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Cavallo di Troia PDF Stampa E-mail

2 Novembre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 17-10-2016 (N.d.d.)

 

Il CETA sarà il cavallo di Troia per l’adozione di quanto previsto dal famigerato TTIP e verrà approvato, all’insaputa dell’opinione pubblica, con una procedura straordinaria e immediata. Pensavamo di averla scampata, grazie agli agguerriti manifestanti –per lo più francesi e tedeschi, da noi le proteste pubbliche non vanno più di moda – e a qualche politico ancora avveduto. E invece no, ci sbagliavamo: il famigerato TTIP, il trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico tra Europa e Stati Uniti, esce dalla porta e rientra dalla finestra. Anzi, dal portone! Già perché con l’imminente approvazione del CETA, l’Accordo economico e commerciale globale tra UE e Canada, tutte si materializzeranno quelle distorsioni di una globalizzazione dissennata che abbiamo sempre scongiurato. Con un astuto stratagemma per aggirare il processo di ratifica, il Consiglio UE voterà la sua applicazione provvisoria ma a tempo indeterminato.

 

Come il TTIP, il gemello canadese si spaccia per un Trattato di libero scambio, ma l’obiettivo di liberalizzare gli scambi suona quantomeno anacronistico tra Paesi le cui economie sono già così interconnesse che il livello medio dei dazi non supera il 3%. È curioso notare come gran parte delle multinazionali americane abbiano la loro sede proprio in Canada: circa 40 mila, tra cui la Coca Cola e Wal Mart solo per rendere l’idea! Con l’adozione del CETA verrà stravolto l’attuale assetto dell’organizzazione collettiva: le decisioni prese dall’UE e dai singoli Stati dovranno essere tali da non creare in alcun modo una presunta barriera commerciale col Canada, che possa in alcun modo limitarne il mercato. Gli investitori canadesi nell’UE potranno infatti citare in giudizio lo Stato in caso di leggi potenzialmente lesive dei loro interessi. Come voleva il TTIP, viene svilito il principio di precauzione, grande vessillo della tutela della salute dei cittadini, che permette di ricorrere a misure cautelative per salvaguardare la salute umana e l’ambiente. Grazie a questa norma, inclusa nei trattati europei, è stato ad esempio possibile evitare la massiccia importazione dei cibi geneticamente modificati, di cui, guarda caso, il Canada risulta uno dei più grandi produttori su scala globale. Come se non bastasse, per completare il processo di distruzione di quel che rimane di umano, vengono ulteriormente spalancati gli spazi per l’intervento privato nei servizi pubblici. Il CETA sarà infatti il primo accordo siglato dall’Unione Europea che in tema di liberalizzazione dei servizi stabilisce una “lista negativa” anziché una “lista positiva”, attraverso la quale saranno elencati in modo tassativo quali servizi possono rimanere di competenza statale.  E speriamo che verrà stilata con accuratezza e senza distrazione, perché tutti gli altri saranno privatizzati e lasciati alla longa manus del libero mercato, compresi quelli che nasceranno successivamente al Trattato! Uno scenario apocalittico, che nei prossimi giorni si materializzerà all’insaputa dell’opinione pubblica, ormai rassicurata dalla decisione di rinviare il TTIP. Eppure, proprio chi dovrebbe essere ragguagliato e tutelare i nostri interessi, si dice favorevole a far entrare col cavallo di Troia canadese l’assalto definitivo alla sopravvivenza non solo dell’economia nazionale, ma del nostro bagaglio culturale, di cui il settore enogastronomico è da sempre un vanto mondiale.  Dopo essersi mostrato tra i più entusiasti sostenitori del fallito TTIP, il ministro dell’economia Calenda è tra i fautori dell’approvazione del CETA. Per privare definitivamente un Paese della propria indipendenza non basta togliergli la sovranità monetaria, occorre minare la sua identità, asservire il cittadino alle leggi universali del profitto e del mercato globale, portandolo a sacrificare se stesso e la propria salute, meglio se con ingenua e distratta inconsapevolezza.

 

Ilaria Bifarini

 

 
Possibili brogli PDF Stampa E-mail

1 Novembre 2016

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La percezione che qui da noi si ha della campagna presidenziale americana è quella che ci viene proposta dai nostri media; che poi – guarda caso – è la copia in carta-carbone di quella che è ossessivamente sostenuta dai media statunitensi. Dunque, Donald Trump sarebbe un pazzo e uno sporcaccione, e sarebbe indietro di 5, 10, 20 punti nelle intenzioni di voto. Hillary Clinton, invece, sarebbe una persona gradevole e assennata, ed avrebbe praticamente la vittoria già in tasca. Tutto falso. Se le cose stessero veramente così, non si capirebbe il perché di questa incredibile guerra santa che è stata scatenata negli USA contro il “pericolo” Trump. Se il candidato repubblicano è un “pericolo”, allora vuol dire che è possibile che vinca. Perché – venendo clamorosamente meno al suo dovere di rappresentare l’intera nazione – il malinconico Presidente uscente si è messo a fare comizi per una candidata e contro un altro candidato? Perché tutto il caravanserraglio di Hollywood è sceso in campo con una valanga di insulti (e di idiozie)? Perché il mondo delle banche e degli affari si è scatenato senza ritegno? Perché gli sceicchi del petrolio sono in panico? Perché il vero e proprio terrore che ha colto i poteri forti, perché tanto spreco di energie – e di miliardi – se la Clinton ha già vinto? Semplice: perché non è vero niente. Sui due candidati, sui loro “scheletri negli armadi” e – soprattutto – sulla loro propensione o meno a scatenare un nuovo grande conflitto mondiale, tornerò in una prossima occasione. Adesso, prescindendo da ogni valutazione di carattere politico, voglio soffermarmi su un aspetto tecnico – diciamo così – di quest’ultimo scorcio di campagna elettorale: quello della polemica sulla regolarità del voto, esplicitamente messa in dubbio dal candidato repubblicano.

