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Aria di guerra PDF Stampa E-mail

17 Ottobre 2016

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Da Appelloalpopolo del 15-10-2016 (N.d.d.)

 

Per informare ma anche per chiarire le idee a me stesso, scrivo un resoconto dell’incontro pubblico, svoltosi ieri a Bologna, di presentazione dell’ultimo numero della rivista di geopolitica “Limes”, dedicato alla possibile guerra Nato-Russia. I relatori erano il direttore di Limes Lucio Caracciolo, il console russo a Bologna Igor Pellicciari e il generale già rappresentante dell’Italia nella Nato Giuseppe Cucchi.

 

Cominciamo col dire che la tesi di fondo di tutto l’incontro si fondava sulla convinzione che vi siano: a) da parte americana, la volontà di contenere e logorare la Russia per impedirle una saldatura con la Germania e la Cina; b) da parte russa, una reazione che non si limita più al livello difensivo ma si fonda sul rilanciare nuove ambizioni come, per esempio, il ripristino di basi ex-sovietiche in Egitto; c) da entrambe le parti, secondo i relatori, non sussisterebbe però una deliberata decisione di arrivare prima o poi allo scontro diretto; questa solida convinzione è stata, a mio parere, la parte più debole della tesi esposta: di fatto non possiamo sapere se, al contrario, lo scenario di guerra aperta non sia sin da adesso pianificato come obiettivo e finalità dalla parte in conflitto ch’è militarmente in posizione di vantaggio, vale a dire gli Stati Uniti. Ad ogni modo, Lucio Caracciolo ha ribadito quanto già scritto all’indomani della crisi ucraina: questa crisi russo-occidentale è scoppiata per bloccare, da parte statunitense, una serie di accordi economici bilaterali che erano stati stipulati fra Germania e Russia. A tal proposito, è interessante che sia stato Giuseppe Cucchi – un ex-generale della Nato – ad affermare ieri senza mezzi termini come la “rivoluzione” in Ucraina sia stata deliberatamente provocata dagli Stati Uniti. La tesi di fondo di Caracciolo è che il susseguirsi di casus belli e provocazioni volte a logorare la Russia (l’abbattimento dell’aereo russo da parte della Turchia, il bombardamento americano sui soldati siriani che combattevano l’Isis in alleanza coi russi, eccetera), possano alla fine generare un evento che sfugge al controllo e alla volontà degli stessi che l’hanno provocato. A tale proposito, il console russo ha però fatto notare che i casus belli già avvenuti sarebbero stati più che sufficienti per far scoppiare una guerra aperta. Se ciò non si è verificato, a detta del console, ne consegue che la volontà di arrivare sino a quel punto non è al momento presente. A proposito del bombardamento “per errore” effettuato dagli americani ai danni dei soldati siriani, tutti e tre i relatori – due dei quali, va ricordato, sono decisamente filo-atlantisti – hanno ribadito una tesi cospirativa piuttosto inquietante: quell’attacco, hanno sostenuto, non è stato altro che un colpo di mano dei militari del Pentagono, svolto in aperta contrapposizione alla linea del Segretario di Stato John Kerry, ritenuta dai generali americani eccessivamente morbida.

 

Arrivati al momento delle domande da parte della platea, io sono intervenuto ponendo ai relatori due quesiti. Il primo riguardava la notizia riportata l’altro ieri da diverse testate – tra cui il “Fatto Quotidiano” e il “Corriere della Sera” – secondo cui il governo russo avrebbe ordinato ai famigliari dei funzionari all’estero di ritornare in patria. Il console russo mi ha risposto, categoricamente, bollando tale notizia come falsa. Dopodiché, con tono finto-ingenuo ho posto la seguente domanda: “Per quel che sappiamo sulla base di dichiarazioni pubbliche, Hillary Clinton vuole proseguire la contrapposizione con la Russia, mentre Trump vuole avviare una distensione dei rapporti. Stando così le cose e considerando che un eventuale conflitto Nato-Russia interesserebbe il territorio dell’Europa, perché un cittadino italiano o di qualsiasi altro paese europeo dovrebbe auspicare la vittoria di Hillary Clinton?” La risposta di Caracciolo è stata piuttosto deprimente. In buona sostanza, egli ha sostenuto che sia comunque preferibile la Clinton per il semplice motivo che, a differenza di Trump, la candidata democratica ha esperienza e visione politica. Come se il fatto che suddetta visione contempli la guerra, cioè, fosse nulla più che un dettaglio. Ben diversa la posizione del generale Cucchi: a parere di quest’ultimo, la Clinton rappresenta la continuità con una politica volta a contenere e subordinare i paesi europei dal punto di vista economico e militare. Dunque, ha detto il generale, “Ben venga Trump” s’egli davvero rappresenta una discontinuità rispetto a questa strategia anti-europea.

