di morti compresi vecchi, bambini e donne incinte, avendo poi pure il coraggio di fare i martiri quando i partigiani iracheni hanno eliminato qualcuno tra le truppe occupanti. In quei casi non sarebbe stato neppure necessario “correre in soccorso”: sarebbe stato sufficiente non andarli ad ammazzare a casa loro. Cosa mostravano allora gli “inviati speciali”, ve li ricordate? Madri coi figli morti tra le braccia? No, facevano  piuttosto vedere i cieli di Baghdad e Belgrado con i gloriosi e vindici proiettili traccianti della democrazia, quasi fosse la festa del santo patrono. Tanto più che magari il problema degli arrivi illegali non è forse così cruciale come si potrebbe dedurre dallo spazio loro dedicato nei telegiornali: infatti tra le innumerevoli sciocchezze che i propagandisti blaterano nei “collegamenti in diretta”, manca sempre e comunque una sia pur vaga indicazione della proporzione tra gli arrivi di immigranti illegali e quelli legali. Possibile che nessuno se lo sia mai chiesto? Chissà, potremmo anche scoprire che la percentuale dei clandestini non è poi così importante e che il problema vero, parlando di numeri, stia altrove.

Di sicuro la situazione in corso appare quella di un paese (formalmente) indipendente, ma incapace di controllare i propri confini, incapace di impedire l’ingresso a coloro che il governo stesso definisce “illegali”, incapace di accogliere adeguatamente quelli che invece definisce legali, incapace di esporre con chiarezza al suo stesso popolo quale sia a conti fatti la sua politica in proposito, cioè, per dirla chiara, quanti immigrati ritiene di dovere e potere accogliere in totale ogni anno, perché intende farlo, come pensa di sistemarli e con quali risorse ed infine se è in grado o no di far rispettare i limiti eventualmente imposti oppure se ritiene non esserci alcun limite. I cittadini dovranno pur saperlo per giudicare il suo operato. Così com’è, lo spettacolo è semplicemente penoso. Roba da hot spot.

Nestor Halak 

 
L'inganno dell'agenda verde PDF Stampa E-mail

16 Aprile 2023 

 Da Comedonchisciotte del 13-4-2023 (N.d.d.)

Perché i principali governi, le aziende, i think tank e il WEF di Davos promuovono tutti un’agenda globale a zero emissioni di carbonio per eliminare l’uso di petrolio, gas e carbone? Sanno che il passaggio all’energia solare ed eolica è impossibile. È impossibile perché la domanda di materie prime, dal rame al cobalto, dal litio al cemento e all’acciaio, supera l’offerta globale. È impossibile a causa degli impressionanti costi delle batterie di backup per una rete elettrica “affidabile” alimentata al 100% da fonti rinnovabili. È impossibile perché provocherebbe il collasso del nostro attuale tenore di vita e un crollo delle nostre scorte alimentari con conseguente genocidio per fame e malattie. Tutto questo per una frode scientifica chiamata riscaldamento globale di origine antropica?

A fare da contraltare alla sfacciata corruzione che circonda il recente obbligo vaccinale da parte di Big Pharma e di importanti funzionari governativi a livello globale, c’è l’insensata spinta da parte soprattutto dei governi dell’UE e degli USA a promuovere un’agenda verde i cui costi e benefici sono stati raramente esaminati in modo trasparente. C’è una buona ragione per questo. Ha a che fare con una sinistra agenda volta a distruggere le economie industriali e a ridurre di miliardi di persone la popolazione globale. L’obiettivo dichiarato di zero emissioni di carbonio a livello globale entro il 2050, la cosiddetta Agenda 2030 delle Nazioni Unite, dovrebbe presumibilmente prevenire, secondo Al Gore e altri, un irreversibile innalzamento del livello del mare (“gli oceani in ebollizione”), lo scioglimento degli iceberg, una catastrofe globale e anche peggio. Nel 2021, in uno dei suoi primi atti in carica, Joe Biden aveva annunciato che l’economia statunitense sarebbe diventata a zero emissioni di carbonio nette entro il 2050 nei trasporti, nell’elettricità e nella produzione. L’Unione Europea, sotto la guida della notoriamente corrotta Ursula von der Leyen, ha annunciato obiettivi simili nel suo Fit for 55 e in innumerevoli altri programmi dell’Agenda Verde.

