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Modernità è malattia PDF Stampa E-mail

15 Settembre 2016

 

Da Rassegna di Arianna del 12-9-2016 (N.d.d.)

 

Esistono due maniere di vivere, due filosofie esistenziali, due modi di porsi, concretamente e quotidianamente, di fronte al reale: secondo natura e contro natura. La prima maniera era quella dei nostri nonni, specialmente nel contesto della civiltà contadina; la seconda è la nostra, che inizia coi telai meccanici nel XVIII secolo, prosegue con gli opifici del XIX e la catena di montaggio del XX, con le grandi città che vivono di terziario, con le folle “democratiche” che corrono da tutte le parti, ascoltano due o tre telegiornali al giorno, fanno la spesa al supermercato e, la sera, si rintanano nei loro covili a riempirsi di compresse per l’ansia, per la depressione e per l’insonnia, in attesa di riprendere, al mattino dopo, la loro vita artificiale da schiavi consenzienti. Non staremo qui a spiegare perché la modernità sia, in se stessa, una malattia, e perché l’uomo moderno, in quanto tale, sia un malato cronico: è una di quelle cose che o si capiscono spontaneamente, e anteriormente a qualunque ragionamento, oppure non si capiranno mai. Ci limiteremo a indicare l’elemento decisivo di quella malattia: l’alienazione da se stessi, conseguenza, a sua volta, della rottura della relazione verticale dell’esistenza, e, quindi, del rapporto con Dio. Senza più relazioni con Dio, l’uomo ripiomba dentro se stesso; ma non trova sfogo al suo slancio metafisico, per cui o imputridisce, e muore ancor vivo, decomponendosi, oppure si mette volontariamente sulla strada dell’autodistruzione, cercando disperatamente di scrollare da sé quel di più di energia, di tensione, d’inquietudine, le quali, non trovando più uno sbocco verso l’alto, lo cercano verso il basso: verso gl’istinti primordiali, la lussuria, l’ira, la cupidigia.

 

Afferrato in questo ingranaggio, che proietta all’esterno sotto forma di industrie, di megalopoli, di voli intercontinentali, di viaggi nello spazio, di scissione dell’atomo e di manipolazione genetica, fecondazione artificiale e clonazione, l’uomo moderno si trasforma in un analfabeta di se stesso, si atrofizza nei suoi istinti positivi, nel suo nobile slancio verso l’alto, e sprofonda sempre più nella palude delle pulsioni inferiori, trasformandosi in un demone distruttivo e autodistruttivo, in una creatura del male, che odia la vita (aborto, eutanasia, droga, matrimonio omosessuale), ma non ha il coraggio di guardarsi allo specchio e vedersi e giudicarsi per ciò che realmente è diventato, e che si racconta un mare di frottole con le quali si persuade di essere un cavaliere del progresso, della libertà, della giustizia sociale, e chissà di quante altre nobilissime cause. Se poi non ce la fa proprio più, si affida alle cure di una forma di magia nera chiamata psicanalisi, o si riempie di farmaci che bloccano i sintomi del suo male, senza minimamente intaccarne le cause; finché, vinto, si abbandono alla follia, si abbrutisce con l’alcol o gli stupefacenti, si uccide o uccide degli altri esseri umani, proiettando su di essi le sue intollerabili frustrazioni e convincendosi che, una volta eliminata la moglie, il marito, l’amante, il padre, il rivale o il collega di lavoro, le cose andranno meglio, il suo equilibrio verrà ristabilito e la vita gli darà i meritati riconoscimenti per la sua intelligenza, la sua bravura, il suo fascino, la sua creatività. L’uomo premoderno (una figura ancora qua e là esistente, ma sempre più rara), e specialmente il contadino, immerso nel ciclo della natura e della vita, abituato a non dare nulla per scontato, a non fondarsi sulla rivendicazione di “diritti” ma sul lavoro delle sue mani, cosciente dei suoi limiti, della sua fragilità, della sua imperfezione e, soprattutto, della sua mortalità, ma anche fiducioso verso Dio e abbastanza umile da chiedere con la preghiera l’aiuto necessario per le necessità della sua vita, abbastanza onesto da ringraziare per tutto ciò che riceve, a cominciare dal pane quotidiano, non vive in un mondo astratto e artificiale, ma nel mondo reale, concreto, delle cose vere. Egli non sa quel che succede in Australia, né chi ha vinto l’ultima edizione del Grande Fratello, e neppure chi ha conquistato la medaglia d’oro alle Olimpiadi: eppure, cosa strana, non ne risente affatto, non se ne cruccia, non se ne gloria, è immerso nella vita vera e ciò gli basta a riempire i suoi pensieri. Non si vuol dire, con questo, che è uno sprovveduto; se gli si parla di un problema, non solo di carattere circoscritto, ma anche di uno dei grandi problemi della politica nazionale o internazionale, sa vedere d’istinto il nocciolo della questione, sa cogliere i lati deboli di un ragionamento, sa formarsi una sua opinione; oppure, se non è capace di farlo, lo ammette francamente, riconosce di non sapere quali sono le leggi della finanza, o i meccanismi della politica e della diplomazia: non se ne cruccia, ma si rimette alla competenza degli esperti. Tuttavia, riducendo le grandi questioni alla loro nuda essenza, egli ne intuisce molto bene la natura e così, senza alcuna espressione forbita e senza dotte citazioni, di solito intuisce di che cosa si tratta e quel che andrebbe fatto.