 

Come prevedibile, insomma, l’incontro ha chiarito alcuni aspetti ma ne ha lasciati in ombra degli altri.  Detto questo, pur non condividendone affatto le posizioni filo-occidentali e filo-atlantiste, penso che il lavoro della rivista “Limes” sia molto utile, soprattutto se consideriamo di essere immersi in uno scenario informativo composto da media mainstream totalmente inaffidabili.

 

Riccardo Paccosi

 

 
Commedia degli equivoci PDF Stampa E-mail

16 Ottobre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 14-10-2016 (N.d.d.)

 

Come antidoto a una rivoluzione che non arrivava mai e a uno Stato borghese che non si decideva a tirare le cuoia, negli anni Settanta si andava a vedere Dario Fo. Gli spettacoli di solito erano in periferia, una fabbrica occupata o dismessa, una Camera del lavoro, un centro sociale, una cooperativa, un tendone. I titoli erano a volte chilometrici: Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e grandi, L’operaio conosce solo 300 parole il padrone 1000 per questo lui è il padrone; altri sintetici: Fedayn, Il Fanfani rapito, ma lunghi o corti che fossero sul palcoscenico succedeva sempre la stessa cosa: gli attori correvano, i tamburi rullavano, c’erano bandiere e marce e canti, smorfie e sberleffi, volti stralunati, concitazione. Anche il pubblico era identico. Tante barbe, clarks e eskimo in quello maschile, zoccoli olandesi, gonnellone, borse di tolfa e capelli crespi per quello femminile. Dieci anni prima, Fo era stato il beniamino della piccola e media borghesia milanese dei teatri di centro: Comica finale, Gli arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è sfortunato in amore, un Feydeau alla meneghina che ancora non si era reincarnato in un Brecht alla cassoeula, e dieci anni dopo lo era dei loro figli e questo passaggio di consegne era in fondo un modo simbolico per uccidere il padre, in platea come sulla scena.

 