L’agroalimentare e tutti gli aspetti dell’agricoltura moderna vengono presi di mira con la falsa accusa di provocare danni al clima tramite i gas serra. Il petrolio, il gas naturale, il carbone e persino l’energia nucleare priva di CO2 vengono progressivamente eliminati. Per la prima volta nella storia moderna, stiamo passando da un’economia più efficiente dal punto di vista energetico ad un’economia drammaticamente meno efficiente dal punto di vista energetico. Nessuno a Washington, Berlino o Bruxelles parla delle risorse naturali realmente necessarie per alimentare questa frode, né tanto meno dei costi. Uno degli aspetti più rimarchevoli del fraudolento clamore globale per la cosiddetta energia verde “pulita e rinnovabile” – solare ed eolica – è, in realtà, quanto sia non rinnovabile e sporca dal punto di vista ambientale. Quasi nessuna attenzione viene prestata agli sbalorditivi costi ambientali che comporta la produzione di mastodontiche torri eoliche o di pannelli solari o di batterie agli ioni di litio per i veicoli elettrici. Questa grave omissione è deliberata. I pannelli solari e i giganteschi impianti eolici richiedono enormi quantità di materie prime. Una valutazione ingegneristica comparativa standard tra il solare e l’eolico “rinnovabili” e l’attuale produzione di elettricità da nucleare, gas o carbone dovrebbe partire confrontando le materie prime utilizzate, come cemento, acciaio, alluminio e rame, necessarie alla produzione di un TeraWattora (TWh) di elettricità. L’eolico consuma 5.931 tonnellate di materiali sfusi per TWh e l’energia solare 2.441 tonnellate, cifre assai superiori a quelle di carbone, gas o nucleare. La costruzione di una singola turbina eolica richiede 900 tonnellate di acciaio, 2.500 tonnellate di cemento e 45 tonnellate di plastica non riciclabile. I parchi solari richiedono ancora più cemento, acciaio e vetro, per non parlare degli altri metalli. Si tenga presente che l’efficienza energetica dell’eolico e del solare è nettamente inferiore a quella delle fonti convenzionali. Un recente studio dell’Institute for Sustainable Futures illustra le impossibili richieste di estrazione mineraria non solo per i veicoli elettrici, ma anche per l’energia elettrica 100% rinnovabile, soprattutto solare ed eolica. Il rapporto rileva che le materie prime per la produzione di pannelli fotovoltaici o di pale eoliche sono concentrate in un piccolo numero di Paesi: Cina, Australia, Repubblica Democratica del Congo, Cile, Bolivia e Argentina. Sottolinea che “la Cina è il maggior produttore di metalli utilizzati nelle tecnologie solari fotovoltaiche ed eoliche, con la quota maggiore di produzione di alluminio, cadmio, gallio, indio, terre rare, selenio e tellurio. Inoltre, la Cina ha anche una grande influenza sul mercato del cobalto e del litio per le batterie.” E continua: “Anche se l’Australia è il più grande produttore di litio … la più grande miniera di litio, Greenbushes, nell’Australia occidentale, è in maggioranza di proprietà di una società cinese.” Questo non va bene quando l’Occidente sta intensificando il confronto con la Cina. Per quanto riguarda l’enorme concentrazione di cobalto, nota che la Repubblica Democratica del Congo estrae più della metà del cobalto mondiale. L’estrazione ha portato alla “contaminazione da metalli pesanti dell’aria, dell’acqua e del suolo… con gravi impatti sulla salute dei minatori e delle comunità circostanti nella Repubblica Democratica del Congo e l’area di estrazione del cobalto è uno dei dieci luoghi più inquinati al mondo. Circa il 20% del cobalto proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo viene estratto su piccola scala da minatori artigianali che lavorano in condizioni pericolose in miniere scavate a mano, con un’ampia presenza di lavoro minorile.”

