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Democrazia diretta PDF Stampa E-mail

24 Giugno 2016

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Da Collettivo Libertario-Rivoltiamo la terra del 21-6-2016 (N.d.d.)

 

Le ultime elezioni amministrative sono state un chiaro segnale della qualità della classe politica che governa il nostro paese e della loro attenzione nei confronti delle esigenze e dei bisogni della popolazioni. Ma la reazione ai risultati delle elezioni è anche un segnale evidente che ciò che sta avvenendo oggi non può più rappresentare nessuno.

 

Per Renzi i risultati elettorali rappresentano l’ansia di cambiamento dei cittadini. Ma per tutta la gerarchia del PD, è proprio questa voglia di cambiamento che motiva il governo ad andare avanti sulle riforme costituzionali. Una vera presa per i fondelli nei confronti della gente che ha compreso che la ditta Renzi-Boschi e affiliati, non rappresenta altro che gli interessi delle banche, di Confindustria e dei poteri loschi europei che vogliono smembrare la carta costituzionale e quel poco che ci resta dei diritti acquisiti dai lavoratori durante un secolo di lotte. Renzi non rappresenta né il cambiamento, né la gente, né mai è stato eletto ed è a capo di un parlamento illegittimo perché votato con una legge elettorale incostituzionale.

 

Dall’altra parte c’è una serie di sigle partitiche inconsistenti in quanto ad idee e programmi, che si dicono moderati per usare un termine piacevole ma che in realtà sono liberali nel senso che promuovono una politica economica che permetta alle grandi aziende e alle lobby di fare tutto ciò che desiderano dell’ambiente, dei lavoratori, sul cibo ecc. Ed in Renzi questa destra moderata vede un ottimo cavallo di Troia per far passare politiche che altrimenti non riuscirebbero a concretizzare. Poi c’è l’estrema destra, che liberale non è, ma è nazionalista. Fa leva sulla paura per i migranti e le altre minoranze per raccattare qualche voto. Promuove odio, violenza, ruspe, discriminazioni, la guerra tra poveri coprendo sempre le responsabilità politiche ed economiche dei disastri indicando poveracci che fuggono da guerre e terrorismo tra i responsabili dei nostri problemi. Dalle elezioni  esce perdente.

 

Ma veniamo ai vincitori, coloro che sono riusciti a raccogliere sotto forma di voti il desiderio di cambiamento. Il movimento 5 stelle riesce ad insediare propri sindaci a Torino e Roma. Ma dalle dichiarazioni di Chiara Appendino sulla questione Tav si oppongono ma non possono fare nulla per fermarla. A dirlo è la figlia del socio del presidente di Confindustria Piemonte. Non stupisce. Il movimento 5 stelle dalle elezioni viene fuori come rappresentante di una voglia di cambiamento che rimane limitato ai volti ed ad alcuni modus operandi di fare politica, ma rimane identico nella struttura gerarchica del movimento che prende ordini dall’alto e nella falsa democrazia interna al movimento.

 

Democrazia non è votare con un click né può essere democrazia diretta il voto nazionale, stile referendum, su posizioni da portare in parlamento riguardo alcune proposte di legge. La democrazia e la politica non si fanno con un sì o con un no ma con il confronto dialettico. Non ci potrà mai essere una democrazia diretta finché l’unità su cui si lavora è il territorio nazionale. La democrazia può dirsi compiuta solo se praticata nei territori dalla base senza influenze esterne o superiori come invece sta avvenendo sia sulle riforme costituzionali, sia in Regno Unito nel referendum sulla Brexit (uscita o permanenza nell’Unione Europea) dove le minacce di crisi, isolamento, catastrofi si moltiplicano per terrorizzare i cittadini. Anche il movimento 5 stelle si dimostrerà una delusione e non rappresenterà i cittadini, come in passato è stato per Obama che doveva rappresentare il cambiamento delle politiche statunitensi e nei confronti del quale si riponevano molte speranze; e come prossimamente potrebbe succedere per Hillary Clinton. Ciò avviene perché i cittadini non hanno bisogno di essere rappresentati, vogliono partecipare direttamente alle decisioni che riguardano loro, non per fare i burattini o soldatini di un qualche partito ma per prendere posizioni nette e chiare riguardo questioni locali. È ciò che avviene già in Salento riguardo la Xylella e la Tap, è ciò che avviene già in Basilicata riguardo i pozzi petroliferi, in Sicilia per il Muos, in Valsusa per l’alta velocità. Ma alla politica istituzionale tutta non interessa la volontà dei cittadini. Per questo l’unica possibilità di realizzare la democrazia diretta è con l’autogoverno dei territori attraverso assemblee autogestite. Questa è l’unica strada che possiamo percorrere.

