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Brusco risveglio PDF Stampa E-mail

18 Novembre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 16-11-2016 (N.d.d.)

 

Non è difficile comprendere che il rapido succedersi degli avvenimenti in questo scorcio dell’anno 2016 avrà degli effetti duraturi su tutto il percorso storico di questo inizio di secolo, tanto che molti analisti iniziano a parlare di un punto di inflessione, ovvero un possibile cambiamento di tendenza della fase storica del Mondo Occidentale che non mancherà di avere i suoi riflessi sul resto dei continenti. Si era partiti nell’inizio di questo secolo con il vento in poppa della Globalizzazione come fenomeno che sembrava inarrestabile e duraturo. Veniva descritta questa come una trasformazione positiva per il popoli, apportatrice di progresso e di benessere per tutti, con l’abbattimento prossimo dei confini, delle barriere e con il superamento della logica degli Stati Nazionali. Molta gente credeva ingenuamente che tutto questo fosse un fenomeno spontaneo ed ineluttabile, come lo descrivevano i media, gli opinionisti e gli intellettuali del “progresso permanente”, dai Saviano ai Severgnini. La sinistra ex marxista era balzata lesta sul carro del globalismo come una necessità ed aveva fatto di questa la sua bandiera, tacciando di “retrogradi” e “populisti” tutti coloro che osavano metterne in dubbio gli aspetti positivi e decantati del fenomeno. “Guai ad un ritorno ai vecchi nazionalismi! Bisogna abbattere gli steccati, i muri e costruire ponti”. Lo dicevano in Italia l’ex presidente Napolitano, lo affermava la Boldrini, lo scriveva Scalfari e lo affermava persino il Papa Francesco. Come si poteva non credergli?

 

In pochi anni il mondo globalizzato aveva prodotto le sue conseguenze nefaste nei paesi occidentali, tra gli altri effetti con le importazioni massicce dalla Cina e dai paesi a basso costo, con la perdita dei posti di lavoro, con l’affossamento della classe media, con il ridimensionamento delle garanzie sociali, con le delocalizzazioni di aziende, con l’immigrazione incontrollata, con l’abbassamento dei salari, con l’importazione di fenomeni delinquenziali e con il degrado delle grandi aree urbane. I politici della sinistra mondialista continuavano a predicare che questo non era importante ma che fosse importante accogliere tutti, integrare ed abbattere le differenze, esaltando i mercati aperti e la nuova cultura che metteva al primo posto i diritti dei “diversi”: i gay, i transessuali, gli immigrati, prima dei nativi e dei cittadini. Di fatto pochi critici isolati avevano lanciato l’allarme ed avevano dato una interpretazione diversa del fenomeno: si voleva avvertire che nella realtà, la tanto decantata Globalizzazione era l’abile travestimento operato dall‘élite finanziaria anglo/USA, nell’ imporre l’apertura illimitata dei mercati per avere il controllo dei circuiti finanziari, lo sfruttamento a proprio vantaggio delle risorse naturali, della forza di lavoro a basso costo ed il dominio dei mercati dove collocare in modo redditizio e sicuro, i propri capitali speculativi. Si voleva avvertire che la globalizzazione economica avrebbe portato ad un nuovo Ordine mondiale caratterizzato dall’aumento delle disuguaglianze con l’arricchimento di una ristretta élite e l’impoverimento di molti, oltre allo sfruttamento selvaggio della mano d’opera nei paesi emergenti dove anche i bambini vengono impiegati per produrre e confezionare i beni di consumo destinati ai mercati.

 

Qualcuno aveva anche anticipato quale grande trappola fosse rappresentata da questa globalizzazione che, anche in Europa ed in tutto l’Occidente, nella costruzione di questo nuovo ordine, già in fase avanzata, si andava verso la creazione di un sistema iper capitalistico elitario, delinquenziale, precipuamente speculativo, che ricerca non soltanto i profitti netti e rapidi per evitare gli investimenti di lungo periodo, come quelli industriali, ma anche per amministrare la crisi di sovrapproduzione per trasformarla in crisi finanziaria. In altre parole per saccheggiare la popolazione. Un sistema dominato dalla finanza e dalle grandi entità bancarie che viene basato sulla creazione artificiale del denaro, con tassi di interesse molto bassi in modo da consentire l’apertura di crediti a larga scala con molte facilitazioni: si promuove la vendita di beni durevoli, in specie di immobili, svalorizzati dal tasso di inflazione; si sospingono i debitori in situazioni di insolvenza, si rifinanziano i debiti in modo poi di appropriarsi degli immobili resi impagabili.

