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Un plebiscito PDF Stampa E-mail

6 Dicembre 2016

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Dopo una snervante e martellante campagna durata parecchi mesi, finalmente il fatidico 4 dicembre, data del Referendum sull' accettazione o meno delle modifiche alla Costituzione, è arrivato e passato. Hanno vinto con una schiacciante maggioranza i "No", in ben 17 regioni su 20 (solo Trentino, Emilia-Romagna e Toscana, le ultime due regioni "di sinistra" e serbatoi elettorali storici del PD per eccellenza hanno votato a favore della riforma Renzi-Boschi) e nonostante i "Sì" abbiano prevalso tra i nostri connazionali residenti all' estero, non sono riusciti minimamente a spostare l' ago della bilancia: la conta finale,  impietosa, non solo ha visto una affluenza massiccia alle urne dopo anni in cui l' astensionismo stava iniziando a farla da padrone ma la "forchetta", cioè la differenza tra le percentuali dei due schieramenti è stata di ben 18 punti a vantaggio dei vincitori. Praticamente quello che una volta si sarebbe chiamato un plebiscito. Riguardo le dimissioni di Renzi, dovute in quanto aveva trasformato la contesa in un referendum personalizzato pro o contro la sua persona, è ancora presto per stabilire se saranno irrevocabili oppure se il Capo dello Stato dopo un giro di consultazioni deciderà per un "Renzi-bis" o per le elezioni anticipate oppure -Dio ce ne scampi- un governo tecnico.

 

Le domande che vogliamo porci, al momento, sono le seguenti: il voto italiano del 4 dicembre può essere collegato, seguendo un filo ideale, alla Brexit e all' elezione di Trump? Avrà conseguenze o rimbalzi sui prossimi appuntamenti elettolari europei, in primis le presidenziali francesi della primavera 2017? E che conclusioni possiamo trarne? In definitiva: pure in Italia siamo arrivati al voto antisistemico?

 

La vittoria schiacciante del "No" ha seguito in un solco ideale i responsi elettorali di giugno in Gran Bretagna e di novembre negli Stati Uniti, ma è errato parlare in Italia di un voto inteso a punire un certo establishment, una certa oligarchia transnazionale finanziaria, una certa "internazionale del capitale" e le lobbies assieme ai loro camerieri politici. Quello italiano è stato sostanzialmente un voto conservatore, non un voto ribelle: la maggior parte del 59% di chi ha detto "No" lo ha fatto non tanto per punire un Renzi e un governo legati mani e piedi alle centrali delle oligarchie finanziarie mondialiste quanto perché il nostro fiorentino aveva osato attentare a quello che, forse, è rimasto l'unico mito in grado di cementare la barcollante Repubblica Italiana: la Costituzione del 1 gennaio 1948. Basta dare un'occhiata allo schieramento trasversale ed eterogeneo del No per rendersene conto: vecchi comunisti e sinistra nostalgica del tempo che fu, i "Cobas", quindi il Movimento 5Stelle, Forza Italia, Fratelli d' Italia, la Lega Nord salviniana, addirittura una minoranza del PD. Anche come "classi sociali", ammesso che oggi abbia ancora senso parlarne (e infatti non ne ha, ma ci tocca..) si passa dal pensionato, allo studente, all' operaio del sindacato di base, al libero professionista, all' artigiano o imprenditore, al laureato cosmopolita che crede ancora alla favola di Babbo Natale (la Costituzione più bella del mondo, largamente mai utilizzata) e al leghista che pensa, bontà sua, di poter spostare le lancette dell' orologio agli anni Novanta pre-globalizzazione, eccetera eccetera. Certamente l'italiano medio ha smesso di credere a Renzi dato che ad annunci roboanti corrispondono, da mille giorni a questa parte, realtà quotidiane sconcertanti e del tutto scollegate dalla propaganda. Ma il nocciolo della questione ci dice che l'italiano medio, da conservatore, è affezionato ad un testo costituzionale che seppur ormai superato, inattuabile, obsoleto, smentito dai fatti, dalla realtà internazionale (pensiamo alle guerre d' aggressione mascherate da guerre umanitarie, in barba all' articolo 11) è ancora visto come un totem, un tabù, un mito fondante, l'unico mito che ancora tiene in piedi una Repubblica scollacciata e sfibrata: chi tocca la Carta, muore.