 

Qualcuno dirà che questo è il mito del buon selvaggio in versione virgiliana: niente affatto, ne è l’esatto contrario. Rousseau ha una fiducia immotivata e ingiustificata nella bontà originaria e indefettibile degli esseri umani, a patto che la società cattiva non venga a corromperli e a farli tralignare; noi,  invece, stiamo affermando che gli uomini non sono più buoni, ma certo più sereni, più in armonia con se stessi e con il mondo, più pazienti, più responsabili, più laboriosi, più saggi, se non recidono il legame con Dio e con la vita soprannaturale, se non si rinchiudono nella logica dell’immanenza, se non si abbandonano all’etica del relativismo, se non si sprofondano nell’edonismo, se non si affidano ciecamente a un tecnicismo senza scopi, senza valori e senza neppure un’anima. Si potrebbe obiettare che tutto questo è utopistico, e che l’uomo moderno non ha alcuna possibilità reale di recuperare un simile orizzonte esistenziale, ormai consegnato agli archivi della storia. Rispondiamo che l’uomo di oggi può scegliere, interiormente, se appartenere alla modernità, oppure all’eternità; se essere se stesso, o quel che i meccanismi del diabolico consumismo vorrebbero che egli diventasse; se salvare la propria anima, l’incanto del mondo, le ragioni della speranza, oppure abbandonarsi all’angoscia, alla disperazione e alla morte, in cambio del piatto di lenticchie rappresentato dai vestiti firmati, dalla rincorsa al posto di prestigio, da una tecnologia tanto sofisticata e costosa, quanto futile e banale. Per esempio: che non si possa fare a meno della televisione, del telefono, dell’abito firmato, dell’automobile, delle vacanze all’estero, dell’abbronzatura, della palestra, è tutto da vedere; tanto varrebbe dire che il fumatore non può fare a meno delle sigarette, o che l’alcolista non può rinunciare alla bottiglia. Se ci si accorge di essere schiavi delle cose, bisogna strapparsi da esse, costi quello che costi; oppure rassegnarsi a una vita da schiavi, cioè al livello più infimo della condizione umana (o sub-umana). Non pretendiamo, comunque, che si debba rinunciare alla tecnica, o all’economia di un capitalismo moderato, o alla logica del profitto: queste cose sono ormai necessarie per mandare avanti una società complessa, come la nostra; l’importante, però, è non diventarne schiavi. Si può anche adoperare la televisione, l’automobile, eccetera, senza esserne schiavi: cioè usandole con senso di responsabilità, nella misura del necessario e non oltre, e senza mai perdere di vista che l’obiettivo non sono le cose in sé, ma i servizi realmente utili e necessari che esse possono fornirci per puntare a qualche cosa d’altro. La vita materiale, con le sue necessità, deve essere la premessa per la vita spirituale, e, possibilmente, per la vita soprannaturale: questo è il giusto ordine di cose. Se ci si serve della televisione, in qualche misura, per coltivare alcuni bisogni intellettuali, come vedere un vecchio film o documentarsi su un certo argomento di attualità (sapendo, peraltro, che tale documentazione ci verrà fornita in maniera distorta e tendenziosa), ebbene lo si può fare: la televisione non è il diavolo, come non lo è l’automobile, come non lo sono neppure le industrie, le banche o la finanza. Il problema è la dipendenza, la schiavitù; il problema è l’ipertrofia della produzione industriale, che serve a gettare sul mercato cose inutili o nocive, invece di cose utili e necessarie; il problema è la finanza malata, sono le banche speculative, le quali, invece di sostenere il lavoro e offrire un sicuro asilo al risparmio, producono utili per se stesse ed a rischio e pericolo dei risparmiatori, e tagliano le gambe agli imprenditori onesti, negando loro l’accesso al credito, se non a condizioni da usurai.

 

Noi possiamo scegliere se essere abitanti nella modernità o della modernità: nel primo caso resteremo noi stessi, qualunque cosa accada; nel secondo, accetteremo ciecamente, senza critica, senza riserve, tutta la filosofia della modernità: il materialismo, l’edonismo, il relativismo, l’efficientismo, l’utilitarismo, e, soprattutto, l’intellettualismo. Ecco: se dovessimo compendiare in una sola parola l’essenza patologica, cancerogena, della modernità, sceglieremmo proprio questa: l’intellettualismo. L’uomo moderno è malato di intellettualismo; la società moderna è malata d’intellettualismo. Esso non va confuso, si badi, né con la facoltà della ragione, che, di per sé, è una cosa nobilissima, né con l’amore per la cultura e per la ricerca del sapere; ne è, anzi, in un certo senso, la perfetta negazione. Per stabilire il primato dell’intellettualismo, la modernità ha prodotto una nuova figura di parassita sociale, di cialtrone tuttologo e tuttofare: l’intellettuale. Per esistere, l’intellettuale ha bisogno di quella strana cosa, innaturale, e, in ultima analisi, irreale, che è l’opinione pubblica: entità liquida, mutevole, elusiva, inafferrabile, che si nutre di sondaggi (d’opinione) e si mantiene in vita, artificialmente, mediante le “battaglie” portate avanti, appunto, dall’intellettuale. A sua volta, l’opinione pubblica è creata dalla stampa periodica (e, oggi, anche dalla televisione e dalla rete informatica), ossia da ciò che Kierkegaard chiamava, con disprezzo, “le gazzette”. Sono le gazzette che tengono in piedi questa strana e nebulosa entità, chiamata opinione pubblica, che poi sarebbe l’opinione di tutti e di nessuno: e l’opinione, lo sappiamo dalla filosofia greca, è il contrario della certezza, ossia della verità. Ne consegue che tutto si regge sugli umori di una entità fantasmatica e collettiva che si nutre di opinioni, le quali le sono fornite dalle gazzette: le quali, a loro volta, sono gli stipendifici della mala razza degli intellettuali di professione. Sì, lo sappiamo: la maggior parte degli intellettuali, oggi, non scrivono sulle “gazzette”, ma insegnano nelle università, o lavorano negli istituti di ricerca pubblici e privati; come categoria, però, essi nascono precisamente dalle “gazzette”, e questo nel corso del XVIII secolo, con il preciso mandato (della Massoneria e di altre società segrete) di diffondere la ”filosofia dei lumi”. Di questa eredità genetica, che li ricollega ai philosophes francesi e ai savants della Ragione illuminista, spregiudicata e anticristiana, agli intellettuali dei nostri giorni è rimasto appiccicato il lezzo inconfondibile, insieme a tutti gli altri vizi: la superbia, l’inconsistenza, la presunzione, la facilità a imprestare la loro penna al vincitore di turno, lodando le sue virtù e maledicendo le orribili colpe del vinto. E si veda, a titolo di esempio, la sessantennale dialettica di Resistenza/fascismo, di Democrazia/fascismo, di Antifascismo/fascismo (osservando, debitamente, la maiuscola nel polo positivo, e la minuscola nel polo negativo di queste coppie oppositive; e il fatto che il primo termine può variare, mentre il secondo resta fisso, inchiodato alla sua malvagità irredimibile, in saecula saeculorum). A causa della dittatura di questa genia di parassiti presuntuosi e mediocri, tutto il mondo della cultura si è abbassato sulla loro misura. Oggi non abbiamo più dei veri filosofi (cioè persone capaci di pensare con la loro testa in modo rigoroso e originale), o, se li abbiamo, essi vengono bellamente ignorati; in compenso, abbiamo un certo numero di tele-filosofi, di filosofi dalla barba tinta, più o meno fotogenici e sempre rigorosamente politically correct, i quali ci affliggono dal piccolo schermo dispensandoci le loro pillole di saggezza di una desolante miseria speculativa, i loro discorsi da Bar Sport appena rivestiti da una cornice pseudo-filosofica, magari con qualche citazione di Heidegger o di Marcuse. Non abbiamo più nessun’altra categoria di pensatori “puri”, di autentici uomini di cultura, se non personaggi pronti e disposti a prostituirsi in versione televisiva, banalizzando concetti e ragionamenti, appiattendo i contenuti, svuotando di significato il pensiero creativo, l’arte, la scienza, e sempre per dare in pasto al pubblico la sua razione di mangime preconfezionato, la sua biada liofilizzata, come si addice alle pecore e ai buoi, quali in realtà sono gli anonimi signori della cosiddetta “opinione pubblica”.