 

Giornali e tv di casa nostra (voci berlusconiane comprese) hanno spiegato la cosa in questi termini: Trump dice che accetterà l’esito delle elezioni solo se a vincere sarà lui. Come a dire: è un mezzo spostato, lo capite anche voi. Anche qui, semplice cassa di risonanza dei giornali americani e dei loro miliardarissimi padroni. Vediamo – invece – di capire come stiano veramente le cose. Quando si parla di “brogli”, il cittadino italiano è portato a pensare a quello che talora accadeva (e spero non accada più) nei nostri seggi al tempo delle elezioni: a fine giornata, quando i curiosi avevano abbandonato i seggi elettorali, qualche scrutinatore un po’ più disinvolto si armava di matita copiativa e “correggeva” le schede bianche (facendole diventare di altro colore) ovvero “aggiustava” i voti di preferenza, a beneficio del proprio padrino politico. Talora i “volenterosi” erano più di uno in un singolo seggio, e allora ci si metteva fraternamente d’accordo: tot voti in più al partito X e/o al candidato tale, e altrettanti voti in più al partito Y e/o al candidato tal altro. E, se qualcuno si sognava di protestare, veniva fatto passare per un povero visionario. Era un meccanismo difficile da modificare, perché – non in tutti i casi, naturalmente – “si faceva così”. Questo era il vecchio e artigianale modello italiano di brogli elettorali. Oggi, nell’era digitale, andrebbe meglio un modello “europeo”, più elaborato e meno pasticciato. Niente fogli di carta e matite copiative. Basterebbe il clic di un computer, e quasi tutti i voti di un determinato settore (di quelli più difficili da controllare, per esempio i voti per corrispondenza) sarebbero aggiudicati al candidato gradito all’establishment. Ogni riferimento a quanto è recentemente avvenuto in Austria, naturalmente, è puramente casuale. La Corte Costituzionale di quel paese, d’altro canto, ha annullato il risultato delle elezioni presidenziali per semplici vizi di forma, non certo per irregolarità sostanziali. Vedremo cosa succederà nella nuova votazione, rinviata (una seconda volta) al 4 dicembre, come il nostro referendum. E veniamo adesso al modello “americano”, quello evocato da Trump, il quale ha dichiarato ed ha più volte ribadito che non intende avallare fin da ora quello che potrà essere il risultato finale. E non – come bovinamente affermano certi sprovveduti commentatori – a seconda di chi vincerà, ma a seconda della regolarità o meno delle procedure elettorali. Ma come – obietteranno certi inguaribili americanofili – sarebbe possibile che nella patria della democrazia (si fa per dire) la volontà del popolo sovrano non venisse tutelata da ogni e qualsiasi irregolarità? Ebbene, la risposta è SI. Non soltanto, infatti, gli imbrogli spiccioli (e tanti) ci sono già stati in passato, ma taluni hanno espresso il timore che l’enormità della posta in gioco possa oggi spingere certi ben determinati ambienti a truccare clamorosamente le carte nel caso di risultati infausti (per loro). Ci aggiorna in proposito Maurizio Blondet, forse il più capace giornalista “d’inchiesta” del momento, i cui articoli – stante l’ostracismo di giornali e televisioni – sono reperibili quasi esclusivamente sul web (www.maurizioblondet.it). Blondet esordisce riportando le dichiarazioni di due autorevoli esponenti repubblicani, certo non degli estremisti complottisti: l’ex presidente della Camera dei Deputati, Newt Gingrich, e l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani.  Richiesto dalla tv ABC di commentare l’uscita di Trump su possibili brogli, Gingrich ha dichiarato: «Quello che accade oggi in USA è un colpo di Stato strisciante. Se i media lavorassero normalmente, Trump avrebbe 15 punti di vantaggio e vincerebbe a valanga. (...) Trump è la sola figura, nella politica americana contemporanea, che ha attaccato frontalmente questo meccanismo corrotto e colluso.» Ancora più esplicito il popolarissimo Rudolph Giuliani, che così ha risposto all’intervistatore della CNN: «Se mi volete far dire che le elezioni a Chicago e Philadelphia saranno limpide, sarei un idiota. (...) I Democratici portano pullman di persone da un seggio elettorale all’altro dove votano quattro, cinque, sei, sette, otto, nove volte. (...) Lasciano gente morta negli elenchi, e poi pagano delle persone per votare al posto di questi morti: quattro, cinque, sei, sette, otto, nove volte. I morti generalmente votano per i Democratici.» Come è potuto avvenire tutto ciò? Semplice, come ci spiega Maurizio Blondet: per il solo fatto che in 19 fra gli Stati più popolosi della repubblica stellata (ove risiede quasi il 40% del corpo elettorale) per votare non è necessario un documento d’identità con fotografia. L’elettore (o presunto tale) si presenta al seggio, dichiara un nome presente negli elenchi elettorali, e vota. Poi – se vuole – è liberissimo di andare in un altro seggio, dare un nome diverso e votare una seconda volta; poi una terza, una quarta e così via. Nessuno, fino a questo momento, si è lamentato dell’andazzo. Probabilmente perché, se in genere i morti votano per i Democratici, talora anche qualche candidato repubblicano si sarà avvalso di aiutini dall’oltretomba. Comunque, mai nel passato i due partiti americani hanno messo in dubbio la correttezza dei procedimenti elettorali. Tanto meno in occasione di elezioni presidenziali. Dopo il rituale scambio di contumelie durante i comizi, il candidato sconfitto faceva passare un certo lasso di tempo (più o meno lungo a seconda dei casi) e poi, puntualmente, telefonava al rivale, complimentandosi per la vittoria. Unica eccezione – che io ricordi – fu quella delle presidenziali del 2000, vinte da George Bush jr per soli 537 voti di vantaggio (sembra) ottenuti in Florida. Ma, anche in quel caso, il candidato soccombente finì per riconoscere la vittoria dell’avversario, sia pure dopo ben 36 giorni di schermaglie. Ma questa volta le cose stanno diversamente. La posta in gioco non è soltanto la poltrona più ambita di Washington, ma il destino del mondo, il primato della politica o quello del danaro, la guerra alla Russia o la pace. E, allora, ecco che il pensiero di Trump non sembra andare ai piccoli imbrogli di periferia, ma ai grandi inganni digitali che potrebbero – in via di assoluta ipotesi, naturalmente – falsare l’esito delle consultazioni. Né aiuta, in questo momento, apprendere che in 16 Stati le macchine per il voto elettronico saranno fornite da una società che si chiama “Smartmatic”, di proprietà di tale lord Mark Malloch-Brown, nobiluomo britannico considerato seguace (“agente operativo” lo definisce Blondet) di George Soros. E Soros – si ricorderà – è il “filantropo” promotore di tante nefaste “primavere arabe”, per tacere delle “rivoluzioni colorate” in Ukraina, Georgia e dintorni.

