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Deregolamentazione dell'attività bancaria PDF Stampa E-mail

10 Luglio 2016

 

Da Appelloalpopolo del 2-7-2016 (N.d.d.)

 

Il 12 Dicembre 1977 il Consiglio delle Comunità europee emanava la direttiva n. 77/780, che stabiliva una sorta di liberalizzazione dell’attività bancaria, al fine di favorire condizioni di concorrenza delle banche nel territorio comunitario. I politici italiani attuarono questa direttiva attraverso successivi provvedimenti legislativi, l’ultimo dei quali fu il Decreto del Presidente della Repubblica 350 del 27 Giugno 1985, che così stabiliva: “L’attività di raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e di esercizio del credito ha carattere d’impresa, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitano. L’autorizzazione all’esercizio di tale attività è rilasciata dalla Banca d’Italia.” Fino a quel momento l’attività bancaria era stata regolamentata dalle riforme del 1936 e dalla legge 141 del 1938 che così stabiliva: “La raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e l’esercizio del credito sono funzioni di interesse pubblico regolate dalle norme della presente legge. Tali funzioni sono esercitate da istituti di credito di diritto pubblico, da banche di interesse nazionale; da casse di risparmio e da istituti, banche, enti ed imprese private a tale fine autorizzati. Tutte le aziende che raccolgono il risparmio tra il pubblico ed esercitano il credito, sia di diritto pubblico che di diritto privato, sono sottoposte al controllo di un organo dello stato che viene a tal fine costituito e che è denominato “Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito”. Questo quadro normativo prescriveva che il banchiere (anche privato), quando raccoglieva risparmio ed erogava credito, era un incaricato di pubblico servizio. Nell’ambito dell’attività bancaria, di per sé pubblica, i comportamenti illegali erano puniti come malversazione o corruzione, o concussione o abuso d’ufficio. Insomma, chi erogava credito fuori dalle condizioni previste dalla legge o dai regolamenti interni, o commetteva abusi nella gestione del risparmio, era punibile penalmente con pesanti sanzioni.

 

Dunque il DPR 350/85 ridefiniva la raccolta del risparmio e l’erogazione del credito non più come attività di “interesse pubblico”, ma semplicemente a “carattere d’impresa”. Inoltre, lo Stato non delegava più il controllo del credito a un suo “Ispettorato”, ma alla Banca d’Italia, le cui quote sono detenute dalle stesse banche private che, a loro volta, sono quotate con azioni possedute da S.p.a. L’articolo 47 della Costituzione che impone allo Stato di disciplinare, coordinare e controllare l’esercizio del credito, era scopertamente violato. La conseguenza fu che, dall’emissione del decreto 350/85 in poi, i tribunali cominciarono a produrre una giurisprudenza che statuì come non più vigenti le norme degli anni 1936 e 1938. Da allora in poi, chi eroga credito fuori legge e gestisce risparmio fuori regolamento ricade nella disciplina dei reati comuni e, tranne casi limite di volgari furti di danaro, gli abusi dei banchieri assai difficilmente potrebbero essere penalmente puniti. Non solo dal punto di vista del controllo penale sui comportamenti ma, soprattutto, dal punto di vista sociale ed economico, la tutela dell’aspetto sociale del credito e del risparmio fu totalmente deregolamentata. L’attività bancaria, da mezzo e sostegno per l’ordinata crescita economica, divenne scopo, ossia l’arricchimento di masnade di speculatori al di fuori d’ogni controllo da parte dello Stato. Il Presidente, firmando il decreto, ne era cosciente? Non essendo la materia di prerogativa costituzionale, non essendo un regolamento governativo né un conferimento di incarichi dirigenziali, quel provvedimento era talmente urgente da richiedere l’emissione di un DPR? È lecito credere che il decreto fu un atto formalmente presidenziale, ma sostanzialmente governativo. Il governo Craxi (ministro alle Finanze: Bruno Visentini) prese la decisione e il Presidente si limitò a darvi una veste di decreto presidenziale. Tre giorni dopo la firma del decreto e otto giorni prima della scadenza naturale del mandato, Pertini “si dimette” e il 3 Luglio subentra Cossiga.

 

Luciano Del Vecchio

 