L’estrazione e la raffinazione dei metalli delle terre rare è essenziale per la transizione a zero emissioni di carbonio nelle batterie, nelle pale eoliche e nei pannelli solari. Secondo un rapporto dello specialista dell’energia Paul Driessen, “la maggior parte dei minerali di terre rare del mondo viene estratta nei pressi di Baotou, nella Mongolia interna, pompando acido nel terreno, per poi essere lavorata con altri acidi e prodotti chimici. La produzione di una tonnellata di metalli di terre rare rilascia fino a 420.000 metri cubi di gas tossici, 2.600 metri cubi di acque reflue acide e una tonnellata di rifiuti radioattivi. I fanghi neri che ne derivano vengono convogliati in un lago inquinato e senza vita. Numerosi abitanti della zona soffrono di gravi malattie della pelle e dell’apparato respiratorio, i bambini nascono con le ossa fragili e il tasso di cancro è salito alle stelle.” Gli Stati Uniti, inoltre, da quando hanno chiuso la lavorazione interna durante la presidenza Clinton, inviano la maggior parte dei loro minerali di terre rare in Cina per la lavorazione. Poiché sono molto meno efficienti dal punto di vista energetico/area, l’estensione territoriale necessaria alla produzione elettrica globale a zero emissioni di carbonio è impressionante. L’eolico e il solare richiedono fino a 300 volte la superficie necessaria per produrre la stessa quantità di elettricità di una tipica centrale nucleare. In Cina sono necessari 25 chilometri quadrati di parco solare per generare [solo di giorno e col bel tempo, N.D.T.] 850 MW di energia elettrica, la produzione di una normale centrale nucleare.

Quasi nessuno studio della lobby verde esamina la catena di produzione totale, dall’estrazione mineraria alla fusione, fino alla produzione di pannelli solari e gruppi eolici. Invece fanno affermazioni fraudolente sul presunto minor costo per KWh del solare o dell’eolico, prodotti però a costi pesantemente sovvenzionati. Nel 2021 il professor Simon P. Michaux del Geological Survey of Finland (GTK) aveva pubblicato un raro studio sui costi in termini di materie prime necessarie a produrre un’economia globale a zero emissioni di carbonio. I costi sono sconcertanti. Michaux sottolineava innanzitutto la realtà attuale della sfida Net Zero Carbon. Nel 2018 il sistema energetico globale dipendeva per l’85% da combustibili a base di carbonio, carbone, gas e petrolio. Un altro 10% proveniva dal nucleare, per un totale del 95% di energia convenzionale. Solo il 4% proveniva dalle energie rinnovabili, soprattutto solare ed eolica. I nostri politici parlano quindi di sostituire il 95% dell’attuale produzione energetica globale entro il 2050, e gran parte di questa entro il 2030. In termini di veicoli elettrici – auto, camion o autobus – sul totale del parco globale di circa 1,4 miliardi di veicoli, meno dell’1% attualmente è elettrico. Secondo le sue stime, “la capacità annuale aggiuntiva di energia elettrica da combustibili non fossili da aggiungere alla rete globale dovrà essere di circa 37.670,6 TWh. Se si ipotizza lo stesso mix energetico non fossile del 2018, ciò si traduce nella necessità di costruire altre 221.594 nuove centrali elettriche… Per contestualizzare questo dato, nel 2018 il numero totale di centrali per la produzione di energia elettrica (di tutti i tipi, comprese quelle a combustibili fossili) era di sole 46.423 stazioni. Questo numero elevato [221.594] riflette il più basso rapporto di rendimento energetico sull’energia investita (ERoEI) dell’energia rinnovabile rispetto a quella degli attuali combustibili fossili.” Michaux stimava inoltre che, se dovessimo passare ad un parco veicoli totalmente elettrico, “per produrre una sola batteria per ogni veicolo della flotta di trasporto globale (esclusi i camion HCV di Classe 8), sarebbe necessario il 48,2% delle riserve globali di nichel del 2018 e il 43,8% delle riserve globali di litio. Le riserve attuali di cobalto non sono sufficienti a soddisfare questa domanda… Ciascuna degli 1,39 miliardi di batterie agli ioni di litio potrebbe avere una vita utile di soli 8-10 anni. Quindi, 8-10 anni dopo la produzione, sarebbero necessarie nuove batterie sostitutive, provenienti da una fonte mineraria estrattiva o dal riciclo. È improbabile che questo sia pratico...” Questo per dirlo in modo molto blando. Michaux sottolineava anche l’impressionante domanda di rame, osservando che “solo per il rame sono necessari 4,5 miliardi di tonnellate (1.000 chilogrammi per tonnellata). Si tratta di circa sei volte la quantità totale che l’uomo ha finora estratto dalla Terra. Il rapporto roccia-metallo per il rame è superiore a 500, quindi sarebbe necessario scavare e raffinare più di 2,25 trilioni di tonnellate di roccia.” Inoltre, per funzionare, le attrezzature minerarie dovrebbero essere alimentate a gasolio. […]