 

Poi è arrivato d’un tratto la presa di coscienza in alcuni paesi della grande trappola e delle conseguenze negative: il fattore detonante è stato senza alcun dubbio l’immigrazione incontrollata, con tutte le sue conseguenze. Sono arrivati poi il Brexit nel Regno Unito, prima ancora l’insorgenza di Partiti e movimenti nazionalisti e populisti nella Vecchia Europa, dalla Francia alla Germania, all’Austria, ai paesi dell’Est. A dare la svolta è arrivata l’elezione di Trump, il rude, il razzista, quello che vuole costruire il muro con il Messico, che vuole chiudere tutti i trattati commerciali e ritornare al vecchi sistema degli Stati nazionali e difesa delle proprie economie. Trump che si può definire l’antiglobalista, una bestemmia per i sostenitori del “Pensiero Unico” mondialista. Trump ha trovato nell’America profonda, quella dei lavoratori, della classe media, dei produttori, allevatori e agricoltori, coloro che lo hanno ascoltato ed hanno recepito il suo messaggio. Un brusco risveglio nel paese leader dell’Occidente e proprio in quello che è stato il principale artefice della Globalizzazione. Un risveglio da cui i “profeti della globalizzazione” ancora non si sono ripresi tanto da manifestare reazioni “isteriche”. Quello che sembra evidente è che la sinistra mondialista, quella dei circoli politici, dei media e degli intellettuali, aveva dimenticato del tutto chi fosse il popolo, quale fosse la classe lavoratrice: se la era persa per strada. Il popolo, quello autentico  della vecchia generazione  di coloro che attuarono il grande miracolo della trasformazione socioeconomica in tutta  l’Europa, tra il 1950 e gli anni ’70, che non furono attivisti della LGBT e neppure promotori del meticciato e del multiculturalismo, ma piuttosto furono europei di ceppo antico, di faccia bianca, eterosessuali con figli, in maggioranza cristiani (se pur con tutte le loro contraddizioni), con una idea molto materiale, per nulla ideologica, della libertà e della prosperità. Furono queste generazioni che riuscirono a ridurre al minimo la breccia sociale; furono loro la base sociale su cui si eseguirono le grandi politiche di ricostruzione in Europa, lo stesso fenomeno avvenne nella Germania social democratica come nell’Italia democristiana e nella Francia Gollista e poi socialista, nella Spagna franchista e poi post franchista. Furono loro che edificarono l’Europa moderna del benessere e dello Stato sociale che oggi la Globalizzazione tende a smantellare. Loro furono il “popolo” quello che i marxisti chiamavano una volta “le grandi masse popolari” che emigravano all’interno dei paesi in Europa in cerca di lavoro da sud verso nord ma mantenevano le proprie connotazioni di europei, cristiani, orgogliosi della loro cultura italiana, portoghese, irlandese, greca o spagnola che fosse. Loro da un certo punto di vista sono stati gli eroi della seconda metà del XX secolo, quelli che hanno edificato il benessere e lo stato sociale. Tutto oggi messo in discussione dalla visione multiculturale e cosmopolita che i profeti della globalizzazione vogliono imporre per cancellare culture ed identità. Questo popolo autentico costituito dai lavoratori e dai figli di quelli che hanno edificato le società attuali, da molti anni ha ricevuto colpi di ogni genere ad opera della Globalizzazione voluta dall’élite economica ed appoggiata dalla sinistra mondialista. I figli di quei lavoratori, pur essendo più acculturati dei loro padri, sono arretrati come salari, come potere di acquisto, hanno perso sicurezze, stabilità e diritti e sono insidiati dalla concorrenza degli ultimi arrivati. La mano d’opera dei migranti è stata un buon affare per gli imprenditori globalizzati e per le cooperative che godono dei sussidi ma, obiettivamente rappresenta una catastrofe per i lavoratori che nel mezzo secolo precedente avevano ottenuto di ridurre la breccia sociale. I governi della sinistra mondialista danno il benvenuto a tutti predicando l’integrazione, la regolarizzazione e la solidarietà ma non possono occultare il fatto che le masse di migranti provocano un costo sociale, una disarticolazione delle comunità e un abbassamento dei salari. Questo viene visto come un discorso razzista e retrogrado dall’intellettuale di sinistra ed è applaudito anche dal capitalista che sfrutta la mano d’opera e ne fa utili. Il lavoratore autoctono (e gli stranieri residenti da anni) si trova messo all’angolo e spesso sacrificato dalle politiche di accoglienza a favore dei migranti che rendono più difficile l’accesso ai servizi sociali, più problematica la convivenza con culture profondamente diverse, visto che le risorse sono limitate e non sono disponibili per tutti. Le conseguenze sono l’ascesa del Front National in Francia, dell’FPO in Austria, della AfP in Germania, della Lega in Italia, con forte scollamento del popolo dal ceto politico. In particolare questo popolo autoctono ha perso la sua rappresentanza e non si sente minimamente rappresentato dai politici e sindacalisti, al contrario si sente tradito da questi. Si è scomposto il tessuto sociale ed è stata attaccata la famiglia in nome di un nuovo individualismo, quello del consumo compulsivo e dettato dalle mode. La sinistra ha collaborato a questo processo di smantellamento di diritti e garanzie in nome de multiculturalismo, non si è resa però conto di aver perso nel tempo la sua vecchia base sociale, la sinistra è rimasta senza il popolo e la vecchia destra ha perso la nazione. Il popolo ha seguito altre strade e la sinistra macina voti in ogni paese nella alta borghesia quella dei quartieri bene, degli uffici finanziari, del grande capitale e dei grandi media, ma nelle periferie degradate e nelle campagne il popolo oggi ascolta i discorsi di chi prospetta la rivincita delle comunità e la difesa delle identità

