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Chi semina vento raccoglie tempesta PDF Stampa E-mail

26 Luglio 2016

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Da Rassegna di Arianna del 24-7-2016 (N.d.d.)

 

Anch'io, come Pino Cabras, guardando Nizza (e adesso Monaco di Baviera), più che all'ISIS ho pensato a GTA (Grand Theft Auto). Quando, qualche anno fa, scrissi un articolo contro l'aberrazione dei videogiochi violenti, fui sottoposto a un "shit storm", tempesta di m... organizzata dalle compagnie produttrici di quella m..., utilizzando decine di migliaia di fan dei videogiochi, che protestavano contro la mia proposta di vietarli per legge, in nome della "libertà di gioco", e della "libertà del mercato". Se guardiamo, di fronte all'ondata assassina di luglio 2016, la Luna invece del dito, capiremo che questo approdo odierno è il frutto della deificazione del Mercato, del Denaro, dell'individualismo sfrenato, della degenerazione libertaria trasformata in arbitrio totale in cui ogni desiderio è diventato legge.  L'impazzimento generale, che attanaglia la società europea è il frutto velenoso di un "modello" sociale e politico disumano, dove l'egoismo, la competizione sfrenata, la violenza sono la regola, mentre la solidarietà e l'amicizia, l'onestà e la civile convivenza sono stati banditi come obsoleti e non "divertenti".

 

Tutto si tiene. E, anche quando "non si tiene", c'è chi usa il tutto ai suoi fini. Il pazzo che spara a Monaco non è probabilmente un terrorista, men che mai islamico. È solo un povero disgraziato demente gettato ai margini della società, che "si vendica" in un colpo solo di quello che ha subito. Ma i creatori di questo mostro, i creatori del Dio Mercato, usano le creature impazzite (che loro stessi hanno prodotto su scala planetaria) per cambiare l'assetto sociale. Il terrorismo viene da quella sorgente. E usa il caos che ha prodotto per trarre il massimo profitto politico.  C'è un filo che lega Charlie Hebdo, Bataclan, Bruxelles, Nizza, Monaco, il golpe turco, Daesh, Afghanistan, Libia, Siria, il nazismo di Kiev, l'esclusione della Russia dalle Olimpiadi? Io credo che ci sia. È la crisi, temo finale, dell'Occidente e dell'Impero. I padroni universali hanno una ricetta: preparare alla guerra, attraverso la paura, i popoli dell'Occidente, per scagliarli contro Russia e Cina. Prima che Russia e Cina siano in grado di fermare la loro follia. Ragionando in grande - solo ragionando in grande - si vede il disegno. E questo disegno prevede la guerra, come passo obbligato. 

 

Giulietto Chiesa

 

 
L'estate del terrore PDF Stampa E-mail

25 Luglio 2016

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Da Comedonchisciotte del 23-7-2016 (N.d.d.)    

 

Chissà quali spiegazioni daranno della nuova ennesima strage, quella che si è consumata a Monaco di Baviera. Finora, per le altre stragi, hanno tirato fuori teorie totalmente assurde come la "radicalizzazione accelerata". Come funziona? C'è un tizio che sino a una settimana fa - letteralmente - si interessava di religione quanto io mi interesso di sci nordico in Giamaica. Improvvisamente quello stesso tizio diventa un fervente islamista radicale, disposto a morire per la fede non prima di falciare decine di persone. Il tutto ci viene detto mantenendo ancora una faccia seria. La spiegazione non può essere quella. Specie quando poi vediamo piloti "depressi" che vengono accusati di aver ammazzato decine di persone nel suicidio aereo (ricordate il caso Germanwings?), o assassini di cui si riferisce che pronuncino sia "Allah u akbar" sia insulti rivolti ai turchi (come a Monaco). Tutto e il contrario di tutto. Il risultato di tutte queste stragi piace a chi ottiene dividendi dall'aumento della paura: tutti devono sentirsi sotto tiro di invasati che possono essere qualsiasi cosa, implacabili come in un videogioco, perché tutti hanno assorbito già dosi di immagini di violenza "normalizzata", hollywoodiana, onnipresente. I casi di Nizza e di Monaco di Baviera non mi hanno richiamato alla mente la sigla ISIS, ma la sigla GTA.

 

Farsi colonizzare dall'immaginario americano predispone a molte dinamiche di quella società, in cui l'imprenditoria della paura conta sempre di più. Il modello americano è fatto di sistemi di sicurezza, giganteschi apparati che ormai hanno la stessa logica espansiva delle metastasi e diventano centri incontrollabili di perturbazione dell'ordine pubblico. Fino a sfruttare ogni disagio ormai sdoganato nella sua manifestazione più cruenta, come negli omicidi di massa nordamericani, e ora europei. L'ingrediente fondamentale del nuovo sistema 'securitario' sono le "breaking news" con cui i notiziari propongono in apertura un nuovo massacro, per masse che giocavano già con le immagini della violenza e ora, scoprendola più reale, accettano docilmente di sacrificare libertà in nome della sicurezza. Vedere i nostri simili abbattuti come birilli in un giorno festivo e spensierato non dispone a ragionare freddamente, perché l'orrore lascia scampo solo ai riflessi difensivi più primordiali. Un evento di questa portata provoca paura, e la paura si combina subito con l'impronta che i media ci hanno lasciato nella mente negli ultimi quindici anni su tutto ciò che dovremmo temere. Siamo stati esposti a dosi massicce di immagini ed emozioni che le redazioni hanno attentamente selezionato. Per gli attentati sul suolo europeo è stato ritenuto quasi doveroso esplorare e rilanciare ogni dettaglio delle emozioni popolari. Per le stragi più lontane, molto più numerose, frequenti e letali, che hanno provocato una marea di vittime in mezzo a popolazioni musulmane, i media occidentali hanno scelto invece una grande nebbia. Sarebbe stato molto imbarazzante far sapere che gli autori di certe stragi siriane erano ad esempio degli alleati dei servizi occidentali, da loro armati e ribattezzati come "ribelli moderati". Molti osservatori hanno fatto notare che la manovalanza di svitati pronti a ogni nefandezza reclutati in Europa dalle formazioni jihadiste è composta da migliaia di individui. Migliaia anche nati e cresciuti in Francia.  Ma non si tratta solo di loro. Il potere ha maneggiato molta violenza in modo spregiudicato, in questi anni. Essa non può avere effetti neutri. Le sue ombre ritornano e oscurano un'estate. Per ora.