Il problema principale degli impianti eolici e solari è che non sono affidabili, cosa essenziale per la nostra economia moderna, anche nei Paesi in via di sviluppo. I blackout imprevedibili che influiscono sulla stabilità della rete elettrica erano quasi inesistenti negli Stati Uniti e in Europa fino all’introduzione del solare e dell’eolico. Se insistiamo, come fanno gli ideologi delle zero emissioni di carbonio, sul fatto che non sarà consentito alcun impianto di backup a petrolio, gas o carbone per stabilizzare la rete nei periodi di scarsa energia solare, come di notte, nelle giornate nuvolose, in inverno o nei periodi in cui il vento non soffia alla velocità ottimale, l’unica opzione seria di cui bisogna discutere è la costruzione di batterie di accumulo, e in gran quantità. Le stime dei costi di questo tipo di stoccaggio variano. Van Snyder, matematico e ingegnere di sistemi in pensione, ha calcolato il costo di queste enormi batterie di backup per la rete elettrica degli Stati Uniti per garantire un’elettricità affidabile e costante al livello attuale: “Quanto costerebbero le batterie? Utilizzando il requisito più ottimistico di 400 wattora – cosa che un vero ingegnere non farebbe mai – e supponendo che l’installazione sia gratuita – altra cosa che un vero ingegnere non farebbe mai – si potrebbe consultare il catalogo Tesla e scoprire che il prezzo è di 0,543 dollari per wattora – prima dell’installazione – e il periodo di garanzia, approssimativamente pari alla durata di vita, è di dieci anni. Gli attivisti insistono sul fatto che un’economia energetica americana completamente elettrica avrebbe una domanda media di 1.700 gigawatt. In base alla formula 1.700.000.000.000 * 400 * 0,543 / 10, la risposta è 37.000 miliardi di dollari, ovvero circa il doppio del PIL totale degli USA 2020, ogni anno, e questo solo per le batterie.”

[…]È chiaro che i poteri dietro alla folle agenda Zero Carbon conoscono questa realtà. A loro però non importa, perché il vero obiettivo non ha nulla a che fare con l’ambiente. Si tratta di eugenetica e dello sfoltimento della mandria umana, come aveva pubblicamente fatto notare il defunto principe Filippo. Maurice Strong, fondatore del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, nel suo discorso di apertura al Vertice della Terra di Rio del 1992, aveva dichiarato: “L’unica speranza per il pianeta non è forse il collasso delle civiltà industrializzate? Non è forse nostra responsabilità far sì che ciò avvenga?” […] Strong, un protetto di David Rockefeller, è stato di gran lunga la figura più influente dietro a quella che oggi è l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. È stato co-presidente del Forum economico mondiale di Davos di Klaus Schwab. Nel 2015, alla morte di Strong, il fondatore di Davos Klaus Schwab aveva scritto: “È stato il mio mentore fin dalla creazione del Forum: un grande amico, un consigliere indispensabile e, per molti anni, un membro del nostro Consiglio di Fondazione.”