 

 Francesco Scatigno

 

 
Silenzio sul Giubileo PDF Stampa E-mail

23 Giugno 2016

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In queste settimane tutta l' attenzione sta andando all' imminente referendum britannico sul Brexit, alle convulsioni finanziario-borsistiche ad esso connesse, alle elezioni amministrative di casa nostra che hanno visto salire l'astensione e dato micidiali colpi di maglio agli ormai esangui partiti tradizionali, PD in testa ,con la dilagante marea pentastellata...eppure nessuno parla, commenta o scrive di un "grande evento" in corso da ben sette mesi e destinato a durarne altri quattro, come se tale evento non esistesse più: intendiamo il "Giubileo straordinario della Misericordia", tenacemente voluto dal fenomeno mediatico papa Francesco, apertosi l' 8 dicembre 2015 e destinato a concludersi il prossimo 20 novembre. Sparito dalle cronache. Cancellato. Obliato. Immerso nella nebbia, come se la terra lo avesse inghiottito. Eppure secondo la vulgata dell'informazione conformista e dei tromboni di regime, avrebbe dovuto essere non solo un "grande evento" religioso ma al contempo di rinascita turistico-economica per la Capitale, tanto che sull' onda dell'entusiasmo, nel 2015, le strutture alberghiere avevano persino aumentato dell' 1,11% le assunzioni del personale. I dati sono impietosi e vedono non solo un crollo degli arrivi del turismo "laico" a Roma, ma pure una netta contrazione di quello religioso, testimoniato dalle udienze generali del pontefice, in una piazza San Pietro desolatamente semivuota dove risaltano, più che le preghiere dei cattolici, le uniformi dell'apparato di sicurezza. Fallimento doppio, perché in ogni diocesi esistono santuari, chiese e basiliche giubilari, ma la frequenza a messa, sotto il magistero di Bergoglio, è scesa -parlando solo dell'Italia-di ben cinque punti percentuali rispetto ai tempi del meno accattivante e popolare ma senza dubbio più ieratico, ferreo in dottrina e tradizionalista Ratzinger. Colpa delle minacce dell'IS? Colpa dei pochi soldi in tasca (i quali, però, vengono allegramente spesi per finanziarsi l'ultimo smartphone di grido)?

 

Sicuramente tali fattori influiscono in parte, ma non in tutto. A parte il fatto che il terrorismo colpisce a sorpresa in luoghi ove non v' è grande ragione di temere (vedi i bistrots parigini o un concerto al "Bataclan"), balza all' occhio la schizofrenia tutta moderna di un papa acclamato dai laici e dagli atei e diffidato dai veri cattolici, non solo dai tradizionalisti ma anche da chi sa qualcosa della dottrina e non si limita, in chiesa, a ripetere senza capire antiche formule di rito. I ponti di Francesco-rivolti a senso unico verso le altre religioni, i miscredenti e gli anticlericali, mai in direzione del "gregge" -e la sua ansia frenetica di rincorrere il mondo e di proclamare ciò che maggiormente gusta al secolo, invece di diffidare delle lodi del mondo, come vorrebbero gli Evangeli, altro non fanno che portare acqua al mulino di quelle forze non laiche ma laiciste o dell' ateismo militante (che alla fine diventano, esse stesse, religione intollerante) e condurre una Chiesa ormai malconcia e ridotta, in sostanza, ad una gigantesca holding o multinazionale dalle casse piene ma dalle panche vuote, a stravolgere la dottrina, la teologia, a farla confondere in un magma dolciastro, mieloso, buonista, financo relativo-basti pensare alle infelici frasi bergogliane su un Dio che perdona tutto e tutti, sempre, quindi sulla negazione di paradiso ed inferno, sugli arrampicamenti teologici per supportare le migrazioni di massa, sulla sua martellante necessità di un dialogo con l' Islam e le altre religioni senza chiedere tangibili segni di reciprocità.

 

Ne nasce un cattolicesimo svuotato, esangue, dove la sociologia prende il posto della dottrina e l'immanenza quello della trascendenza, dove alle antiche ritualità dense e pregne di significati metafisici si sostituiscono tutti gli "idola" della modernità, un cui segno degradante fu la vista dei vescovi ballerini sulla spiaggia durante il raduno della GMG in Brasile. È il cattolicesimo che piace ai poteri forti e al capitalismo, perché subordina il messaggio di una Entità che ci trascende e ci fa essere solo di passaggio in questa Terra, per poi giudicarci degni di vita eterna in base alla fede e alle opere spese in vita, a una religione in funzione del mondo e che sussiste in esso, coi suoi piaceri e i suoi edonismi, senza tema dell'Aldilà. È il cattolicesimo " 2.0" dell'uomo fintamente emancipato nei costumi ma non nei veri diritti, del politicamente corretto, della deresponsabilizzazione dell'individuo e del "parricidio" verso il concetto di autorità, con un Dio languida femmina che tutto perdona: e quindi, godiamocela. Col consumismo e il relativismo. Visto che non tutti i cattolici sono scemi o teledipendenti, in molti se ne sono accorti, coi risultati sopra scritti. E la crisi della Chiesa ci angoscia, perché la religione è rimasta il solo baluardo contro una postmodernità allucinante e un capitalismo assoluto, smaniosi di sostituirsi in una Religione mondiale del Mercato.