 

Pino Cabras

 

 
I cambi di campo di Erdoghan PDF Stampa E-mail

24 Luglio 2016

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Da Rassegna di Arianna del 18-7-2016 (N.d.d.)

 

Sono dunque gli Stati Uniti e la NATO, giustamente schiaffeggiata da Erdogan, i nemici della Turchia democratica salvatasi dai golpisti? O è invece il solito oltranzismo occidentale, che alberga dentro gli Stati Uniti, l’Unione europea e l’Alleanza atlantica? Una 'sottigliezza' che conta ...Il colpo di stato è rientrato, i dubbi restano, tra cui il volo di Erdogan verso la Germania e il presunto diniego della Merkel all’atterraggio del suo aereo. Un fatto è comunque evidente: il tentativo golpista è una risposta, sulla stessa onda degli attentati che hanno insanguinato la Turchia negli ultimi mesi, alla inversione di rotta, prima lenta e poi determinata, della politica regionale e internazionale di Ankara, Nelle ultime settimane si sono succedute infatti alcune iniziative significative dell’intenzione di Erdogan di rompere con quanto da lui perpetrato negli scorsi anni e in particolare nel 2015: il sostegno non solo ai cosiddetti ribelli moderati antiAssad, ma anche all’Isis; la violazione del territorio iracheno a caccia del petrolio rubato in proprio o acquistato dal Daesh; l’abbattimento di un aereo russo lungo il confine con la Siria; il riversamento attraverso il mare Egeo sull’Europa, di centinaia di migliaia di sfollati e profughi, cessato dopo il comunque discutibile accordo con la UE.

 

Tutto questo è stato dichiaratamente rimosso o rinnegato dal capo di stato turco: a marzo appunto l’accordo con l’UE, indubbiamente proficuo per Ankara; a giugno Erdogan ha chiesto scusa a Putin per l’aereo abbattuto; il suo primo ministro Binali Yildirim annunciava intanto la volontà di allacciare rapporti di cooperazione con l’Iraq, l’Iran e persino la Siria di Assad, ponendo così fine all’alleanza pro-Isis di Ankara con il Qatar, l’Arabia saudita e Israele. Anche con quest’ultimo Yildrim ha dichiarato di volere un accordo, ma ritirando il suo sostegno all’Isis e comunque mantenendo le distanze da Tel Aviv sulla questione curda. Mai Erdogan cederà su questo punto: nell’estate del 2014, mentre Netanyahu dichiarava secondo tradizione israeliana, il suo sostegno al Curdistan indipendente, il presidente turco sfilava tra due ali di folla in un villaggio della Turchia orientale, a fianco di un rappresentante locale dei curdi. Un successo, ma dentro una idea di stato unitario. Nulla dunque a che vedere col Pkk, a cui non a caso è stato attribuito un sanguinoso attentato contro una decina di soldati di Ankara nel giugno scorso. Così come non a caso, al rientro all’aeroporto Ataturk, Erdogan ha ribadito davanti ai suoi seguaci, il suo quadruplice motto che esclude ogni “particolarismo” curdo: “una nazione, una bandiera, una patria, uno stato”. Dentro questi vecchi ma anche nuovi confini, chi può avere avuto interesse a tentare un golpe? A Israele, se Erdogan manterrà la parola su Assad, non resterà in mano nulla. Ma all’esterno ci sono tanti altri amici di Netanyahu e nemici di Putin, di Assad, dell’Iran: ed ecco che spunta fuori il nome di Hillary Rodham Clinton, non solo perché notoriamente proisraeliana fino al punto di baciare sulla bocca Sarkozy durante la guerra di Libia, ma anche per la specifica notizia che Fetullah Gulen è stato un suo sostenitore nelle primarie, e tale resterà nelle presidenziali di novembre. Un milione di dollari in favore della signora Rodham, che vanno ad aggiungersi ad altri fondi sostanziosi, tra cui quelli di George Soros.  Chi è Gulen? E ovviamente un turco, anche lui islamico, ma è un nemico acerrimo di Erdogan, esule in Pennsylvania dal 1999: e la Pennsylvania è esattamente lo Stato USA citato dal presidente nello stesso discorso del 16 luglio all’aeroporto di Ataturk, come il luogo dei mandanti del golpe. Da cui la sua richiesta di estradizione a Washington Tutto dunque torna: all’interno della Turchia il nome di Gulen è associabile a quello “Stato parallelo” denunciato ripetutamente da Erdogan come promotore dopo il 2010 di un paio di tentativi di golpe della vecchia guardia kemalista laica e proisraeliana, coperta e protetta anche da una parte della magistratura, a sua volta artefice di processi per corruzione contro uomini dell’entourage del governo di Ankara. É uno “stato” ramificato e diffuso, perché si avvale di due bacini sociali e ideologici turchi convergenti nell’odio verso l’attuale capo di Stato. Da una parte, appunto, i forti residui del kemalismo laico e di derivazione massonica, i Giovani Turchi che nel 1908 rovesciarono l’allora sultano Abdul Hamid per poi procedere durante la grande guerra alle stragi di cristiani armeni. E dall’altra un islamismo diverso da quello nazionalitario di Erdogan, quello appunto di Fetullah Gulen: un islamismo all’occorrenza proisraeliano. Vedi l’episodio della nave turca della flottilla pro-palestinese attaccata dai soldati di Tel Aviv: in quei giorni di giugno del 2010, mentre Erdogan reagìva con parole dure contro lo Stato ebraico per i 9 morti e per la violazione della sovranità turca su quella imbarcazione di aiuti per Gaza, Gulen criticava l’ONG che aveva organizzato la spedizione: "Ciò cui ho assistito non è stato bello. È stato spiacevole". Il fallimento degli "organizzatori" nel non aver tentato di raggiungere un accordo con Israele prima di inoltrare i loro aiuti fu da lui giudicato "un segno di sfida all'autorità" che non avrebbe portato "a risultati fruttuosi". Così il Wall Street Journal del 6 giugno, citato in Wikipedia