F. William Engdahl (tradotto da Markus) 

 
Gli stati assoluti confutano il marxismo PDF Stampa E-mail

14 Aprile 2023

 Da Appelloalpopolo del 12-4-2023 (N.d.d.)

Russia e Cina sono ordinamenti giuridici statali, che rappresentano una novità assoluta nella storia. Sono indubbiamente ordinamenti capitalistici, perché il rapporto di lavoro subordinato capitale-lavoro è la forma giuridico-economica prevalente. E tuttavia il potere politico non è nelle mani alla classe capitalista.

Il potere politico non è semplicemente autonomo dal potere economico e dotato di una relativa forza propria, che gli consenta di “venire a patti” con il partito della grande impresa (come accadde in molti Stati per 20 o 30 anni dopo la Seconda guerra mondiale) ma è sovraordinato al potere economico dei capitalisti, che, appunto, è un potere puramente economico. Ciò è vero sicuramente in Cina, dove il partito comunista ha escluso dagli organi di vertice del partito e dagli organi costituzionali finanche i boiardi di Stato, perché fanno una vita simile ai grandi imprenditori e introiettano e diffondono una mentalità analoga a quella dei grandi capitalisti e dei CEO delle imprese private, ma, dopo la guerra in Ucraina, come testimonia il discorso di Putin del 22 febbraio 2023, anche in Russia.

Gli Stati assoluti hanno più potere politico di quanto ne avessero i monarchi assoluti, perché più di questi ultimi sono di fatto e di diritto indipendenti dal potere economico della classe capitalista, anche e soprattutto in ragione dell’esistenza della moneta fiat. Gli emergenti Stati assoluti non sono una fase di transizione destinata a portare allo stato costituzionale “borghese”, che meglio avrebbe dovuto essere definito (fino al secondo dopoguerra) stato costituzionale “capitalista”, come furono le monarchie assolute. Sono, invece, o una recente reazione vincente a quest’ultimo (Russia), o una resistenza di più lunga durata e di grandissimo successo (Cina).

La radice storica dei due Stati assoluti è l’esperienza del comunismo reale, che mostra di aver lasciato tracce indelebili nella storia. Negli Stati assoluti il potere politico è nelle mani del “partito dello Stato” e la classe capitalista non possiede, se non in minima e insignificante parte, il potere di conformare l’opinione pubblica (indispensabile per contrastare e poi vincere l’egemonia del partito dello Stato), potere che in Russia è detenuto più dall’opposizione comunista che dalla quasi inesistente opposizione capitalista (gli oligarchi) e in Cina più dall’opposizione maoista che da CEO e grandi imprenditori.

Viene meno, con questi Stati assoluti, un caposaldo del marxismo, che vedeva nel potere politico degli ordinamenti capitalisti, un potere direttamente o indirettamente (tramite il “comitato d’affari”) esercitato dalla classe dei capitalisti.

Stefano D’Andrea

 
La mappa non è il territorio PDF Stampa E-mail

13 Aprile 2023

Capita, per strada, di chiedere informazioni sul posto a qualcuno. Gli mostri sulla mappa dove vorresti andare, lui l’afferra e inizia a farla girare, poi si ferma e guarda ancora il disegno e quindi, lasciandola perdere, indica cosa fare usando braccia e occhi e parole della sua lingua, per concludere con “non puoi sbagliare”. La spiegazione si rivela poi del tutto insufficiente e il non puoi sbagliare mostra qualche difetto di verità. Stranamente, la storia si ripete nella maggioranza delle occasioni simili e anche il suo culmine conclusivo e rassicurante tende a non realizzarsi mai. Tuttavia, è altrettanto certo che il nostro consulente d’occasione non era in malafede, tutt’altro. Voleva davvero darci una mano per raggiungere la nostra meta. Viene da chiedersi come mai accade con tanta maggiore frequenza rispetto alla quantità di ripetizione dell’esperienza, come mai a parti invertite il risultato tendenzialmente non cambia, e anche come mai la medesima infruttuosa comunicazione si realizza, sebbene in forma differente, nella maggioranza degli scambi relazionali.