 

Michele Rallo

 

 
La generazione Erasmus PDF Stampa E-mail

31 Ottobre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 29-10-2016 (N.d.d.)

 

L’Ue dev’essere davvero arrivata al capolinea se intende risollevare le sue sorti, pesantemente compromesse da Brexit, dal referendum ungherese sulle politiche migratorie e dall’ascesa politica di movimenti e partiti “euroscettici” in vari Paesi della sedicente unione, attraverso il varo di una proposta di legge tesa a resuscitare l’Interrail come «antidoto all’antieuropeismo». Il Parlamento di Strasburgo, infatti, si è addirittura preso la briga di discutere la proposta di Manfred Weber, deputato tedesco del PPE, in base a cui, si legge sul sito di Repubblica, «per la prima volta sarà valutata la fattibilità di regalare un pass interrail gratuito a tutti i nuovi diciottenni dell’Ue». L’idea di Weber, guarda caso, «piace molto anche ai Socialisti & Democratici, che rivendicano anche la paternità dell’iniziativa, avanzata per la prima volta dall’ungherese Istvan Ujhelyi nell’agosto 2015». Si tratta, in effetti, dell’ennesima tirata propagandistica di un’Unione europea che, con le sue politiche improntate a una sorta di pseudo-melting pot, rimuove le culture tradizionali dei popoli (considerate un ostacolo alla costruzione del mercato unico delle identità mercificate) e promuove l’omogeneizzazione di moltitudini astratte, volutamente deterritorializzate (guai a parlare di patria originaria e di legami comunitari nell’Europa di banchieri e affaristi transnazionali), senza confini e standardizzate all’insegna di stili di vita, gusti musicali, abbigliamento e modi di comunicazione ormai identici a prescindere dalla nazionalità e dalla cultura di appartenenza dei singoli. Un esempio su tutti può essere utile per comprendere il perché del ricorso smodato, da parte di tecnocrati e opinion makers pro-Ue, alla retorica del giovanilismo e dell’Europa da intendersi come mercato unificato del divertimento senza frontiere. I giovani universitari ungheresi appartenenti alla Erasmus Generation, la generazione degli studenti che aveva fatto del “divertimento postmoderno” il proprio dio, affermavano infatti, come notava un articolo del quotidiano La Stampa del 2014, di sentirsi «più simili a un liberal spagnolo o americano che al compagno di banco ungherese e cattolico» e identificavano nello spazio unificato della Ue «la chance per fuggire» dall’Ungheria, dal “provincialismo conservatore magiaro”, per costituirsi parte integrante del mercato delle mode e dei desideri individuali sopra menzionato. Queste nuove generazioni di sradicati e di omologati sconcertano per la propria incapacità, nonché per la totale assenza di volontà, di assumere coscienza degli scenari in cui sono immerse. […]

 