 

La svolta in atto è dunque in tutti i sensi significativa, profonda, altro che golpe da operetta come sostenuto superficialmente da alcuni. Importante non solo per le migliaia di arresti seguiti alla sconfitta dei militari ribelli, ma anche per la nuova sconfitta subita da Israele nello scacchiere: dopo la guerra del 2006 contro il Libano, dopo l’accordo sul nucleare iraniano e dopo l’intervento di Putin a fianco di Assad. Questo è il segno principale del fallito golpe, con le sue propaggini lobbistiche in tutto il mondo e nei paesi occidentali in particolare. Un segnale secondario potrebbe essere la locuzione usata dal ministro degli esteri Gentiloni, che in distonia verbale con la corretta posizione della Mogherini, ha parlato di una mera “iniziativa militare” per definire l’assalto liberticida alla democrazia turca. Ma questo è un aspetto minimale. Quel che conta, e che dà il segno a tutta la vicenda è l’aggancio Gulen-“stato parallelo”-Rodham Clinton. Posto che diventi presidente (si noti al proposito quanto corretta è stata la presa di posizione pur prudente di Donald Trump) la candidata democratica ha già subito la prima disastrosa umiliazione, conseguenza della sua politica di sudditanza a Tel Aviv. E a Erdogan i soliti opinionisti già affibbiano il titolo di Sultano. Ma è o non è il governo legittimo, eletto democraticamente dal popolo turco? E se c’un golpe bisogna trattare i golpisti con i guanti e considerare come un fatto scandaloso la reazione alla violazione dello stato di diritto con la sospensione dello stato di diritto nei loro confronti, ad hoc e ad personam? Ma questo aspetto positivo della vittoria di Erdogan, e la sua reazione dignitosa anche contro la NATO, non vuol dire né che Erdogan denuncerà come suo nemico lo Stato d’Israele – preferendo parlare dei soli e soliti Stati Uniti, senza distinguo interni, e questo nonostante la posizione in suo favore espressa subito da Obama - né che il percorso che imboccherà adesso la Turchia nello scacchiere mediterraneo e vicino orientale non ripeterà gli errori del passato. Il sacrosanto schiaffo in faccia alla base NATO in Turchia – il governo ha staccato la luce, bellissimo – è una misura preventiva contro eventuali interferenze degli ambienti oltranzisti della NATO nel tentato golpe. Ma la NATO, come ha dimostrato anche il vertice di Varsavia, e in quel contesto la netta presa di posizione di Hollande contro la definizione di Putin come nemico o avversario dell’Alleanza, è anche quella che proprio nel mare Egeo, da mesi permette il tranquillo passaggio delle navi russe verso la Siria, a combattere l’Isis già sostenuto da Erdogan e oggi finalmente da lui (dichiaratamente?) rinnegato. La NATO ha paradossalmente aiutato il capo di stato turco a uscire fuori dal cul de sac della connivenza nello scacchiere mediorientale con Israele, il Qatar e l’Arabia Saudita. Che siano forze interne all’Alleanza che abbiano tentato di liquidarlo è sicuramente ben possibile. Ma la distinzione tra Stoltenberg e Rasmussen, il segretario generale dell'aggressione alla Libia, resta. Si dirà che sono sottigliezze, ma non è così: la distinzione nell’Occidente tra oltranzisti e dialoganti con la Russia di Putin, con i BRIC, con la Cina, è la chiave di volta per capire (gli analisti) e per decidere (i politici). Negli Stati Uniti c’è anche Donald Trump. In questo contesto, il futuro di Erdogan rischia di essere incerto, per il semplice e solito motivo che il nazionalismo ha sempre due facce: quello giusto e sacrosanto di autodifesa, che impone il rispetto della sovranità dello Stato leso nella sua autonomia da complotti sponsorizzati dall’esterno. E quello che pretende di imporre i suoi valori e i suoi contenuti ai Popoli e agli Stati altri. Da questo punto di vista Erdogan ha uno scheletro nell’armadio: è quella tendenza cosiddetta neo-ottomana della Turchia di cui si è parlato anni fa, che in tempi recentissimi lo ha portato a schierarsi contro la Siria di Assad manu armata, e nel 2011 a sostenere gli anglo-francesi contro la Libia di Gheddafi. Il tentativo di esportare la scelta nazionalitaria e islamica turca in Medio Oriente è allo stesso tempo inconsistente e pericolosa: inconsistente perché fondata su un islam nazionale turco che ha da fare i conti con l’identitarismo arabo di tutti gli altri stati del Medio Oriente, e perché l’Islam di Erdogan non ha nulla da insegnare né all’Islam sciita iraniano o libanese, né a quello di tanti altri sunniti dello scacchiere. Pericolosa perché il cosiddetto neo-ottomanesimo ha una valenza egemonista irrispettosa delle sovranità statali altrui, il tutto a vantaggio di quelle stesse forze che hanno tentato di rovesciare il legittimo governo di Ankara.

 

Staremo a vedere: per ora la pagina di storia turca del 16 luglio è assolutamente esaltante, ennesimo colpo per i nemici della pace e della cooperazione tra stati che alberga non soltanto nell’Islam mediorientale, ma anche nel mondo occidentale, Israele (ben) compreso.

 

Claudio Moffa

 

 
Dov'è finito l'oro della Banca d'Italia? PDF Stampa E-mail

23 Luglio 2016

 

Da Rassegna di Arianna del 21-7-2016 (N.d.d.)