 
Brexit come reazione alla globalizzazione PDF Stampa E-mail

9 Luglio 2016

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Con il referendum del 23 giugno gli inglesi hanno deciso di uscire dall’Unione Europea: il 51,8% ha votato leave (lascia) guidati dall’euroscettico Nigel Farage, leader dell’UKIP; il 48,8% ha votato remain (resta), guidati dal laburista Jeremy Corbyn. L'affluenza alle urne è stata elevata, il 72,2% degli aventi diritto. Già nel 2005, con un referendum la Francia e l’Olanda avevano detto no alla Costituzione Europea; gli oligarchi di Bruxelles votarono il Trattato di Lisbona per impedire al popolo di esprimersi. Questa volta in Gran Bretagna le cose sono andate diversamente.  Onore agli inglesi che votando leave, non si sono fatti intimorire dalle previsioni catastrofiche di sedicenti esperti e della City, dalle minacce della Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale) o dagli appelli di cantanti, attori e cortigiani vari. Il loro voto non è stato condizionato nemmeno dall’omicidio della parlamentare laburista Jo Cox, la “martire” del fronte remain. Il voto inglese ha scatenato le ire dei rappresentanti delle oligarchie politico - finanziarie, i sedicenti “intellettuali” e pennivendoli della sinistra salottiera, servi sciocchi dell’oligarchia mondialista: l’ex Presidente del consiglio Mario Monti definisce la Brexit un «abuso di democrazia»; l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito la Brexit «un azzardo sciagurato», nel 1956, quando l’Unione Sovietica invase l’Ungheria, sosteneva che l’Unione Sovietica «porta la pace nel mondo»; Roberto Saviano, professionista dell’antimafia, paragona la Brexit all’avvento del nazismo. Per questi individui il popolo ha diritto di votare solo quando le sue scelte coincidono con l’opinione dei governanti o di “illuminati intellettuali”. Questa è la vera democrazia, il popolo è troppo “ignorante” e non deve votare su questioni “complicate” come l’uscita dall’Unione Europea. Seguendo questa logica aberrante, nel referendum del 1946 il popolo italiano (in parte analfabeta e privo di esperienza democratica) non avrebbe dovuto scegliere tra monarchia e repubblica. Discorso analogo vale per i referendum sul divorzio (1974), sull’aborto (1981) o sulla riforma elettorale (2016) voluto da Renzi, il burattino della Troika.

 

Nel mio libro “Kosovo monito per l’Europa” (Aviani Editore-Udine 2014) ho individuato nella globalizzazione uno degli elementi disgregativi dell’Unione Europea. Infatti, la globalizzazione presuppone l’abolizione dei vincoli alla circolazione delle merci, dei capitali e delle persone, con il fine di creare un unico mercato di modello neoliberista (un capitalismo senza regole). La globalizzazione presuppone: l’esautoramento degli stati nazionali a favore di organismi sovranazionali, istituzioni idonee a governare un mondo globalizzato (il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea, ecc.); l’immigrazione, l’apertura delle frontiere e la società multirazziale; le politiche neoliberiste (precarizzazione del lavoro, delocalizzazione delle imprese, tagli allo Stato sociale, ai salari e alle pensioni). Tutto questo ha avuto un effetto negativo sulle nazioni europee e sui rispettivi popoli; in particolare la classe media e il proletariato urbano, le nazioni più fragili come la Grecia. La crisi economica e la minaccia del terrorismo islamico hanno accentuato gli effetti negativi della globalizzazione. L’Unione Europea rappresenta la globalizzazione: a livello politico, con l’immigrazione e le politiche neoliberiste; a livello istituzionale, come governo sovranazionale. Gli inglesi votando per l’uscita dall’Unione Europea hanno voluto dire no alla globalizzazione e all’Unione Europea che la rappresenta. In tutta Europa l’anti europeismo è alla base del successo elettorale dei partiti populisti. L’analisi del voto dà forza a quest’affermazione. Dal punto di vista sociale: hanno votato per l’uscita dall’Unione i ceti meno abbienti (working class) e il ceto medio, i più colpiti dalla globalizzazione; hanno votato per la permanenza nell’Unione i ceti più ricchi, che dalla globalizzazione hanno avuto soprattutto vantaggi (gli imprenditori con le politiche neoliberiste, i liberi professionisti cosmopoliti del lavoro). Non a caso i banchieri della City sono sempre stati contrari all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. I giovani dai 18 ai 24 anni si sono espressi a favore del remain (64%) ma la loro partecipazione elettorale è stata appena del 36%. I giovani dell’Erasmus che s’illudono di diventare i futuri manager dell’Europa globalizzata; finiranno col fare i precari o i mantenuti di papà per tutta la vita.   Dal punto di vista geografico il fronte del leave ha prevalso nelle zone rurali e nelle periferie cittadine, dove si concentra la parte più povera e tradizionalista della popolazione britannica; mentre il fronte del remain, nella capitale Londra e nei centri delle grandi città, dove si concentra la parte più ricca e cosmopolita della popolazione britannica. In Scozia trionfa il remain (gli scozzesi vedono nell’Unione Europea un alleato per contenere il potere di Londra).

 