 

Luciano Lago

 

 
La grande frana PDF Stampa E-mail

17 Novembre 2016

 

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Da Rassegna di Arianna del 15-11-2016 (N.d.d.)

 

È franata l'America dei WASP (White Anglo-Saxon Protestant), quella delle élites benestanti, quella dei "liberali" che spasimano per i "diritti umani", mentre lasciano bombardare i poveri del mondo senza muovere un dito. 

 

Sta franando l'Europa del denaro, neo-liberista allo spasimo, anche qui popolata di benpensanti, che si credono "progressisti" perché hanno tifato per il "nero", per i gay e per gli uteri in affitto, ma non sanno cos'è il popolo. Figuriamoci fino a che punto stanno franando. Le elezioni in Moldova e in Bulgaria dicono, anzi urlano, che questa Europa non piace più. Non sono bastate le centinaia di milioni di dollari e di euro, regalati per comprare i popoli. Non sono bastate le auto di lusso per gli straricchi, le famose "libertà civili". Bulgari e moldavi, in grande maggioranza, vogliono ristabilire rapporti con la Russia

 

La frana sta producendo panico e sconcerto da queste parti. Come mai? Non si erano accorti di niente. E la ragione è semplice: il mainstream bugiardo ha raccontato loro la favola bugiarda. E loro, i benpensanti bombaroli, gli hanno creduto.

Giulietto Chiesa 

 
La neolingua PDF Stampa E-mail

16 Novembre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 13-11-2016 (N.d.d.)

 

Con l’avvento della neolingua neoliberale si sono eclissati dal vocabolario lemmi come “sfruttamento” e “ingiustizia”, che fino a non molti anni fa erano all’ordine del giorno. Sono stati sostituiti dalla nuova figura semantica del “disagio”. A differenza dello sfruttamento e dell’ingiustizia, che alludono a una relazione conflittuale nella quale vi è un polo che sfrutta e l’altro che è sfruttato, una parte che commette l’ingiustizia e l’altra che la subisce, il disagio riguarda sempre e solo l’io individuale nel suo rapporto con sé e con il mondo, in uno scenario falsamente raffigurato come privo di legami sociali e di conflittualità immanenti. Sentimento di angoscia e di inadeguatezza scaturente dall’incapacità del soggetto di adattarsi alla situazione, il disagio è forma espressiva coerente dei processi di deresponsabilizzazione tipici della mondializzazione mercatistica: nella quale le colpe sono sempre di quelle entità “sensibilmente sovrasensibili” (Marx) che sono i mercati.