 

Da ribelli e reazionari non dovremmo gioire o far salti per un trionfo del conservatorismo e della conservazione, tuttavia ci consola e ci infonde fiducia un fatto non indifferente: anche gli italiani hanno capito che non si possono cambiare le regole del gioco a gioco in corso, ossia la cosa che le oligarchie mondialiste stanno facendo almeno da Seattle 1999, anche se il tutto è partito da prima. Seppure quindi in una ottica da conservatori, gli italiani stanno iniziando a capire che qualcuno "sta barando" e sta barando grosso e che tocca tornare a riprendere in mano il proprio destino, per filarsi la propria Storia, senza pelosi trucchi od ingerenze varie. E stanno capendo che questo barare si nasconde dietro linguaggi subdoli e ingannevoli, quali il "ce lo chiede l'Europa" o peggio ancora "ce lo chiedono i Mercati" e stanno, finalmente, iniziando a scrollarsi di dosso gli scadenti prodotti confezionati da una informazione addomesticata che ormai pare non far più presa nemmeno nello Stivale... E il solo fatto che Piazza Affari abbia chiuso stabile senza tutti quegli sconquassi finanziari e terremoti di mercato pronosticati dai Soloni di turno, la dice lunga. Non sappiamo quanto influirà il voto del 4 dicembre nei prossimi cimenti elettorali europei, noi speriamo solo che il solco aperto con la Brexit continui a procedere spedito. Insomma, abbiamo diversi elementi per considerarci soddisfatti del risultato del 4 dicembre: si son fatti passi avanti, rispetto al torpore passato.

 

Simone Torresani

 

 
La Sinistra europea non ha capito niente PDF Stampa E-mail

5 Dicembre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 3-12-2016 (N.d.d.)

 

“La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione “. Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un’alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all’intellighenzia progressista e in sintonia con l’individualismo dominante. Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. 

 

“La sinistra non solo difende ardentemente l’economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola –  nel deserto intellettuale francese –  che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari. Quella che ancora oggi chiamiamo “sinistra” è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all’alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all’eredità dell’illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Come notò subito Rosa Luxemburg, era un’alleanza ambigua, che certo fino agli anni Sessanta ha reso possibili molte lotte emancipatrici, ma che, una volta eliminate le ultime vestigia dell’Ancien régime, non poteva che sfociare nella sconfitta di uno dei due alleati. È quello che è successo alla fine degli anni Settanta, quando l’intellighenzia di sinistra si è convinta che il progetto socialista fosse essenzialmente totalitario. Da qui il ripiegamento della sinistra europea sul liberalismo di Adam Smith e l’abbandono di ogni idea d’emancipazione dei lavoratori.

 

L’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un senso della storia e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione. Tale idea si è dimostrata globalmente efficace fintanto che si è trattato di combattere l’Ancien régime. Ma il capitalismo –  basato su un’accumulazione del capitale che, come ha detto Marx, non conosce alcun limite naturale né morale –  è un sistema dinamico che tende a colonizzare tutte le regioni del globo e tutte le sfere della vita umana. Focalizzandosi sulla lotta contro il vecchio mondo e le forze del passato, per il progressismo di sinistra è diventato sempre più difficile qualsiasi approccio critico della modernità liberale. Fino al punto di confondere l’idea che non si può fermare il progresso con l’idea che non si può fermare il capitalismo. Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli agenti dominati della dominazione, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i tabù del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è un fatto sociale totale. E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o madri in affitto), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, ad affondare tutti i valori umani nelle acque ghiacciate del calcolo egoista.