 

Se così stanno le cose, che fare? La modernità è la malattia: il cancro che ci succhia l’anima e ci ottenebra la mente e la sensibilità. Dobbiamo decidere se vogliamo vivere o morire; e, nel primo caso, metterci in testa che dobbiamo restare ben svegli, senza farci ipnotizzare dal canto delle sirene consumiste; che, se vogliamo salvarci da un lento, progressivo processo d’incretinimento e di abbrutimento, dovremo lottare ogni giorno, ogni minuto, per riconquistare e difendere la nostra umanità, la nostra identità, la nostra personalità. Non a caso l’attacco che i poteri occulti stanno sferrando mira a distruggere queste tre cose: l’umanità, trasformandoci in robot intercambiabili; l’identità, omologandoci sulla misura di un “uomo medio” insipido e ubiquitario, buono per tutte le stagioni, per tutti i climi e tutti gli esperimenti, anche i più diabolici; e la nostra stessa personalità…

 

Francesco Lamendola

 

 
Da movimento a partito PDF Stampa E-mail

14 Settembre 2016

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Da VVOX del 9-9-2016 (N.d.d.)

 

«È un asilo infantile». Non sapremmo dire se nella confusissima e autolesionistica crisi della giunta pentastellata di Virginia Raggi a Roma la diagnosi dell'”assessore per un giorno” Raffaele De Dominicis sia esatta. Ma avendo seguito l’evoluzione del Movimento 5 Stelle fin dagli esordi, e non soltanto nella realtà veneta, se volessimo cercare le cause di fondo dell’oggettiva anarchia improvvisatrice che, per stessa ammissione di molti suoi aderenti, ne caratterizza un po’ ovunque la vita interna, questo giudizio così sprezzante si basa su una verità che sarebbe ora che i grillini (o ex grillini, anche se Beppe Grillo nei frangenti difficili torna indispensabile) affrontassero e tentassero una buona volta di risolvere. Non per loro: per i Comuni da loro amministrati, e per l’Italia che potrebbe trovarsi da loro governata in caso di sfida finale col centrosinistra di Matteo Renzi. È un fatto che spesso, se non quasi sempre, le divisioni che lacerano i 5 Stelle non sono di natura politica in senso stretto, ma personali: il consigliere contro il consigliere, le incomprensioni e rivalità fra questo e quel militante, la malapianta di gruppi informali in faida permanente. Dice: e allora, che c’è di strano, non è così in tutte le forze politiche, anzi non è umanamente così in tutte le organizzazioni che superino il numero di due componenti (e basta vedere certe coppie per rendersi conto che soltanto da soli con se stessi non si finisce a litigare)? Certo, ma di solito, in politica, le antipatie e le differenze di sensibilità si sublimano in linee politiche diverse. In idee più o meno elaborate, e quando c’erano le correnti vere e proprie, saldate pure su interpretazioni ideologiche differenti. Fra i 5 Stelle, no. Ci sono sì idee anche molto distanti (c’è chi è per la decrescita felice e chi per una crescita alternativa, c’è chi dà più importanza al problema della finanza e chi alle questioni più “ordinarie” legate all’ambiente o alla corruzione, e via dicendo), ma vengono dopo, non prima. Perché ciascun pentastellato si considera, in totale buonafede, depositario unico degli ideali del movimento, e di conseguenza, consciamente o inconsciamente, in cuor suo non ammette che un altro, che magari considera valere meno di lui, abbia una responsabilità al posto suo.

 

Spiace doverlo dire visto che è morto (anche se, nel suo piccolo, chi scrive lo va scrivendo su varie testate da almeno sei anni, senza unirsi al coro che blatera di “antipolitica”), ma questa è l’eredità di quella sesquipedale fesseria di Casaleggio – e di Grillo – dell'”uno vale uno”. Tradotto in pratica, questo concetto astrattamente nobile si risolve e si è risolto nel credere che ognuno valesse un altro. Eh, no: uno non vale un altro. Un intelligente non vale un cretino, un capace non vale un incapace. Una persona preparata e di talento non può essere considerata come una che non sa dove sta il mondo, che, nello specifico, non sa nulla di politica, non sa cosa significa lavorare conciliando il bene pubblico con tempi e modi delle istituzioni, e con le fisiologiche dinamiche di un partito. Ecco, il Movimento 5 Stelle dovrebbe rassegnarsi all’idea di diventare un partito. Magari senza chiamarlo così, in ossequio alle esigenze della comunicazione e dell’immagine. E possibilmente evitando di replicare i frusti riti e liturgie dei partiti tradizionali. Ma la sostanza è che gli serve urgentemente dotarsi di una struttura che selezioni i candidati, che controlli seriamente ciò che avviene in basso, che permetta di scegliere secondo competenza (politica!) chi sta in alto. E che apra delle scuole di formazione (politica!), avvalendosi di esperti che insegnino che non bastano la buona volontà e l’onestà, per contrastare gli sciacalli di destra e la sinistra che, loro sì, sono gli ultimi che dovrebbero parlare, responsabili come sono dello sfacelo di Roma e dell’Italia.