Il risultato del referendum britannico non è stato condizionato solo dalla globalizzazione e dalle sue conseguenze; ma anche dalla storia della Gran Bretagna, un Paese che è nato e si è sviluppato come nazione “marittima” e non “continentale”. La Gran Bretagna ha creato il suo impero nel mondo e non in Europa e non ha mai preteso di governarla; a differenza della Francia napoleonica o della Germania imperiale e nazista, che miravano alla conquista dell’Europa continentale. L’Impero britannico era coloniale, comprendeva: l’Africa, l’Asia, l’America settentrionale e l’Oceania; il Commonwealth è quello che rimane dell’Impero e di una visione del mondo che superava i limiti del nostro continente. Dal punto di vista geopolitica il risultato della Brexit va contro gli Stati Uniti, che con l’uscita della Gran Bretagna, perdono un prezioso sostenitore dell’Unione Transatlantica (il trattato di libero scambio che dovrebbe unire l’economia dell’Unione Europea con quella degli Stati Uniti). Gioisce invece la Russia, che spera nella disgregazione di un’Europa asservita agli interessi statunitensi e ambisce a creare l’Eurasia. Un’Europa che unisce i Paesi latino - germanici con quelli slavo - ortodossi, nel segno della pace e della cooperazione. Ci raccontano che la fine dell’Unione europea sarà il preludio di una terza guerra mondiale o di un futuro di miseria. Quello che le canaglie negano e gli imbecilli non capiscono, è che la guerra può scoppiare solo con l’allargamento a est della Nato e le guerre neocolonialiste che gli Stati Uniti e i loro alleati scatenano nel mondo. A impoverire l’Europa e condannare i nostri giovani a un futuro di miseria e precariato, sono state le politiche neoliberiste e la crisi economica che le stesse hanno generato. Quali saranno gli effetti della Brexit? Difficile prevederlo. Spero in un effetto domino che coinvolga l’intera Europa e porti alla nascita di un’Europa federalista, che sogna l’Eurasia. Di certo le oligarchie politico - finanziarie e i loro tirapiedi faranno di tutto per impedire agli europei di decidere del proprio destino. Queste canaglie non hanno rispetto per niente e per nessuno. L’Unione Europea non sarà eterna, sono crollati l’Impero Romano e la Russia sovietica, per l’Europa dei banchieri, dei gay pride, delle guerre “umanitarie” e del multiculturalismo suicida, è solo questione di tempo. Forse vedremo le folle bruciare e calpestare la bandiera europea (spero di vivere fino a quel giorno). Quell’orrenda bandiera “stellata”. Il simbolo della stella appartiene alla tradizione giudaica e mussulmana, non a quella europea; i simboli dell’Europa sono la croce e l’aquila imperiale (di Roma e del Sacro Romano Impero) che per secoli hanno sventolato sui nostri vessilli.

 

Giorgio Da Gai

 

 
Scenari di dominazione PDF Stampa E-mail

8 Luglio 2016

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Da Rassegna di Arianna del 6-7-2016 (N.d.d.)

 

L’Ue è un prodotto statunitense. A raccontarlo sono stati gli stessi americani, con l’onestà che solo i padroni possono permettersi, senza che qualcuno in Europa si sia premurato di smentirli per salvare almeno la faccia. Abbiamo già riportato le affermazioni di studiosi come Joshua Paul, ricercatore della Georgetown University, e di Morris Mottale, professore di scienze politiche della Franklin University. Entrambi, basandosi su una documentazione precisa, tanto ufficiale che riservata, hanno dimostrato la subordinazione di Bruxelles alla superpotenza Atlantica, sin dagli esordi, cioè dalla creazione delle prime forme di mercato unico europeo, modellate sugli interessi strategici della Casa Bianca. L’Unione Europea attuale non è altro che l’evoluzione di questa atavica sudditanza, ormai giunta al suo livello di massimo compimento, approfonditasi con l’unificazione tedesca del 1989 e la dissoluzione del blocco sovietico dei primi anni ‘90. Per tali motivazioni, come ha spiegato recentemente La Grassa, il nostro antieuropeismo è solo l’anticamera di un più determinante antiamericanismo politico (e non di certo culturale). L’uscita dall’Unione, e quella dall’euro, sono passi importanti ma non definitivi per affrancarsi dal giogo a stelle e strisce perché la presenza delle basi Nato in tutto il Continente garantisce comunque agli Usa il controllo della situazione. Lo afferma esplicitamente Mottale il quale, per esempio, non vede nel TTIP un mezzo di ulteriore estensione del potere americano in Europa poiché, come detto, lo stesso è già garantito dagli insediamenti militari Usa in tutti i paesi dell’Unione. Chi, invece, calca troppo la mano sulle questioni secondarie, economiche e giuridiche, ignorando i concreti rapporti di forza geopolitici, finisce per fare il gioco dei dominatori, più o meno in buona fede. Gli esorbitanti attacchi contro Berlino, da parte della classe politica e intellettuale europea, hanno questo scopo di copertura delle reali relazioni di dipendenza imposte dagli statunitensi ad ogni membro della famiglia continentale. Non che i tedeschi intendano rompere con gli americani (anche se alcuni gruppi decisori gradirebbero seguire una via di maggiore indipendenza) ma quest’ultimi vogliono spegnere sul nascere qualsiasi tendenza contraria al loro volere. Per farlo alimentano paure immotivate e pericoli esterni inesistenti ma resi materiali da attentati sparsi e sgozzamenti vari. Nel frattempo proseguono nella militarizzazione dei confini orientali dell’Europa portando loro forze d’intervento rapido e introducendo sistemi antimissile in funzione antirussa. Questa azione aggressiva, portata innanzi soprattutto dai democratici d’oltreatlantico, non trova unanimi tutti gli strateghi statunitensi. Per esempio, Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale ed ex segretario di Stato ai tempi di Nixon e di Ford, nonché fautore dello storico ripensamento delle relazioni sino-americane, in funzione anti-Urss negli anni ’70, considera il testa a testa con Mosca eccessivamente spregiudicato in quest’epoca di rifacimento degli equilibri internazionali. C’è il rischio concreto che la fretta di Washington nel voler risolvere il dossier russo aggravi la crisi egemonica americana favorendo il riavvicinamento tra il Cremlino e Pechino, i quali tradizionalmente diffidano uno dell’altro. Secondo Kissinger sarebbe meglio non spingere l’acceleratore su dissidi che, momentaneamente, potrebbero essere contenuti meno platealmente, data la superiorità degli Usa rispetto ai potenziali competitori, agendo più d’astuzia che di forza. Per ora gli avvenimenti vanno in direzione opposta. Resta da capire quello che farà l’Europa. È evidente che gli Usa considerano l’Ue il loro fronte più avanzato, la linea maginot dove bloccare preventivamente gli attacchi al loro potere da parte di sfidanti agguerriti. Il Vecchio Continente diventerà campo di battaglia passivo di dispute geopolitiche che lo priveranno di ogni iniziativa. Un tragico destino che andrebbe scongiurato da nuovi gruppi dirigenti chiamati a spazzare via quelli servili attualmente in sella, attraverso la ricostruzione della sovranità europea, l’espulsione dei nemici stranieri e la creazione di alleanze mondiali atte a favorire il multipolarismo.