 

Il tema delle sovranità è la questione centrale dell’epoca in cui viviamo, anche se la percezione che ne hanno i nostri connazionali è confusa e alterata dalle menzogne del sistema politico, economico e mediatico. Il fondatore della scienza politica moderna, Niccolò Machiavelli, aveva chiaro che senza il controllo dell’apparato militare e della circolazione monetaria non ci fosse potere.  Una questione da troppi ignorata, ma dalle dimensioni immense, è quella delle riserve d’oro italiane, che ammontano a 2.452 tonnellate e sono al terzo posto nel mondo. Alle quotazioni correnti del metallo giallo, il controvalore in euro è di almeno 75/80 miliardi. Le domande fondamentali sono almeno tre: dove sia custodito l’oro, chi ne abbia la proprietà, a che cosa può servire. Le risposte sono drammaticamente negative per il nostro popolo. Negli ultimi mesi, alcuni deputati sono riusciti a visitare i santuari-caveaux della Banca d’Italia. I fatti sono i seguenti: solo circa 1.200 tonnellate si trovano a Palazzo Koch, storica sede di Bankitalia, meno della metà. La proprietà, giuridicamente, è in capo alla stessa Banca, che, repetita iuvant, è un organismo privato, sia pure investito di funzioni pubbliche, partecipante della Banca Centrale Europea, ed i suoi azionisti sono le maggiori banche “italiane”, tranne uno striminzito 5 per cento in mano all’INPS. Le virgolette poste sull’aggettivo italiane riguarda il fatto che tutte, diciamo tutte, le banche interessate hanno importanti azionisti esteri, in alcuni casi sono controllate da istituti stranieri, a partire dai due giganti Unicredit e Intesa San Paolo.  Anche la Banca detta d’Italia, che alcuni ancora chiamano banca “nazionale” è quindi eterodiretta […]

 

Quanto all’uso o alla funzione della riserva aurea, le cosiddette autorità finanziarie affermano che  essa “costituisce un presidio fondamentale di garanzia per la fiducia nel sistema Paese”. Due osservazioni: poiché Bankitalia fa parte dell’Eurosistema, la garanzia si estende agli altri Stati che fanno parte dell’Eurozona, il che pare quanto meno improprio; se poi occorre garantire attraverso l’oro il “sistema Paese”, orribile espressione sinonimo di Italia, chi, se non lo Stato, deve detenerla ed eventualmente deciderne un utilizzo, attraverso governo e parlamento? Eh no, poiché, dicono lorbanchieri, la riserva è nostra, è della sacra istituzione di cui è governatore Ignazio Visco.  Ebbene, questo è il punto: le riserve auree sono indiscutibilmente proprietà del popolo italiano nella sua continuità storica, di cui la banca di emissione (ormai ex, il potere è di BCE) è solo uno strumento tecnico. Due righe di storia: la Banca d’Italia nacque nel 1893, per volontà governativa a seguito dello scandalo della Banca Romana. Le furono conferite, insieme con i poteri di emissione, circa 150 tonnellate d’oro, provenienti per la metà dalle casseforti delle banche regnicole dei deposti Borbone. Non dimentichiamo che la quantità di moneta emessa, oggetto principale dello scandalo del 1893, era legata al possesso di riserve in metallo prezioso. Dopo la seconda guerra mondiale, e varie vicissitudini e trasferimenti che determinarono la perdita di 25 tonnellate, la riserva aumentò sino all’attuale consistenza, nell’ambito della proprietà pubblica dell’istituto di Via Nazionale, attraverso le banche di interesse nazionale di cui alle leggi bancarie del fascismo. La sua privatizzazione fu conseguenza degli scellerati, criminali accordi del panfilo Britannia, presenti Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi ed il giovane allora dirigente di Goldman & Sachs Mario Draghi, ma le banche azioniste, comprate per poco più di un tozzo di pane, non hanno mai acquisito ufficialmente la proprietà dell’oro. Fortunatamente, per statuto, non possono disporne, come del resto neppure i sedicenti proprietari, ovvero l’istituto privato di diritto pubblico (un ircocervo!) Banca d’Italia. Non vi è dubbio che l’oro è stato acquisito con il sacrificio di molte generazioni di italiani, e che dunque la proprietà deve essere restituita al nostro popolo.

 

Giulio Tremonti riuscì a far approvare una legge, la 262 del 2005, che stabilisce la proprietà pubblica di Bankitalia. Legge inapplicata, come tante altre del nostro incredibile Stato, ed il perché è piuttosto evidente, e si può riassumere nell’avviso scritto sui tram di una volta: non disturbare il manovratore. Disturbiamolo, invece, lanciando una campagna civile morale e patriottica prima che politica perché sia restituito al legittimo proprietario, noi, l’oro che è simbolo del sudore di milioni di italiani. Prima ancora, occorre sapere ufficialmente dove si trovi e perché sia lì la metà abbondante del tesoro, che, ricordiamolo, nelle nostre mani potrebbe cambiare il corso della storia economica nazionale, e forse anche ristabilire la sovranità economica della Patria. Probabilmente, la maggior parte è in America, presso la Federal Reserve, altri lingotti dormono nei forzieri della banca centrale svizzera e della Bank of England. Le spiegazioni ufficiali fanno sorridere, verrebbero forse credute nelle prime classi elementari: si afferma che la custodia in varie casseforti avrebbe ragioni di sicurezza e di cautela rispetto ad instabilità politiche ed economiche. La realtà è ben più grave: innanzitutto, esiste ancora quell’oro? Quali furono, e sono, i motivi della sua esportazione? C’entrano forse clausole indicibili del trattato di pace con le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale? Chi, ed a quali condizioni ha titolo per chiederne, o pretenderne il rimpatrio? Esiste un recente caso, in cui la Germania (leggasi Bundesbank) ha chiesto ed ottenuto dagli Usa la restituzione di parte della sue riserve. Analoghe richieste di restituzione provengono, per la Francia, da parte di Marine Le Pen. Troppi segreti si celano attorno all’oro, anzi all’ “oro fisico”, come lo chiamano nel mondo di carta della finanza speculativa. La Cina sta rapidamente aumentando le sue disponibilità, ed ha inaugurato quest’anno un mercato di metalli preziosi denominato in yuan a Pechino, la stessa Russia sta cautamente procedendo ad acquisti. Qualunque motivazione abbia portato il nostro oro lontano dall’Italia, forse venduto, forse dato in pegno, è comunque da considerare criminale ed i responsabili, in tempi seri, sarebbero chiamati a rispondere di alto tradimento.  C’è anche chi sospetta che l’oro sia stato prestato più volte, generando illegalmente un interesse che, su somme così ingenti, sarebbe comunque una cifra assai importante, oppure che sia stato oggetto di spericolate manovre per manipolare il prezzo del metallo sul mercato.