 

Alessio Mannino

 

 
Rassegnarsi all'estinzione? PDF Stampa E-mail

13 Settembre 2016

 

Da Rassegna di Arianna dell’11-9-2016 

 

Ormai giornalmente appaiono notizie sul flusso ininterrotto di migranti che parte dalle coste della Libia. A mezza strada verso l'Italia trovano le nostre navi che raccolgono quei "disperati" dei barconi e li trasportano nei porti italiani dove vengono smistati ai vari centri di accoglienza. Sono migliaia e migliaia questi "profughi". Ma non so se il termine con cui vengono qualificati è corretto, poiché solo un'infima percentuale di essi è composta da persone che sfuggono da guerre. La stragrande maggioranza è composta di giovani all'avventura. Molti  -per ammissione degli stessi enti di controllo sovranazionale e nazionale- sono affiliati o simpatizzanti dell'Isis e di altre organizzazioni terroriste. Perlopiù trattasi di musulmani maschi in piena forma fisica. Insomma è un "esercito" che in piena regola e con l'aiuto delle nostre istituzioni sta invadendo l'Italia.

 

Quello dell'accoglienza ai migranti è l'unico "affare" che ancora regge, consentendo di mantenere il PIL su un livello accettabile. Ma le sovvenzioni UE finiranno, e questa massa di stranieri non potrà essere rimpatriata. Il più delle volte non si sa nemmeno da dove provengono poiché rifiutano di farsi identificare. L'Italia si concede due anni per stabilire il diritto di accoglienza stabile agli aventi diritto, gli altri vengono messi alla porta degli ospizi con un foglio di via. Ma non se ne vanno da nessuna parte. Le frontiere del nord Europa per loro sono chiuse. Di ritornare ai luoghi di origine non ci pensano nemmeno. Lavorare non possono perché privi di documenti e di permesso di soggiorno. Alternative? Finire vittime dei caporalati del lavoro nero, dedicarsi alla prostituzione, al furto, alla rapina… oppure armarsi e conquistare un pezzo di territorio italiano in cui affermare il loro diritto all'esistenza. In una recente intervista rilasciata al "Telegraph" da Muhammadu Buhari, presidente della Nigeria, ossia lo Stato da cui proviene il maggior flusso di "migranti" che giungono in Italia, egli spiega come ad abbandonare il Paese siano in gran parte criminali, renitenti alla leva e aspiranti prostitute che non hanno alcun motivo di chiedere asilo o dichiararsi "profughi". "Non credo che i cittadini nigeriani abbiano ragione di lamentarsi. Possono rimanere a casa - ha sottolineato Buhari - dove sono richiesti i loro servizi per ricostruire il paese".

 

Sui social leggo lamentele continue rivolte ai fautori dell'invasione: "L'alleanza fra dirigenza Vaticana e PD non si limita al business migranti, va oltre. Sarebbe ora di finirla con questa invasione, dovrebbe intervenire l'esercito...” Ma di quale esercito si parla?  La gente non sa che in Italia non esiste più un esercito? È stato smantellato da Berlusconi con la cancellazione della leva obbligatoria. Quelle poche migliaia di volontari "militari" sono mercenari agli ordini diretti del ministro della difesa e perlopiù sparpagliati per il mondo a fare le guerre per procura degli USA.  Le caserme italiane sono vuote, tant'è che vengono utilizzate per ospitarvi i "profughi". Profughi che dimostrano ogni giorno di essere elementi poco raccomandabili. La media dei reati comuni è 6 volte maggiore rispetto a quella degli autoctoni. Sia pur che anche numerosi autoctoni come alternativa di sopravvivenza, data la situazione critica che stiamo vivendo, si sono dedicati al malaffare.  Le mafie arruolano sempre più picciotti e chi non può entrare negli organismi mafiosi si arrangia come può con azioni da malavita indipendente.  Siamo alla mercé dei violenti. La polizia deve fare da scorta ai politici. I carabinieri non possono intervenire perché sotto smantellamento. La guardia di finanza è agli ordini di Equitalia. Ormai siamo all'ognuno per sé e Dio per tutti. Ringraziamo di questa situazione tutti i partiti di governo e di opposizione per la loro ignavia. Rendiamoci consapevoli che per prendere il potere in Italia bastano poche migliaia di "terroristi" armati e determinati... la popolazione non ha la forza di reagire, troppi sono vecchi ed imbelli, molti gli omosex, molti i ragazzi viziati e bruciati dalla droga e dall'alcool.

 

Insomma, italiani rassegnatevi all'estinzione!

 

Paolo D’Arpini

 

 
Fossili della storia PDF Stampa E-mail
12 Settembre 2016
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Da Rassegna di Arianna del 9-9-2016 (N.d.d.)