 

Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1913, la fase finale del capitalismo darà luogo a un periodo di catastrofi. Una definizione che si adatta perfettamente all’epoca nella quale stiamo entrando. Innanzitutto catastrofe morale e culturale, dato che nessuna comunità può sopravvivere solo sulla base del ciascuno per sé e dell’interesse personale. Quindi, catastrofe ecologica, perché l’idea di una crescita materiale infinita in un mondo finito è la più folle utopia che l’uomo abbia mai concepito. E infine catastrofe economica e finanziaria, perché l’accumulo mondializzato del capitale –  la crescita –  sta per scontrarsi con quello che Marx chiamava il limite interno. Vale a dire la contraddizione tra il fatto che la fonte di ogni valore aggiunto –  e dunque di ogni profitto –  è sempre il lavoro vivo, e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo al lavoro vivo le macchine, i programmi e i robot. Il fatto che le industrie del futuro creino pochi posti di lavoro conferma la tesi di Marx. La forza della critica socialista nasce proprio dall’aver compreso fin dal XIX secolo che un sistema sociale basato esclusivamente sulla ricerca del profitto privato conduce l’umanità in un vicolo cieco. Paradossalmente, la sinistra europea ha scelto di riconciliarsi con questo sistema sociale, considerando “arcaica” ogni critica radicale nei suoi confronti, proprio nel momento in cui questo comincia a incrinarsi da tutte le parti sotto il peso delle contraddizioni interne. Insomma, non poteva scommettere su un cavallo peggiore! Per questo oggi è urgente pensare la sinistra contro la sinistra”.

 

Jean-Claude Michéa

 

 
Ossessione anti-russa PDF Stampa E-mail

4 Dicembre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 2-12-2016 (N.d.d.)

 

Un giorno capiremo, forse, com’è nata, e con quali scopi, l’alleanza guerrafondaia che in Europa affianca la sinistra benpensante e benintenzionata alla destra neocon più cinica e disinvolta. Un’alleanza che nel 2003 abbiamo visto in azione nel disastro dell’invasione anglo-americana dell’Iraq, non a caso gestita in coppia dal progressista Tony Blair e dal con-servatore George Bush. Che nel 2011 si è rinnovata nell’altrettanto disastrosa spedizione contro la Libia del colonnello Gheddafi (con il trio Obama-Cameron-Sarkozy). E che oggi si rinnova con le ricorrenti manifestazioni dell’ossessione anti-russa. Basta notare quant’è successo nel giro di pochi giorni. Prima il Parlamento europeo ha approvato (a scarsa maggioranza, ma l’ha approvato) una delirante risoluzione scritta dall’ex ministro degli Esteri (incredibile ma vero) della Polonia, Anna Elzbieta Fotyga, in cui si mettono l’Isis e la Russia sullo stesso livello come i due nemici principali dell’Europa. Poi è arrivato su Le Monde, tempio della borghesia illuminata, un altrettanto delirante editoriale di Francoise Thom, docente della Sorbona, che se la tira da “russista” ma non teme di scrivere tra l’altro che il Cremlino influenza l’opinione pubblica occidentale con “lo sviluppo di una coscienza apocalittica intorno al mito della fine dell’Occidente, che spinge i popoli ad accettare l’abbandono delle libertà e a desiderare l’avvento del pugno di ferro”. Infine, il ministro degli Esteri del Regno Unito, Boris Johnson, ci spiega in una fantastica intervista che “la Nato è principalmente un’organizzazione difensiva” che si limita “a respingere l’aggressione” della Russia.