Allorquando gli odierni maîtres à penser della sinistra contemporanea si prodigano nell’apologia diretta delle nuove tecnologie di comunicazione globale, dei voli low-cost (evoluzione dell’ormai obsoleto Interrail) e dell’Unione europea stessa, significa che è in corso un’offensiva politica volta a ridurre, ulteriormente, lo spazio di agibilità e di manovra politica per i fautori dell’Europa delle sovranità e delle patrie originarie. […] L’obiettivo delle caste culturali della sinistra postmoderna è infatti quello di creare un’intera generazione di giovani europei avulsi dalla realtà, sciaguratamente persuasi di vivere nel “meno peggiore dei mondi possibili”, turisti permanenti di Internet e della scappatella low-cost. Teenager globalizzati che travisano la suddetta scappatella low-cost con il partner di turno per effettiva possibilità individuale di godere e avvalersi delle opportunità di “libertà” loro “garantite” dal mercato mondiale del turismo e del nomadismo illimitati. La proposta di riesumazione dell’Interrail, con la sua esplicita funzione di degradazione al rango di turista di massa della nobile, antica e benemerita figura del viaggiatore, si situa esattamente in quest’ottica e persegue una direzione precisa: vincolare al consenso di Bruxelles le nuove generazioni europee in cambio di 6-12 mesi (nel corso di una vita intera) di “divertimento” e di “svago” a zonzo per un continente integralmente pervaso e conquistato da mode, stili di vita e abitudini individuali americane, veicolate e promosse apposta per occultare, negare e delegittimare la storia e le tradizioni, millenarie, dei popoli e delle nazioni d’Europa. L’ascesa elettorale del Front National in Francia, dell’AfD in Germania, la Brexit, la fine del TTIP e gli esiti, se non proprio scontati perlomeno prevedibili, del ballottaggio presidenziale austriaco, hanno infatti accelerato l’andamento di crisi sistemica in cui versano le impopolari e screditate classi dirigenti della Ue. In tale contesto, ciò che Bruxelles ritiene necessario per rivitalizzare il consenso attorno alle politiche di lacrime e sangue imposte a popoli e nazioni d’Europa da Commissione Juncker e sodali è la costruzione di una qualche forma di sostegno pubblico ai piani “mondialisti” di scioglimento delle identità tradizionali nella galassia virtuale della società nichilistica di mercato (priva di memoria storica, dedita all’idolatria del presente e incapace, o impossibilitata, di immaginare una qualsiasi prospettiva di futuro). La ricerca di questa base di consenso pubblico nei confronti dei progetti politici della Ue si può certamente ravvisare nel tentativo di esaltazione mediatica della cosiddetta “Generazione Erasmus”. Mai come in questo periodo storico infatti, spaesati e sradicati “studenti internazionali” dal tasso di ignoranza individuale spesso spaventoso sono incappati, più o meno loro malgrado, in una dinamica di santificazione giornalistica volta, in sostanza, a elevarli a strumentale “avanguardia” di un programma politico transnazionale fondato sul dominio della speculazione finanziaria senza frontiere e sulla filosofia del progresso capitalistico illimitato della Storia. In realtà, come scrive il politologo Marco Tarchi sull’ultimo numero della rivista Diorama Letterario, la Generazione Erasmus è soltanto «un’altra costruzione retorica che trasfigura – e sfigura – una realtà assai più prosaica delle sue rappresentazioni di comodo». A prescindere infatti dalla propria, in verità assai risicata, portata numerica e dall’effettiva autopercezione di appartenenza capace di connotarne i componenti come parte di un “gruppo sociale” realmente esistente, la Generazione Erasmus è un progetto di ingegneria sociale e l’oggetto della produzione sociale di massa del capitalismo contemporaneo (in altri termini, la Generazione Erasmus è il prodotto della società in cui viviamo). Quanto più sopra affermato trova conferma nelle parole pronunciate in merito da alcuni maître à penser del liberalismo odierno, quali Daniel Cohn-Bendit e Umberto Eco. Furono infatti costoro a teorizzare l’istituzione obbligatoria della “società dell’Erasmus” finalizzata allo scioglimento di ogni identità collettiva dei popoli europei (identità nazionale, religiosa, di classe, persino di genere) nel magma volutamente confusionario, postnazionale e postideologico di Cosmopolis, il mondo unificato all’insegna dello stile di vita “disinibito”, cinico, disincantato, apolide e oggettivamente stravagante degli strati superiori della classe media delle megalopoli globali. «Io», esternò in proposito Cohn-Bendit, «vorrei che la Commissione Europea finanziasse ogni anno lo studio all’estero di un milione di studenti europei che poi statisticamente si fidanzerebbero tra loro: che nazionalità avrebbe il figlio di un’olandese nata ad Amsterdam da genitori turchi e un francese nato a Parigi da genitori marocchini? Europea». In tal senso, l’idea di “identità europea” descritta da Cohn-Bendit non ha alcun punto di congiunzione con l’autentica, millenaria e pluralistica tradizione europea di popoli e nazioni ma ne invera, sull’altare del mercato globale delle mode contemporanee, la perfetta negazione. La tradizione europea potrebbe infatti trovare il proprio compimento in primo luogo in quello «Stato europeo identitario» di cui ha parlato Dominique Venner, un pensatore di inequivocabile attualità e innegabile profondità, la cui opera è meritevole di continua riscoperta e incessante divulgazione, nella prefazione al bel libro di Gérard Dussouy, Fondare lo Stato europeo contro l’Europa di Bruxelles (Controcorrente, 2016). Daniel Cohn-Bendit reinventa invece il nobile concetto di “identità europea” in chiave prettamente postidentitaria (ossia, in perfetta continuità con la vulgata sessantottesca riadattata in accezione postmoderna, negando e delegittimando le categorie di nazione, famiglia tradizionale e religione). In una società di mercato, giovanilistica e postidentitaria, la cultura del “divertimento” illimitato (Erasmus Culture) funge infatti da rampa di lancio per la costituzione delle apatiche e subalterne “moltitudini desideranti” invocate dall’intellighenzia liberale di sinistra come i “nuovi europei” del XXI secolo. Nell’Unione europea che hanno in mente le élite di Bruxelles, le identità tradizionali di popoli e nazioni, secondo quanto scrisse il filosofo Costanzo Preve nel libro La Quarta Guerra Mondiale (Edizioni all’Insegna del Veltro, 2008), dovevano essere ridotte alla stregua di «semplici risorse turistiche di mercato» finalizzate al soddisfacimento degli esotici svaghi e sfizi della “nuova classe media globale” in cerca di “avventure” e commistioni culinarie e sessuali con mondi del tutto semplicisticamente percepiti come “altri”. La liberalizzazione integrale dei costumi borghesi, facilitata dall’abbattimento dei costi dell’informazione e dall’irrompere della sottocultura della mobilità globale era, per definizione, l’obiettivo di riferimento degli ideologi della società dell’“Erasmus permanente” e “obbligatorio”, tant’è vero che, già nel gennaio 2012, Umberto Eco affermò che l’Unione europea sarebbe dovuta scaturire proprio da una «rivoluzione sessuale» propedeutica all’estinzione di ogni identità interpretabile come un potenziale ostacolo sulla via dell’estensione, senza limiti né confini, del mercato mondiale dei consumi e dei desideri “liberi”. Eco disse infatti che la «rivoluzione sessuale» generata dalla cosiddetta “Erasmus Experience” avrebbe cancellato ogni retaggio identitario e agevolato la formazione di una cittadinanza “europea” culturalmente compatibile con i principi politici della narrativa liberal-progressista: «Un giovane catalano incontra una ragazza fiamminga, si innamorano, si sposano, diventano europei come i loro figli. L’Erasmus dovrebbe essere obbligatorio […]. Passare un periodo nei paesi dell’Unione Europea, per integrarsi». Ai giorni nostri, “integrazione” è sinonimo di idolatria nei confronti degli stili di vita propri dei settori maggiormente benestanti e snob delle megalopoli globali (Parigi, Londra, New York, ecc.). Essere “integrati” significa infatti, soprattutto per le nuove generazioni, ciniche e totalmente conquistate alla religione postmoderna del denaro e della mobilità, “essere come gli altri”, ossia seguire le stesse mode (perlopiù americane) in fatto di abbigliamento e gusti musicali, nonché condividere gli stessi “divertimenti” e desiderare gli stessi beni di consumo, a prescindere dall’appartenenza nazionale d’origine. Assistiamo, attualmente, a una corsa frenetica, da parte delle nuove generazioni, verso l’adesione al conformismo più ostentato. “Essere come gli altri” è infatti la condicio sine qua non per sentirsi socialmente accettati, integrati e, pertanto, “parte di un tutto”. Generazione Erasmus è, soprattutto, sinonimo di una vera e propria controrivoluzione avente l’obiettivo di affossare qualsiasi ipotesi di antagonismo non soltanto di destra, ma anche di sinistra, rispetto allo stato di cose presenti, al mondo così com’è. La soppressione di ogni identità tradizionale rischia infatti di abolire irrimediabilmente non soltanto i tratti “conservatori” tipici delle moderne società borghesi ma anche quei valori cavallereschi (onore, fedeltà, solidarietà, autenticità ed eroismo) propri del socialismo delle origini. L’ascesa, anche politica, di coloro i quali percepiscono se stessi come interni alla sottocultura della Generazione Erasmus condurrà, inevitabilmente, in direzione di quella che il filosofo francese Olivier Reyha ha a buon diritto definito, nel libro La Dismisura (Controcorrente, 2016), «la marcia infernale del progresso» verso il baratro nichilistico della Storia.