Il progresso e lo sviluppo, lungi dall'aver risolto i problemi dell'uomo ed avergli portato benessere, lo hanno invece stritolato come una qualunque preda tra le spire di un boa constrictor. Mi perdonerà chi mi segue perché ripeto spesso gli stessi concetti, ma poiché considero la comprensione di questi concetti basilare al fine di comprendere il mondo in cui viviamo, continuerò a ripetermi. Parto dunque affermando che nel regno del benessere (l'Occidente in generale ma anche tutti quei Paesi che sognano di diventare "ricchi" come l'Occidente) regna il malessere, e questo è chiaro e pacifico ormai da tempo. Negli Stati Uniti d'America, il Paese che con le buone o con le cattive si propone a faro del mondo, il malessere impera incontrastato. La devastazione, l'inquinamento ambientale, la scarsità delle risorse, sono per contro in continuo aumento e questo va a braccetto con questo malessere che impera nel regno del benessere. E fin qui nulla di nuovo. Il pensiero comune (sempre diffidare del pensiero comune perché non è un pensiero vero ma solamente una "credenza" indotta) crede però che grazie alla scienza, all'economia, alla tecnologia e a tutti i paradigmi imperanti nel nostro mondo, riusciremo a salvare capra e cavoli. Insomma, si inventerà "qualcosa" a misura d'uomo e di pianeta. Ma il problema di fondo del nostro mondo non è il malessere che regna nel mondo del benessere o la questione ambientale o quella dello sfruttamento umano e animale, ecc. Tutto questo, e tanto altro ancora, sono solo delle semplici e anche ovvie conseguenze del mondo che abbiamo costruito e del quale perlomeno le masse (cioè quasi tutti) sono in qualche modo entusiaste. Ad esempio essere entusiasti del "progresso" (e dei suoi bracci armati che si chiamano scienza, economia, tecnologia, ecc.) o anche voler distinguere tra un progresso "buono" e uno "cattivo" (buono per chi? Cattivo per chi?) significa perdere di vista il quadro di fondo di chi siamo, di come ci rapportiamo con i nostri simili, con gli altri viventi, con quell'ambiente che è vivente esso stesso (e che, fino a prova contraria, ci permette di vivere). Significa anche allontanarsi dal cogliere quelle domande esistenziali fondanti che ci accompagnano in questo breve ma intenso e meraviglioso viaggio chiamato Vita.

Per andare più sullo specifico, la tecnologia, ad esempio, lo si voglia ammettere o meno, crea un mondo virtuale che passo dopo passo sostituisce nella psiche (e non solo) collettiva quello naturale. Non ce ne rendiamo conto ma per noi la Natura in quanto tale per noi non esiste più. Dov'è la Natura se viviamo tra riscaldamenti ed arie condizionate (ci vuole una bella perversione a "condizionare" l'aria ed a percepire la cosa come un "miglioramento"), se soffriamo il troppo caldo, il troppo freddo, il troppo vento, la troppa pioggia, se prendiamo la macchina o qualunque altro mezzo per spostarci ovunque, se abbiamo paura di invecchiare (di qui il culto del giovanilismo imperversante) e via andando? La Natura significa semplicemente essere Natura e non guardarla dal finestrino di un auto o da uno schermo in alta definizione (la definizione è così alta che l'occhio umano non può neppure percepirla, ma la gente si indebita lo stesso per comprare la tivù ad alta definizione perché così gli ha detto la pubblicità e perché così fanno tutti) e nemmeno fare "imprese estreme" con l'ausilio di ogni mezzo tecnologico a disposizione. Natura, ad esempio, è guardare il cielo, sentirsi cielo, essere cielo. Non cogliamo inoltre il fatto che distacco dalla Natura significa al tempo stesso distacco da noi stessi (perché siamo Natura) e questo fa sì che il (non)pensiero comune imperante creda che le soluzioni a tutti i nostri problemi possano venire non dalla Natura e da un ritorno (per quanto minimo) ad essa ed ai suoi ritmi, ai suoi modi, ai suoi tempi, bensì da un ulteriore sviluppo tecnologico. L'"homo naturaliter" è stato soppiantato da quello scientifico, tecnologico, economico; nel cambio non ci abbiamo guadagnato. L'accelerata del progresso ha dunque cambiato, oltre a tutto il resto, il nostro modo di pensare, di vivere, di rapportarci al mondo, ai nostri simili, a noi stessi. Il che, tradotto nella sostanza dei fatti, significa che stiamo male anziché bene, e che andando avanti staremo progressivamente peggio. Del resto che il malessere nelle sue varie forme e declinazioni sia la base su cui poggia e prospera il mondo moderno non è una rivelazione da illuminati. Basta guardarsi attorno per coglierlo. Sulla tecnologia il pensiero comune (sempre, sempre, sempre, diffidare del pensiero comune) è che dipende dall'uso che se ne fa. La tecnologia invece non è mai, e sottolineo mai, neutrale, non dipende mai "dall'uso che se ne fa", semplicemente perché cambia il mondo e cambiando quel mondo che abitiamo inevitabilmente cambia anche noi stessi. La tecnologia non è mai estranea al modo di pensare che la pensa, che la concepisce, che la realizza. La gente non vede nulla di intrinsecamente sbagliato nella digitalizzazione e nell'artificializzazione delle nostre Vite. Bisogna invece capire che i rapporti "digitali" non sono rapporti umani e men che meno naturali. Non possono farci "stare bene" come un tramonto, come l'ascolto della risacca del mare o del vento che sibila tra le foglie di un bosco, come l'affetto e l'amore di un nostro simile o anche come il solo contatto di un animale (pet-therapy e non solo). Quando qualcuno ha paura di un'ape, di un ragno, di una tempesta o di qualunque altra manifestazione del mondo naturale, e al tempo stesso non ha paura dell'auto, del treno, dell'inquinamento, del cibo avvelenato che mangia, dell'aria ancor più avvelenata che è costretto a respirare, delle medicine che il medico gli somministra, della tivù, del computer e di tutto il resto, significa che quel qualcuno non ha più nulla di naturale in sé. Punto e a capo. Chiunque abbia cuore e mente aperti è in grado di capire benissimo che quel mondo "sintetico" che ci viene dato in pasto ad ogni piè sospinto è l'esatto opposto di quel mondo naturale per cui siamo, biologicamente e fisiologicamente, fatti, ed a cui, proprio per questo, apparteniamo. E sempre proprio per questo, l'accelerata di progresso che stiamo vivendo, ci cambia, ci rende progressivamente più deboli, più malati, più insicuri, più soli, più persi, più annoiati, sempre più senza riferimenti esistenziali e valoriali; ci rende sempre più vuoti sia fuori che dentro, ci spoglia poco alla volta ma sistematicamente di tutto ciò di cui l'essere umano necessita per stare bene. Non ci vuole molto a capire che la Natura è viva e uno smart-phone è morto. Possiamo stare bene se nel nostro quotidiano ci rapportiamo sempre più con ciò che è morto anziché con ciò che è vivo? In definitiva la tecnologia ci toglie "vita autentica" e la sostituisce con dei surrogati di Natura, ivi inclusa della nostra Natura umana; ma sono, appunto, solo dei surrogati, delle esche velenose ed a rilascio lento. Questo cambio è letale, assassino, e per cogliere questa semplicissima osservazione basta osservare la differenza di comportamento tra un bimbo che vive nella Natura ed uno che vive in una qualunque città (piena di opportunità e scelte) del mondo progredito. Lo ripeto: la tecnologia ci ha separato da quel mondo e da quello stile di vita per cui siamo, psicologicamente, biologicamente, fisiologicamente, fatti e al quale ci siamo adattati da milioni di anni di Vita su questo pianeta.