 

In forza di tali processi, i fallimenti e le ingiustizie non vengono mai fatti dipendere da ciò da cui realmente dipendono, ossia dai rapporti di forza reali e dalle prosaiche logiche del capitale, bensì sempre e solo dall’incapacità degli io individuali di fare fronte al mondo oggettivo, di adeguarsi alle situazioni, di modellare adattivamente la propria soggettività in coerenza con le condizioni date. Le contraddizioni reali di un paesaggio intessuto di violenza economica e di sfruttamento, di alienazione e di miseria, cessano di essere anche solo nominate. In loro luogo, subentrano i “disagi” soggettivi di chi non sa adattarsi. La prospettiva della rivoluzione come via corale per superare le contraddizioni oggettive cede, allora, il passo alle figure dello psicologo e del counselor come unici possibili guaritori dei disagi dell’individuo, senza che l’oggettività dei rapporti della produzione sia anche solo scalfita o nominata. Da parte integrante della realtà oggettiva, la contraddizione è stata trasfigurata in parte dell’individuo non adattato; con la conseguenza per cui si è indotti, con la sintassi di Ulrich Beck, a cercare “soluzioni biografiche” a “contraddizioni sistemiche”, cambiando se stessi più che l’oggettività contraddittoria dei rapporti sociali. È, una volta di più, il capolavoro della ragione tecnocapitalistica.

 

Diego Fusaro

 

 
CNEL PDF Stampa E-mail

15 Novembre 2016

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Da Appelloalpopolo dell’8-11-2016 (N.d.d.)

 

Uno dei punti meno discussi dell’attuale riforma costituzionale è quello riguardante l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, meglio noto come CNEL. Esso è un organo della Repubblica Italiana, previsto dall’articolo 99 della Costituzione che recita: “Il consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa. È organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge.”

 

Il CNEL, sconosciuto a molti italiani, ha fondamentalmente due funzioni: esprime pareri e ha la fondamentale facoltà di promuovere iniziative legislative riguardo i campi che gli competono. I pareri vengono forniti solo su richiesta del Governo, delle Camere o delle Regioni e anche se forniti non risultano vincolanti. L’iniziativa legislativa, invece, riguarda esclusivamente il campo della legislazione economica e sociale, fatta eccezione per le leggi tributarie e di bilancio. Tuttavia la genialità del CNEL sta nella sua composizione: esso è composto da un Presidente, nominato direttamente dal Presidente della Repubblica; dieci esperti, esponenti della cultura economica, sociale e giuridica; sei rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e, soprattutto, quarantotto rappresentanti delle categorie produttive sia del settore pubblico che di quello privato. Questi ultimi sono ulteriormente divisi in: ventidue rappresentanti dei lavoratori dipendenti, nove rappresentanti dei lavoratori autonomi e delle professioni e diciassette rappresentanti delle imprese. Pertanto all’interno del CNEL si trovano faccia a faccia i rappresentanti dei lavoratori e quelli degli imprenditori, i quali hanno il compito di collaborare, invece che di combattersi e trovare degli accordi per il bene della Nazione e dello Stato. Lo si può definire un luogo di concertazione, dove si cerca di superare, magari solo temporaneamente, la dicotomica lotta di classe. Quest’organo nasce dall’esigenza, fortemente sentita dai nostri padri costituenti, di dare uno sbocco istituzionale alle masse lavoratrici. Esso costituisce il tentativo di includerle nel nuovo sistema repubblicano, al fine di non farle sentire nuovamente escluse, come era già successo nella storia d’Italia evitando così l’acuirsi della conflittualità sociale, che avrebbe solamente minato il tessuto produttivo della nazione. Nella loro ottica il CNEL poteva costituire un tentativo di assorbimento di alcune istanze della lotta di classe in seno alle istituzioni statali. Tale idea del superamento del conflitto di classe ha origini antiche: la troviamo già espressamente citata nell’enciclica Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII, che costituisce la base della dottrina sociale della Chiesa cattolica e che, sicuramente, l’ala riformatrice della Democrazia Cristiana conosceva benissimo. In essa, il pontefice auspicava che fra le parti sociali potesse nascere armonia e accordo, mentre per la difesa dei diritti dei lavoratori propone sia associazioni di soli operai, sia miste di operai e datori di lavoro, ossia delle corporazioni: “Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. Invece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie”.

