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Cani rabbiosi PDF Stampa E-mail

22 Dicembre 2016

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Da Comedonchisciotte del 20-12-2016 (N.d.d.)

 

È stato vittima di un’esecuzione quasi in diretta l’ambasciatore russo in Turchia, Andrei Karlov, freddato con una raffica di colpi alla Galleria d’Arte Moderna d’Ankara: le grida dell’omicida, un poliziotto poco più che 20enne, inducono i media a parlare di terrorismo di matrice islamista, una vendetta per le vicende di Aleppo. Diversi elementi suggeriscono che la pista dell’estremismo religioso sia solo un paravento e che dietro l’assassinio si nascondano i servizi atlantici, ancora radicati in Turchia grazie alla rete dell’imam Fethullah Gülen. Difficilmente tra Russia e Turchia scenderà il gelo, perché così facendo il Cremlino farebbe il gioco dei mandanti: l’omicidio dell’ambasciatore Karlov è però una spia dell’attuale clima internazionale. L’establishment atlantico agisce sempre più come un cane rabbioso. […]

 

La matrice “islamista” dell’attentato è credibile? L’assassinio è il secondo, drammatico, atto di un’escalation tra Russia e Turchia dopo l’abbattimento del Su-24 russo nel novembre 2015? C’è da attendersi un repentino deterioramento delle relazioni russo-turche? La risposta a tutte le domande è: no. Seguendo il classico ragionamento deduttivo, partiremo dal generale per scendere al particolare, dimostrando come la clamorosa uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia non sia opera di un fanatico isolato, ma dei servizi atlantici, decisi a sabotare qualsiasi intesa tra Mosca ed Ankara in un momento cruciale del conflitto siriano. Partiremo quindi dall’analisi geopolitica per scendere ai dettagli dell’omicidio di Karlov: sarà un percorso agevole e lineare, che non lascerà alcun dubbio sulla matrice “NATO” dell’attentato. La Russia e la Turchia sono state, per quasi cinque anni, sul lato opposto della barricata nella guerra siriana: Mosca a sostegno di Bashar Assad, Ankara a fianco dell’insurrezione armata e poi dell’ISIS. La prima difendendo uno storico alleato regionale, la seconda allettata da sogni neo-ottomani, sapientemente alimentati dagli angloamericani che hanno sfruttato la Turchia per i loro piani di destabilizzazione del Medio Oriente. Dalla Turchia partono armi e terroristi, verso la Turchia viaggiano i camion cisterna carichi di petrolio da cui il Califfato trae il suo sostentamento. Mosca, nell’autunno 2015, scende direttamente in campo inviando una spedizione militare che nel volgere di poche settimane sposta gli equilibri del conflitto a favore di Damasco. Ankara, sobillata dagli angloamericani (che promettono probabilmente a Recep Erdogan di schierarsi a fianco dell’alleato NATO qualsiasi cosa capiti), reagisce abbattendo il Su-24 russo nei cieli siriani: i rapporti tra Ankara e Mosca precipitano ed il Cremlino adotta una serie di misure economiche in rappresaglia. L’appoggio angloamericano, però, non supera all’atto pratico qualche tiepido pronunciamento da parte del segretario della NATO, Jens Stoltenberg, e del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: Ankara è sostanzialmente lasciata sola dinnanzi ad una superpotenza nucleare, avvelenata per la pugnalata alle spalle. Non solo. Più i mesi passano e più Recep Erdogan intuisce quali siano i progetti più reconditi “dell’Occidente”: smembrare Siria ed Iraq, a vantaggio di un nascente Kurdistan nel cuore del Medio Oriente. La prospettiva è inquietante per Ankara, perché una simile entità finirebbe, presto o tardi, col cannibalizzare le regioni turche a maggioranza curda. Tradito ed isolato, il “sultano” Erdogan cambia radicalmente strategia: licenzia Ahmet Davutoglu, artefice della politica neo-ottomana ed anti-russa, e nomina un nuovo premier che, il 13 luglio, apre alla riconciliazione con la Siria e Bashar Assad. Come impedire la defezione di Ankara ed una ricomposizione tra Erdogan e Putin? Semplice: destabilizzando la Turchia. Scatta così il colpo di Stato del 15 luglio che, come analizzammo a suo tempo, non mirava tanto a defenestrare Erdogan per sostituirlo con una giunta militare quanto, piuttosto, a scatenare una guerra civile così da gettare il Paese nel caos, sul modello delle insurrezioni in Libia e Siria. C’è chi dice che durante le concitate ore del golpe Erdogan fosse nascosto in una base russa; chi dice che Mosca abbia giocato un ruolo di primo piano nello sventare il putsch: di certo sappiamo soltanto che Recep Erdogan, represso col pugno di ferro il colpo di Stato, vola il 9 agosto a San Pietroburgo per incontrarsi con Vladimir Putin, per la prima visita dopo la rottura diplomatica dell’anno precedente. In parallelo, i rapporti con gli USA precipitano: ministri e giornali vicino al governo accusano direttamente Washington di essere all’origine del putsch, mentre lo stesso Erdogan chiede con insistenza l’estradizione dell’imam Fethullah Gülen, suo vecchio padrino politico oggi residente in Pennsylvania e padrone di un impero mediatico-religioso benedetto dalla CIA.  Lo scenario per gli strateghi angloamericani volge al peggio: si è passati dall’auspicato guerra civile tra sciiti e sunniti a una riappacificazione tra Ankara e Teheran, benedetta da Mosca, in chiave anti-curda ed anti-occidentale. “Iran and Turkey agree to cooperate over Syria” scrive con rammarico la qatariota Al-jazeera nell’agosto 20162, presagendo il rischio di un’intesa tra i due Paesi a discapito dell’ISIS e dell’insurrezione islamista. Grazie al disimpegno di Ankara dal dossier siriano (non totale, perché urterebbe troppi interessi nazionali ed internazionali, ma comunque determinante), russi ed iraniani possono infatti stringere il cerchio intorno ad Aleppo, sino alla totale riconquista del 12 dicembre. Il colpo per Washington e le altre cancellerie occidentali che hanno investito un enorme capitale politico sulla caduta di Assad (Londra, Parigi e Tel Aviv) è durissimo: il “regime di Bashar” riporta una vittoria decisiva e Mosca, galvanizzata dal successo, si afferma come il nuovo dominus del Medio Oriente a discapito delle vecchie potenze occidentali. Gli equilibri regionali si decidono ormai al Cremlino che si assume l’onore e l’onore di conciliare gli interessi, spesso divergenti, dei diversi attori. A distanza di poco più di una settimana dalla liberazione di Aleppo, è in programma infatti a Mosca una trilaterale tra Russia, Iran e Turchia per discutere sul conflitto siriano alla luce degli ultimi sviluppi: “Russia, Iran and Turkey to hold Syria talks in Moscow on Tuesday” scrive la Reuters il 19 dicembre. Nelle stesse ore in cui esce l’agenzia, l’ambasciatore russo Andrei Karlov è ucciso ad Ankara, nella Galleria d’Arte Moderna, per mano del poliziotto Mevlut Mert Altintas.