 

Gianni Petrosillo

 

 

 

 
Da Brexit a Renxit PDF Stampa E-mail

7 Luglio 2016

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Da Rassegna di Arianna del 5-7-2016 (N.d.d.)

 

Lo so, non è elegante. Ma non posso fare a meno di dire: ve l’avevo detto. E non mi riferisco tanto all’esito del referendum inglese. Anzi, confesso che il tourbillon dell’ultima settimana (terrorismo mediatico sulle conseguenze economiche, crescendo di isteria “antirazzista”, per non parlare di un delitto che pareva concepito apposta per intorbidare le acque) il tourbillon – dicevo – mi aveva fatto temere che gli elettori inglesi potessero farsi infinocchiare quando ormai la vittoria era a portata di mano. Dunque, il “ve l’avevo detto” non si riferisce tanto alla pur clamorosa vittoria del Brexit, ma alla reazione dei popoli europei che – ho ripetuto fino alla noia – alla fine sarebbe arrivata. E sarebbe arrivata nell’unico modo possibile in democrazia, con il voto popolare. Data questa premessa d’ordine generale, avevo indicato quelli che mi sembravano gli snodi più importanti, quelli che avrebbero potuto segnare il colpo di grazia per questa spompata e sbertucciata Unione Europea: il referendum inglese del 2016 e le elezioni presidenziali francesi del 2017. Il referendum inglese è andato. Le presidenziali francesi ci saranno fra meno di un anno, ad aprile. In mezzo, tanti turni elettorali minori: a cominciare dalle innocue elezioni spagnole di questa domenica (in Spagna non esiste un partito nazional-populista e antieuropeo) e senza dimenticare il referendum italiano di ottobre per quello che alcuni già chiamano il Renxit, ovvero Renzi exit. Ma – da qui all’appuntamento francese – ci sarà anche l’assedio della speculazione finanziaria internazionale all’Inghilterra, in uno con la corsa contro il tempo dei vertici UE per perfezionare l’uscita di Londra da tutti gli organismi europei quanto più presto possibile, prima che il governo britannico possa rimodulare la sua politica economica alla luce del nuovo stato di fatto. Il disegno bullistico di Junker e delle altre zitelle inacidite è chiaro: devono cercare di far male all’Inghilterra, tanto male, in modo da poter dimostrare che lasciare l’Unione equivalga a un suicidio, che porti crisi, miseria e disoccupazione: tutte cose – sia detto per inciso – che finora sono state portate proprio dai funesti parametri europei.

 