In definitiva è proprio quel progresso che abbracciamo nelle sue molteplici forme (la civiltà urbana, industriale, tecnologica, ecc.) ad aver reciso definitivamente quelle radici che ci legavano alla Terra, che davano un senso alla nostra Vita, e grazie alle quali, pur con tutte le ovvie "difficoltà" del caso, stavamo bene. La Vita naturale può essere dura e a volte anche durissima, non è di certo una passeggiata su un prato fiorito, ma in quella Vita nessuno è depresso, impasticcato, perso, senza un senso e uno scopo quando si alza la mattina. Quei pochi umani (gli altri il progresso li ha fatti fuori tutti) che ancora vivono in un mondo naturale hanno lo sguardo vivo e non da zombie come quegli pseudoumani che siamo noi diventati nel nostro mondo sviluppato. Per questo stiamo male e proprio questo è il motivo per cui questo malessere profondo si manifesta in maniera più acuta in quei Paesi, Stati Uniti in testa, che sono più "sviluppati", ovvero quei Paesi dove c'è maggior ricchezza, maggior economia, maggior tecnologia, maggior sviluppo. Non è nei paesi "poveri" (a parte il fatto che sono "poveri" a causa nostra) che regna il malessere ma in quelli ricchi. Il nostro problema dunque non è inventare le google cars che andranno da sole guidate da un computer (e così saremo ancor più dipendenti da esse e da chi le controlla) ma semmai trovare ed inventarsi dei modi e degli stili di Vita in cui ci si possa smarcare da tutto questo. Il nostro problema non è inventare le google cars, così come non lo è inventare nuove pasticche e medicine che ci cureranno, né attendere con trepidazione i fantasmagorici progressi dell'ingegneria genetica (un orrore e un delirio indicibili) che ci farà scegliere l'altezza e il colore dei capelli e quello degli occhi dei nostri figli futuri. Tutto questo va esattamente nella direzione opposta dello stare bene perché non fa che renderci più passivi e dipendenti da queste nuove invenzioni e contestualmente sempre più spaesati e soprattutto impauriti. Perché? Perché essere dipendenti da qualcosa, che si tratti di scienza, tecnologia, medicina, economia, lavoro, o anche dalla religione o dal guru di turno, significa non essere se stessi e dunque non sentirsi all'altezza della nostra Vita. Significa essere alla mercé di un qualunque evento esterno che possa verificarsi senza avere le qualità e potenzialità per farvi fronte. La dipendenza da qualcosa, da qualunque cosa, fa sempre stare male perché inevitabilmente crea paura. Ma vorrei concludere invitando a riflettere che con il folle sviluppo tecnologico a cui stiamo quotidianamente assistendo (lo facciamo senza neppure batter ciglio, anzi desiderandolo, addirittura volendogli bene), stiamo contestualmente assistendo alla scomparsa dell'uomo umano, che è stato sostituito da quello tecnologico. Forse oggi non lo capiamo per una mancanza di prospettiva temporale, ma tra soli venti-trenta-cinquant'anni basterà guardare ai giorni nostri per capire che stiamo vivendo gli ultimi giorni da esseri umani ancora abbastanza umani. Credo che si possa affermare senza timore di smentite che grazie al progresso noi umani siamo diventati fossili della storia.

Andrea Bizzocchi

 
 
Rievocando l'11 Settembre PDF Stampa E-mail

11 Settembre 2016

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Furio Colombo in un articolo pubblicato dal Fatto qualche giorno fa ci chiede se ci ricordiamo che cosa stavamo facendo alle 14:45 (ora italiana) dell’11 settembre 2001. Io lo ricordo bene. Dormivo, dopo una notte balorda. Mi svegliò lo squillo del telefono. Era un’amica: “Stanno bombardando New York. Accendi la Tv”. Accesi e vidi quello che più o meno tutti abbiamo visto, fino al collasso delle Torri. Non provai né costernazione né fui preso dalle isterie Fallaci style (“Oh God! Oh my God!”) che poi diventeranno il tema de La rabbia e l’orgoglio. Nella mia testa aleggiavano piuttosto i pensieri che poco dopo il filosofo francese Jean Baudrillard avrebbe messo sulla carta con crudezza, con lucidità e con grande coraggio (e ce ne voleva davvero tanto in quel momento): “che l’abbiamo sognato quell’evento, che tutti senza eccezioni l’abbiamo sognato – perché nessuno può non sognare la distruzione di una potenza, una qualsiasi, che sia diventata tanto egemone – è cosa inaccettabile per la coscienza morale dell’Occidente, eppure è stato fatto, un fatto che si misura appunto attraverso la violenza patetica di tutti i discorsi che vorrebbero cancellarlo” (Lo spirito del terrorismo, 2002). Per tutta la vita ho sognato che bombardassero New York e non potevo essere così disonesto con me stesso e con i lettori da negarlo nel momento in cui il fatto era avvenuto. Eppure ho provato anch’io un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano. Pensavo però che gli americani, colpiti per la prima volta sul loro territorio e che per mezzo secolo avevano colpito, con tranquilla e spietata coscienza, nei territori altrui, che negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale bombardarono a tappeto Lipsia, Dresda, Berlino col preciso scopo di uccidere milioni di civili perché, come dissero esplicitamente i comandi politici e militari statunitensi dell’epoca, bisognava “fiaccare la resistenza del popolo tedesco”, che avevano sganciato una terrificante Bomba su Hiroshima, replicando tre giorni dopo su Nagasaki quando i devastanti effetti dell’Atomica erano diventati evidenti e che nel dopoguerra avevano fatto centinaia di migliaia di vittime innocenti in ogni angolo del pianeta, capissero la lezione. Capissero cioè che cosa vuol dire vedere le proprie abitazioni, le proprie case, i propri grattacieli distrutti d’un sol colpo lasciando sul terreno migliaia o decine di migliaia di morti. Invece il cowboy stordito da quel colpo imprevisto, rialzatosi cominciò a sparare sul bersaglio più a portata di mano e più facile: l’Afghanistan (per la verità il Washington Post e il New York Times – libertà dei giornali americani rispetto a quelli italiani che sono sempre più realisti del re – rivelarono in seguito che i piani per l’aggressione all’Afghanistan e all’Iraq erano pronti da mesi e del resto era circa da un anno che il Pentagono trafficava con il leader dei Tagiki, Massud, per preparare l’invasione dell’Afghanistan).