 

Possiamo quindi dedurre senza difficoltà l’identità dei mandanti dell’attentato: ad armare la mano dell’assassino di Karlov sono gli stessi che dal 2011 in avanti hanno tentato di rovesciare Assad, gli stessi che hanno inoculato il germe dell’ISIS in Siria, gli stessi che hanno ordito il putsch militare in Turchia della scorsa estate, gli stessi che sognavano una zona d’interdizione di volo sopra la Siria, gli stessi che hanno interesse a sabotare un’intesa tra Turchia, Russia ed Iran. Sono Washington ed i suoi alleati. Il nostro ragionamento si sposta quindi sulla dinamica dell’omicidio: afferrata le realtà a scala generale, grazie all’analisi geopolitica, non ci resta che calarla nel particolare, evidenziando tutte le peculiarità dell’omicidio Karlov che rivelano l’inconfutabile “zampino” dei servizi segreti atlantici: il poliziotto Mevlut Mert Altintas non avrebbe mai potuto introdursi armato nella Galleria d’Arte moderna e posizionarsi alle spalle dell’ambasciatore, né quest’ultimo essere separato dai propri guardaspalle, se un’attenta regia non avesse pianificato nel minimo dettaglio l’operazione: qualcuno ha agito perché tutte le misure di sicurezza fossero aggirate; la presenza di una regia nell’omicidio di Karlov è testimoniata dalla sua esecuzione “a favore di telecamera” e dalla velocità con cui il video ha lasciato la Galleria d’Arte Moderna per invadere la rete ed i media: è stato quasi un omicidio in diretta, così da aumentarne esponenzialmente l’impatto. Il filmato, in altre circostanze, difficilmente avrebbe lasciato la scena del crimine, certamente non così in fretta. Il killer è stato attentamente istruito per agire dentro il campo della telecamera, così da confezionare un video sulla falsariga di quelli prodotti dall’ISIS o da Al Qaida: il poliziotto Mevlut Mert Altintas è nell’inquadratura delle camere prima, durante e dopo l’omicidio; l’attentatore non è un funzionario di polizia qualsiasi: membro delle unità anti-sommossa, ha fatto parte anche della scorta di Recep Erdogan. Per avvicinare il presidente turco ed essere assegnato al suo corpo di sicurezza personale, Mevlut Mert Altintas deve aver superato un accurato esame psicofisico e politico. Ciò corrobora la tesi del sindaco di Ankara, Melih Gokcek, secondo cui l’attentatore fosse un membro della rete dell’imam Fethullah Gülen, radicata sia nella magistratura che nelle forze dell’ordine. Ricordiamo che Gülen, mentore di Erdogan e suo alleato fino al 2015, ha orchestrato dall’esilio dorato in Pennsylvania il putsch militare della scorsa estate; la concomitanza dell’omicidio di Karlov con l’attentato di Berlino, una riedizione della strage di Nizza del luglio scorso, indica una comune regia ed un’attenta pianificazione: una serie di attacchi terroristici simultanei o separati da poco tempo, hanno un effetto stordente sull’opinione pubblica, che non ha il tempo per metabolizzare gli avvenimenti né la possibilità di porsi interrogativi su quanto stia realmente avvenendo. Lo si è già visto quest’estate in Francia: il 14 luglio muoiono un’ottantina di persone ed il 26 luglio, quando le domande senza risposta sulla strage abbondano ancora, l’attenzione è già dirottata sulla barbara uccisione del parroco di Rouen.

 

Quali conclusioni si possono quindi trarre dall’omicidio Karlov? Difficilmente Mosca ed Ankara romperanno i rapporti come lo scorso novembre dopo l’abbattimento del Su-24, perché così facendo agirebbero secondo i piani di chi ha orchestrato l’attentato. L’assassinio dell’ambasciatore è però una spia del clima internazionale che si respira. Il 2016 è stato un annus horribilis per l’establishment euro-atlantico: il referendum inglese di giugno ha decretato l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, le presidenziali americane hanno incoronato il populista e filo-putiniano Donald Trump, le forze centrifughe in seno all’eurozona hanno raggiunto livelli allarmanti, la Russia si è imposta come potenza di primo piano in Medio Oriente, la guerra siriana ha svoltato a favore di Bashar Assad. Cresce l’impotenza dell’oligarchia e  aumenta, di conseguenza, la sua ferocia: attentati, omicidi e stragi sono ormai tanto frequenti e clamorosi quanto approssimativi e spudorati. L’esecuzione in diretta dell’ambasciatore Andrei Karlov conferma la sensazione che, avvicinandosi la fine, il Potere si comporti sempre più come un cane rabbioso.

 

Federico Dezzani

 

 
Schemi ottusi PDF Stampa E-mail

21 Dicembre 2016

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Da Comedonchisciotte del 19-12-2016 (N.d.d.)

 

Durante la pausa pranzo chiamo un vecchio conoscente, per un panino e un caffè. Non siamo amici in senso stretto. La nostra corrispondenza d’animo si basa, piuttosto, sull’appartenenza alla vasta area del reducismo. Reducismo di sinistra, in tal caso. A differenza del sottoscritto, che ama troncare senza preavviso dopo aver a lungo sopportato, egli ha intrapreso una progressiva e sfiancante Via Crucis: dall’apostolato “senza se e ma” si è incamminato verso il Golgota del sinistrume più residuale e ridicolo. Rifondazione, Cossutta, movimentismo, SEL. Non comprendo ancora come un tizio intelligente e sarcastico come lui si sia fatto abbindolare dall’Orecchinato, ma è così. A volte anche i migliori si perdono; oppure (ipotesi più probabile) agisce nei cuori una vergogna, un pudore: è la nostalgia di ciò che fummo. Abbandonare il passato equivale ad abbandonare una larga parte di noi stessi e perciò vi rimaniamo attaccati con ogni scusa e forza, al di là di quella ragionevolezza imposta dalla cruda disamina dei fatti. […]

 