Ancora un decennio e i componenti della prima si sarebbero limitati fisicamente a prenderne il posto, negli uffici pubblici, in banca, in azienda, l’eterno ribellismo italiano che fa rima con il conformismo e permette di vivere al potere facendo finta di essere all’opposizione. Quanto al giullare della borghesia divenuto poi teatrante irregolare e militante, ad attenderlo ci sarà addirittura il Nobel per la letteratura e insomma, «a caval donato non si guarda in bocca», come già aveva detto Emilio Cecchi quando la scelta era caduta su Quasimodo. Al netto del talento, quella di Dario Fo è una storia arci-italiana. A diciott’anni è un «ragazzo di Salò», a trentacinque gli affidano Canzonissima alla televisione di Stato, a quaranta vuole radere al suolo lo Stato borghese, a cinquanta è di nuovo alla televisione di Stato con Mistero buffo, «opera in cui un giullare contemporaneo si è posto senza riserve al servizio del popolo per esprimerne i bisogni di autonomia dalla cultura borghese con le sue diverse varianti dal fascismo al revisionismo. Un intervento sul fronte culturale che assolve al suo compito di strumento per la ricomposizione ideologica e politica del proletariato in lotta per il comunismo». Esemplare, è il caso di dire. In questo curioso intreccio c’è la filigrana di un carattere. Nelle note biografiche descritte negli anni caldi della contestazione, di Salò naturalmente non c’è traccia e quella di Dario Fo è «una famiglia proletaria di tradizioni democratiche e antifasciste». Il padre è ferroviere, poi capo stazione, e probabilmente il Regime per tutto il Ventennio gli pagherà lo stipendio senza accorgersi che sotto la camicia nera ce n’è una rossa. Quanto al figlio, che alla Rai comincerà a collaborare già nel 1952, la sfortunata esperienza di Canzonissima, censura e licenziamento, viene presentata come «una lezione pratica sulla natura profondamente reazionaria dello Stato e dei suoi strumenti di oppressione e controllo delle masse popolari», e il suo teatro borghese rivisto come «teatro sempre più politico dove la cultura popolare è individuata nel presente del movimento reale della lotta di classe». Più semplicemente, Fo era entrato in rotta di collisione con quello stesso potere di cui faceva parte, si era illuso di poter fare la contestazione con l’appoggio dei carabinieri. A suo onore va detto che ne accettò e ne pagò le conseguenze, ma la estremizzazione del suo teatro, demagogico, retorico, chiassoso e logorroico, se da un lato rispecchiava il suo nuovo ed esacerbato estremismo politico, era dall’altro funzionale alla ricerca di un pubblico alternativo a quello tradizionale ormai precluso. «Da artista amico del popolo ad artista al servizio del movimento rivoluzionario proletario, giullare del popolo in mezzo al popolo, nei quartieri, nelle fabbriche occupate, nelle piazze, nei mercati coperti, nelle scuole» recitano le note cronologiche a Mistero buffo del 1974. Ora, solo in Italia si è verificato il curioso fatto della sovversione fatta con la connivenza e/o l’indifferenza dell’ordine costituito e gli anni Settanta in Italia sono stati proprio questo, una gigantesca commedia degli equivoci dove si strillava di voler abbattere il potere e si ristrillava se poi il potere non ci stava a farsi abbattere, un’opera dei pupi spesso e volentieri sanguinosa, politicamente parlando, ma, intellettualmente parlando, sempre opera dei pupi: nessun artista moriva di fame per le sue idee «rivoluzionarie», nessun artista finiva in galera per le sue idee «rivoluzionarie» e per ogni porta che si chiudeva ce n’era un’altra pronta ad aprirsi come camera di compensazione. Il giuoco delle parti, avrebbe detto Pirandello, premio Nobel come Fo. Appunto.

 

Stenio Solinas

 

 
Istruzione utilitaristica PDF Stampa E-mail

15 Ottobre 2016

 

Da Appelloalpopolo del 9-10-2016 (N.d.d.)

 

La riforma della scuola italiana si inserisce in un contesto ben più ampio e complesso di quanto non lascino trasparire la cronaca politica e la costante opera di disinformazione messa in atto dai mass-media. In un’epoca nella quale le onnipervasive strategie di dominio flessibile delle major relegano ministri, tecnici, sindacalisti “di regime” al ruolo di comparse in un gioco che non ha proprio nulla di reale e democratico, chi sia interessato a comprendere la visione della scuola e della società propria della riforma può tranquillamente fare a meno di leggersi i documenti del ministero (di una istruzione, peraltro, che ormai ufficialmente non è neppure più pubblica) e consultare piuttosto, per citare solo una fonte fra le varie disponibili, l’agile rapporto di una trentina di pagine elaborato dalla Tavola Rotonda Europea degli Industriali (European Rounde Table of Industrialists, ERT: fanno parte di questo club esclusivo colossi economici come Nestlé, Total, Siemens, Nokia, Renault, Deutsche Telekom, Fiat, Philips, Olivetti, Volkswagen, insieme a molti altri) con il titolo di Education for Europeans. Towards the Learning Society (Educare gli europei. Verso la società dell’apprendimento). Pubblicato nel 1995, il rapporto dettava le due linee-guida della riforma scolastica europea: 1) l’industria deve stabilire i modi, i tempi e gli strumenti della formazione; 2) l’istruzione è una funzione dell’economia. We have no time to lose, avvertono gli industriali: si avvicina l’epoca «in cui la vita quotidiana sarà immersa nella nuova tecnologia e dovremo affrontare un’intensa competizione che richiederà accresciute abilità».