 

Insomma, un altro furto, quello del millennio, a danno di tutti noi. Quel che colpisce profondamente è il disinteresse della classe politica, ma la spiegazione non è tanto difficile: chi tocca i fili muore. Ne sa qualcosa il governo italiano di centro-destra, pessimo ma legittimo, oggetto di un colpo di Stato per motivi finanziari del 2011. Tremonti chiedeva gli Eurobond, sgraditi a Francoforte, Berlusconi ipotizzava forse di uscire dall’euro, si accordava con Putin, il novello Gengis Khan e con Gheddafi, prima statista rispettato, poi nemico pubblico franco- britannico. Agli italiani, però, potrebbe interessare conoscere la storia di 80 miliardi di euro (ma la somma è destinata a salire) spariti dalle loro mani. Perché, però, l’oro continua ad essere tanto importante per gli uomini e gli Stati, anche adesso che non esiste più la riserva obbligatoria, abolita da Nixon il 15 agosto 1971, e che gli usi industriali dell’oro non giustificano la corsa al metallo color del sole?  Da un punto di vista metastorico, ne dette una spiegazione molto suggestiva Mircea Eliade, il grande studioso rumeno delle tradizioni e delle civiltà tradizionali, nel seguente passo: “L’oro non appartiene alla mitologia dell’homo faber ma è una creazione dell’homo religiosus; questo metallo cominciò infatti ad assumere valore per motivi di natura essenzialmente simbolica e religiosa. L’oro è stato il primo metallo utilizzato dall’uomo, pur non potendo essere adoperato né come utensile né come arma. Nella storia delle rivoluzioni tecnologiche – cioè nel passaggio dalla tecnologia litica alla produzione del bronzo, poi all’industria del ferro ed infine a quella dell’acciaio – l’oro non ha svolto alcun ruolo […] E tuttavia, dai tempi preistorici fino alla nostra epoca, gli uomini hanno faticosamente perseguito la ricerca disperata dell’oro. Il valore simbolico primordiale di questo metallo non ha potuto essere abolito malgrado la desacralizzazione progressiva della Natura e dell’esistenza umana”. Più prosaicamente, il mercato dell’oro resta elemento centrale del mondo economico, ed è dominato, manco a dirlo, dalla finanza, in particolare da quella legata alla galassia Rothschild.  L’oro è il bene rifugio per eccellenza, ed i nostri anni tempestosi di conflitti e uragani economici lo rendono ancora più appetito. Dal punto di vista mineralogico, nell’ultimo quarto di secolo le quantità estratte sono state ampiamente superiori ai nuovi filoni scoperti: anche l’oro, dunque, viene sfruttato in misura maggiore di quanto ne rimanga disponibile. Il vero choc, però, è quello relativo al suo mercato. Centro del business è Londra, ed il suo London Bullion Market, di cui sono soci Barclay, Deutsche Bank, Société Generale, HSBC e Scotia Mocatta, fondato da un Rothschild nel 1919. Cinque persone, rappresentanti delle entità citate, ne fissano due volte al giorno il prezzo in dollari ad oncia troy (31,1035 grammi).  La gran parte delle transazioni avviene over the counter, cioè fuori dai canali ufficiali e in qualche misura controllabili, per cui la manipolazione dei prezzi e l’illegalità è sospetto costante. Ogni cinque giorni la finanza muove sulla piazza londinese certificati legati all’oro,  futures, derivati e tutte le altre pirotecniche invenzioni dei signori del denaro, per oltre 15 milioni di once, che è la produzione annua di quell’entità esoterica che è l’”oro fisico”. Circolano per il vasto mondo, dunque, pezzi di carta legati all’oro in quantità infinitamente superiore al fino realmente esistente. Anche qui, scommesse sul nulla gestite da biscazzieri in grisaglia, aggiotaggio, insider trading e tutto il resto. I croupier fanno girare la pallina a Londra due volte al giorno per conto dei soliti noti, ma il tavolo verde non c’è ed i giocatori da spennare sono al buio. Inevitabilmente, in condizioni di instabilità politica, crisi economica e deflazione monetaria, il prezzo dell’oro aumenta. Come negli altri settori, si scambiano promesse, previsioni, possibilità. Di oro vero, fisico, poco o nulla. Poi qualcuno scuote la tovaglia e il banco, più ancora che al casinò, vince sempre. Probabilmente, sino al punto di rapinare senza un fruscio l’oro dei popoli depositato nelle banche che un tempo si chiamavano centrali e nazionali, compresa quella che ha il nome dell’Italia.

 

Dobbiamo ribellarci, ed almeno sapere e capire, oppure la schiavitù è il nostro normale destino, di cui siamo artefici e colpevoli, come si dicono Bruto e Cassio nel Giulio Cesare di Shakespeare, o come già intuiva la pratica saggezza romana populus vult decipi, il popolo vuol essere ingannato, per cui, proseguono i nostri progenitori, lo si inganna.  I Rothschild conoscono bene la lezione, i loro colleghi altrettanto. Noi paghiamo il conto.