Invece del bar usuale insiste a portarmi presso un ipermercato che ha aperto i battenti lungo un’importante via romana. […] Percepisco solo frasi smozzicate mentre ci si fa largo tra gli inebetiti compulsivi […] Presso il bancone del pane e della pizza (sempre appena sfornata: pizza bianca romana, alta, che si può aprire nel mezzo e farcire a piacimento) c’è una mezza ressa. Studenti in libera uscita, tutti eguali o quasi (li distingue la qualità dell’accessorio: scarpe, smartphone, piumini), impiegati del terziario avanzato  (“mi mangio un bel pezzo di bianca …“: in realtà vogliono risparmiare), qualche impiegato meno giovane (si nota da come guarda la fila: con aria rassegnata), giovani madri vestite come zoccole, casalinghe, perdigiorno e disoccupati (si annusano subito), anziani dimessi e curvi (leggi: vecchi) oppure anziani più dignitosi, memori di una scarna eleganza oggi non più di moda, signore bene, col cane e senza, operai con la tuta, colf asiatiche col pupo della padrona, ariano e frignone, già stupido a due anni, un paio di professionisti (uno ha la borsa in pelle dell’avvocaticchio; l’altro è un maneggione inciuciato col Comune et similia: lo evinco dalla conversazione slabbrata in cui parla di soldi e di far conoscere qualcosa a un dirigente della Ripartizione et cetera). “Perché mi hai portato in questa bolgia di idioti?” già fremo. “Fenomenologia antropologica. Non eri tu che affermavi una relazione diretta tra welfare e bellezza femminile?“. “Certo, e lo riaffermo. Anche maschile, se è per questo. Nelle donne, tuttavia, spicca di più il salto generazionale. Basta guardare una foto delle nonne e delle loro nipoti. Ma già le mamme, rispetto alle nonne, avevano un aspetto più curato: le ossa cominciavano a raddrizzarsi, i peli a scomparire, le frasi a perdere la patina del dialetto … il linguaggio si uniformava a una dizione più pulita e meno espressiva. Vantaggi o svantaggi della scuola dell’obbligo … A sedici anni, oggi, sono quasi tutte carine, mediamente istruite. Difficile trovarne una veramente brutta“. “Te lo dico” mi fa lui “perché, in un certo senso mi hai convinto. In effetti le ragazze sono più belle … più curate, più gentili … almeno finché rimangono parcheggiate all’università. Poi quando attaccano a lavorare, a fare un lavoro come questo …” e indica la commessa del pane, che ruota frenetica il coltello a dividere pagnotte e filoni, e imbusta disperata panini, pane arabo, pane alle olive, pane di Lariano per non far aspettare la pressante clientela. […] In effetti sembra sciupata. Devitalizzata. “Vuoi dire che il junk food e i carboidrati stanno imbruttendo le italiane? O forse è il treno Treu-Fornero-Poletti il vero responsabile? La scoperta dell’acqua calda. Le nonne avevano le gambe storte e le nipoti prima o poi torneranno a incurvarle. Certo, è così. Prima o poi, di questo passo (di questo passo!), una pauperclass dovrà ingrossare sempre più. Meno protezione, meno welfare, lavori più schifosi. Non ti curi i denti, la sciatica, i capelli, mangi male, t’ingrassi … per questo i poveri sono brutti e sporchi. E se sei brutto, sporco e senza avvenire, diventi cattivo. Che vuoi dirmi? Che li vuoi reclutare alla causa rivoluzionaria? Questi saranno poveri di un nuovo conio. Se pensi che siano barricaderi stai fresco …” “No, la rivoluzione no, ma è su questi che bisogna puntare. Non hanno rappresentanza politica. Una rifondazione a sinistra parte da qui“. Rifondazione a sinistra? Arrivato alla mezza età non ho voglia di rifondare un bel niente. “Stammi a sentire” gli faccio “i poveri come li intendi tu erano sempre stati in basso. Questi vengono dall’alto, dai cellulari e dalle seghe dei videogiochi e delle chat. I poveri possedevano risorse e disprezzavano chi era in alto; conoscevano tecniche da poveri: rubare galline, a esempio. Spesso erano campagnoli e in campagna si trova sempre qualcosa da mettere sotto i denti. Questi, invece, sono agnellini diversi, teneri, malinconici e depressi. Hanno il motto di change.org sul desktop. Devo dirti che mi fanno pena? Potevano pensarci prima. A me l’unica cosa che fa pena è l’Italia, l’Italia svenduta. Questi sono prodotti del volgere della storia … o si svegliano o li mangiano … come gli Eloi di Wells, ti ricordi il racconto? … non ho voglia di fare il capopopolo o il Testimone di Geova degli imbecilli …” “Per essere un ex di sinistra sei proprio un bastardo all’ultimo stadio“, e dice sul serio, non per burla. “No, guarda, ero comunista, non di sinistra. La sinistra, se c’era, ha solo tradito il socialismo …” e, mentre parlo, lo trascino all’uscita. Qui non voglio comprare niente. […] Lo affronto così perché so, che, nel fondo dell’animo, egli rimane un sinistrorso, ovvero una parodia della sinistra che, a sua volta, è una parodia del socialismo. Una coazione a ripetere: a ripetere le consunte e logore parole d’ordine del Sessantotto, aggiornate, negli ultimi decenni, alla fatwa del PolCor: antirazzismo, femminicidio, antimachismo, viva i migranti … In sintesi: il cascame degenerativo dell’antica fedeltà al Partito Comunista. Si votava e si agiva perché lo diceva il Partito, senza fronzoli e individualismi; così come, per de Maistre, il cattolico era cattolico perché ubbidiva al Papa. Il PCI non c’è più, nemmeno il comunismo, non c’è più neanche la sinistra a veder bene, ma solo un vago sinistrismo PolCor … l’atteggiamento di devozione, però, agisce ancora. Tutto ciò che non rientra negli ottusi schemi del sinistrume sessantottino (che, infatti, non era comunista) è sentito come inaffidabile, folle, populista, fascista … Se ne sta zitto. “Parla, parla … che vuoi dire …?“. Tanto già so cosa vuol dire. E, infatti, lo dice. “Credo che quella ragazza lì, a quaranta ore la settimana e mille al mese … se ci arriva a mille … e tutti i suoi colleghi … che poi, non so se lo sai … sono gestiti in blocco da una cooperativa … sia quelli fissi che quelli stagionali … credo che lei e tutti gli altri siano la futura manovalanza di un regime assoluto … se degenerano le cose non ci pensano due volte, basta che trovano qualcuno che li mette in riga …” “Insomma, saranno la carne da cannone del fascismo futuro. E del nazismo, del peronismo?” “Certo è così, sono il serbatoio sociale di una eventuale svolta autoritaria a destra“. “La destra, come tu la chiami in pieno 2016, non esiste … se esistesse l’avreste creata voi, caro mio …” “Sì, bonanotte …” fa liquidatorio. “No, no, aspetta … esiste? Allora è la compagna Fedeli e il compagno Landini della CGIL ad averla creata, un compromesso dopo l’altro … Tiziano Treu … la compagna Fornero, moglie del compagno di Repubblica … come si chiama? E poi il compagno Padoa Schioppa … il tovarich col loden dove lo metti … aspetta … e non la destra hanno creato, attento! … col loro comportamento hanno solo permesso il formarsi di stati di coscienza a livello mondiale … il fascismo e il populismo non sono che temporanee concrezioni storiche che soddisfano questi nuovi revanscismi e queste suggestioni … Banca Etruria e Jobs Act e Steagall Act alla lunga votano Trump, Salvini, Grillo … sono atti difensivi, umani …” Si lascia cadere le braccia con una smorfia. Allora attacco, esagerando, il pistolotto. “Non voglio dire che abbiano ragione a votare e sostenere Trump, Salvini o Grillo … ma cerca di comprendere … destra e sinistra sono stati dell’animo, non definizioni politiche … si nasce gretti o altruisti … oppure col bernoccolo degli affari o con la voglia di fare il dipendente … ognuno poi si orienta come meglio crede … è l’intelligenza umana a creare i partiti, i filtri, i simboli, le sublimazioni … la destra, come la chiami, è sorgiva e istintuale, e torna inevitabile nei periodi di basso impero … la sinistra ha bisogno, per affermarsi, di una elaborazione concettuale tesa a soddisfare i bisogni primari: pane lavoro istruzione … in questo momento storico la sinistra istituzionale ha tradito, punto e basta. E il redneck dell’Arkansas, il fabbro della Carinzia e, forse, quella biondina al banco hanno paura e vogliono salvare la buccia sociale … e farvela pagare, in un certo senso … in modo bonario, per ora … quando manca il pane, o il futuro s’annerisce, è inutile offrire adozioni gay … voi avete creato le condizioni e il problema, anzi, a dirla tutta, siete voi, politicamente e fisicamente, il problema …” “Guarda che ormai mi sono ritirato …” “Troppo tardi. Col 3% avete dato al potere maggioranze bulgare … ” “Mi sono ritirato prima …” Continuo, per provocazione: “… e l’avete data a Prodi, Letta, Monti, Renzi … a tutti … ma non è questo il cuore del problema. Ascoltami: il fatto è che avete evocato il Golem, ovvero una situazione sociale insostenibile … e poi, col consueto disprezzo, chiamate fascismo l’unica risposta a Esso … settecentomila immigrati a Roma in vent’anni e voi lì col mito di Nelson Mandela, coi ristorantini etnici, l’internazionalismo straccione, i razzisti cattivi, le trecce rasta e le canne dei centri sociali … poi quando, nel 2016, un pensionato rifila un pugno a una zingara che gli sfila il portafoglio allora quello è un fascista, un carnefice … avete rotto i coglioni … la destra non esiste, non esiste più … è solo istinto di sopravvivenza, una pulsione indistruttibile dell’animo … dov’è il cattolicesimo pievano, il Sillabo, i colonnelli col tintinnar di sciabole, lo Strapaese reazionario? Forse, e dico forse, si riformeranno vaghi partiti di destra … ma, ricordati … voi ne siete i primi fondatori, mettitela in testa …” “Insomma, che devo fare, niente?” “Niente, che vuoi fare. Vai a predicare come i frati cercatori, avvelena qualche pozzo, bestemmia. Altro non puoi. Hai aperto google oggi? Sul cellulare, prima ancora di digitare, compaiono gli argomenti più cliccati: al terzo posto c’era l’autosospensione di Sala, al secondo l’arresto di Marra, al primo la scelta di Clarissa Marchese …” “E chi è?” “Vai a vedere … una ragazza di successo la Marchese … un’altra che ha successo si chiama Camilla Mangiapelo … è tutto fasullo … credimi, andrà come deve andare. Le ruote della storia hanno ripreso a girare e ci può salvare solo un’anarchia sanguinosa o un liberatore esterno, noi da soli non siamo capaci di far nulla … la destra? I colonnelli non fanno più i colpi di Stato … i colonnelli greci dove stanno? Con Tsipras al mare, probabilmente … quelli italiani, invece, si sono scavati una tana nel parmigiano a rodere il cacio rimasto … il cacio della mia IMU, per esempio … magistrati e giudici, invece, i colpi di Stato li fanno, ma solo a favore dei burocrati Euro e Nato … o dei tangentari locali con cui dividono gli stuzzichini il venerdì sera … non sono lì certo per liberare l’orizzonte del sol dell’avvenire … l’avvenire si è ristretto, ormai, al banco del pane … ma dove sarà mai questa destra terribile … e poi, ammettilo, manca il materiale umano … e l’odio, quello vero … quello che può essere disciplinato in falangi …. questi sono solo depressi, o saputelli …“.