Ma – attenzione – il messaggio terroristico anti-exit non sarà indirizzato tanto ai cittadini britannici, bensì a quelli degli altri paesi europei, per scoraggiare ogni possibile tentazione di seguire l’esempio inglese. E soprattutto – da qui all’aprile 2017 – ai cittadini francesi. Se Marine Le Pen, infatti, dovesse diventare Presidente della Repubblica, indirebbe subito un referendum analogo a quello inglese, e il risultato sarebbe scontato: una valanga di SI all’exit, essendo la Francia forse il paese più antieuropeo dell’intera Unione. Non si dimentichi che Parigi ebbe a pronunciarsi già nel 2005 (quando la situazione non era tragica come adesso) sui “valori” dell’Europa. E il pronunciamento – già allora – fu inequivocabile: il 55% di NO alla Costituzione Europea. Immaginatevi cosa succederebbe se si votasse oggi, con una crisi alle stelle, con il governo “socialista” che vuole imporre un Jobs act alla parigina, con il paese letteralmente invaso da “migranti” di prima, seconda o terza generazione. Ecco perché gli inglesi devono attendersi un assedio finanziario (e politico) senza esclusione di colpi: ricordate la congiura dello spread contro l’Italia nel 2011, per abbattere il recalcitrante Berlusconi e per chiamare Monti e Fornero? e ricordate le sporche operazioni politico-finanziarie che hanno messo in ginocchio il Brasile di Dilma Rousseff e il Venezuela di Maduro, rei di lesa maestà statunitense? Altro che la ridicola raccolta di firme per ripetere il referendum! Ed altro che il ridicolissimo credito che certa stampa italiana sembra dare a questo “non ci gioco più” per bambini cretini! Ma, se gli inglesi devono attendersi – per dirla con Churchill – “lacrime, sudore e sangue”, i francesi potranno finalmente avere un po’ di respiro per quanto riguarda l’economia e i flussi migratori: per cercare di far passare l’idea che in fondo la UE non sia così cattiva. Certo, non mancheranno scandali e tenebrosi affaires, e forse anche qualche tempestivo fatto di sangue che possa muovere a compassione l’opinione pubblica, magari una o due settimane prima delle elezioni. Marine Le Pen – poi – da qui alle presidenziali sarà accusata di tutto il pensabile e l’impensabile; e, se i sondaggi riservati continueranno a darla in testa, dovrà stare attenta anche alla propria personale incolumità. Non va esclusa, infine, una variabile di non secondaria importanza: prima delle presidenziali francesi ci saranno – a novembre di quest’anno – le presidenziali americane. E chi può escludere che l’onda lunga del Brexit valichi l’Atlantico, giungendo a tarpare le ali di quell’insopportabile Hillary che, notoriamente, è la candidata sostenuta da quei medesimi potentati finanziari che sono stati spernacchiati dagli elettori britannici? In fondo – come ho già scritto – il compito assegnato agli USA è quello di semplice braccio armato dei poteri forti. In compenso di questo “lavoro sporco” non saranno certo esentati dalla macelleria sociale dei “mercati”. Semplicemente, il loro turno verrà dopo quello dei paesi europei, ma anche loro sono in lista d’attesa per finire nel grande tritacarne del mondialismo finanziario. Gli americani hanno cominciato ad accorgersene. Da qui, l’ascesa di candidati alternativi all’establishment: Sanders a sinistra, Trump a destra. Sanders non ha potuto reggere l’urto della concorrenza miliardaria dell’ex first lady; ma Trump – che è miliardario di suo – è uscito indenne dalle primarie repubblicane, e adesso è diventato improvvisamente un concorrente pericoloso, pericolosissimo per l’attempata donzella tanto amata dall’alta finanza. E in Italia? In Italia è già un’orgia di veline e fogli d’ordini, in piena atmosfera da Minculpop del ventunesimo secolo. Deve assolutamente passare il messaggio che la nostra crisi non potrebbe attenuarsi uscendo dall’Unione Europea, che dobbiamo continuare ad andare a prendere i migranti fino sotto le coste libiche («accogliamoli tutti», incalza Bergoglio) e che parlare di un exit all’amatriciana sia un pericoloso esercizio di populismo e di razzismo. Berlusconi, naturalmente, è della partita europeista, insieme a verdiniani, alfaniani e onorata compagnia. In zona Cesarini si sono aggiunti anche i grillini, impegnati in un forcing disperato per apparire moderati, presentabili e pronti per andare al governo. Non per nulla, qualche settimana fa Di Maio si è recato in visita ufficiale nella Londra pre-Brexit, capitale dell’alta finanza europea. Lo stesso pellegrinaggio – si ricorderà – fu compiuto da Gianfranco Fini nel lontano 1995. Con i risultati che tutti conoscono.

 

Michele Rallo

 

 
La passerella di Christo PDF Stampa E-mail

6 Luglio 2016

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La passerella di Christo sul Lago d' Iseo, decantata e magnificata dalla grancassa mediatica come l' "evento" per antonomasia dell' estate italiana 2016, ha chiuso i battenti. Se volessimo guardare da un punto di vista prettamente numerico, dovremmo dire senza indugi che è stato un successo, in quanto gli organizzatori avevano preventivato una cifra di 700-800.000 visitatori in quindici giorni mentre il computo finale segna quota 1.500.000 visite. Non vogliamo discutere, in questo articolo, della valenza artistica di una passerella costruita usando poliuretano (sì, proprio quello che si usa nei frigoriferi...) che non porta a nulla, che non va da nessuna parte, un mostro galleggiante sulle acque lacustri con un impatto visivo da pugno nell' occhio. Non parleremo di questo, perché Christo è un furbone sopravvalutato che grazie alla critica ha aumentato a dismisura il conto in banca propinandoci sciocchezze: persino lo scarabocchio di un bambino dell'asilo contiene maggior significato della passerella in poliuretano ondeggiante.

 

Vogliamo solo fare un paio di riflessioni. La prima è che l'uomo contemporaneo, post-moderno, deve star proprio male con sé stesso e provare un senso angosciante di alienazione con la biosfera di cui è parte per fare ore di coda sotto il sole o in balìa dei temporali al solo scopo di "consumare" -questo è il vero termine adatto- pochi attimi di finta gioia solipsistica. Vengono in mente alcune parole di Alekos Panagulis, l’ex compagno di Oriana Fallaci, spirito libero e ribelle seppur troppo anarcoide (ma dotato di profondo acume ed intelligenza), durante un suo viaggio a Mosca nel 1975, dinnanzi alle folle che si recavano a venerare Lenin nel mausoleo: "stavano in coda come oche ammaestrate, come degli scemi". Cambiano gli anni, il contesto, i luoghi, ma le masse sul lago d' Iseo non si discostano da quelle della Piazza Rossa, con l' aggravante che le prime non sono costrette da un regime dittatoriale, ma seguono spontaneamente le mode del momento, tutte intruppate, tutte incredibilmente uguali negli atteggiamenti, nei continui "selfies" da postare compulsivamente sui social network, quasi un modo disperato di dire "io c' ero" gridato al mondo, ad una società che atomizza e decontestualizza la persona rendendola prima di tutto estranea a sé stessa.