 

In questa cupa atmosfera di lotta per la sopravvivenza, e a dispetto di certe preoccupazioni umanitarie ostentate con una notevole dose di ipocrisia, la potente lobby ritiene che in futuro ogni cittadino europeo, resistendo alla «propaganda estremista», dovrà interpretare al meglio, cioè «dalla culla alla tomba», le esigenze dell’economia di mercato e della competizione globale più feroci. L’istruzione, che l’ERT considera un «servizio utile» (proprio come la fornitura dell’acqua, dell’elettricità o del gas) offerto a studenti, società e mondo degli affari, andrà valutata e certificata, esattamente come avviene per i prodotti commerciali, con un marchio di qualità di cui è evidente l’ispirazione tayloristica così cara alla “filosofia del lavoro” statunitense e giapponese. Ma il compito principale della scuola sarà quello di abituare gli studenti alla mobilità, fisica e soprattutto “ontologica”. Come si evince dal titolo, il messaggio fondamentale del rapporto è che gli europei dovranno prepararsi a imparare per tutta la vita: un eufemismo per dire che il mercato li costringerà a cambiare continuamente lavoro/sede e a rimanere in eterno precari flessibili, polivalenti, autodisciplinati. Ma l’ultima frontiera dell’istruzione che il rapporto dell’ERT prospetta è rappresentata, per i giovani e per gli adulti, dall’insegnamento a distanza (ODL: open and distance learning), impartito ovviamente a pagamento. Le nuove tecnologie (computer, sistemi di comunicazione satellitare e via cavo, reti interattive di scambio di informazioni, simulatori, sistemi multimediali e di realtà virtuale) perdono di colpo ogni potenzialità emancipatrice per subire una netta strumentalizzazione in senso aziendalistico: l’ODL assicurerebbe, infatti, enormi proventi alle compagnie telefoniche e alle aziende fornitrici dei software didattici, penalizzando pesantemente gli studenti meno abbienti, impossibilitati a pagarsi le video-lezioni trasmesse via internet, e disintegrando il “gruppo classe”, essenziale per imparare a convivere al di là delle differenze di censo o di appartenenza etnico-religiosa. Nessuno, in tutta serietà, può credere che una tecnocrazia (post)totalitaria, nella quale ogni fase dell’esistenza individuale viene finalizzata in modo organico al potenziamento della competitività e dell’efficienza di sistema, possa favorire sia la libera crescita degli alunni, del resto considerati dai PTOF (i Piani triennali di offerta formativa dei singoli istituti) come utenti/clienti, sia la libertà dell’insegnamento sancita dall’art. 33 della Costituzione. La più disastrosa conseguenza della “modernizzazione” non consisterà soltanto nella mercificazione del sapere ma nell’azzeramento delle disobbedienze creative, nell’esilio della cultura perpetrato in nome di un utilitarismo brutale e intollerante (ideologia egemone dell’Età Teocratica paventata dal grande critico letterario americano Harold Bloom) che ne mette a rischio la ricezione e diffusione presso le nuove generazioni.

 

Giampiero Marano

 

 
Berlino vince sempre PDF Stampa E-mail

14 Ottobre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 12-10-2016 (N.d.d.)

 

Non vorrei fosse sfuggita ai più la ultima meravigliosa vittoria di Schauble: è riuscito a impedire anche la minima ristrutturazione del debito greco, ammontante a 294,4 miliardi di euro, pari al 170 % del Pil ellenico, e detenuto al 70 per cento dalla zona euro. Il povero Alexis Tsipras ha commesso un errore in più: ha cercato di metter fuori il Fondo Monetario dalla troika dei creditori, nel calcolo – nella speranza – che i partner europei fossero più umani. E, commossi e impressionati dalla volontà del suo governo di “fare le riforme” (privatizzazioni a sangue) richieste, gli avrebbero accordato un taglio del debito. Con sforzi sovrumani, la Grecia ha prodotto un “avanzo di bilancio primario” (ossia prima del pagamento degli interessi) ormai notevole: 3,3 miliardi di euro nel primo semestre.  Ottenuto con torchiature fiscali del proprio popolo senza precedenti: le famiglie del ceto medio e quello basso hanno visto aumentare il carico fiscale del 337% e hanno perso  l’86 per cento del reddito che avevano, laddove i benestanti hanno perso ‘solo’ il 17-20, ed hanno avuto un aumento del carico fiscale inferiore al 10. I tagli salariali e la disoccupazione (oltre il 27 %) hanno intaccato la salute della popolazione, fatto crescere del 50% la mortalità infantile e le malattie croniche del 26%.