 

La medesima idea era stata uno dei cardini della politica economica fascista. Mussolini stesso affermò più volte: “Il fascismo o è corporativo o non è fascismo”, proprio per rimarcare la netta differenza con il capitalismo e il comunismo per ciò che riguarda la dottrina economica e sociale. Infatti, nel 1930 venne inaugurato il Consiglio Nazionale delle Corporazioni. In esso erano presenti i presidenti delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali e i rappresentanti delle medesime, oltre che svariati membri del governo e un discreto numero di esperti di diritto ed economia corporativa. Esso non possedeva l’iniziativa legislativa come il CNEL, ma aveva un mero ruolo consultivo, ossia poteva formulare pareri su qualsiasi questione che interessasse la produzione nazionale e, in particolar modo, sulle proposte di legge riguardanti la disciplina della produzione e del lavoro, perciò in quest’ottica era un organo più debole del CNEL. Il potere legislativo per le corporazioni giunse solo nel 1939, quando la Camera dei Deputati venne trasformata in Camera dei Fasci e delle Corporazioni della quale, come suggerisce il nome, facevano parte i componenti del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, oltre che i membri del Gran Consiglio e del Consiglio Nazionale del PNF. Persino nell’Italia liberale pre-fascista, che di certo non brillava per la partecipazione delle masse popolari e lavoratrici alla politica del Paese (basti pensare che le prime elezioni a suffragio universale maschile si tennero nel 1919), esisteva un organo simile: il Consiglio Superiore del Lavoro. Esso venne istituito nel 1902 e fu attivo dall’anno successivo. Era un organo meramente consultivo per ciò che riguarda la legislazione sociale ed era stato fortemente voluto dal primo ministro Giuseppe Zanardelli e dal suo successore Giovanni Giolitti. Non possedeva l’iniziativa legislativa e perciò il suo potere era fortemente limitato, tuttavia esso costituiva sempre un piccolo sbocco istituzionale per le masse lavoratrici del Paese e questo, per l’Italia liberale di inizio secolo, costituiva sicuramente un risultato considerevole.

 

Nell’attuale campagna referendaria del CNEL si parla veramente troppo poco. Ne parlano perlopiù coloro che sono favorevoli alla sua abolizione, additandolo come uno dei grandi mali del Paese, in quanto sarebbe un inutile sperpero di denaro pubblico. Forse il CNEL non ha funzionato come avrebbe dovuto e guardando alla storia della cosiddetta prima repubblica si comprende come i luoghi di concertazione siano diventati altri. Tuttavia il dato allarmante è un altro: la manifesta volontà politica di abolire definitivamente un luogo dove i lavoratori, dipendenti e autonomi, vengono rappresentati in quanto tali. Per la dottrina liberista, che mira a far sì che tutti i rapporti vengano regolati dal libero mercato senza intermediari di nessun tipo, un qualsiasi rappresentante intermedio dei lavoratori come soggetto collettivo costituisce indubbiamente un problema e perciò va spazzato via. Oggi gli spazi di ascolto delle necessità dei lavoratori sono ridotti al minimo, ammesso che possa essere considerato lavoratore chi lavora saltuariamente durante l’anno, con pochissimi diritti e in condizioni precarie. La conflittualità sociale è in costante aumento e sarebbe sufficiente aprire un qualsiasi libro di storia per capire che questo non è un bene, soprattutto per chi si ostina a difendere e a rendere più efficiente questo folle sistema.

 

Luca Mancini

 