Cerca, cerca, la risposta si trova. Ognuno di noi, in ogni affermazione – anche non verbale –, si riferisce a una mappa mentale, tanto arbitraria e autopoietica, quanto necessaria. In quella mappa si muove a suo agio, tutto gli è chiaro. In ogni interlocuzione interpersonale non ha difficoltà ad impiegarla. Ha però meraviglia quando qualcuno dimostra di non aver compreso quelle affermazioni. Una sorpresa che fa capo all’idea che una buona dialettica contenga comunicazione. E anche a quella che l’altro disponga del nostro medesimo universo. È il fideistico decanto dell’idolatria del razionalismo, prostrazione al feticcio di un’idea meccanicistica dell’uomo. E anche l’ottuso impiego di se stessi come unità di misura di tutto. Posizioni in cui vive forte e chiara la totale inconsapevolezza che siamo universi differenti, salvo che in minute circostanze ben delineate, con poche regole condivise – chiamiamole circostanze amministrative. Un’inconsapevolezza che ci impone di identificarci con il nostro giudizio, scambiandolo così come onesta descrizione della realtà, tanto da concepirla come oggettiva. Ma è un’identificazione che nasconde e impone una radicale separazione dall’altro. Che sancisce la propria mappa come valida per tutti. Che genera un mondo a base conflittuale, differente rispetto a quello che scaturirebbe dalla presa di coscienza che la realtà è nella relazione e che, quindi, non avvedersene ci tiene nella trappola della caverna di Platone. La verità non è mai per tutti quella che appare a noi. Se un russo chiedesse a un giornalista medio italiano di spiegare le ragioni del conflitto in corso, otterremmo risposte che nulla hanno a che vedere con la verità russa della guerra. Gli strumenti dell’odierno giornalista medio non sono adatti ad aprire la scatola della verità russa. In questo caso, siamo nel ti piace vincere facile. Ma ugualmente accade in ogni relazione. Basti ricordare la quantità di equivoci e relativi disappunti, se non colpevolizzazioni date e ricevute, per renderlo evidente.

Presa coscienza del fatto che non possiamo fare a meno d’impiegare le costellazioni della nostra mappa per dire dove si trova la via, abbiamo il necessario per riconoscere che, così tutti facendo, troviamo l’origine dell’equivoco e del suo inetto fratello non può sbagliare. È solo a quel punto che si inverte la rotta. Come prima si credeva di comunicare parlando, ora si sa che parlare non contiene comunicazione, se non nei suddetti campi chiusi, tecnici, amministrativi. Un cambio che comporta anche altro, tra cui la sostituzione dell’affermazione con l’ascolto. Sarà proprio quest’ultimo ad alzare il rischio di riconoscere l’universo del prossimo e, contemporaneamente, a far partire un’intelligenza nuova, quella utile per riconoscere la mappa altrui, per rispettare le sue affermazioni, per cercare in noi il tempo e il modo utile a creare un contatto.  È quanto si fa in certi ambiti didattici, la cui grafica non è più rappresentabile da una freccia che, scoccata dal docente, si dirige retta verso il discente, ma da una circolare, indispensabile all’emittente per rimodulare l’affermazione non intesa dal ricevente. Verrà allora il tempo in cui si cesserà di dare consigli, di credere nei pieni poteri della logica, di appellarsi all’idolatria del cosiddetto buon senso, come se fosse un cristallo puro identico in tutti gli universi che siamo. Un tempo in cui i proboviri e i delatori, allineati e coperti dietro i feticci materiali della conoscenza, perderanno il loro ordinario abuso di potere. Sarà il tempo in cui si capirà che dire “ovvio” è arrivare ultimi a comprendere che, fuori dai campetti di gioco dei saperi cognitivi, c’è il mondo e nessuna ovvietà. Restringere l’infinito entro scatolette della conoscenza analitica è uniformare gli universi ad una sola mappa. È l’inconsapevolezza che qualunque territorio di cui si voglia parlare prima deve essere ridotto a mappa, e che ciò verrà fatto secondo la propria capacità di disegnarla. Sarà il tempo buono per percepire che c’è altro oltre alla propria mappetta imbrattata di scientismo e buoni propositi. Fino a che diverrà chiara la mappa di quei ciarlatani che citavano l’amore, non la laurea.