 

L’avanzo primario strappato a questa gente, viene dato ai creditori, e mostra la volontà del governo di pagare… saranno comprensivi, gli europei? Macché. Anzi a maggio hanno preteso un sistema di “aggiustamento automatico” delle spese se non verranno rispettati gli obiettivi del 2018 (tale pretesa non viene esercitata mai, poniamo, sul governo francese).  Dunque la giustificazione che il governo Tsipras  ha usato per torchiare così crudelmente  la gente  – vedrete, la nostra obbedienza alla troika ci otterrà una ristrutturazione del debito – non è più valida. Angela Merkel, che viene descritta come una che si chiude sempre più in se stessa perdendo i contatti con la realtà, ha lasciato completamente la questione greca a Schauble.  Il quale forse, chissà, punta col suo “Nein” ad un alleviamento dell’impossibile debito di Atene a produrre la sconfitta politica di Syriza e la vittoria elettorale di Nea Demokratia, il centro-destra cheai greci disperati si presenta come “più amico” dei creditori e dunque   che può strappare qualche favore.  O più probabilmente, ossessionato dalle elezioni in Germania che si son mostrate disastrose per la sua CDU, non  ha voluto apparire agli elettori tedeschi come uno che “fa un regalo ad Atene”,  e anzi tranquillizzare detti elettori, contribuenti e depositanti (già rabbiosi per  gli interessi zero di Draghi sui loro risparmi),  sul fatto che “i loro soldi” sono  ben protetti dal  loro caro cerbero.  Fatto sta che Schauble ha sbattuto fuori il Fondo Monetario (che un taglio al debito greco lo predica da mesi) e adesso si fa a modo suo: un “prestito” ai greci per pagare i debiti, non ridotti. Più precisamente: ha aggravato la fattura che pagheremo noi contribuenti europei insieme ai tedeschi, perché – uscito il FMI – è il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES, l’Italia vi partecipa con 125 miliardi) che si assume il versamento completo del “prestito” e dei successivi “prestiti” alla Grecia.  Per Schauble va benissimo così, perché i contribuenti tedeschi non hanno l’impressione di essere alleggeriti dei loro soldini.  Al MES i tedeschi (e noi) diamo una garanzia, con la quale il MES si limita a prendere in prestito fondi sui mercati per versarli ad Atene; con questi fondi Atene rimborserà il FMI, la BCE, lo stesso MES. “E’ un circuito quasi chiuso che Schauble potrà dire indolore” davanti ai tedeschi, scrive l’economista Romaric Godin, tanto più che “essendo la ricapitalizzazione delle banche elleniche costata meno del previsto, il MES dovrà versare meno degli 86  miliardi  previsti, ciò che compenserà la non-partecipazione finanziaria del FMI”. Il quale, s’intende, resta creditore di 13 miliardi.  Ma non disturba più ripetendo che il debito greco è insostenibile. Dunque, la UE concede alla Grecia di pagare i suoi debiti facendo nuovi debiti: ciò si chiama sui media “aiutare” la Grecia. E non basta ancora: Atene sperava di avere libero, per la sua sottomissione, il montante di 2,8 miliardi di euro. L’Eurogruppo, guidato da Disselbloem (ossia da Scahuble) ha “liberato” solo 1,1 miliardi. Sono i 1,1 miliardi destinati al “servizio” del debito (essenzialmente alle banche tedesche e francesi), fra cui 450 milioni dovuti al FMI. I restanti 1,7 miliardi che sono stati negati servivano a pagare gli arretrati dello stato greco ai propri fornitori. Fattore cruciale, perché tali arretrati non pagati mettono in crisi le aziende private greche (ce ne sono ancora, miracolo), ossia quelle che devono accumulare profitti, e l’avanzo primario necessario per ripagare il debito agli europei. Pensate un po’ come possono essere invogliati i leggendari “capitali esteri” – che la UE incita i greci ad attirare – ad investirsi in un paese dove tutto ciò che si  guadagna deve essere reso ai creditori, per di più a debito, e  tartassato da simile torchia fiscale. Quale scusa ha trovato l’Eurogruppo per negare la tranche suddetta?  Che forse la Grecia non ha interamente utilizzato la tranche precedente di “aiuti” (sic) in saldo dei suoi arretrati, quegli 1,8 miliardi liberati a giugno.  Tsipras dice di sì, Dijsselbloem dice di no. “Dal punto di vista tecnico niente giustifica questo metodo”, scrive Godin, che è una misura arbitraria fissata dalla UE a maggio, e che dunque la UE può adottare con elasticità. Non ha voluto applicare questa elasticità alla Grecia, che applica alla Francia (e persino in parte all’Italia, minacciata dai “populismi”). Il motivo non può essere che uno: punire Syriza e Tsipras, e i greci, per la loro insubordinazione dell’anno passato.  Avevano votato per referendum, contestando l’Unione Europea, i criminali! Ecco che adesso l’Europa non vi dà più alcuna fiducia!  Soffrite e morite, mascalzoni.