 

Paolo Borgognone

 

 
I precedenti della globalizzazione PDF Stampa E-mail

30 Ottobre 2016

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Da Appelloalpopolo del 20-10-2016 (N.d.d.d.)

 

La globalizzazione e il liberismo sono fenomeni recenti o sono tendenze che si avvicendano da secoli con problemi di ordine democratico? Per rispondere a questa domanda, ovviamente, bisogna aver studiato la storia. A prescindere dal proprio pensiero politico e quindi dalla propria visione economica, chi conosce la storia sa benissimo che la globalizzazione e il liberismo hanno radici secolari, e nei secoli hanno conosciuto periodi di trionfo e periodi di sconfitta e che queste alterne vicende, spesso in secondo piano nella narrazione generalista della storia, hanno avuto in realtà un’influenza molto potente nel determinare le tappe fondamentali della storia dell’uomo. La globalizzazione e il liberismo non sono quindi una novità. Questo è un fatto. Se infatti volgiamo lo sguardo indietro, nella storia, possiamo scorgere dinamiche che si assomigliano e si ripetono ciclicamente, quasi noiosamente.

 

Senza prendere troppo la rincorsa – e senza quindi scomodare l’Impero Romano, che tanto, in realtà, insegnerebbe in merito alle dinamiche globalizzatrici – ci limiteremo a dare uno sguardo veloce agli ultimi duecento anni per dare testimonianza di quanto sopra asserito. Iniziamo con il riassumere gli elementi della globalizzazione e del liberismo delineandone i tratti caratterizzanti. La globalizzazione si fonda sulla ideologica affermazione che i benefici determinati dal commercio internazionale debbano prevaricare qualsiasi altro tipo di esigenza, finanche quella democratica. Secondo i “globalizzatori” i costi derivanti dalla globalizzazione devono essere accettati a prescindere, appunto, dal costo che si dovrà subire. Il commercio internazionale presuppone la libera circolazione di merci, capitali e persone (intese come lavoratori). È infatti solo con il libero e non vincolato esercizio di circolazione di capitali, merci e persone, che il commercio internazionale potrà svilupparsi in maniera ampia e illimitata. I fautori della globalizzazione abbracciano quindi il modello del liberismo, in quanto permette il massimo sviluppo del commercio internazionale. Questa è, in estrema sintesi, l’ideologia globalista/liberista.

 

Torniamo ora alla storia per scoprire le applicazioni pratiche del globalismo e del liberismo. Le origini moderne della globalizzazione sono da rintracciare nel periodo successivo alle grandi scoperte geografiche, una su tutte quella del continente americano, ed in particolare al periodo nel quale si sono iniziate a sfruttare, da parte delle monarchie europee, le risorse economiche delle terre d’oltremare. Se per un attimo paragoniamo quel periodo al nostro e ci preoccupiamo di sostituire “la compagnia delle Indie Orientali” o “la compagnia della Baia di Hudson” alle attuali multinazionali, possiamo iniziare a capire di quale parallelismo storico e di quali dinamiche ripetitive parlavo poco più sopra. Riporto un passo del libro del Prof. Dani Rodrik (Harvard-Priceton) che riesce a sintetizzare con magistrale chiarezza la progressione dell’ideologia globalista liberista nella storia: “Nel corso dei secoli diciassettesimo e diciottesimo, l’espansione del commercio mondiale ebbe un andamento costante con un aumento di circa l’1% l’anno, superando, anche se di poco, l’incremento dei redditi mondiali. Da un certo momento, nella prima parte del diciannovesimo secolo, il commercio mondiale cominciò a crescere a grandi passi, registrando un tasso di crescita senza precedenti di quasi il 4 % l’anno misurato sull’arco dell’intero secolo. I costi di transazione che ostacolano gli scambi internazionali sulle grandi distanze – dovuti alle difficoltà di trasporto e comunicazione, alle limitazioni imposte dai governi e ai rischi per la vita e la proprietà – iniziarono a diminuire precipitosamente. I flussi di capitale prosperarono e la maggior parte delle economie del mondo divennero finanziariamente più integrate che in passato. Fu anche un’epoca di vasti movimenti di persone fra i continenti, con trasferimenti in massa di lavoratori europei verso le Americhe e altre terre di recente insediamento. Per queste ragioni, la maggior parte degli storici dell’economia considera il lungo secolo prima del 1914 come la prima era della globalizzazione.” Continua Rodrik: “Che cosa rese possibile questa era di globalizzazione? I racconti correnti individuano tre importanti cambiamenti avvenuti in questo periodo. In primo luogo, nella prima parte del diciannovesimo secolo le nuove tecnologie sotto forma di navi a vapore, linee ferroviarie, canali navigabili e il telegrafo rivoluzionarono il trasporto e le comunicazioni internazionali e ridussero enormemente i costi del commercio. In secondo luogo, la narrazione dell’economia cambiò allorché le idee degli economisti del libero mercato come Adam Smith e David Ricardo finalmente ottennero qualche adesione. Questo indusse i governi delle principali economie del mondo ad allentare notevolmente le restrizioni che avevano imposto al commercio nella forma di tasse sulle importazioni (dazi doganali) e divieti espliciti. Infine, a partire dagli anni Settanta del secolo, l’adozione del gold standard consentì ai capitali di spostarsi internazionalmente senza il timore di cambiamenti arbitrari nel valore delle valute o di altri scossoni finanziari. […] I racconti correnti omettono due istituzioni di vitale importanza specifiche del diciannovesimo secolo. Queste istituzioni consentirono una più profonda globalizzazione di quanto non fosse stato possibile fino a quel momento […]. La prima era la convergenza nei sistemi di credenze dei più importanti responsabili delle decisioni economiche dell’epoca. Il liberismo economico e le regole del gold standard collegavano i politici di nazioni diverse e li portavano a concordare su pratiche che minimizzavano i costi di transazione nel commercio e nella finanza. […] La seconda istituzione era l’imperialismo. Che fosse di tipo formale o informale, l’imperialismo era un meccanismo per imporre regole favorevoli al commercio, una specie di <parte terza garante>, con i governi dei paesi avanzati come garanti. Le politiche imperialiste dispiegarono il potere economico e militare dei paesi più importanti per mettere in riga il resto del mondo tutte le volte che fu possibile. Così, esse fornirono il contesto perché la globalizzazione raggiungesse anche le aree periferiche dell’economia mondiale (America latina, Asia e Medio Oriente) e poterono essere usate per rendere queste regioni <sicure> per il commercio e la finanza internazionali.”