 
Liberismo Frenato PDF Stampa E-mail

14 Novembre 2016

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Partiamo dal presupposto che la ricerca assoluta della produttività non è che un sogno, a cui oramai non crede quasi più nessuno, che delle economie di scala e dei rendimenti crescenti mi interessa poco e che alla fine i valori che stabilizzano la vita di una persona non sono senz’altro il consumo totale, ma poche cose tipo avere un lavoro che permetta di mantenersi e di mantenere la propria famiglia. Poi un consumo più ridotto non è un vero problema per nessuno, anche perché un nuovo modello può permettere maggiore tempo libero e quindi può consentire alle persone di dedicarsi maggiormente ai propri interessi. Che siano coltivare l’orto, andare al cinema, dedicarsi alla lettura o andare in bicicletta, dipendono dai singoli soggetti, l’importante è che possano essere perseguiti, perché anche questi sono una parte importante della vita. Maggiore tempo libero significa anche dedicare più tempo all’educazione dei propri figli, l’uomo trasmette valori che sono la sintesi di generazioni e generazioni, quando insegniamo dei valori ad un figlio, stiamo trasmettendo un qualcosa che ci ha insegnato nostro padre, che a sua volta gli ha insegnato suo padre e così a ritroso. Pertanto la funzione educativa di ogni uomo deve occupare, a mio avviso, una buona parte della vita. La finalità è frenare la produzione, quindi rallentare i consumi, di conseguenza il lavoro, al contempo aumentare il tempo libero, l’occupazione e la ridistribuzione del reddito.

 

I punti principali del Liberismo Frenato sono:

 

1) Una persona può essere proprietario, socio, amministratore e/o lavoratore di una sola azienda, questo in pratica significa che se sono nel consiglio di amministrazione di una azienda, non posso sedere in altri consigli di amministrazione.

 

2) Le aziende possono avere fino a un numero massimo di lavoratori, dopo di che non possono più assumere, inoltre devono avere un fatturato massimo, il quale se viene superato viene interamente versato, per la parte eccedente, allo stato. Ad esempio se il tetto è 100 e io fatturo 100, pagherò le tasse per 100, se fatturo 150 pagherò le tasse per 100, mentre 50 andranno interamente allo stato.

 

3) Deve essere prevista per tutti i dipendenti una forma di partecipazione agli utili dell’azienda, una quota dell’utile, esempio il 30%, deve essere distribuito proporzionalmente a tutti i lavoratori.

 

4) Gli stipendi devono avere una proporzione, esempio l’amministratore delegato deve avere al massimo un compenso pari a tot volte lo stipendio più basso (auspicabile un massimo di dieci volte).

 

Un liberismo auto controllato, in pratica un sistema con leggi antitrust radicali: le aziende possono crescere fino a un certo punto poi si devono fermare, così che altre aziende nasceranno e occuperanno parte del mercato. Si potrà obbiettare, ma se un’azienda è brava a produrre una cosa perché limitarla? perché comunque ci saranno una o più altre aziende che produrranno qualcosa di analogo e soddisfacente. Se un’azienda occupa uno spazio troppo ampio di un mercato, poi lo condiziona, lo comanda, è inevitabile. Ed è chiaro inoltre che più le regole, che stabiliscono il fatturato e il numero dei lavoratori, vanno verso il basso, più la qualità dei prodotti scende e scende anche la produttività, ma cresce inevitabilmente la ridistribuzione dei redditi, in pratica si va sempre più verso una forma di nuovo socialismo, ma liberista, meritocratico, totalmente privato, in antitesi ai monopoli statali e alle multinazionali transnazionali. La nostra è una società bloccata dominata dall’anomia, nel senso mertoniano del termine, dove le mete che sono messe a disposizione dalla società non sono raggiungibili quasi per nessuno, che poi è una delle cause maggiori delle frustrazioni sociali e quindi delle devianze; questo modello potrebbe in parte superare questo stato di cose, diventerebbe una società molto più facile da scalare, anche perché ci sarebbe molto meno da scalare. Senza contare che una crescita frenata va assolutamente incontro a tutti i problemi ambientali, che questo turbo capitalismo sta provocando. Il fine è di eliminare le commistioni, i trust, i cartelli, la speculazione finanziaria che stanno peggiorando la nostra qualità della vita.

 

Alessandro Falciola

 