 

In tutto questo contesto, il vero protagonista, cioè il magnifico lago d' Iseo coi suoi scorci, i suoi borghi sospesi nel tempo, i quadri del Moretto nelle chiese, i vicoli stretti e le tipiche case, sparisce. Si dissolve, evapora. Il focus dell'attenzione è una passerella scialba, che potrebbe essere inserita in qualsiasi altro ambiente o luogo, anche su un fiume inquinato di una desolante metropoli industriale, ma il risultato d' impatto mediatico e di affari e di visite risulterebbe essere il medesimo. I pubblicitari dell’evento dicono che finalmente il Lago d' Iseo verrà conosciuto nel mondo, incrementando il turismo. Può essere, ma per le ragioni sopraccitate secondo noi ben difficilmente gran parte dei visitatori sceglierà il lago prealpino come luogo di soggiorno in futuro: viviamo nella cultura dell'effimero, dell'istantaneo, quindi una volta spentisi i riflettori, Iseo e dintorni continueranno ad essere "penalizzati", come dicono nel settore turistico, dalla concorrenza dei laghi vicini: il Garda e quello di Como. L' asfittica ed ingolfata economia delle crescite esponenziali, ora che la torta planetaria presenta fette sempre più piccole e meno appetitose, nella sua ansia di generare denaro e redditi, punta sempre più su eventi mediatici o kermesse mastodontiche, i cui costi di produzione lievitano di anno in anno e che producono risultati modesti, che non lasciano radici o semi nel tempo: Expo 2015 archiviato con un bilancio modesto (non fatevi ingannare dal numero di biglietti venduti, che ha raggiunto il minimo sindacale previsto) non ha avuto impatti duraturi sul lavoro e sull' economia nazionale e neppure lombarda; i mondiali sudafricani del 2010, presentati come il riscatto del Continente Nero, sono ormai nel dimenticatoio e gli impianti sportivi cattedrali nel deserto, ed intanto il Sudafrica continua nella sua spirale al ribasso; a Roma è in corso un Giubileo a piazze vuote, di cui a nessuno importa nulla e potremmo continuare con mille altri esempi, il più vicino a noi le prossime Olimpiadi di Rio de Janeiro in un Brasile che ultimamente pare se la passi male. Voglia Iddio che Roma stessa non vinca l'assegnazione dei giochi olimpici 2024!

 

La sola cosa che salva la carnevalata d' Iseo sono i costi contenuti e finanziati esclusivamente da Christo e dalla famiglia Beretta, dell'omonima industria d' armi. Un sottile filo rosso collega la passerella con tutti i grandi eventi : la fame di una crescita ormai impossibile, giri d' affari miliardari, la bulimia di bottegai, albergatori, costruttori, il foraggiamento di un circo mediatico martellante al servizio del turbocapitalismo, che deve continuare ad alimentare i desideri di quelli che ormai sono dei consumatori individualisti passivi, poveri individui senza un ruolo, senza un senso in una società nemmeno più liquida come dice Baumann, ma quasi evaporata, dei numeri tra i numeri il cui solo obiettivo è quello di uscire da un grigio anonimato, filmandosi o fotografandosi nel grande evento di turno e inondando la Rete con la propria faccia: non siamo numeri, noi esistiamo, ecco la prova ed invidiateci, io ci sono e tu invece no. Le facce quasi grottesche dei camminatori, sui social network, possono figurare solo in uno dei "capricci" di Francisco Goya o alle grida di Munch. È il solo barlume di forma artistica che si vede in tutto questo.

 

Simone Torresani

 

 
Rassegnarsi è un delitto PDF Stampa E-mail

5 Luglio 2016

 

Da Rassegna di Arianna del 3-7-2016 (N.d.d.)

 

Com’era da aspettarsi, lo spirito del tempo che è andato disegnandosi lungo l’intero corso del secondo dopoguerra sta dando i suoi frutti più maturi. Il connubio fra il culto del progresso diffuso dalle élites intellettuali e la globalizzazione governata dalle élites economico-finanziarie e dalle classi politiche che ne vanno al traino ha prodotto un’accelerazione nei cambiamenti del costume, delle mentalità e dei flussi di trasferimento di uomini, merci e denaro a livello planetario che non ha precedenti nella storia del mondo. L’individualismo celebra quotidianamente nuovi successi e l’ideologia del desiderio illimitato, garantita dal trionfo della logica dei diritti su quella dei doveri, si espande senza trovare ostacoli significativi. Il nomadismo è sempre più preferito alla stanzialità, al gusto per il radicamento in un luogo si sostituisce la voglia di annullare le frontiere e di eleggere domicili precari. L’eguaglianza da ideale di livellamento sociale si trasforma in aspirazione ad abbattere ogni criterio di differenziazione etnica e culturale, a rendere tutti identici, ad assimilare ogni segno di distinzione in un modello unico, di cui l’aperto elogio del meticciato come condizione qualitativamente superiore, perché fatta di incroci, commistioni, apporti di origine sempre meno decifrabile, è l’inevitabile conseguenza. Il mondo a una dimensione è, nelle menti di molti nostri contemporanei, cosa fatta – e ben fatta. L’idea che scegliere il sesso a cui appartenere sia un’aspirazione legittima, che di leggi imposte dalla natura non ne esistano, che qualsiasi legame affettivo comporti il riconoscimento di prerogative da parte dello Stato, che qualunque tipo di ordine sia un’imposizione a cui è lecito ribellarsi, acquista un credito crescente. Teoria del genere, ideologia dei diritti dell’uomo, ripulsa del concetto stesso di frontiera, riduzione dell’identità a fattore esclusivamente soggettivo, senza più alcun rapporto con entità collettiva, concorrono a divulgare questi modi di pensare, che gli strumenti di comunicazione di massa, e i loro operatori e finanziatori, si incaricano di martellare nelle menti. Normalizzare ciò che per secoli la coscienza comune ha considerato eccezionale e/o inaccettabile, istigare a rompere con le tradizioni consolidate e ad abbandonare i concetti di limite e di misura è il compito che le “classi colte” si sono assegnate e svolgono con l’impegno che l’ebbrezza di sentirsi dalla parte del Bene e del Giusto ha sempre ispirato ai fautori delle rivoluzioni, ai fautori di Nuovi Ordini e Nuovi Uomini, disposti a fare tabula rasa e terra bruciata di ogni resistenza pur di raggiungere lo scopo che si prefiggono.