 

Roberto Pecchioli

 

 
La Turchia del colpo di stato PDF Stampa E-mail

22 Luglio 2016

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Da Rassegna di Arianna del 18-7-2016 (N.d.d.)

 

Il fallito colpo di Stato in Turchia è stato il tentativo di una parte minoritaria dell’Esercito di riprendere la perduta influenza sulla società turca prima d’essere definitivamente spazzata via. Un tentativo, beninteso, visto con estrema benevolenza in tutte le capitali della Nato, che hanno atteso in silenzio fino a quando il golpe è fallito, salvo dare una solidarietà di facciata a cose fatte. Questa pagina sanguinosa (i morti sono al momento quasi 300 ed i feriti sarebbero oltre 1400) è l’epilogo dello scontro fra le due principali componenti della società turca: quella confessionale, popolare, intimamente asiatica della Turchia profonda, affascinata da Erdogan e dai suoi sogni di gloria neo ottomana, e quella laica, kemalista, rivolta all’Occidente, sempre più messa nell’angolo e soffocata. In Turchia l’Esercito è stato da sempre il garante dello spirito laico e modernista con cui Kemal Ataturk ha forgiato la Turchia moderna, ma da 13 anni esso e la Magistratura, altro antico pilastro dello Stato, sono stati oggetto di una continua erosione di ruoli e funzioni fatta di epurazioni e leggi che ne hanno minato il potere. Il malumore crescente delle due Istituzioni è stato intercettato da Fethullah Gulem, antico alleato di Erdogan ma da anni suo mortale nemico ora in esilio in Pennsylvania, che l’ha coagulata in una rete divenuta l’ossessione del Presidente turco e motivazione di continue purghe e procedimenti giudiziari. A breve è previsto l’inizio del più grande processo mai celebrato contro l’organizzazione di Gulem, e il golpe può essere letto come la risposta di chi si è visto messo con le spalle al muro. Ma è giunto fuori tempo massimo, quando ormai troppe e troppo profonde sono state le epurazioni, e troppi i militari che pensano sia ormai tardi. Ma liquidare tutto a un semplice azzardo con cui un gruppo di ufficiali si sono illusi di prendere il potere con i carri armati, credendo che il Popolo turco – e soprattutto il grosso delle Forze Armate – li avrebbe seguiti è riduttivo.

 

Al di là delle apparenze la Turchia è un Paese fragile, spezzato in tre parti sempre più distanti: una maggioranza che si affida a Erdogan, sedotta dalle sue parole di tribuno che sa parlare alla sua pancia; una parte che non sopporta la deriva autoritaria di un regime sempre più violento, le leggi liberticide, i media imbavagliati, la Magistratura totalmente sottomessa; infine i curdi, con il sud est del paese ormai fuori controllo preda di una guerra interna che lo mette a ferro e fuoco. Ma la Turchia è anche un Paese isolato; la politica estera di Erdogan ha collezionato una spettacolare serie di fallimenti, l’elenco è lungo quanto pesante: l’impegno per smembrare la Siria, fino al 2010 suo migliore alleato, è stato all’origine dei suoi errori peggiori come l’aiuto aperto ai gruppi terroristici (vedi i qaedisti di Al-Nusra e i Daesh del “califfo”), la ripresa della guerra contro i curdi (con cui c’era stata una tregua e un significativo riavvicinamento) per il terrore di un’entità curda lungo i confini siriani; l’irragionevole e subitanea crisi con la Russia, con cui aveva enormi convergenze d’interessi, per il suo intervento in Medio Oriente che ha scompaginato i suoi progetti d’espansione; e ancora, gli attriti con l’Iran e le crescenti tensioni con gli Usa, che proprio sui curdi stanno puntando in Siria. Anche con la Ue, un tempo corteggiata per entrarvi, ha improntato i rapporti sul ricatto esercitato con sfrontato cinismo: ha minacciato di sommergerla con la marea dei profughi che lui stesso ha per primo causato fomentando la guerra in Siria, salvo accordarsi dinanzi a una montagna di denaro e concessioni politiche rivoltanti. Ma, salvo il ricatto all’Europa, non una delle sue iniziative ha avuto successo e, proprio per questo, con una sua tipica piroetta ha ristabilito rapporti con la Russia ed è giunto ad accettare la permanenza di Assad durante un cosiddetto “periodo di transizione”, semplice anatema fino a poche settimane fa. La stessa ricucitura delle relazioni con Israele (nei fatti mai interrotte, ma ufficialmente troncate), per lui che avrebbe voluto accreditarsi come campione dell’islamismo mediorientale, risponde allo stesso bisogno di avere sponde per non affondare. Per questo, mentre i militari golpisti parevano aver successo ed Erdogan volava mendicando un asilo, erano in tanti a festeggiare; in tanti che “forse” sapevano già del colpo di Stato e ne aspettavano il risultato. Difficilmente si spiegherebbero altrimenti i rifiuti collezionati dall’aereo che lo trasportava in cerca di un aeroporto che l’accogliesse: al no di Berlino s’è aggiunto quello di Londra e si sussurra anche quello di Roma (a chi smentisce quest’ultimo, ricordiamo che Gentiloni, unico ministro degli Esteri a parlare nei primi momenti della crisi, ha singolarmente definito il colpo di Stato come “l’iniziativa dei militari”). E strano pure è il lungo silenzio delle Cancellerie alle notizie che giungevano dalla Turchia, un silenzio rotto solo quando si è saputo del fallimento del colpo di Stato. D’altronde, è assolutamente impensabile che i generali turchi si siano mossi senza il benestare della Nato e soprattutto di Washington con cui hanno storicamente strettissimi legami, e, vedi caso, proprio l’8 e il 9 luglio c’è stato il Vertice di Varsavia. Una coincidenza?