 

E ciò mentre: 1 – la Germania ha aumentato ancora ad agosto il suo attivo commerciale di 20 miliardi di euro; 2 – Deutsche Bank ha ottenuto da BCE   di poter falsificare i suoi stress test fingendo di aver venduto una partecipazione ad una banca cinese, che invece non aveva concluso; una benevola eccezione che altre banche europee avevano chiesto e a cui era stata negata da Draghi. 3)  Hollande ottiene continuamente di sforare il deficit oltre il 3 per cento, come compenso per  aver fatto della Francia il vassallo e lustrascarpe di Berlino. È l’Europa, ragazzi.   Quella che sta letteralmente   provocando l’estinzione della popolazione ellenica (la natalità è calata del 22% rispetto ai livelli pre-crisi) . La crudele dittatura dei ‘due-pesi-due-misure’ ad arbitrio tedesco.

 

In fondo, anche questo è un sintomo della grande apostasia. S’è cessato di pregare “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. La Germania non rimette nemmeno una briciola ai suoi debitori; non le saranno rimessi.

 

Maurizio Blondet

 

 
Il vizio dell'Occidente PDF Stampa E-mail

13 Ottobre 2016

 

In una conferenza all’Umanitaria di qualche giorno fa l’ex ambasciatore Sergio Romano ha dichiarato: “Forse ciò che l’Occidente dovrebbe fare rispetto al Medio Oriente è semplicemente voltarsi dall’altra parte. Lasciare che risolvano i loro problemi da soli. Ma non possiamo. Perché abbiamo educato le nostre opinioni pubbliche a pensare che noi siamo i buoni e che le democrazie hanno il diritto-dovere di esportare se stesse. Non è così”. Siamo lieti che un commentatore così autorevole come Sergio Romano sia giunto, sia pur un po’ faticosamente, alle conclusioni che io avevo tratto già nel 2002 con la pubblicazione de Il vizio oscuro dell’Occidente. Il ‘vizio’ dell’Occidente, quando in buonafede, è quello di credersi il Bene assoluto, di essere una ‘cultura superiore’, e di avere quindi come dice Romano, il “diritto-dovere” di intromettersi in culture diverse dalle nostre portandovi le buone maniere, i nostri valori, le nostre istituzioni. E ciò non vale solo per il Medio Oriente ma per l’intero orbe terracqueo dove siamo presenti, a volte solo con la nostra economia assassina, altre in armi. Tutti gli interventi occidentali, ma soprattutto americani (e in parte francesi) dell’ultimo quarto di secolo si sono risolti in un massacro delle popolazioni che dicevamo di voler aiutare, senza con ciò risolvere i loro problemi ma anzi aggravandoli. Inoltre si sono rivelati un boomerang. 1. Prima guerra del Golfo del 1990. Il pretesto era l’aggressione di Saddam Hussein al Kuwait, Stato peraltro farlocco inventato nel 1960 ad uso degli interessi petroliferi americani. Risultato: circa 158.000 civili iracheni morti sotto le ‘bombe intelligenti’ e i ‘missili chirurgici’ degli Usa senza con questo togliere di mezzo il dittatore lasciato in sella in funzione antiraniana e anticurda. 2. Aggressione alla Serbia paracomunista ma ortodossa di Slobodan Milosevic per il Kosovo (5.500 morti di cui una parte kosovari). Risultato: aver favorito la componente islamica dei Balcani dove ora sono incistate cellule dell’Isis a due passi da noi. 3. Guerra all’Afghanistan del 2001 che col governo talebano aveva trovato sei anni di pace dopo anni di guerre civili (200.000 morti circa). Risultato: in Afghanistan c’è da quattordici anni una guerra civile fra le truppe ‘regolari’ del governo di Ashraf Ghani sostenuto dagli Stati Uniti e i Talebani. Inoltre nel Paese si è infiltrato l’Isis. 4. Guerra all’Iraq del 2003 per eliminare Saddam Hussein. Risultato, oltre a 650.000 morti, una guerra civile fra sunniti e sciiti che ha creato poi lo spazio per la nascita dell’Isis. 5. Guerra alla Somalia del 2006/2007 dove gli Shebab, a somiglianza di ciò che era avvenuto in Afghanistan, avevano riportato un po’ di pace e di ordine, facendo battere in ritirata i ‘signori della guerra’ locali. Risultato, a parte un numero di morti imprecisato, in Somalia c’è oggi una guerra civile fra gli Shebab e il governo fantoccio di Mogadiscio. Inoltre gli Shebab da indipendentisti nazionali si sono trasformati in jihadisti internazionali legati al Califfato di Al Baghdadi. 6. Guerra alla Libia per eliminare Mohammad Gheddafi. Risultato: quel Paese è completamente nel caos, i morti non si contano e dalle sue coste partono migranti di ogni genere diretti verso l’Europa e in particolare verso l’Italia e la Grecia.