 

Come si vede, il fritto misto di sinistre e destre è completo. La stessa mistura che ha seminato disastri in tutto il Medio Oriente e adesso si affanna in ogni modo per provocare uno scontro diretto con la Russia. È ovvio che il Cremlino di Vladimir Putin non è il vaso di ogni perfezione, né in casa né fuori. Però proviamo ad analizzare un po’ nello specifico che cosa ci dicono questi signori. Parlare della Fotyga è inutile. È già un dramma vedere arrivare al voto di Strasburgo una risoluzione del Parlamento europeo come la sua, che invoca la censura sulla stampa e sui media perché il Cremlino usa i suoi per propagandare le proprie ragioni. E questo in nome dei “valori” di un’Europa occidentale che ha mentito sull’Iraq, ha mentito sulla Libia, ha mandato la Nato a “proteggere” il confine della Turchia con la Siria attraverso cui Erdogan faceva arrivare foreign fighters, denaro e armi ai terroristi dell’Isis, e che tuttora mente senza ritegno (e in cambio di denaro) sulle fonti di finanziamento del terrorismo islamico e sugli appoggi di cui gode presso le monarchie del Golfo Persico con cui i Paesi Ue sono in affari. È più interessante l’articolo della Thom per Le Monde, perché contiene tutta una mentalità. L’insigne docente parte elencando una serie di risultati (“Referendum olandese sull’Accordo di associazione dell’Ucraina, la Brexit, l’elezione di Trump, la vittoria del partito del Centro pro-russo in Estonia, l’elezione del pro-russo Dodon in Moldavia, del pro-russo Rumen Radev in Bulgaria, la vittoria di Fillon alle primarie della destra francese”) per dire che tutto questo è frutto della “paziente strategia di controllo delle élite e delle opinioni pubbliche straniere da parte del Cremlino”. Ora, quanto paranoici bisogna essere per credere che Trump abbia vinto grazie al Cremlino? E quanto fessi bisogna essere per non capire che l’Accordo di associazione dell’Ucraina è stato respinto dagli olandesi perché l’Olanda vive da molti anni un fenomeno xenofobo che si chiama Partito della libertà, che è contrario a tutte le forme di immigrazione e che tutti i sondaggi danno in testa per le elezioni politiche del marzo 2017? E quanto anti-democratici bisogna essere, sia come intellettuale (la Thom) sia come giornale (Le Monde) per sostenere che tutti i risultati che vanno contro i propri desideri sono frutto di “dossier compromettenti, corruzione, ricatto, promesse di avanzamenti e incarichi di potere, controllo dei media”, cioè le cose che farebbe il Cremlino per favorire quei risultati? Gli olandesi, gli inglesi, gli americani, gli estoni, i moldavi, i bulgari e persino i francesi che hanno silurato Sarkozy e scelto Fillon come candidato della destra sono, secondo questa signora, o corrotti o scemi. La Thom, ovviamente, parla di assoggettamento dell’Europa ai voleri del Cremlino. E poiché gli intellettuali francesi, quando vogliono rendersi ridicoli, ci riescono benissimo, non si rende conto di replicare le tesi di Alain Minc, politologo, scrittore, manager, ex consigliere di Sarkozy, ex presidente del Consiglio di sorveglianza di Le Monde (ma guarda…) e decorato della Legion d’Onore. Nel 1985 Minc pubblicò un libro (“Europa addio. La sindrome finlandese”, il titolo della traduzione italiana) in cui pronosticava la sottomissione dell’intera Europa all’Urss. Cinque anni dopo, purtroppo per lui, l’Urss non c’era più. E per finire il caso Boris Johnson. Qui siamo al folklore e stupisce che chi ha deriso tanto a lungo Donald Trump ora prenda così sul serio questo signore. Nell’intervista, Johnson esibisce alcune chicche. Per esempio, “le ripetute provocazioni (della Russia, n.d.r) verso la Nato e i suoi alleati”. È indubbio che la tensione tra Nato e Russia sia oggi ai massimi storici del periodo post-sovietico. E altrettanto indubbio è che la Russia contribuisce per la sua parte. Curioso però che nessuno ricordi gli anni Novanta, lungo periodo in cui la Nato ha fatto ciò che ha voluto in tutta l’ex Europa dell’Est senza incontrare opposizione alcuna, nemmeno verbale. Né ricordi il marzo del 1999, quando il premier russo Primakov era in volo verso Washington per consultazioni con Bill Clinton e, in volo, venne a sapere che gli Usa avevano cominciato a bombardare la Serbia, impresa cui si sarebbe subito aggiunta la Nato. Né menzioni gli “scudi stellari” che, con l’assistenza della Nato, dal 2008 gli Usa hanno piazzato in Polonia e Romania per difendere l’Europa dalla minaccia (non ridete, lo dicono sul serio) per proteggerci dalla minaccia dell’Iran e della Corea del Nord. Qualcuno può stupirsi se, arrivati all’Ucraina, la Russia ha detto basta? E lo ha detto alla sua maniera? Ma Boris Johnson pensa ad altro. Pensa alla Brexit. Nella stessa intervista sostiene che “il Regno Unito prospererà una volta lasciata la Ue”. E vabbè, convinto lui. Però, aggiunge, “vorremmo che le aziende britanniche avessero la massima libertà di fare affari e operare in un mercato unico”. Comodo, no? Me ne vado ma voglio mantenere tutti i vantaggi di prima. Come un marito che, lasciando la moglie, dicesse: “Non ti reggo più e me ne vado, ma vorrei che tu mi cucinassi ancora la cena e ogni tanto mi ospitassi nel tuo letto”. La sensazione è che questi siano molto più pericolosi, per noi europei, dello stesso Putin.