 

Possiamo quindi affermare che il pieno vigore della globalizzazione e del liberismo economico ci portarono dritti verso la Prima Guerra Mondiale e il fallimentare tentativo di salvataggio del sistema globalista/liberista, perpetrato negli anni a seguito della 1° guerra mondiale, implose dirompente con la crisi del 1929 che dettò la linea economica e finanziaria a tutti gli Stati del mondo. Gli anni ’30 del XX secolo videro la sconfitta della globalizzazione e del liberismo e l’affermarsi in tutte le economie del mondo (da quella comunista a quella nazionalsocialista, passando attraverso quella americana di Roosevelt e quella italiana fascista) dello Stato come attore principale dell’economia. Purtroppo, però, i germi dell’odio e della concorrenza fra Stati, innescati dagli effetti della globalizzazione, avevano inesorabilmente fermentato e la Seconda Guerra Mondiale fu inevitabile. Al finire della guerra e per oltre 30 anni il regime economico adottato fu quello Keynesiano, contrapposto al liberismo, e il commercio internazionale venne imbrigliato nella gabbia del GATT e degli accordi di Bretton Woods. Purtroppo gli anni ’70 del secolo scorso fecero riaffiorare l’ideologia globalista/liberista, Nixon fece cadere Bretton Woods e il GATT andava verso la sua trasformazione in WTO/OMC. Nel frattempo la febbre europeista dilagava e i vincoli al cambio valutario accompagnati dalla formazione del mercato unico prendevano forma nei Trattati europei, in uno stillicidio senza fine originato da una apparentemente innocua “dichiarazione di Schuman” del 1950 che dipanava i suoi effetti fino ai più invasivi trattati oggi in vigore. In men che non si dica il liberismo e la globalizzazione, non solo tornarono prepotentemente in auge, ma addirittura si fecero norma viva attraverso l’adeguamento del diritto interno degli Stati aderenti alla Comunità/Unione europea, alle norme Comunitarie. Alla fine degli anni ’90 la globalizzazione e il liberismo avevano ancora vinto e traccia di questa vittoria la ritroviamo nelle parole del 1997 di Michel Camdessus, amministratore delegato dell’IMF (Fondo Monetario Internazionale): “E’ dimostrato che un sistema sempre più aperto e ispirato al liberismo arreca grandi benefici all’economia mondiale.” “La liberalizzazione dei flussi di capitale è elemento essenziale di un sistema monetario internazionale efficiente in questa era di globalizzazione.”

 

Tocca ora ai Sovranisti, invertire la tendenza prima che sia troppo tardi.

 

Andrea Franceschelli

 

 
Un Nobel bellicista PDF Stampa E-mail

29 Ottobre 2016

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Tutto iniziò negli anni ’90 del secolo scorso, quando gli unici veri vincitori della seconda guerra mondiale – quelli che comunemente chiamiamo “i poteri forti” – decisero che si poteva ormai fare a meno dell’esistenza di un avversario-schermo come l’Unione Sovietica. Ne venne decretata allora la dissoluzione, facendo ben attenzione a porre alla guida della Russia e dei Paesi ex-satelliti un gruppetto di pretoriani di sicuro affidamento; con il còmpito (da taluni accettato anche in buona fede) di “fare le riforme” e di gestire la svendita dell’intera economia di quei Paesi a pro delle multinazionali americane. A Washington, al tempo, regnava il Clinton-marito (1993-2001); e a Mosca, messo da parte l’ingenuo sognatore Gorbaciov, imperava Boris Nikolaevič Eltsin, alias Corvo Bianco (1992-1999). È soltanto la mia “opinione eretica”, naturalmente, ma entrambi – consapevoli o meno – erano due modesti ingranaggi del grande progetto di un “governo mondiale” della finanza da realizzarsi sulle ceneri degli Stati nazionali, USA compresi. Il primo step di quel disegno prevedeva la fine della potenza (politica, economica, militare) della Russia, la neutralizzazione delle potenzialità europee (l’Unione cosiddetta Europea nasce nel 1992) e l’emergere degli Stati Uniti d’America come unica superpotenza dell’intero globo. Il passo successivo sarebbe stato, probabilmente, la liquidazione anche della potenza USA (ostaggio di un debito pubblico al cui confronto il nostro sembra uno scherzo) e l’ufficializzazione del governo mondiale della finanza. Fantapolitica? Non credo proprio.