 

Non c’era nessuna seria ragione per attaccare l’Afghanistan talebano. Bin Laden? L’ambiguo califfo saudita i Talebani se l’erano trovato in casa, ce l’aveva portato il nobile Massud, che in Occidente gode di grande considerazione, perché lo aiutasse a combattere un altro ‘signore della guerra’, Gulbuddin Hekmatyar, suo storico avversario. E quando nell’inverno del 1998 Bill Clinton aveva proposto al Mullah Omar di far fuori Bin Laden, che Omar disprezzava e definiva “un piccolo uomo”, il capo dei Talebani si era dichiarato disponibile purché fossero gli americani a assumersi ufficialmente la responsabilità dell’assassinio. Perché Bin Laden godeva di un certo prestigio in Afghanistan dato che con le sue ricchezze personali vi aveva costruito infrastrutture, strade, ponti, ospedali (cioè quello che avremmo dovuto in seguito fare noi e non abbiamo fatto). Comunque all’ultimo momento Clinton, da cui pur partiva la proposta, si era tirato inspiegabilmente indietro. Non c’era un afghano nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle, non un solo afghano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Qaeda scoperte dopo l’11 settembre. C’erano arabi sauditi, tunisini, egiziani, giordani, yemeniti, ma non afghani. Inoltre, durante i 14 anni di resistenza agli eserciti occupanti i Talebani hanno sempre colpito obiettivi militari e politici, non i civili se non per gli inevitabili ‘effetti collaterali’. Recentemente, il 24 agosto a Kabul, è stata attaccata l’università americana (American University of Kabul) dove studiano molti studenti afghani. I Talebani non solo hanno smentito di essere i responsabili ma hanno dichiarato che apriranno un’inchiesta su questo attentato che ha causato una quindicina di morti. Temono infatti che tra le loro file si siano infiltrati elementi dell’Isis che gli occidentali stano ottusamente favorendo combattendo i Talebani, che per quanto sunniti sono acerrimi nemici di Al Baghdadi, invece che gli uomini del Califfo. E, sia detto di passata, nel codice di comportamento dei guerriglieri talebani, dettato dal Mullah Omar nel 2009, è escluso l’utilizzo di bambini in guerra e tantomeno come kamikaze.

 

Ma questa è storia dell’oggi. Torniamo a quanto accadeva immediatamente dopo l’11 settembre. Gli americani che avevano già portato i loro bombardieri nelle basi dell’alleato Pakistan pretesero dal governo talebano la consegna di Bin Laden. Il governo talebano chiese che gli americani fornissero delle prove o almeno degli indizi consistenti che Bin Laden era alle spalle dell’attentato alle Torri Gemelle e di quelli avvenuti nel 1998 in Kenya e Tanzania. Come avrebbe fatto qualsiasi altro governo e come sta facendo il governo americano a proposito della richiesta turca di estradizione di Gülen. Gli americani risposero arrogantemente: “Le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. E fu la guerra. Leggo nelle cronache rievocative di oggi un certo disprezzo per la scarsa resistenza che i Talebani opposero all’invasione americana. Per forza. I Talebani sul terreno si trovavano di fronte uomini di pari valentia guerriera, i Tagiki di Massud (che nel frattempo era stato assassinato proprio dagli americani per i motivi che ho spiegato nella mia biografia del Mullah Omar) ma dal cielo le loro linee erano costantemente bombardate da diecimila metri d’altezza dai B52. Si ritirarono a Kandahar, la loro storica roccaforte. Ma responsabilmente il Mullah Omar decise la resa, liberando i suoi uomini da ogni impegno, perché i caccia americani bombardavano la città a tappeto, come sempre a chi cojo cojo, distruggendo anche i parchi giochi dei bambini. A quel punto americani e inglesi, che erano anche loro della partita, cominciarono la caccia a Omar su cui pendeva una taglia, allora, di 50 milioni di dollari. Tutti pensavano che Omar fosse intrappolato a Kandahar. Invece era riuscito a sgusciare dall’assedio la notte stessa in cui aveva dichiarato la resa insieme a 1.500 fedelissimi rifugiandosi nel territorio, i Monti Neri sopra Bagram, controllato da un capo tribale, Walid. Individuato finalmente dopo un mese grazie ai satelliti, gli inglesi, a cui era stato dato questo compito, ne chiesero la consegna a Walid. Walid traccheggiò per un paio di giorni consentendo al Mullah Omar quella famosa fuga in moto che per me resta l’ultimo, e forse unico, atto romantico delle sordide guerre ‘post eroiche’ e ‘asimmetriche’ che stiamo combattendo da quindici anni. Con pazienza il Mullah Omar ritesse la sua tela e diede inizio alla resistenza contro gli occupanti stranieri. Qui c’è da sfatare una leggenda, o meglio ancora una balla, in cui cadono anche sperimentati commentatori e inviati occidentali. E cioè che l’indipendentismo talebano sia stato foraggiato dal Pakistan o addirittura che sia un’emanazione dell’Isi, il servizio segreto pakistano. Se così fosse almeno un missile Stinger terra-aria i Talebani lo avrebbero (quei missili che, forniti dagli americani, costrinsero al ritiro i sovietici). È evidente infatti che le difficoltà del movimento indipendentista talebano-afghano derivano da non avere una contraerea. Quando, recentemente, hanno conquistato la città di Kunduz i bombardieri della Nato l’hanno quasi rasa al suolo colpendo anche l’ospedale di Medici senza frontiere, come qualcuno ricorderà. Inoltre il 5 maggio 2009 l’esercito pakistano lanciò un attacco di violenza inaudita, senza precedenti anche per i livelli di questi Paesi turbolenti, nella valle di Swat su ordine del generale americano David Petraeus. L’attacco aveva l’obiettivo di uccidere tutta la dirigenza talebana, Mullah Omar in testa, che si pensava fosse nascosta da quelle parti. Quanti siano stati i morti non si sa. Si sa invece che i profughi da Swat furono due milioni. I giornali italiani titolarono: “Due milioni in fuga dai Talebani”. Invece fuggivano dall’esercito pakistano. Di questo genere sono le informazioni che si danno sull’Afghanistan e questo è l’aiuto che il Pakistan ha fornito al movimento talebano. L’aggressione all’Afghanistan è, per parafrasare Saddam Hussein, ‘la madre’ di tutto ciò che è successo dopo. Gli afghani non sono arabi, sono un antico popolo tradizionale, come i curdi, ma sono pur sempre musulmani. L’aggressione all’Afghanistan, con le successive umiliazioni, sevizie e torture subite dai guerriglieri talebani a Guantanamo ha infiammato l’immaginario del mondo arabo, o almeno di parte di esso. Lo dicono quelle tute arancioni che gli uomini dell’Isis fanno indossare ai loro prigionieri prima di decapitarli com’è documentato da quei loro atroci video. E arancioni erano le tute in cui a Guantanamo gli americani costringevano i prigionieri afghani. All’inizio quindi c’è l’Afghanistan. Poi ci sono stati l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003, l’attacco alla Somalia degli shabaab, per interposta Etiopia, del 2006/2007, l’attacco alla Libia del 2011. L’11 settembre di quest’anno non starò quindi ad ascoltare compunto la lettura dei nomi delle quasi tremila vittime delle Torri Gemelle che si fa ogni anno a Ground Zero. I morti civili provocati direttamente o indirettamente dagli americani e dai loro alleati dopo l’11 settembre assommano a circa un milione. A nominarli tutti uno per uno, ammesso che un nome questi ce l’abbiano, ci vorrebbero quindici anni. Esattamente il periodo di tempo che passa dall’aggressione all’Afghanistan ad oggi.