 

Fulvio Scaglione

 

 
La governabilità non c'entra PDF Stampa E-mail

3 Dicembre 2016

 

Da Appelloalpopolo del 6-11-2016 (N.d.d.)

 

Nel secondo dopoguerra studiosi di varia ispirazione ideale e politica proposero interpretazioni del Risorgimento volte a rilevare le insufficienze della classe dirigente post-unitaria la quale, costituita da una ristretta élite liberale, è parsa insensibile verso i problemi sociali. Lo stato unitario sarebbe stato contraddistinto – sottolinearono i cattolici – da questa indifferenza sociale che derivava dall’individualismo economico e politico dei liberali, i quali d’altronde, avrebbero diffuso il culto esclusivo per la nazione e la dottrina dello stato etico. Ma già negli anni Venti anche il movimento nazionalista ravvisava nell’individualismo giusnaturalista il peggiore dei mali sociali, la matrice delle ideologie novecentesche come forze disgregatrici dello Stato. In campo marxista Gramsci sosteneva la tesi secondo la quale il limite fondamentale del processo unitario sarebbe stato la mancanza di una rivoluzione agraria. Infatti, né i moderati né i democratici sarebbero riusciti a rendere nazionale e popolare il Risorgimento, perché i primi erano contrari a coinvolgere nel moto unitario le classi rurali e i secondi ne erano politicamente incapaci per cui, non riuscendo a costituire una reale alternativa politica, lasciarono ai moderati la guida dell’unificazione. Il controllo esercitato dal ceto politico liberale e dalla monarchia sabauda non fu soltanto politico e militare ma anche sociale e non coinvolse il popolo nell’azione unitaria. Nel corso dei decenni successivi la pubblicistica politica non mancò di denunciare la scarsa rappresentatività dello Stato liberale e l’opposizione tra paese legale e paese reale. Rimasero deluse le speranze di Mazzini che inseguiva l’obiettivo di far partecipare i ceti operai e contadini al Risorgimento. Da questa rivoluzione meramente politica ma non sociale sarebbe nato uno stato il cui rapporto con la società civile rimase formale e giuridico senza mai diventare intrinseco e strutturale, in sostanza uno Stato costituzionalmente fragile perché democraticamente non rappresentativo nelle sue istituzioni, che nascevano distanti e rimanevano quasi estranee ai ceti popolari. Più che rafforzare lo Stato il liberale Giolitti si pose il problema di far durare i suoi governi, risolvendolo con il trasformismo elevato a sistema, con il patto Gentiloni e con l’allargamento del suffragio elettorale che fu definito universale anche se non esteso alle donne. I risultati non potevano essere risolutivi perché erano dovuti alle manovre discontinue di uno statista sia pur abile, ma non all’azione costante di organizzazioni politiche popolari che, storicamente mature, stavano per candidarsi a tutori dell’interesse nazionale e del progresso economico e sociale della Patria. Non poteva essere e non fu una soluzione la scelta autoritaria e antidemocratica di Mussolini perché, nel ventennio, più che il popolo, il consenso del quale era giocoforza conquistare con insistente propaganda, fu il regime e il partito a identificarsi con lo Stato.