 

Mentre una BMW targata “RO” sfreccia a pochi centimetri dai nostri alluci, aggiungo conciliante: “Dai … ti offro il pranzo e un caffettino … è un po’ dura mangiare con un rossobruno, ma fai lo sforzo …“. Mentre sbocconcella un panino mi fa un’intemerata al contrario. Più lo ascolto e più mi faccio la convinzione che il sistema può solo collassare su sé stesso. Inutile aspettarsi qualcosa. Siamo degli inetti. Poco male, anche oggi una buona azione l’ho comunque fatta. Ho tentato di avvelenare un animo. Che altro posso fare? … non mi rimane che questo dysangelium contro il potere … Sbaglio? Ditemelo voi. Ogni tanto vado a rileggermi le ultime righe de L’agente segreto di Joseph Conrad: “L’incorruttibile Professore camminava, evitando di guardare le odiose masse del genere umano. Il futuro non esisteva per lui. Disprezzava il futuro. Egli era una forza. Accarezzava, nella sua mente, immagini di rovina e distruzione, mentre avanzava fragile, insignificante, misero e meschino – terribile nella semplicità d’un idea: la follia e la disperazione chiamate a rigenerare il mondo. Nessuno si curava di lui. Egli passava, insospettato e micidiale come la peste, nella strada piena d’esseri umani“.

 

Alceste

 

 
La globalizzazione è incompatibile con la democrazia PDF Stampa E-mail

20 Dicembre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 18-12-2016 (N.d.d.)

 

Democrazia, sovranità e globalizzazione economica sono reciprocamente incompatibili. Lo sapevamo in molti, e da tempo. Adesso ci arrivano, con il consueto ritardo, anche alcuni economisti di primo piano. Uno di loro è il turco, ebreo sefardita con cattedra ad Harvard, Dani Rodrik. Il professorone passa per un rivoluzionario, nel mondo accademico dell’economia e della finanza, per avere enunciato un principio, anzi un trilemma dell’impossibilità che il senso comune aveva elaborato da tempo. Non si possono avere tutti insieme, teorizza Rodrik, tre “benefici”: l’integrazione economica globale, un sistema politico in cui il popolo conti e decida e la sovranità nazionale. Forme diverse di combinazione possono funzionare per due dei tre elementi del trilemma, ma tertium non datur.