 

Ma Sergio Romano si riferiva soprattutto alla situazione in Siria che è la più ‘calda’ insieme a quella libica. In Siria cinque anni fa erano iniziate rivolte popolari, trasformatesi in seguito in vere e proprie formazioni combattenti, contro il regime del dittatore Assad. Le ipotesi erano due. O queste rivolte avevano il supporto della maggioranza della popolazione e allora Assad sarebbe caduto perché nessun dittatore può resistere a lungo se la popolazione gli è contraria e i rivoltosi avrebbero vinto la partita. Oppure Assad, come in Libia Gheddafi, non era isolato e sarebbe stato lui a prevalere. La guerra ha una sua ecologia e andarvi a mettere il dito provoca guai peggiori di quelli che si volevano evitare. Insomma i siriani, come dice Romano, avrebbero dovuto vedersela fra di loro. Intervennero invece gli americani con le loro solite ‘linee rosse’ a favore dei rivoltosi. Questo ha permesso alla Russia di intervenire a sua volta sul campo a favore di Assad. Siamo quindi tornati ai tempi della ‘guerra fredda’ dove le due Superpotenze si fanno la guerra per interposta persona e sulla pelle altrui. Da qui i massacri quotidiani su Aleppo e dintorni e le lacrime di coccodrillo degli Stati occidentali e dei loro reggicoda intellettuali. Inutile aggiungere che anche qui si sono inseriti quelli dell’Isis, che non sono cretini, e approfittano della confusione generale. I russi bombardano i rivoltosi senza fare troppe distinzioni, gli americani, con i loro droni, vorrebbero colpire l’esercito di Assad e gli uomini dell’Isis ma bombardando, come sempre, a ‘chi cojo cojo’ finiscono per uccidere centinaia di civili. Di mezzo ci vanno i siriani dell’una o dell’altra parte o di nessuna parte. C’è poi un particolare che contraddistingue le guerre americane degli ultimi venticinque anni: il boomerang si abbatte regolarmente sugli europei. Siamo noi, e non gli Usa, a dover sopportare le migrazioni che queste guerre provocano o aiutano. Angela Merkel, con una politica intelligente, anche se cinica, ha convinto l’Unione Europea a sborsare tre miliardi di euro al presidente turco Erdogan, uno dei veri e peggiori tagliagole della regione, per arginare il flusso dei profughi siriani. Insomma è l’Europa a pagare regolarmente i costi, non solo economici ma sociali, dell’avventurismo yankee. Quando capiremo che avremmo dovuto sbarazzarci da tempo dell’’amico amerikano’ temo che sarà ormai troppo tardi.

 

Massimo Fini

 

 
Il cigno nero PDF Stampa E-mail

12 Ottobre 2016

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Da ComedonChisciotte del 10-10-2016 (N.d.d.)