 

Con la nascita della Repubblica i costituenti, reduci dal periodo di autoritarismo fascista, si posero il problema di come garantire un più sicuro funzionamento democratico dell’iter legislativo e adottarono il bicameralismo perfetto e il sistema elettorale proporzionale. In prima istanza i costituenti definirono le competenze del Parlamento e del Senato parificandole; con successivi provvedimenti il ceto politico del dopoguerra, sia pure per evitare o sciogliere i reciproci condizionamenti, rese le due assemblee ancora più simili per eleggibilità, sistema elettorale, durata e composizione. Forse che intendevano intralciare la produzione delle leggi e in tal modo indebolire il sistema democratico nella Repubblica che concorrevano a far nascere? In verità, questa scelta, suggerita dal timore di un ritorno a un regime autoritario, può bene essere definita mazziniana perché aprì finalmente il nuovo Stato ai ceti sociali di tutto un popolo; aumentava, con il “proporzionale”, il tasso di partecipazione popolare come mai prima di allora nelle sedi istituzionali di rappresentanza democratica e, con il bicameralismo perfetto, in pratica la duplicava. In particolare, il sistema proporzionale, che venne poi progressivamente abbandonato dopo la stagione di tangentopoli, garantiva un radicamento vicendevole: quello dei ceti dirigenti nel popolo e quello del popolo nelle istituzioni del nuovo Stato, che ne sortiva rafforzato. In definitiva, non fu ripetuto l’errore commesso – o la scelta voluta – dalla monarchia sabauda e dal ceto liberale ottocentesco di cercare nella dinastia e nel censo la forza dello Stato che invece risiedeva nel Popolo. La Prima Repubblica nasceva e progrediva con governi che duravano poco e mai per un’intera legislatura, arrivando a registrare perfino alcuni governi definiti ironicamente dalla stampa “balneari”, cioè formati per il periodo estivo, senza altro compito che quello di gestire gli affari correnti e approvare la legge di bilancio. Era prassi corrente e accettata il concepire governi temporanei e destinati a durare pochi mesi, che consentivano alle forze politiche di incontrarsi sistematicamente e di scontrarsi duramente per chiarire, precisare indirizzi politici e definire al meglio programmi di lavoro. Da queste due Camere gli eletti, dopo aver discusso alla luce dei principi ispiratori, emanavano le leggi ordinarie forse a rilento ma, per merito del bicameralismo perfetto, costituzionalmente conformi e meditate e, per via del “proporzionale” essendo tutti i ceti politicamente rappresentati, anche socialmente equilibrate. In definitiva, la forte rappresentatività del Senato e del Parlamento consentiva la tutela della quasi totalità degli interessi presenti nella società italiana.Se, a onta della lentezza legislativa e della scarsa durata dei governi, proprio nei decenni successivi al dopoguerra l’Italia della prima repubblica conosceva un grande e rapido sviluppo sociale e economico fino a diventare la quinta potenza industriale al mondo, è sensato chiedersi quale fosse la sua vera forza morale e politica. A dispetto di tutte le apparenze, di tutte le ironie giornalistiche e i commenti autolesionistici, la neonata Repubblica aveva costruito, tramite la fortissima rappresentatività delle due sedi legislative, una nuova unità e una nuova solidarietà nazionale, che consentiva di superare in breve tempo sfide che altri paesi più ricchi di essa non riuscivano a vincere. In questa Repubblica apparentemente debole e su un territorio militarmente occupato, un popolo sconfitto e devastato da una dittatura e da una guerra si riscattava esercitando la sua vera sovranità nelle due Camere. La sovranità e la forza nazionale non era dunque riposta negli esecutivi precari, nella governabilità, ma nella forte rappresentanza democratica garantita dal sistema elettorale e nella alta conformità costituzionale delle leggi ordinarie perseguita dal bicameralismo perfetto.