 

La prima reazione, dinanzi alle idee di Rodrik, è di fastidio. Come tutta la corporazione degli economisti, sta bene attento a non uscire dal filone vincente, mainstream; per lui, la globalizzazione economica è comunque un bene ed ha portato grandi vantaggi a tutto il mondo. Ci permettiamo di dissentire, in ottima e numerosa, pur se non accademicamente corretta compagnia. Ma veniamo alla polpa, a quello che nel discorso di Dani Rodrik è invece coraggioso ed interessante. Innanzitutto, l’onesta ammissione di essersi sbagliato, caso raro tra i membri della sua professione. Come gli scienziati della natura, fisici, biologi, chimici, che nel loro campo, peraltro, conseguono risultati tangibili, gli economisti sono usi a discutere da pari a pari con Dio, anzi ad istruire il Padreterno con i loro istogrammi fallimentari, i modelli matematici e le teorizzazioni nel chiuso di una stanza. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, a meno di non far parte dell’1 per cento dei super ricchi e del 10 per cento dei privilegiati loro maggiordomi nei vari settori. Rodrik, al contrario, afferma di avere sottovalutato l’Unione Europea, che, riconosce, è fallita proprio nel tentativo di combinare l’iper globalizzazione (il mercato unico continentale) con un ordinamento democratico, dunque fondato sul potere dei popoli. Ricade anch’egli, peraltro, nella sindrome di onnipotenza, asserendo che l’UE intendeva creare “un demos ed un ordinamento politico”. Premesso che il demos, il popolo, non si crea, semmai lo si può distruggere, e che non esiste un popolo europeo, ma una civiltà plurale del nostro piccolo continente, l’ordinamento europoide si è dimostrato dittatoriale, nemico della volontà popolare non meno che della partecipazione. La sovranità, ce l’ha sottratta senza chiedere permesso alcuno e – motivo della sua crescente impopolarità – senza offrire in cambio né maggiore ricchezza, né, tanto meno, sicurezza. Quanto ad un progetto alto e generale per cui lavorare ed eventualmente sacrificarsi, morire per Maastricht – titolo autentico di un libro di Enricostaisereno Letta – non è l’aspirazione di nessuno. È, piuttosto, incubo quotidiano per milioni di persone. Creare un popolo, poi, non è davvero cosa per economisti, specialisti di quella scienza triste, come la chiamò Thomas Carlyle, cui è arduo attribuire lo statuto stesso di scienza, a meno di non prendere per oro colato l’ipotesi di Popper – un liberale a ventiquattro carati – sul criterio di falsificabilità. La sincera ammissione di uno del gruppo- Rodrik è un cattedratico di quelli che contano- sul fatto che volessero/vogliano creare un popolo europeo e sottometterlo ad un unico ordinamento è di quelle che pesano, ma dimostra anche l’indifferenza, se non l’ostilità manifesta di questi signori a due punti del trilemma. Non hanno alcuna simpatia per la democrazia, intesa come partecipazione del popolo al proprio destino (Moeller Van den Bruck) né tanto meno per la sovranità dei popoli e delle nazioni. Diciamola tutta: odiano i popoli e lavorano per abolirli, ecco perché il trilemma è in realtà un semplice dilemma: o globalizzazione, o sovranità, qualunque sia l’ordinamento politico concreto con cui ogni popolo esercita il proprio diritto su sé stesso. Del resto, agli economisti, e soprattutto ai loro mandanti e padroni, un elemento costitutivo della sovranità giuridica proprio non va giù, ed è il territorio. Abbattono le frontiere, con l’aiuto determinante della tecnica e della tecnologia informatica, non possono che lavorare per fiaccare i popoli e l’istintivo desiderio di ciascuno di comandare nella propria casa e godere dei frutti del lavoro svolto. Nella costruzione teorica di Rodrik si ravvisa un’autocritica che non va oltre un tremulo riformismo. Come una volta la Chiesa faceva due passi avanti ed uno indietro, per prudenza e per assorbire le spinte e controspinte del tempo, il professore di Harvard e Princeton rimprovera alla globalizzazione non di esistere o di fare il male che fa, ma di essere semplicemente troppo veloce. Anche per lui gli Stati nazione sono un problema, forse devono scomparire, ma con calma, senza fretta, sciogliersi lentamente in una sorta di non meglio definito federalismo globale. Essi infatti, insiste, generano rischio sovrano, ed il malfunzionamento del sistema finanziario globale è legato proprio ai “costi di transazione”, così li definisce, indotti dai diversi ordinamenti e dalla fastidiosa sovranità pretesa da nazioni, governi e popolazioni. Insomma, una critica onesta e sicuramente animata da buone intenzioni, ma profondamente interna al sistema.

 