 

I fatti hanno dimostrato come un’illusione che il golpe potesse riuscire: hanno partecipato solo alcuni reparti, quelli controllati dai superstiti delle continue epurazioni; inoltre, e questo ha fatto la differenza, i seguaci di Erdogan, che sono tanti, assai più di quanto un Occidente che presta orecchio solo ai blogger possa immaginare, sono scesi per le strade a fronteggiare i carri armati, anche quando i soldati disorientati dalla folla hanno preso a sparare. Certo che questa dimostrazione di partecipazione popolare stride con il comportamento del Presidente, fuggito (alcuni dicono lasciato fuggire dai golpisti per non avere l’imbarazzo di gestirlo, come l’ha avuto, sia pur in ben diverse circostanze, Al-Sisi nei confronti del destituito Mohamed Morsi) su un aereo, in affannosa ricerca di un asilo negato, che solo alla fine sembrava assicurato dal Qatar. E stridono ancor di più quelle chiamate via smartphone fatte alla Tv di Stato, ovviamente allineata al regime, con cui ha incitato il “suo” Popolo a scendere nelle strade: stridono perché mandava i suoi verso i carri armati e un possibile massacro (i morti ci sono stati, eccome) e stridono ancor di più se si pensa che proprio lui è stato un acerrimo nemico dei social e delle mobilitazioni popolari attraverso di essi; sentirlo incitare all’azione per la democrazia, lui che ne è stato il macellaio, fa ridere amaro. Comunque sia, se il golpe fosse riuscito, avremmo avuto una Turchia schiacciata su una politica dettata dal Dipartimento di Stato, con tutto ciò che ne sarebbe seguito in termini di peso degli Usa nell’area […] Erdogan ne esce enormemente rafforzato all’interno ed ha la perfetta occasione per spazzare via ogni dissenso, per regolare nel modo più brutale i suoi conti, e lo farà. Sono circa 3mila i militari già arrestati ed altri lo saranno, mentre 2745 giudici in tutto il Paese sono stati sollevati dall’incarico perché sospettati d’aver rapporti con la rete di Gulem. Ha già gridato che le punizioni saranno durissime e, perché sia chiaro sino a che punto, è sua intenzione ripristinare la pena di morte: si prospetta un periodo di terrore.

 

Quando il golpe pareva aver successo, Erdogan ha dichiarato che dietro c’erano gli Stati Uniti e la Ue; difficile pensare che tutto continui come prima e che sia possibile trovare un accomodamento con Washington sui curdi, che li vede ormai come le uniche pedine che la tengano in gioco nello scacchiere. Più facile un ulteriore avvicinamento con Mosca, fin dall’inizio apparsa estranea alla vicenda, e che farebbe carte false per legare a sé Ankara, rompendo il fronte della Nato e di chi la vorrebbe emarginare. D’altronde, per Erdogan è ormai imperativo limitare i danni e pur di evitare la creazione di un’entità curda sui suoi confini (un incubo per lui) ha già sposato la linea del Cremlino di tutelare l’integrità dello Stato siriano. Sarebbe l’ennesima capriola del “sultano”, ma tant’è. Inoltre, sarà da vedere come reggeranno i sedicenti accordi sui profughi con Bruxelles patrocinati da Berlino, e non ci sarebbe da stupirsi da un nuovo brutale ricatto a un’Europa inetta quanto inconsistente.

 

Un’ultima notazione a questa vicenda: con un copione infinitamente riproposto, e un’incredibile mancanza di senso della Storia, Washington ha tentato di affidare la soluzione dei suoi problemi a un colpo di Stato come se fossimo ancora negli anni ’70; il risultato è stato, oltre a un bagno di sangue, di rendere più saldo un tiranno. Ciò che accadrà è difficile dire perché il personaggio non obbedisce a logiche, ma, come detto più volte, la Storia s’è messa in movimento e le manovre di chi vuole condizionarla possono solo essere travolte.

 

Salvo Ardizzone

 

 
Cairo al Corsera PDF Stampa E-mail

21 Luglio 2016

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Da Rassegna di Arianna del 18-7-2016 (N.d.d.)

 

Alla fine l’ha spuntata Urbano Cairo. L’editore alessandrino, dopo una lunga battaglia politica e finanziaria a colpi di OPA (offerta pubblica d’acquisto), contro-OPA del gruppo Bonomi, e OPS (offerta pubblica di scambio) ha in mano circa il 49% delle azioni di RCS-Corriere della Sera. Ha sconfitto il cosiddetto salotto buono dell’industria e della finanza italiana, che del controllo del quotidiano milanese avevano fatto un punto d’onore e persino una “linea del Piave”. Dopo la graduale americanizzazione del gruppo Fiat, si dissolve il vecchio potere sull’asse Agnelli- Mediobanca (Enrico Cuccia), con attorno Pesenti, Pirelli, Assicurazioni Generali e gli altri pochi grandi, cui, nell’ultimo decennio, si era aggiunto il gruppo calzaturiero Della Valle.  É anche la sconfitta dell’ex leone triestino, Generali, a proprietà diffusa di quelli che contano, ma diretto dai francesi del gruppo Vivendi e dal loro proconsole Bolloré, nonché del gruppo bancario Unicredit. Il denaro necessario all’operazione proviene da Banca Intesa San Paolo, che è il vero vincitore del complesso risiko.  Il presidente è uno sperimentato lupo della finanza, Gian Maria Gros-Pietro, l’amministratore delegato Carlo Messina, ma dietro le quinte dirigono ancora le danze due grandi vecchi del potere bancario italiano e milanese, Giovanni Bazoli e Alessandro Guzzetti (Fondazione Cariplo). Intesa San Paolo e Unicredit sono anche i due istituti che controllano la maggioranza di Banca d’Italia, ed hanno quindi un ruolo nell’Eurosistema, ovvero in Banca Centrale Europea. Tra le due, la meno “italiana” è senz’altro Unicredit, e non solo per la nazionalità francese del suo timoniere Jean Pierre Mustier. Partecipate entrambe dai colossi bancari del pianeta, nonché da fondi delle dimensioni di Black Rock, le due banche, all’interno del medesimo sistema di potere, sono in competizione. Pare il momento di Intesa, dove molte leve di comando sono ancora in mano a uomini come Bazoli, la cui antica alleanza con Prodi e con l’ala “finanziaria” della sinistra politica di ascendenza cattolica è nota e collaudata. Peraltro, sembra che l’anziano banchiere bresciano sia vittima della tenaglia Messina-Guzzetti.