 

I potentati stranieri che si annidano nell’Unione europea, vogliono ora completare de iure l’espropriazione della sovranità popolare, che de facto è in corso da oltre venti anni, abolendo sostanzialmente le sedi istituzionali dove il popolo la esercita, o meglio la esercitava. La governabilità intesa dalla buro-tecnocrazia eurounionista non sembra la stabilità dei governi come gli apolidi nostrani si affannano a propagandare, ma una condizione di controllo e manovrabilità da imporre al popolo. Lasciarci docilmente pilotare da oligarchie straniere e rinunciare alla Costituzione accettando che in essa gli eurocollaborazionisti costituzionalizzino il vincolo esterno, farà certamente di noi un popolo “governabile”, ma non governante di se stesso cioè sovrano.

 

Luciano Del Vecchio

 

 
Attenzione a Duterte PDF Stampa E-mail

2 Dicembre 2016

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Da Appelloalpopolo del 15-11-2016 (N.d.d.)

 

Il 30 giugno 2016 si è insediato come presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, dopo una lunga carriera (iniziata nel 1988) come sindaco della città di Davao, nel sud delle Filippine. La sua vittoria è stata quella di un outsider definito da alcuni osservatori come “populista”. La sua campagna si è basata prevalentemente sulla promessa di applicare su scala nazionale la politica di tolleranza zero del crimine e della droga, politica che ha applicato (a sentire i cittadini della sua città) con successo a Davao negli ultimi anni, arrivando a sostenere pubblicamente l’azione delle “squadre della morte di Davao”, vigilanti armati che hanno ucciso migliaia di spacciatori e piccoli criminali in modo del tutto extra-giudiziario. Secondo alcune testimonianze dietro l’azione di queste squadre di vigilantes ci sarebbe stato proprio lui, il sindaco eletto della città. L’appoggio popolare al sindaco-vigilante Duterte può essere spiegato come conseguenza della crisi del sistema giudiziario filippino, incapace di perseguire con efficacia la diffusa criminalità in modo legale.

 

Eletto presidente, Duterte ha fatto scalpore con i suoi attacchi diplomatici agli Stati Uniti e con l’apertura alla Cina, nell’ottica di un nuovo ri-bilanciamento geopolitico delle Filippine, mirante ad una rinnovata autonomia nelle questioni di politica internazionale. Sul piano della politica interna Duterte si presenta come outsider rispetto alle forze tradizionalmente legate al potere filippino, anche se proviene da una famiglia che ha radici importanti nelle famiglie politicamente più in vista della sua zona di provenienza. Ha buoni rapporti con l’importante comunità islamica filippina, che l’ha sostenuto politicamente. Deve però affrontare la minaccia del terrorismo estremista di matrice islamica del gruppo Abu Sayyaf, simpatizzante dell’ISIS, nel Sud delle Filippine. Famoso per il suo linguaggio volgare (tra le tante ha definito Obama un “figlio di puttana” durante una conferenza stampa) e per il suo atteggiamento da “duro”, la sua ascesa può considerarsi come il riflesso del malcontento di una popolazione che non ha beneficiato della recente crescita economica filippina ed è esasperata dalla corruzione pubblica e dalla criminalità di strada.

 

Paolo Di Remigio

 

 
Nessun cambiamento è mai venuto dalle leggi PDF Stampa E-mail

1 Dicembre 2016

 

Da Rassegna di Arianna del 26-11-2016 (N.d.d.)