 

Massimo Fini

 

 
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10 Settembre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 7-9-2016 (N.d.d.)

 

La futurologia, cioè il tentativo di prevedere, su basi scientifiche, il futuro dell’Umanità, è materia da usare con cautela. Troppi errori di valutazione compiuti nel passato per farne una scienza esatta. E tuttavia la notizia, messa in giro dal World Economic Forum, sui destini del lavoro umano, non è da prendere sotto gamba. Secondo il recente rapporto del WEF da qui a pochi anni automazione, intelligenza artificiale, nanotecnologie, biotecnologie e stampa 3D finiranno per polverizzare cinque milioni di posti di lavoro nelle 15 principali economie del mondo. Le premesse ci sono tutte (e le recenti polemiche sulla crisi occupazionale delle banche italiane vanno in questo senso). I settori più a rischio includono quello amministrativo, energetico, finanziario e soprattutto i lavori d’ufficio, dove le macchine si incaricheranno di tutti i compiti di routine. Verrà creata nuova occupazione, certo, ma sarà comunque insufficiente a compensare le perdite. Le nuove sfide, continua il rapporto WEF, impongono che non solo le imprese, ma anche i governi, si riadattino al nuovo scenario e intervengano per disciplinare e regolare il cambiamento. Possibilmente in modo rapido, dal momento che quel fenomeno che il giornalista Paul Mason chiama “transizione verso il postcapitalismo” è già in corso.

 

Secondo lo scienziato Stephen Hawking, avremo due possibilità: “se le macchine produrranno tutto ciò di cui abbiamo bisogno saremo ad un bivio. Se questi prodotti saranno condivisi, l’intera popolazione vivrà nel lusso, ma se i produttori delle macchine riusciranno a impedire la redistribuzione, la maggior parte della popolazione sprofonderà nella miseria”. Al momento, si calcola che già il 53% dei lavori svolti da umani sia interamente automatizzabile, e quindi sostituibile. Secondo il già citato Mason, le monete di scambio del futuro saranno “tempo libero, attività in rete e gratuità”. Le basi di questa trasformazione sono già visibili, ma la cultura della sharing economy è destinata a crescere. “Le persone convertiranno ogni bene in denaro, dalla propria casa alla loro auto”, si legge nel rapporto WEF. Se da un lato la discussione si inserisce nello scenario di una crisi dei mercati di lavoro e di una disoccupazione ormai drammatiche, dall’altro è tanto affascinante quanto utopica l’ipotesi di un futuro prossimo in cui impieghi noiosi o degradanti saranno svolti dalle macchine, mentre gli esseri umani potranno dedicarsi ad attività ben più gratificanti. “L’attuale rivoluzione tecnologica non deve diventare necessariamente una sfida tra esseri umani e macchine”, conclude il rapporto “ma piuttosto un’opportunità per lavorare insieme e fare in modo che le persone esplorino a pieno il loro potenziale. È essenziale comprendere rapidamente i cambiamenti per guidare le nostre economie e la nostra comunità attraverso queste importanti trasformazioni”.

 

Il “che fare?” – domanda d’obbligo in un contesto in rapida evoluzione – non può non considerare la necessità di ripensare radicalmente il nostro sistema nella sua globalità. Occorre individuare nuove politiche di ridistribuzione del valore. Vanno riconsiderate le politiche formative. Va ritrovata la centralità dell’uomo-lavoratore, partecipe dei processi di trasformazione. Sarà urgente realizzare nuove politiche previdenziali ed un nuovo Welfare. Molto insomma c’è da analizzare, prevedere, reinventare: buona materia per i futurologi, per gli economisti ed i sociologi. Ma anche per una politica che non può continuare a vivere rincantucciata a contemplare l’ombelico delle proprie piccole certezze e a baloccarsi con vecchi slogan. Il futuro apparterrà a chi sa immaginarlo e dominarlo, già da ora.

 

Mario Bozzi Sentieri

 

 

 

 
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