 

Ma torniamo alla Russia. In quegli anni – e questa non è un’opinione più o meno eretica ma la storia documentata – la sua economia era massacrata, derubata dagli oligarchi e dalle privatizzazioni, la macelleria sociale era al parossismo, i pensionati chiedevano materialmente l’elemosina agli angoli delle strade (li abbiamo visti tutti nei telegiornali del tempo), gli impiegati statali e i militari restavano senza stipendio, e chi poteva vendeva al mercato nero ciò che riusciva a rubare (compresi gli armamenti e la componentistica nucleare). Poi, verso la fine del 1999, uno di quelli che una volta si chiamavano “gli accidenti della storia” aprì le porte del Cremlino a un ex funzionario del KGB, Vladimir Vladimirovič Putin, e la musica cambiò immediatamente. Per farla breve: oggi la macelleria sociale è soltanto un ricordo, i pensionati arrivano a fine mese, lo Stato paga gli stipendi e gli ufficiali non si sognano più di mettere in vendita piccole atomiche “tattiche”. E non solo questo: la Russia ha ripreso gradualmente un ruolo dignitoso sulla scena mondiale, impedendo che gli Stati Uniti assurgessero al ruolo di unica superpotenza e bloccando così il ruolino di marcia del “nuovo ordine mondiale”. Di fronte a un tale delitto di lesa maestà (la maestà del denaro, s’intende), alcuni settori della politica e della finanza mondialista hanno reagito nel modo peggiore: alzando il livello dello scontro e moltiplicando le provocazioni. L’obiettivo dichiarato è quello di “contenere” l’attivismo del Cremlino. L’obiettivo reale – a modesto parere del sottoscritto – è quello di provocare una reazione russa che possa giustificare la “risposta” militare di una NATO che è ormai soltanto il paravento del colonialismo americano in Europa. I più attenti fra i miei lettori ricorderanno forse un articolo da me scritto per “La Risacca” nell’ottobre 2011. Si intitolava – tanto per non restare nel vago – “Qualcuno prepara la terza guerra mondiale”, e vi si affermava fra l’altro: «Secondo taluni analisti, l’unico mezzo che gli USA hanno per sovvertire questa situazione è quello di provocare una guerra di vaste dimensioni che possa portare ad un generale rimescolamento di carte in alcuni “teatri” di vitale interesse: il Medio Oriente, innanzitutto, al confine tra Africa ed Asia; il Mediterraneo, al confine tra Europa e Africa; e il Caucaso, alla periferia della sempre temibile Russia.» E continuavo: «Al centro del mirino, in questo momento, c’è la Siria. (...) Ma l’obiettivo vero è l’Iran. (...) È a quel punto che si aprirebbero gli scenari più pericolosi: Russia e Cina, infatti, non potrebbero assistere passivamente alla distruzione dell’Iran – loro importantissimo alleato e partner commerciale – e potrebbero essere spinte ad intervenire. Ecco l’evenienza che potrebbe preludere ad una terza guerra mondiale.» Certo, quell’analisi è “datata”. In questi ultimi cinque anni la mina iraniana è stata in parte disinnescata; ma, in compenso, un altro micidiale focolaio è stato acceso in Ukraina: qui gli Stati Uniti hanno finanziato una rivolta armata che ha destituito il Presidente filorusso – democraticamente eletto – e portato al potere il solito gruppetto di “democratici” filoamericani. Poi c’è stata la Libia e, infine, il tentativo di dare il colpo di grazia alla Siria, anche a costo di favorire la creazione di un “califfato” terrorista che si ritagliasse una generosa porzione di territori siriani e iracheni. Ma l’intervento della Russia ha sparigliato le carte, costringendo gli americani a fare anche loro qualcosa per contrastare i tagliagole. Salvo – naturalmente – a “sbagliare”, bombardando i siriani e favorendo la difesa dell’ISIS, com’è avvenuto qualche giorno fa.

 

 In tutto ciò, il povero Barack Hussein Obama – 44° Presidente degli Stati Uniti agli sgoccioli di un modestissimo mandato nonché incredibile Premio Nobel per la Pace – vede ogni giorno di più la propria immagine appannata, sfocata, malferma. Ha chiuso la sua carriera con la sconfitta in Siria, con l’affronto della Brexit e con la bocciatura del suo progetto di imporre all’Unione Europea un trattato-capestro di cosiddetto libero scambio. L’ultimo colpo basso lo ha ricevuto dai compatrioti della rivista “Forbes”, massima autorità mondiale in materia di ricchi e famosi. Fino ad ieri, nella graduatoria degli “uomini più potenti del mondo” il Presidente degli Stati Uniti era immancabilmente al primo posto. Oggi al primo posto c’è Putin, al secondo Angela Merckel, e lui – il povero Premio Nobel – solamente al terzo. Potete controllare voi stessi, digitando su Google “più potenti forbes”.

 

È questo il clima in cui è maturata l’ultima provocazione: quella dell’annunzio di una “guerra cibernetica” contro la Russia. Mosca ha risposto che gli Stati Uniti “scherzano col fuoco”. Speriamo che ci si fermi agli scherzi, se così vogliamo chiamarli. Speriamo che Putin – come ha fatto finora – mantenga i nervi calmi e non cada nella trappola di rappresaglie e controrappresaglie. Perché il pericolo di una guerra mondiale è tutt’altro che remoto. Peraltro, la linea del fronte non sarebbe in America, ma qui, in Europa. E noi, in aggiunta, siamo tanto coglioni da mandare i nostri soldati a partecipare ai giochetti provocatori della NATO ai confini della Russia.

 

Michele Rallo

 

 
La società del demenziale PDF Stampa E-mail

28 Ottobre 2016

 

Da Lettera43 del 22-10-2016 (N.d.d.)