 
I Medici in TV PDF Stampa E-mail

13 Novembre 2016

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"I Medici" è una serie televisiva in otto episodi, trasmessa da Rai 1, frutto di una coproduzione italo-inglese (la stessa Rai, Lux Vide e altri) e con attori di alta caratura mondiale quali Dustin Hoffman che dovrebbe -e rimarchiamo il condizionale- dovrebbe rappresentare la scalata e l'ascesa al potere della nota famiglia di banchieri fiorentini nel XV secolo. Spacciata e pubblicizzata come un "kolossal in costume della nuova serialità televisiva 2.0", strombazzata per gli alti ascolti della prima puntata, esaltata come simbolo di uno svecchiamento e di una "sprovincializzazione" della Rai, una "fiction in salsa un poco americana" (e quindi moderna) come ha puntualizzato certa stampa conformista, è in realtà il simbolo del lento ma costante decadimento di quella che fu, ai bei tempi, una televisione forse provinciale, forse generalista, ma di sicuro d'altissimo livello specialmente culturale: la televisione che, cent' anni dopo la frase di D' Azeglio, contribuì e non poco a "fare gli italiani". Vendere una serie televisiva inficiata di falsi storici, di licenze degli sceneggiatori che con l' epopea dei Medici poco e nulla hanno a che vedere -a partire dai costumi non Rinascimentali ma cupamente medievali e da una trama più adatta ad una soap opera o ad un romanzo "fantasy" come Trono di Spade che ad una gloriosa pagina di Storia patria - non solo è un delitto di lesa maestà verso le nostre radici storiche e culturali, invidiate da tutto il mondo, non solo è un affronto alla verità storica per ridurla ad una mistificazione da romanzo scadente, ma è pure un sintomo che la tanto squadernata modernizzazione della Rai, che nella sua ansia di agganciarsi al carro delle televisioni più evolute  ha preso solo gli aspetti più deleteri, ha ormai distrutto e seppellito quel poco di buono che ancora restava.

 

Dispiace che tale opera di demolizione totale dei rimasugli della tv italica sia iniziata proprio con un genere che un tempo si sarebbe potuto definire "nazionalpopolare". Pensiamo solo alla versione superlativa che la Rai fece, nel lontano 1967, dei "Promessi Sposi" del Manzoni oppure del "Mulino del Po " di Riccardo Bacchelli: gli attori, gli ambienti, i costumi, le scenografie, i dialoghi stessi, dialoghi letteralmente presi dai romanzi in questione, facevano sic et simpliciter la trasposizione in immagini dei grandi classici della letteratura italiana sul piccolo schermo. Era una Tv generalista? Nazionalpopolare? Provinciale? No, era semplicemente una televisione dotata di alti contenuti tra cui quello didattico: era una televisione di pura e autentica cultura, della quale valeva la pena pagare il canone. Poi ci siamo sprovincializzati, modernizzati, divenuti più papisti del papa o realisti del re. Passi e si perdoni (forse) l'involgarimento dei programmi, l'importazione del peggio dall' estero, i telegiornali ridotti a una parodia di quelli sovietici o bulgari d' antan, la faziosità, l'aumento pubblicitario nonostante il canone...tutto questo poteva essere perdonato, se fosse rimasta la qualità dei grandi contenuti concernenti la nostra Storia e cultura. Ma ora anche quelli stanno andando a colabrodo ed "I Medici" ne è un esempio palese.

 

La assurdità e sudditanza di affidare a sceneggiatori non italiani costumi, scene e dialoghi ambientati nella Firenze quattrocentesca è mille volte più provinciale di qualsiasi provincialismo. La passività nell' accettare episodi totalmente inventati e inserirli in un quadro storico lascia letteralmente senza parole, è una sciatteria e non curanza o menefreghismo verso una Storia della quale noi dovremmo andare superbi, a testa alta. Infine, gli effetti collaterali verso il pubblico più giovane, sono devastanti. Non per altro, Bernabei -uno che se ne intendeva- disse a suo tempo che "la televisione ha le stesse potenzialità della bomba atomica". Considerando il livello medio di cultura del popolo italiano (e la sua scarsa conoscenza storica) in molti penseranno che Umanesimo e Rinascimento furono epoche buie, popolate da gente vestita di nero, un turbinio continuo di avvelenamenti, peste e corna, intrighi e omicidi ad ogni piè sospinto. Una bella "damnatio memoriae" del Passato cupo, oscurantista e violento, a maggior gloria dell' "eterno presente" vissuto ai giorni d' oggi: solo per questo, lo sceneggiato grossolano, mal fatto, scadente in tutto (anche nel doppiaggio non sincronizzato!) e che dimostra come nella vulgata odierna la quantità sia preferibile alla qualità, si merita in toto l' appellativo di "serialità televisiva 2.0". Giocate a scacchi, godetevi le brume d' autunno, leggete un libro, state al tavolo con amici la sera o fate all' amore, ma tenete spenta quella inutile scatola tossica chiamata "televisione".

 

Simone Torresani

 

 
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