Lorenzo Merlo

 
Capitalismo di stato PDF Stampa E-mail

12 Aprile 2023

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 Da Appelloalpopolo del 10-4-2023 (N.d.d.)

Capitalismo non è una realtà ma una ideologia, come testimonia il suffisso ismo. Esattamente come il liberalismo, il nazionalismo, il socialismo, l’europeismo, il federalismo, e così via. Capitalismo è un dover essere, che dice che “il capitale si deve continuamente rivalutare”. La variante liberale dell’Ottocento e dei primi del Novecento, la variante statalista degli anni trenta-cinquanta, la variante statalista, sviluppista e sociale degli anni Sessanta-Settanta, la variante cosiddetta neoliberale o ordoliberale che va dagli anni Ottanta del Novecento al primo ventennio del nuovo secolo – e che, per molti versi è (anche) antiliberale, perché è caratterizzata da molte norme di diritto privato e pubblico dell’economia, contrastanti con quelle che caratterizzarono il capitalismo liberale, sicché sarebbe stato meglio chiamarla “capitalismo della rendita” o “capitalismo assoluto” – e la variante futura alla quale condurrà il periodo di transizione iniziato a partire dalla crisi del 2008, sono appunto varianti di una stessa ideologia di fondo e i loro nomi designano forme (giuridiche) della rivalutazione del grande capitale. Le forme giuridiche esprimono limiti a tutela di interessi e valori, reputati degni di una certa protezione, nonché settori del capitale promossi e sacrificati.

Le varianti non si susseguono nel tempo in modo lineare, ma tornano. Sono cicliche. In Russia, anche a causa della guerra, è tornata la variante statalista, che emerge nitidamente dal discorso di Putin del 22 febbraio; in Cina essa è presente da alcune decine di anni, nella forma sviluppista, anche se non propriamente sociale. Le varianti stataliste implicano sempre alcune limitazioni del grande capitale, che quest’ultimo accetta per necessità: di evitare il pericolo rosso negli anni Trenta del Novecento, di riequilibrare la bilancia dei pagamenti, e di evitare a possessori e gestori del grande capitale di finire in galera nella Russia e nella Cina attuali. Esse implicano sempre un potere politico autonomo, che viene a patti o costringe ai patti il capitale o lo persuade. Le varianti stataliste-sviluppiste, eventualmente sociali, implicano un potere politico non soltanto autonomo ma più o meno sovraordinato, nella concezione comune, al grande capitale.

L’ideologia capitalista è una vera religione di massa totalitaria, perché non vi è assolutamente nessuno che la contesti, a parte pochi reduci di ideologie ottocentesche. Bisogna accettare il fatto – perché è un fatto – che nel migliore dei casi la politica è lotta per un capitalismo contro un altro. L’autonomia della politica dal grande capitale, la sua superiorità morale (per la generalità dei cittadini) rispetto al dominio del capitale, nonché la sovra-ordinazione giuridica della politica all’economia sono l’obiettivo minimo ma ambiziosissimo che deve unire le forze minoritarie italiane, nella fase storica disastrosa e disastrata che ci troviamo a vivere. Comunque, quali che siano i limiti al grande capitale che si desiderino, occorre passare per lo statalismo. Lo statalismo o capitalismo di Stato è ciò che onestamente possiamo augurarci di vedere realizzato. Poi la storia, come sempre, non si ferma e assicura avvincenti sorprese.

Stefano D’Andrea

 
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