 

La società dello spettacolo di Guy Debord non esiste più e anche il teatro dell'assurdo non si sente troppo bene. Siamo alla società del demenziale: si impongono personaggi che non esistono, che fanno cose che non ci sono, ma vengono acclamati. Professioni al limite del vago, dalle qualifiche esotiche, molto in voga webmaster, che sarebbe un mestiere vero ma ha finito per qualificare chi è in attesa della grande occasione, come il deputato pentastellato Luigi di Maio, talmente master del web che non sa capire le email che riceve. Ma vanno fortissimo anche i trend setter e gli influencer, per dire accalappiare i soliti gonzi che son sempre gli stessi anche se cambiano i giocattolini per attirarli. C'è una tale Chiara Ferragni, che si segnala attualmente come fidanzata di Fedez, il rapper a 5 stelle da reality, la quale «fattura 10 milioni l'anno». Come fa? «Col blog», che se lo vai a vedere è un centro commerciale, una Matrioska di pubblicità, una dentro l'altra con sotto la musichetta da boutique, ma lei spiega che i veri soldi adesso li sta facendo con la trovata delle scarpe con su i personaggi dei cartoni animati. Geniale. Un'altra, una influencer, ha spiegato al programma di Santoro la fatica di vivere, di alzarsi e farsi le pose su internet ogni mattina prima di uscir di casa, verso la sua vita di impegni vaghi, di incontri vaghi: «Bisogna posizionare il telefono sul calorifero, scegliere la giusta angolazione, la luce, insomma non è facile».

 

La società del vago, costruita su cose che non esistono, sforna soggetti come Gianluca Vacchi, uno che si filma mentre balla e mette in mostra i tatuaggi. «Imprenditore», lo hanno definito, che è diventata un'altra dimensione passepartout, ma la famiglia gli ha imposto di star lontano dall'azienda, come a dirgli «fai meno danni a consumare risorse che a crearne». Ma poi ci sono i soliti analisti e commentatori specializzati in gossip, che sarebbero la fuffa sopra la fuffa, e che di questi qui ti spiegano vita morte e miracoli, ti insegnano perché sono imprescindibili nella società demenziale. Queste categorie di saltimbanchi e apparenti ci sono sempre state, ma appartenevano prima alle cortigianerie poi al mondo dello spettacolo, ben recintato e diviso dal resto. Adesso siamo oltre, siamo alla decisa preponderanza di queste Matrioske, le apri una dopo l'altra e infine trovi niente, ma fatturano milioni, alle volte senza dichiararli. E intanto pontificano di geopolitica, ambiente e teologia.

 

Non vale neppure maledire il solito capitalismo responsabile di tutti i guai, evergreen di Toni Negri ciclicamente riscoperto, perché qui siamo all'esatto contrario, non si produce niente, non esiste più una distinzione, chiara, secca, tra produzione di beni e produzione di aria. Siamo alla bolla speculativa umana, al fantasy personale, certi soggetti sono come gli schemi Ponzi, si finanziano di credulità popolare e i primi a crederci sono le lumpensciampiste, i sottoproletari ma anche i proletari uniti nell'adorazione del nulla. È tornata in auge pure Wanna Marchi, da Maurizio Costanzo ha rivendicato un ruolo di protagonista nella televisione commerciale e lamentato una sua esclusione al Grande Fratello vip. Il che, considerando il livello, ci poteva stare, ma è lecito domandarsi che cosa abbia mai fatto Wanna Marchi a parte vendere sassi di sale e alghe insieme al mago do Nascimiento che faceva il domestico in ambienti allegri e poi è scappato in Brasile.

 

La società del demenziale vive di polemiche inesistenti su problemi inesistenti da gente inesistente. Proprio al Grande Fratello vip, dove mancano i vip, ci si è scannati per giorni sulle confidenze di un ex di Simona Ventura con un pugile dilettante, Clemente Russo, che irrideva i gay con epiteti vernacolari: apriti cielo, si è scomodato perfino un ministro che ha annunciato una comica ispezione nella 'casa dei vip', impermeabile al grottesco perché con tutta evidenza trattavasi di caso apparecchiato a tavolino per tirar su gli ascolti. Se proprio doveva scandalizzarsi, il ministro, perché l'ispezione non l'ha mandata a Fermo, dove la cittadinanza tutta, comprese certe figure istituzionali, ha mitizzato come «figlio nostro, figlio della città» un ultrà razzista che ha ammazzato di botte un nigeriano per noia?

 

Anche un referendum su intricate questioni di diritto costituzionale può finire nel tritacarne del gossip, ma quello che conta davvero è il calciatore interista Mauro Icardi, che per procuratore o procuratrice ha la avvenente fidanzata Wanda Nara, famosa per i suoi scatti audaci, e che in una recente autobiografia, perché oggi le autobiografie si fanno sui 23 anni, ha detto che se gli ultras non la smettono di stressarlo lui chiama cinquanta o cento criminali dall'Argentina e li fa fuori tutti. Gli ultras non l'hanno presa bene, si sono precipitati sotto casa sua ed è dovuto intervenire il portiere del palazzo. Ed è chiaro che anche in questo caso si tratta di un cafarnao preparato a tavolino, perché nessun editore può essere talmente incosciente da lasciar passare in un libro una frase del genere se non vuole. Anche Fabrizio Corona, dicono, viene salvato a volte dal portinaio solerte. Come minimo, dagli adoratori che, sotto casa sua, aspettano il lancio delle mutande. In agosto gli hanno mandato un avvertimento minatorio, cosa che ha fatto intervenire la Dda di Milano che ha in qualche modo certificato quello che a Milano si ripeteva da una decina d'anni, e cioè che Corona con le cattive compagnie c'era dentro fino al collo. Adesso lo perseguono non 'per un controsoffitto' (è già partita la grancassa disinformativa), quanto per presunti legami con le cosche, debiti stellari, rapporti poco chiari. Il sospetto è che il 'fotografo dei vip', del quale nessuno salvo i ricattati ha mai visto una foto, abbia sviluppato una rete di riciclaggio a macchia di leopardo con la scusa delle ospitate nei locali da sballo. Altro che «paga per due scatti». E uno così il Tribunale di Sorveglianza di Milano l'aveva lasciato libero, due volte, a dispetto delle plateali violazioni dei termini di libertà vigilata: pochi giorni prima di venire arrestato di nuovo, Corona sfilava in passerella per uno stilista. E la gente che ancora lo tifa, lo difende, dice che uno così fa bene all'economia, che produce ricchezza quando invece è una fabbrica di bancarotte e di evasioni fiscali. Come ci siamo ridotti, come potremo ridurci oltre?

 

Massimo Del Papa

 

 
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