Tocca accontentarsi, però, se il quotidiano di Confindustria e Bibbia liberista dello Stivale, Il Sole-24 Ore, ha attaccato i libri di Rodrik, in particolare “La globalizzazione intelligente”, chiedendosi con il sarcasmo e la superiorità insolente di chi tutto sa e conosce gli arcana imperii, se la ricetta da lui prescritta dopo la diagnosi del trilemma sia il semplice ritorno agli Stati nazionali. Rodrik, invero, si limita a constatare che sussiste il diritto per gli Stati di proteggere i loro sistemi sociali (noi aggiungiamo anche tutti gli altri fattori della comunità nazionale), ma tanto basta ai più allineati – embedded, incorporati, integrati, è il termine inglese inventato per definirli – per scandalizzarsi ed affidare una piccata replica ad una gentile economista ultraliberista come Rosa Maria Lastra. L’illustre cattedratica è docente a Londra, associata al comitato scientifico della London School of Economics (wow!), consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e della Federal Reserve americana. Insomma, una il cui curriculum vitae fa scorrere brividi di terrore lungo la schiena. Questo è il virgolettato attribuito alla nuova lady di ferro del liberismo duro e puro: “La dicotomia tra mercati internazionali e leggi nazionali può essere meglio affrontata proprio attraverso l’internazionalizzazione delle regole e delle istituzioni che governano i mercati mondiali. La risposta è quella di più leggi internazionali e meno nazionali. Il Fondo Monetario Internazionale, istituzione al centro del sistema monetario e finanziario internazionale (e che paga assai profumatamente la dolce signora, N.d R.) è nella migliore posizione per diventare uno sceriffo globale della stabilità”. Sceriffo globale della stabilità, dice proprio così, e dobbiamo ringraziare la studiosa – Lastra è un cognome che evoca il cimitero – per la sincerità. Si scrive globalizzazione, si legge Nuovo Ordine Mondiale, governo mondiale, più Trattati Transatlantici (TTIP), più delocalizzazioni produttive, meno diritti sociali, una lastra di marmo cala sui popoli e sulle persone che vivono e vestono panni. Altro che democrazia o trilemmi impossibili. Invero, già negli anni Sessanta del Novecento, due economisti che lavoravano separatamente, Robert Mundell e Marcus Fleming, elaborarono un primo trilemma, chiamato trinità impossibile o trio inconciliabile, rispetto alla possibilità della costruzione di un sistema finanziario “stabile”, magica parola che sembra possedere effetti erotici se a pronunciarla sono economisti o finanzieri embedded. I due dimostrarono che, dati tre obiettivi, un tasso fisso di cambio, l’indipendenza nazionale in materia monetaria e la mobilità dei capitali, un’autonoma economia aperta non può conseguire che due soli traguardi, rinunciando al terzo. Vivevamo, all’epoca, nel pieno del sistema di cambi (semi)fissi di Bretton Woods, vigeva il gold standard, ovvero la teorica convertibilità in oro del dollaro dominante, e le banche centrali di molti Stati tra cui il nostro erano ancora controllate dal potere pubblico. I padroni globali, quelli che perseguono con tenacia il governo mondiale, hanno fatto tesoro della lezione dei due studiosi di mezzo secolo fa. Il sistema è ora completamente saltato, la politica monetaria è saldamente e per legge in mano ai banchieri privati, quella economica è di pertinenza dei mercati dominati da poche decine di grandi attori globali e fondi giganteschi come Vanguard, Black Rock, il fondo sovrano del Qatar. Le leggi degli Stati valgono pochissimo e vengono continuamente bypassate dal sistema finanziario degli investimenti, che, dicono, vota tutti i giorni. Il grande padrone, il leviatano universale è il falso principio del debito “sovrano” degli Stati. Ecco che cosa è rimasto di sovrano, a tutti noi, il debito! Karl Polanyi, nel fondamentale trattato La Grande Trasformazione, scrisse in piena Seconda Guerra Mondiale, era il 1944, che nessun sistema poteva reggersi sull’idea esclusiva di un mercato autoregolato. La prima globalizzazione, quella degli anni successivi al primo conflitto, la guerra civile europea che innescò il secolo americano, aveva stravolto in profondità le vite di milioni di persone, e la ricchezza enorme creata per pochi scatenò drammi terribili, degrado umano, miseria diffusa, fine della coesione sociale. Per la prima volta nella storia, il mercato era diventato il fondamento dei rapporti economico sociali. Esito, la moltiplicazione di quella società degli abissi, l’universo di dannati che all’inizio del Novecento indagò personalmente uno scrittore come Jack London, anticipando le ricerche sul campo che fecero poi la fortuna dei fondatori di una nuova scienza, l’antropologia culturale. Lo sbocco finale fu una guerra tremenda, la seconda, le cui ferite ed i cui esiti ancora gravano sulle spalle di miliardi di esseri umani. Durante il primo conflitto mondiale, Georges Clémenceau, primo ministro francese, pronunciò una celebre frase, diventata aforisma: La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari. Aveva ragione, ma al termine di quella che Benedetto XV chiamò nel 1917 (l’anno di Caporetto) inutile strage, fu tra i protagonisti di quel folle trattato di Versailles che, umiliando la Germania, gettò le basi per il secondo, successivo conflitto. La vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati, nondimeno, è bene troppo prezioso per consentire che sia in mano a soggetti fittizi come i mercati, dietro i quali non si nasconde neanche più la peggiore genìa dell’umanità: i banchieri e gli usurai globali, quelli che promuovono guerre, alimentano conflitti, diffondono odio e povertà per i loro fini, che sono ormai chiari e riguardano il dominio globale sulle nostre vite e sul creato.

 

Ringraziamo Rodrik e i sempre meno rari uomini del sistema che mettono in guardia dalle degenerazioni della globalizzazione economica e finanziaria, c’è bisogno anche di loro, ma non sussiste alcun trilemma. Con la globalizzazione, crolla qualunque forma di democrazia, diretta, rappresentativa, partecipativa, nazionale, popolare e qualunque altro aggettivo possiamo inventare, e muore ogni sovranità dei popoli, delle nazioni e degli Stati. La posta in gioco è quella. O a favore, o contro la globalizzazione. A parte il gatto di Schroedinger, vivo e morto nello stesso momento, non vi è una terza possibilità tra la vita e la morte. I popoli hanno riflessi di vita. Non possiamo affidare noi stessi, vita e natura, al tornaconto di una oligarchia profondamente antiumana, l’“inimica vis”, una forza brutale e nemica, come scrisse della massoneria Papa Leone XIII già nel 1892, l’anno dopo la Rerum Novarum, la grande enciclica che definì la dottrina sociale cattolica. I nemici si trattano da nemici, e si combattono. Del resto, l’impossibile trinità della globalizzazione è così evidentemente contro tutti e contro ciascuno che il vero sbigottimento è dover gridare nel deserto, o quasi, per avvertire del pericolo. Ma questo è il tempo previsto da Gilbert Keith Chesterton in cui fuochi devono essere attizzati per dimostrare che due e due fanno quattro, e spade devono essere sguainate per dimostrare che l’erba è verde in estate.

 

Roberto Pecchioli

 

 
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19 Dicembre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 18-12-2016 (N.d.d.)

 

Il racconto malato e falso di quanto succede ad Aleppo ed in Siria ha superato di gran lunga la messa in scena dell'aggressione alla Jugoslavia. I "bambini di Aleppo" fra i quali ovviamente non si includono le bambine usate come bombe umane dai "ribelli moderati", che sono poi i jihadisti di Al Qaeda e terroristi assimilati (ex spauracchi dell'occidente fino a pochi anni fa), il "corridoio umanitario per la popolazione", che è poi una via di fuga per i terroristi sconfitti verso una zona in mano all'ISIS, la "città martoriata", ora che è in mano alle forze governative, mentre prima che era in mano ai terroristi era un parco dei divertimenti, le "atroci sofferenze" della popolazione, che festeggia per le strade la fine dell'incubo jihadista, le "ultime lettere da Aleppo" mandate da bloggers pagati dall'Arabia Saudita, gli "ultimi medici" nelle decine di "ospedali per bambini" dei quali ora non vi è traccia, i "clown umanitari" inventati, la "popolazione deportata dai russi", che in realtà fugge dalla morsa dei terroristi per andare nella zona libera dove trova cibo e cure, le "foto" taroccate malamente. Secondo Obama e la Clinton, gli occidentali, l'Arabia Saudita e gli altri campioni della libertà democratica, inclusi i pacifinti, Assad doveva essere la prossima vittima sacrificale e far la fine di Gheddafi. Con lo scatenìo delle ONG "neutrali" con l'occhio attento da una parte, ma cieche di fronte alle atrocità dei "buoni" e dei "meno peggio". Ma stavolta, contrariamente alla Jugoslavia e alla Libia, la Russia vi ha rovinato la festa: nonostante lo stamburamento mediatico, cari demoguerrafondai, state facendo una pessima figura. I vostri protegé sono degli impresentabili fondamentalisti, terroristi e tagliagole, abbastanza incapaci nonostante siano frammischiati ai vostri mercenari.