 

Sono quasi convinto che al referendum del 4 dicembre i “sì” prevarranno sui “no”. So benissimo che i sondaggi affermano il contrario ma abbiamo già saggiato, negli ultimi eventi cruciali, la loro scarsa affidabilità, dalla Brexit alla elezione di Trump. I sì vinceranno per un motivo banale che non c’entra nulla con le riforme della propaganda governativa: la gente vuole un cambiamento purchessia. In questi giorni ne leggo di tutti i colori, persino che la vittoria del sì sconfiggerà il cancro. E perché no, di colonizzare anche Marte? Questo è l’infimo livello del dibattito in corso. Quanto a fandonie, dall’altra parte non sono da meno. Vedrete che a cose fatte marziani e terroristi della psiche troveranno un accordo, per il bene della loro piccola patria di partito. Passata la festa, gabbato lo santo.

 

È chiaro che questo voto non modificherà, se non in peggio, la vita degli italiani. Ci vuol ben altro per superare la palude in cui siamo precipitati negli ultimi vent’anni. Ma al popolo questa profanazione della Costituzione piace perché intaccare il Totem fa cadere l’ennesimo tabù, verso il quale essi non hanno alcuna riverenza, in quanto non ne colgono i vantaggi concreti. Un (falso) segnale positivo, insomma, per chi è stufo di vivere in un Paese ingessato, ormai improduttivo e impoverito in ogni settore economico-sociale. La partita tra costituzionalisti improvvisati ed anticostituzionalisti della domenica non è di nessun interesse per gli elettori. I pareri di insigni professori o quelli contrapposti dei concorrenti di quiz stanno per loro quasi sullo stesso piano. Non temono le derive autoritarie di cui blaterano i soloni in cattedra e non credono, fino in fondo, alle promesse di questi riformatori extraterrestri, tuttavia meglio affidarsi alla ruota della fortuna che rassegnarsi ai presagi di sventura. Almeno ci avranno provato a grattare la sorte. Le persone sono infatti concentrate sulla necessità di dare una scossa alla nazione, dove le loro aspirazioni individuali, quelle dei loro figli e dei loro nipoti sembrano avere il futuro sbarrato e per nulla sereno. C’è da capire chi, tra i comuni mortali, voglia votare sì, senza che sia coperto di disdegno da chi voterà per il contrario. E viceversa. Il disprezzo, andrebbe, invece, riservato tanto ai politicanti propugnatori del “no” che a quelli del “si”, i quali manipolano il malcontento pubblico per l’ennesima partita di Palazzo, di nessun giovamento per il presente e il domani dell’Italia e valevole solo ai fini delle loro carriere parlamentari. L’ideale, sarebbe restarsene a casa per dimostrare di essere alieni (noi, non loro) a queste beghe tra prestigiatori pasticcioni che vorrebbero dare ad intendere di avere a cuore il destino del Paese mentre svendono il suo patrimonio collettivo, fatto di storia (cultura) ma anche di averi materiali (benessere). Il totale disinteresse del popolo dimostrerebbe a lor signori che ci vuole ben altro per ripristinare la fiducia nelle élite che ci hanno condotto alla rovina. Chiunque vincesse sarebbe allora screditato dalla scarsa partecipazione generale e dovrebbe “muoversi sulle uova” con la paura costante di vedersele prima o poi tirare in faccia. Purtroppo per noi, mancano ancora in Italia quelle forze autenticamente nazionali capaci di “frenare il franamento” in maniera seria e decisa. Difetta la presenza in fieri di una vera classe politica sovranista in grado di chiamare a raccolta gli spiriti e le energie migliori per lanciare la sfida all’epoca in corso. Quando queste truppe marceranno all’orizzonte sapremo riconoscerle dalle spade, non dalle carte bollate. Nessun cambiamento è mai venuto dalle leggi, viceversa sono queste ad adattarsi alla sana e robusta costituzione di un popolo. Noi italiani, invece, siamo sempre più malaticci, di norma in norma.

 

Giovanni Petrosillo

 

 
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