 

Il cigno nero, la crisi (ossia recessione-stagnazione più disoccupazione e disinvestimenti, migrazione, instabilità, incertezza di prospettive) permane, compie otto anni e non si intravede alcuna uscita da essa. Da un lato, permane perché è la conseguenza del nuovo tipo di economia, cioè dell’economia finanziaria che opera ormai apertamente attraverso la costruzione e lo svuotamento delle bolle, come strumento di aumento e di concentrazione del reddito e del potere, anche politico, nelle mani di chi la gestisce. Dall’altro lato, permane perché è uno strumento di riforma della società, della legge, dell’uomo, nel senso che consente a chi la gestisce di ridurre a chi la subisce, sostanzialmente col suo consenso, i diritti di lavoratore, di risparmiatore, di utente dei servizi pubblici, di partecipazione politica: di cittadino, in una parola. Quindi essa dissolve anche la polis cioè lo Stato nazionale, l’organizzazione del demos, nella globalizzazione e nella migrazione di massa. Consente insomma di sottomettere e controllare, eliminando gradualmente il diritto anche alla privacy, alla quasi totalità della popolazione che non detiene il potere. Essa gradualmente demolisce i processi di partecipazione, decisione, controllo che salgono dal basso per via elettorale, e lo fa soprattutto togliendo rappresentatività e facoltà ai parlamenti in favore di governi e di organismi tecnici; però al contempo pretende il consenso della base alle sue decisioni e alle sue riforme, ma non lo recepisce per come esso spontaneamente si forma, bensì lo produce come le serve agendo dall’alto, guidando l’informazione, ripetendo incessantemente dogmi spesso falsi finché vengono percepiti come realtà scontata, fissando l’agenda dei temi di cui parlare e i limiti entro cui farlo, delegittimando a priori le posizioni diverse con etichette quali euroscettico, razzista, islamofobo, omofobo, populista. E talora sanziona anche penalmente l’espressione critica o alternativa. Per contro, elargisce sovvenzioni, appoggio, massima visibilità mediatica e autorevolezza istituzionale alle idee guida per il nuovo ordine sociale che sta formando.

 

La crisi non è in realtà crisi, ma struttura; e permane perché è utile, ed è l’elemento portante del nuovo ordinamento globale. In questa logica comprendiamo il senso profondo, strutturale, dell’aumento verticale dei poveri e bisognosi, degli esclusi dal reddito dalle rendite, dal welfare, dalle garanzie. Cioè dal lavoro, dalla pensione, dalla pubblica assistenza come diritti. Sottolineo: come diritti, diritti stabili, non come concessioni volta per volta. Quando si rileva che in Italia gli indigenti, nell’arco di cinque anni, sono passati da 1 milione e mezzo a 4 milioni, quando si rileva che si stanno formando masse di milioni di immigrati, esodati, disoccupati, e quando si rileva che si preparano milioni di futuri pensionati che non avranno una rendita pensionistica sufficiente a vivere – quando si rileva tutto questo, si dovrebbe capire il volto della società che stanno costruendo, aiutandosi molto anche con l’ideale tedesco di austerità elevato a metodo inflessibile di governo: un corpo sociale saldamente nelle mani dell’oligarchia dominante, anche grazie al fatto che gran parte di esso sarà costituita da masse miste di indigenti, di impoveriti, di disoccupati, di immigrati, di pensionati, che sopravvivono grazie a interventi caritatevoli ed emergenziali del governo e di agenzie ampiamente finanziate dal governo, come Caritas, chiesa e sindacati, cioè alti prelati e alti sindacalisti. Molto lautamente remunerati, essi già svolgono un importante ruolo di direzione, consolazione e collegamento in questo schema sociale. La mancanza di reddito e servizi sicuri, la dipendenza da interventi anno per anno, bilancio dopo bilancio, da parte del governo, rende gradualmente queste masse sempre più passive, remissive, quindi politicamente inattive.

 

Il cigno nero non è volato via, ha costruito il suo trono per restare. Effettivamente, il reddito di cittadinanza, al quale in linea di principio sono contrario per varie ragioni anche pedagogiche, sarebbe il miglior antidoto a questa strategia di ingegneria sociale. Ma non potrà mai funzionare se prima non si sarà capito che il denaro oggi è un mero simbolo a costo zero di produzione, e che dunque l‘unico ma decisivo vincolo alla politica di spesa è l’efficacia produttiva della spesa, mentre gli attuali dogmi di austerità e pareggio di bilancio sono un mero inganno genocida e liberticida.

 

 Marco Della Luna

 

 
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