 

Di fronte a questo spettacolo di disgregazione, in cui si frantumano i legami sociali usuali, vengono meno i codici di riconoscimento reciproco dei residui aggregati comunitari, perdono significato i concetti di popolo e nazione, incalzati dallo spettro di un’Umanità omogenea e indistinta, non tutti si sono ancora arresi, accettando senza fiatare il nuovo credo recitato dalle migliaia e migliaia di voci degli adepti del Migliore dei mondi possibili, liberale, consumista, multietnico ma di fatto avviato al monoculturalismo occidentale. Ci sono ancora dissenzienti, ribelli, inquieti dell’attuale corso delle cose. C’è ancora chi si scandalizza, magari più in privato che in pubblico, perché teme di essere additato all’esecrazione dall’onnipresente polizia del pensiero. C’è chi, non potendone più di ascoltare opinioni che giudica assurde e nefaste, stacca la spina dalle comparsate televisive di politici e opinion makers, diserta la lettura dei giornali in cui dal pulpito degli editoriali vengono ammanniti sermoni moralistici improntati al più bieco conformismo, non mette piede nelle sale cinematografiche che offrono pellicole di registi unidirezionalmente “impegnati” a recare il proprio contributo al clima culturale dominante. Ma tutti, o quasi, questi reprobi malpensanti esprimono il loro disagio esclusivamente by default, in forma di rifiuto, di astensione, di distacco. Il loro modo di dire no all’andazzo corrente è il silenzio. La defezione. Il “non ci sto”. Il motivo di questo ripiegamento su se stessi di gran parte degli avversari dello Zeitgeist della nostra epoca è facilmente individuabile, e anche comprensibile. In tempi che pullulano di insegnanti pronti a censurare le idee “cattive” degli allievi, dalle elementari all’università, di giornalisti che si fanno un vanto di mettere alla berlina comportamenti non a norma con i codici del retto pensiero, di attivisti del politicamente corretto che in ogni sede e con i mezzi più vari, inclusa la violenza, si sforzano di impedire alle opinioni altrui qualunque canale di espressione, viene spontaneo giudicare eccessivo il prezzo da pagare per esporsi, per battersi allo scopo di arginare, e se possibile rovesciare e invertire di segno, l’attuale andamento delle cose. Occorre però capire che, se si sceglie la via della dissidenza silenziosa, si finisce con il dare l’impressione che una opposizione a ciò che sta accadendo non esista, e con il mettere ancora più fortemente in circuito un veleno pericolosissimo, che ha già raggiunto ampie zone delle nostre società: quello della rassegnazione. È proprio questo il virus che sta infliggendo i maggiori danni a quegli ambienti non conformisti che, pur eterogenei, frammentati, divisi, strutturalmente incapaci di raccogliersi attorno a strategie e – men che meno – sigle o strumenti di comunicazione comuni, e tutt’altro che esenti da vizi, manie, pregiudizi e ritardi culturali che spesso producono spiacevoli effetti boomerang, insistono nel voler dare pubblica rappresentazione al loro dissenso. Molte delle loro iniziative suscitano in parti tuttora non esigue dei vari contesti sociali attenzione, simpatia, condivisione –sentimenti che non si convertono, tuttavia, in concreto sostegno, in adesione attiva, in partecipazione a far conoscere nei rispettivi ambienti i punti di vista non convenzionali che pure li hanno attratti. Non lo fanno perché ritengono che, ormai, non ci sia più niente da fare, che le cose continueranno ad andare nella stessa direzione che hanno preso attualmente, che tutto sia inutile perché quel che sta accadendo è “inevitabile”. Inculcare nei cervelli la sensazione di inevitabilità dei fenomeni ai quali si sta assistendo è da sempre un’arma letale nelle mani dei sostenitori del determinismo storico, in particolare di quelli che hanno sposato l’ideologia del progresso. Se le cose sono andate in un certo modo, è il loro argomento-base, è perché dovevano andare in quel modo: la Storia ha un senso inarrestabile, a cui opporsi è pretesa vana, è utopia, è illusione. Senza rendersene conto, è a questo assunto ideologico che stanno aderendo i molti sedicenti “non conformisti” che oggi si sono rassegnati a fenomeni come l’immigrazione di massa, la disgregazione del concetto tradizionale di famiglia, la pretesa di far scomparire nozioni come quelle di sesso e di etnia. I loro ragionamenti vanno tutti in direzione di un accomodamento con la logica del tempo presente, che sperano siano il meno dispendioso o doloroso possibile. E, fiaccando la volontà di resistenza di chi non si è ancora arreso alla loro logica compromissoria, favoriscono i disegni di chi, nella situazione presente, prospera e coltiva i propri interessati disegni.