 

Dov'è l'opposizione LAICA e DEMOCRATICA ad Assad? Tiratela fuori, orsù. Sarebbero quelli di Al Qaeda? Che avete foraggiato per anni con denaro e armi? No, cari: dopo il primo anni di guerra, dopo che ha visto come vi buttavate come avvoltoi su questa guerra, l'opposizione laica ad Assad è tutta CON Assad: ad esempio, il Partito Comunista Siriano. Non vi smuovete neppure quando Robert Fisk dell'Indipendent, quello che scoprì Sabra e Chatila, vi dice la verità: sarà anche lui dalla parte degli antidemocratici non-tagliagole e non-jihadisti, vero? Forse però - stavolta - perderete. E non potrete scrivere questa storia come piacerà a voi. La storia la scrivono i vincitori: pare che, stavolta, non sarete voi. Ma a perdere è stata solo la Siria e il popolo siriano: cinque anni di guerra per rovesciare il vostro nuovo "nemico", centinaia di migliaia di morti ed una nazione un tempo decentemente prospera e tranquilla, ora distrutta. Chi pagherà per tutto questo? Pare che Trump non abbia nessuna simpatia per le avventure estere, isolazionista come molti presidenti repubblicani, e stia cercando una via d'uscita con la Russia. Se così sarà, la vedo male per i campioni della moderazione jihadista: attenzione che, sentendosi traditi, quelli di Al Qaeda non vengano a trovarvi a casa. Tanto sono i vostri protegé, no? Auguri.

 

Massimo Zucchetti

 

 
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18 Dicembre 2016

 

Da Rassegna di Arianna del 17-12-2016 (N.d.d.)

 

Scoppia un incendio. Per fortuna arrivano i pompieri. Che però si mettono a versare sempre più acqua in una piscina piena, mentre la casa a fianco sta bruciando. A giugno 2016 la BCE lancia l'ennesimo piano per provare a rilanciare l'economia del vecchio continente. Visto che anni passati a "stampare soldi" tramite il quantitative easing non hanno dato i risultati sperati, ecco il passo ulteriore: con questi soldi acquistare non solo titoli di Stato, ma anche obbligazioni di imprese private. Corporate Europe Observatory - CEO, l'organizzazione che da anni studia e denuncia il peso delle lobby nelle decisioni europee, è andata a vedere quali siano le imprese e i settori che hanno beneficiato di tali acquisti. La ricerca appena pubblicata (www.corporateeurope.org) non lascia spazio a dubbi: "il risultato è inquietante, a meno che non pensiate che petrolio, auto di lusso, champagne e gioco d'azzardo siano il posto migliore in cui mettere soldi pubblici". In ultima analisi l'intervento della BCE è un sostegno ad alcune delle più grandi multinazionali. Le obbligazioni sono una forma di finanziamento, il cui costo segue la legge della domanda e dell'offerta: se sono in molti a volere i titoli di una determinata impresa, questa potrà offrire tassi di interesse minori. Se al contrario nessuno o quasi le vuole comprare, gli interessi che dovrà garantire l'impresa per finanziarsi salgono. Se la BCE interviene acquistando determinate obbligazioni, il soggetto corrispondente si trova quindi avvantaggiato rispetto ai concorrenti. Non parliamo di spiccioli. La BCE avrebbe investito 46 miliardi di euro a fine novembre 2016 e prevedrebbe di arrivare a 125 miliardi per settembre 2017. Dalla Shell alla Repsol, dalla Volkswagen alla BMW, troviamo alcune delle più grandi imprese dei combustibili fossili e dell'automobile. Anche dimenticandoci dello scandalo che solo pochi mesi fa ha investito la Volkswagen, nel momento in cui l'Europa sbandiera la sua politica "verde" e i suoi obiettivi contro i cambiamenti climatici, siamo certi che sostenere tali settori con decine di miliardi sia la strategia migliore per rispettare gli impegni presi? E poi multinazionali del calibro di Nestlè, Coca Cola, Unilever, Novartis, Vivendi, Veolia, Danone, Renault e chi più ne ha più ne metta.

 