 

Quanto a Cairo, l’ex dipendente di Berlusconi è ambizioso e capace, e la sua ascesa a Via Solferino, sede del Corriere della Sera, è stata discretamente sostenuta anche da Mediolanum, galassia Mediaset. Di lui si dice che, da buon piemontese, sia sparagnino e durissimo quando si tratta di mettere mano al portafogli. Tuttavia, da presidente del Torino Calcio ha il bilancio in attivo, ed è miracoloso in quel mondo; come proprietario della televisione La7, già in profondo rosso ai tempi di Tronchetti Provera, ha rimesso i conti in regola puntando proprio sull’informazione, da Mentana alla Gruber. Sembra che non lo turbi neppure il passaggio al gruppo Discovery di Maurizio Crozza, che pure, con le sue trasmissioni tra il politico ed il comico, e le sue straordinarie imitazioni (Bersani è diventato l’imitazione di se stesso, dopo Crozza) è stato protagonista dell’ascesa della 7. Le trasmissioni del comico genovese costerebbero troppo, Cairo ha un sacro rispetto per il (suo) denaro.  Intanto, non c’è iniziativa editoriale, dai settimanali ai mensili fino all’enigmistica, che non sia stata coronata dal successo.  Probabilmente, non ha ambizioni politiche personali, e si guarderà bene dal “disturbare” i manovratori, quanto meno quelli nell’orbita Bazoli/Guzzetti. La7 ha visto diminuire, negli ultimi tempi, lo spazio di Santoro e Gad Lerner essenzialmente per gli elevati cachet dei gruppi di lavoro dei due. Quanto a Mentana, gli si attribuisce qualche simpatia per i 5 Stelle, ma dubitiamo che Cairo si esponga politicamente. É un editore puro, il suo mestiere è vendere giornali e aumentare gli ascolti per aumentare il prezzo degli spazi pubblicitari. Rimarrà dalla parte del potere, soprattutto di quello finanziario che lo sta sostenendo e delle sponde politiche da esso prescelte. Un momento Importante sarà quello della nomina del nuovo direttore del quotidiano di riferimento della grande borghesia lombarda: se, come si vocifera, c’è in lizza anche l’ex De Bortoli, sarebbe un segnale che una parte della gente che “comanda” ha mollato Renzi. É noto l’attacco di De Bortoli al fiorentino nell’ultima fase della sua direzione del Corriere della Sera, nel 2015.  Al di là di chiacchiere o pettegolezzi, comunque, la vicenda ha una serie di ricadute molto importanti: innanzitutto, il fatto che un grande giornale torni, finalmente, in mano ad un editore, il che non significa che cessi di essere strumento privilegiato di battaglie economiche, finanziarie e politiche, è una novità positiva. Poi c’è la sconfitta dei precedenti azionisti di riferimento, il cui patto di sindacato non è più in grado di determinare le sorti del gruppo, e che potrebbe rompersi, o dissolversi, tanto per interessi economici che per nuove alleanze politiche. Infine, ed è probabilmente la questione centrale, la sconfitta di Unicredit –Generali è una novità non da poco: potrebbe profilarsi un contrattacco con al centro la controllata Pioneer e le contrastate “nozze” con Banco Santander, o addirittura una fusione Unicredit-Mediobanca.

 

Sicuramente, la battaglia si sposterà nel neonato fondo Atlante, lo strumento finanziario messo in piedi, con partecipazione proprio di Unicredit e Intesa, per il salvataggio del disastrato sistema bancario nazionale, a partire da Monte dei Paschi con il suo carico di debiti, vergogne politiche, legami indicibili con il peggio del sistema Italia.  Atlante ha una capitalizzazione del tutto insufficiente a tenere in piedi anche solo il gruppo senese, mentre le somme necessarie a dare fiato al sistema sono valutate da osservatori indipendenti come il grande economista francese Jacques Sapir in almeno il 4,5 per cento del PIL. Questa è la grande partita dei prossimi mesi, protagonisti Bruxelles, la Francoforte di Draghi, la Berlino politica, comprimari e comparse il governo italiano ed il mondo finanziario nostrano. Lì si giocheranno il futuro dell’Unione, quello a medio termine della nostra nazione, forse persino la permanenza o meno dell’euro. Da noi, il successo di Cairo cambia il posizionamento di alcuni giocatori, e determina un certo rimescolamento di carte nell’assetto generale del potere, di cui il presidente del Toro diviene a pieno titolo esponente; il salotto buono è tanto impolverato da ricordare le vecchie cose di pessimo gusto care a Guido Gozzano. I grandi giochi, tuttavia, si faranno altrove, ed il tema è la capacità del sistema bancario, italiano, tedesco ed europeo, di non crollare come un castello di carte trascinandosi dietro l’economia reale ed i conti statali. Quel che dirà il Corriere, quello che tacerà, chi sosterrà e chi avverserà sarà comunque importante, e farà capire da che parte gira il vento del potere. É già avvenuto, dicono, un contatto tra Cairo e il fiduciario di Renzi per l’editoria, il giovane rampante sottosegretario Luca Lotti. Per ora, dobbiamo limitarci ad osservare. Ma da oggi, l’Italia ha un nuovo protagonista, l’editore alessandrino di fede granata Urbano Cairo, ed alcuni sconfitti, dalle parti di Via Filodrammatici (Mediobanca), di Trieste, e, forse, qualcun altro non è più il centro di tutto, almeno in Italia (Fiat/FCA).

 

Roberto Pecchioli

 

 
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