 

Ciò è particolarmente visibile nel campo discorsivo che riguarda l’immigrazione. Trovando conforto nelle parole della Chiesa e dei suoi rappresentanti più autorevoli, negli accorati appelli delle associazioni “umanitarie” e di volontariato, dell’intellettualità accademica e giornalistica, dei politici di quasi ogni colore e dei personaggi dello spettacolo, questi dissidenti a corrente alternata giudicano impossibile – e quindi “disumano” – arrestare la marea di richiedenti, più che asilo, benessere che si sta abbattendo da anni sul continente europeo. Di fronte allo spettacolo degli sbarchi riusciti e degli affondamenti di barconi, degli accampamenti alle frontiere, dei fili spinati e dei muri, le loro coscienze recepiscono solo il registro della commozione e della compassione. Giudicando “di pietra” i cuori altrui, sostituiscono i loro alle menti: non si preoccupano di capire le conseguenze, in termini di disagi e magari di catastrofi sociali e culturali, del loro atteggiamento. Pensano che qualcuno, comunque, ci penserà e rimedierà. Si battono il petto – e fanno bene – per le colpe del colonialismo europeo dei secoli scorsi, si indignano – e fanno ancora più bene – per i guasti provocati in Africa, in Asia e in Sud America dall’ingordigia delle compagnie industriali e finanziarie dell’Ottocento, avide di materie prime e indegne sfruttatrici della manodopera locale, nonché per le azioni meno visibili e non meno distruttive poste in atto dalle ancor più insensibili e predatrici multinazionali odierne. Ma si limitano a considerare le migrazioni in massa il logico e – appunto – inevitabile risvolto della medaglia. Accettano, insomma, la legge del taglione: “occhio per occhio, dente per dente”. Il fatto che, vedendo venire il proprio turno, l’Europa sia con ampie probabilità destinata a far fronte a una forte crescita di conflittualità sociale ed ingiustizie – perché, come è stato giustamente detto da più parti, i “disperati” accettati in nome dell’accoglienza, della solidarietà e dell’incapacità politica di attuarne il rimpatrio finiranno col vivere in larga misura di sussidi statali pagati con le imposte dei cittadini già residenti e, in gran parte, alimenteranno una armata di riserva del Capitale addetta al lavoro nero e al contenimento dei salari – sembra non inquietarli. Né, a quanto pare, si preoccupano del fatto che i molti milioni di immigrati estranei per formazione e processi di socializzazione ai valori culturali e religiosi e ai modi di vita delle popolazioni autoctone eroderanno, fino forse a cancellarle, tradizioni e caratteristiche che queste ultime hanno saputo e voluto conservare per secoli. […] Certo, anche senza esporsi si possono inviare segnali, e lo hanno clamorosamente dimostrato le cifre elettorali, fino a pochi anni fa impensabili, raggiunte in occasioni recenti dalle formazioni populiste, le uniche che – seppur spesso confusamente, e per certi versi discutibilmente – danno prova di una volontà di opposizione alle tendenze più dannose in atto nelle società attuali. […] Tuttavia, per le caratteristiche organizzative ancora precarie di alcuni di  questi movimenti e partiti, per il loro essere legati ad un pubblico di sostenitori più propenso a manifestare umori che a coltivare convinzioni, per la sommarietà delle loro basi programmatiche, puntare esclusivamente sulla loro azione per rimediare ai guasti provocati dai fautori dello spirito del tempo presente sarebbe una scelta miope. Quel che occorre, per avere speranze di vincere – nel lungo periodo: di questo si deve prendere atto – la partita in corso, è la promozione di idee, suggestioni, messaggi alternativi e costruttivi su un terreno metapolitico. Lo sosteniamo ormai da quarant’anni, e la convinzione della fondatezza di questa impostazione non fa che crescere dentro di noi ogni volta che osserviamo la realtà che ci circonda. È sul terreno della conquista delle mentalità, è con gli strumenti della riflessione e della conoscenza, che si vince o si perde questa battaglia, in cui la politica non può che avere un ruolo sussidiario e accessorio. Non è ancora tardi per capirlo e per scuotersi dal torpore, per respingere le lusinghe dei teorici dell’inevitabile accettazione dello stato presente delle cose e per scuotersi di dosso la rassegnazione.

 

Il cammino sarà lungo e difficile, come lo è stato sin qui. Alain de Benoist scrive che “la banchisa ha iniziato a fondere e le dighe ad incrinarsi. Nessuno ci crede più”. Invidiamo il suo ottimismo, senza riuscire a sottoscriverlo, ma il nostro messaggio converge con il suo. Rassegnarsi è un delitto contro la nostra stessa coscienza di uomini liberi.

 

Marco Tarchi

 

 
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