E l'Italia? Eni, Enel, Terna, Hera, Snam, ACEA, Assicurazioni Generali, Exor (la società di casa Agnelli che controlla Fiat e Ferrari), A2A, Telecom Italia, Autostrade per l'Italia e poche altre. Non sembra esattamente l'elenco delle imprese che hanno le maggiori difficoltà ad avere accesso al credito. All'esatto opposto, sono con ogni probabilità quelle che indipendentemente dal sostegno della BCE (che nella scelta dei titoli si appoggia alle banche centrali nazionali, quindi anche a Banca d'Italia) possono già finanziarsi alle migliori condizioni. Per l'ennesima volta regole e procedure europee cucite su misura per i gruppi industriali e finanziari di maggiore dimensione, a scapito di piccole imprese e settori più innovativi. In Italia la stretta sull'erogazione di credito - o credit crunch - per anni ha colpito pesantemente piccole imprese, famiglie, artigiani. Così come il quantitative easing ha gonfiato i mercati finanziari senza rilanciare l'economia, così il nuovo piano della BCE sembra inefficace se non controproducente. Che si guardi alla finanza pubblica o a quella privata, ciò a cui assistiamo è un gigantesco eccesso di soldi per i più forti, mentre mancano risorse per un vero rilancio di economia e occupazione e per enormi bisogni che non trovano un finanziamento. La casa europea sta bruciando, ma i pompieri gettano acqua in una piscina piena mentre lasciano divampare l'incendio. Se come ripetono i libri di testo il compito principale della finanza, anzi il suo stesso motivo di esistere, è "l'allocazione ottimale" delle risorse nell'economia reale, stiamo quindi parlando del più macroscopico fallimento dell'era moderna. Non solo provoca crisi a ripetizione, aumenta le diseguaglianze, pretende di piegare l'intera società ai propri diktat, ma al culmine del paradosso questo sistema finanziario semplicemente non funziona e non fa l'unica cosa che dovrebbe fare. Alla faccia dei "mercati efficienti", vero pilastro su cui poggiano le teorie economiche che hanno dominato gli ultimi decenni e dominano ancora le istituzioni europee. Cosa sarebbe accaduto con politiche monetarie ed economiche differenti? Cosa sarebbe accaduto se le centinaia di miliardi della BCE che oggi gonfiano i mercati finanziari e sussidiano le multinazionali, fossero invece stati destinati a un piano di investimenti pubblici, alla ricerca, l'occupazione, la riconversione ecologica dell'economia? Tecnicamente non ci sarebbero problemi a farlo: invece di acquistare obbligazioni della Coca Cola o della Shell, la BCE compra titoli della Banca Europea per gli Investimenti - BEI, una banca pubblica alla quale le istituzioni europee potrebbero dare un mandato chiaro per impiegare le risorse per gli obiettivi che la stessa Europa si è data in materia di inclusione sociale, lotta alle diseguaglianze e ai cambiamenti climatici. Farlo o non farlo non è quindi questione di trattati europei - ammesso che per qualche misterioso motivo non sia possibile cambiarli - è questione di volontà politica. Una volontà totalmente assente in un'Europa che a dispetto dei disastri attuali rimane schiacciata su una visione liberista e su politiche monetarie ed economiche fallimentari. Non ci si può allora stupire della crescita delle destre xenofobe e populiste e del concreto rischio che l'incendio porti a una disgregazione della stessa UE. L'unica cosa che stupisce è una testardaggine che rasenta il fanatismo nel vedere che a dispetto di tali disastri, le scelte di fondo non vengono in nessun modo rimesse in discussione.

 

Andrea Baranes

 

 
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17 Dicembre 2016

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Qualche giorno fa il nostro giornale ha pubblicato un "appello impertinente" di Roberto Locatelli rivolto a papa Francesco in cui, provocatoriamente, invitava il Pontefice a scuotere le coscienze dei cristiani ormai secolarizzati e ad abolire, come estrema provocazione, le feste natalizie, divenute sempre più un rito consumista di massa e del tutto svuotate della trascendenza e della Sacralità. Non vi sono dubbi che sia davvero un appello molto impertinente, una provocazione audace quanto intelligente (le vere provocazioni devono essere intelligenti) così come non dubitiamo che Locatelli, autodefinitosi un cristiano fedele alla tradizione e al messaggio evangelico, non abbia scritto tali parole senza provare rabbia ed amarezza.

 

Ebbene, rabbia ed amarezza non sono prerogativa dei (pochi ma buoni) cristiani ancora fedeli alla tradizione e al Vangelo in questa fase declinante della postmodernità, ma appartengono pure a chi -agnostico, religiosamente confuso, religiosamente tiepido, miscredente, deista, giratela come volete-seppur non credente è pienamente consapevole di vivere in un mondo, in una civiltà forgiata negli ultimi venti secoli dal Cristianesimo. In assenza di Cristianesimo l'Europa, così come la abbiamo conosciuta ed amata, non sarebbe mai esistita e sappiamo bene che noi, per Europa, non intendiamo la formula amorfa e mostruosa che alberga in quel di Bruxelles. Elencare i meriti in ogni ramo dell'umano scibile del Cristianesimo dall' arte, al pensiero, alla scienza, alla musica, alla filosofia, sarebbe impresa troppo lunga per un articolo, accontentiamoci di riassumere dicendo che il Cristianesimo è una delle tre colonne della civiltà attuale e una, forse, delle più pericolanti e corrose. Anche noi dunque proviamo la stessa rabbia e sgomento d' un Locatelli a vedere lo sfacelo attuale, che nel mese natalizio dà sempre il peggio del peggio, in una miserabile giostra di luna park impazzita, in una centrifuga a base di consumismo folle, cene pantagrueliche, abbuffate di regali inutili e ipocriti e melensi buoni sentimenti a detrimento della spiritualità, del Sacro, del Trascendente insito nell' intimo di ogni uomo e oggi soffocato. Non crediamo però che l'abolizione tout court delle festività, posto che fosse possibile dall' oggi al domani, sarebbe una provocazione così forte da smuovere alcunché: come si fa ad abolire qualcosa che nell' animo già da tempo è abolito in sé? Sarebbe come la cancellazione di una cancellazione, il mondo troppo frenetico non se ne accorgerebbe neppure: qualcuno, anzi, troverebbe modo di guadagnarci ribattezzandola la " mensilità del commercio", non vi sono d' altronde i venerdì neri e i cyber-lunedì?

 

E allora, che fare? Appurato che papa Bergoglio è un semplice curatore fallimentare del Vaticano s.p.a. per conto dei poteri forti, quindi impossibile invocare da lui un gesto, una parola, un segnale, la vera forza di reazione deve partire da quei pochi cristiani e da quei pochi "non cristiani ma consapevoli del valore del Cristianesimo": è nostro dovere festeggiarlo, il Natale, e come! Considerato che oggi l'unica ribellione disponibile è quella individuale in assenza di alternative (per ora), la massima deve essere ripresa da un passo biblico: "Se tu andrai a destra, io andrò a sinistra; se tu andrai a sinistra, io andrò a destra". Perseverare a fare il presepe, a partecipare alla messa di mezzanotte, ad ostentare -ripetiamo: ad ostentare-il nostro essere contro corrente senza aver paura d' essere contro corrente: a quanto ci risulta, ancora non hanno abolito la libertà di pensiero in Occidente (l’hanno solo castrata, col politicamente corretto). A studiare la nostra Storia, le nostre tradizioni, a visitare le nostre chiese così numerose, onuste d' arte e di ricordi collettivi della comunità; e visitarle non basta: si deve conoscere e farle conoscere a più gente possibile. Certo, i risultati saranno modesti, mortificanti, a volte avvilenti. Ma state sicuri che fra tanti dinieghi, tanti rifiuti, vi saranno sempre menti adatte alla ricezione delle idee. Come uno della miriade di spermatozoi serve a fecondare l'ovulo, così senz' altro qualcuno raccoglierà il testimone e lo tramanderà ad altri. Il senso della vita non sta forse nel "gioco delle generazioni", in un sempiterno passaggio di consegne, in un perpetuo cambio della guardia? In uno spirito quasi mazziniano, noi "ribelli" -ribelli cristiani compresi-non agiamo per il presente bensì per la posterità.

 

Sursum corda! E salviamo il salvabile, mettiamolo in naftalina per recuperarlo quando i tempi saranno maturi.

 

Simone Torresani

 

 
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