 

Simone Torresani

 

 

 
Cosa c'entra l'amore? PDF Stampa E-mail

22 Giugno 2016

 

L'ultima "idea" insensata, che purtroppo si va diffondendo anche tra i docenti universitari, è che gli studenti debbano "amare" lo studio. Mi riferisco agli studenti universitari; per gli studenti delle superiori l'affermazione possiede, forse, un nucleo di verità. Io, come tutti coloro che studiavano con me e che si sono laureati in giurisprudenza con lode, ho seguito un terzo dei corsi: sette corsi su ventuno (e considero i tre biennali come un solo corso). Quattordici esami, dunque, li ho preparati soltanto sui libri di testo. Non sono mai andato ad un ricevimento e ho conosciuto i docenti soltanto il giorno dell'esame. Ne discende che l'amore per lo studio non lo pretendevamo dai docenti.  Esiste l'amore per il sapere non per lo studio. Lo studio è un dovere (dall'adempimento del dovere nasce l'amore per le discipline): 5-6 ore al giorno per 4 mesi l'anno quando gli esami erano lontani; 7-8 ore al giorno per 5 mesi l'anno; 10-15 ore al giorno per 45 giorni l'anno, nelle settimane prima degli esami; e 45 giorni di vacanze totali.

 

Tutti coloro che hanno studiato in questo modo hanno poi amato le discipline apprese e ora sono magistrati, notai, docenti universitari, dirigenti della P.A. e bravi avvocati, anche se erano figli di nessuno. Tutti, nessuno escluso. Lo studio è dovere, sacrificio, sforzo, fatica, disciplina, sfida lanciata a se stessi. Amare lo studio non è diverso da amare un lavoro creativo e impegnativo. Significa soltanto avvertire il senso del dovere nei confronti dei genitori che finanziano, amare le sfide con sé stessi ("oggi leggo e sottolineo 70 pagine"; "oggi leggo due volte ad alta voce e ripeto ad alta voce 50 pagine"), amare l'umiltà di voler frequentare studenti più bravi o più avanti negli studi, amare la prova dell'esame cercando di dare il meglio di sé stessi, accettando di rintanarsi in casa gli ultimi 10 giorni con addosso lo storico tutone (sempre lo stesso per anni), amando la pazienza e lo sforzo necessari a risolvere i problemi (matematici, di traduzione o di comprensione).

 

L'AMMORE è uno dei concetti più velenosi, sia nel rapporto tra fidanzati o coniugi, sia nel rapporto tra genitori e figli, sia nel preteso rapporto tra studenti e studio. È falso, molle e alla fine spesso malefico. L'amore, quello vero, nasce sempre dall'adempimento dei doveri, dall'impegno, dal sacrificio, dalla pazienza, dall'intelligenza.

 

Stefano D’Andrea

 

 
Pił cretini che nazisti PDF Stampa E-mail

21 Giugno 2016

 

Da Rassegna di Arianna del 19-6-2016 (N.d.d.)

Antonio Padellaro, su Il Fatto Quotidiano, scrive che sono tornati i nazisti. Ma i nazisti non sono tornati e non torneranno, checché ne dica il simil-giornalista di questo quotidiano sfatto. Semmai, se proprio vogliamo essere precisi, sono tornati certi nazisti (da operetta) su Il Fatto quotidiano e siamo pronti a dimostrarlo. Ma andiamo per ordine. Padellaro afferma che:

“I nazisti stanno tornando e lo dicono i fatti. L’odio che ha ucciso la deputata laburista Jo Cox ha un nome e cognome: Thomas Mair. Oltre che mentalmente instabile, l’uomo risulterebbe simpatizzante di gruppi di estremisti neonazisti, ostili all’Europa e sostenitori dell’apartheid. Mentre in Inghilterra si vivevano ore tragiche, in Francia orde di hooligans russi, croati, inglesi e tedeschi [in ordine non casuale di teppaglia e di pregiudizio di chi narra. Nota mia] mettevano a ferro e a fuoco città e stadi dell’Europeo di calcio, con il sostegno complice di cechi, slovacchi e ungheresi: divisi dal tifo, uniti dalla simbologia nazista e dagli slogan xenofobi. Un’offensiva nazi che riesce bene a mimetizzarsi tra le maglie della democrazia, come dimostra l’avanzata elettorale delle forze dell’ultradestra in Austria e Germania, senza contare che in Ungheria e Polonia [ed in Ucraina, che non fa ancora parte dell’Ue ma ci prova col consenso di Bruxelles ed il sostegno americano, dove i nazisti sono stati integrati nelle forze armate e sono entrati nella Rada. Nota mia], ma sinceri ammiratori (sia pure in doppiopetto) della svastica occupano poltrone di governo. E che dire degli Stati Uniti dove Donald Trump, nella sua corsa alla Casa Bianca non esita a raccattare i voti del Ku Klux Klan e di quei nazisti per tanto tempo relegati nell’indimenticabile macchietta dei Blues Brothers (“Io li odio i nazisti dell’Illinois”) e che adesso possono tranquillamente uscire alla scoperto con i deliri sulla supremazia della razza bianca? I nazisti stanno tornando ma l’Europa fa finta di non accorgersene, come se per negare una brutta malattia della pelle fosse sufficiente nasconderla alla vista”.

A leggere tale descrizione – al netto degli irrilevanti gruppuscoli di nostalgici del III Reich, tipo KKK e Hooligans, che usano la politica come copertura per azioni criminali e attività a delinquere, nonché di qualche matto isolato e manipolato – sono nazisti tutti quelli che non piacciono a Padellaro. Sono potenziali hitleriani quelli che hanno idee diverse sull’Europa, sulla Nato, sulle emergenze sociali (vedi l’immigrazione), su scelte culturali contrarie al politicamente corretto predominante. Fare insinuazioni sulle simpatie neonaziste di Trump, di Orban, di Zeman ecc. ecc. e coprire quelle apertamente richiamate dal governo di Kiev (dove il collaborazionista delle SS Bandera è ritornato ad essere un eroe nazionale), solo perché quest’ultima è diventata baluardo della russofobia in Europa e nuovo avamposto di Washington nella guerra a Putin, sa di parzialità e di presa per i fondelli. Tanto più che Il Fatto è riuscito a raccontare la rivolta di Majdan, ed il successivo conflitto civile nel Donbass separatista, ignorando il contributo fondamentale offerto alla causa dai battaglioni ammiratori del Führer (come l’Azov) e quello delle bande paramilitari neonaziste (Pravy Sektor). Quando questi assassini bruciarono vive oltre 50 persone disarmate, nella Casa del Sindacato ad Odessa, il giornale di Padellaro arrivò a negare l’eccidio, poi ad attribuirlo a presunti russi giunti dalla Transnistria, e, infine, allorché filmati e testimonianze non lasciarono più spazio a dubbi sui responsabili (i neonazisti di cui sopra), ad ignorare l’accaduto in spregio alla verità, alla giustizia ed al rispetto dei diritti umani. L’inviata in Ucraina de Il Fatto, quella che avrebbe dovuto portare a conoscenza dei lettori gli orrori dei pogrom in atto, oltre a scrivere un mare di menzogne su quello che stava realmente accadendo da quelle parti, si fece immortalare sorridente con i miliziani di Settore Destro sulle barricate, tanto per gradire e rendersi sgradevole. Ma per Padellaro i nazisti sono sempre gli altri, quelli che non la pensano come lui. Così come i despoti, stando invece a quello che scrive Furio Colombo nel suo articolo odierno, a proposito dell’incontro tra Putin e Renzi al forum economico di San Pietroburgo: “Renzi, capo del Governo italiano, incontra Putin, presidente-despota della Russia. Immediatamente dopo la visione di immagini e la descrizione scritta della coreografia in cui si è svolto l’evento, ci accorgiamo di non sapere nulla di ciò che è accaduto. Chi è Renzi per Putin? Chi è Putin per l’Italia? Ci sono accordi o disaccordi? Le narrazioni colorite e indirette suggeriscono accordi. La domanda che resta inevasa e non si fa (non i media, non il Parlamento) è: perché? Quali vedute ci uniscono, quali obiettivi ci accomunano visto che, nella guerra in Siria, per esempio, noi italiani siamo con Obama e Kerry che vorrebbero liberarsi di Assad e del suo regime criminale, ma la Russia dice no”.

Della serie: chi non è con gli Usa (e con la Nato) è necessariamente un pazzo tiranno che vuole incasinare il mondo. A Colombo non interessa che Putin abbia contribuito a respingere i jihadisti in Siria e a placare una mattanza resa possibile solo dal sostegno di Washington ai tagliagole (cosiddetti moderati) anti-Assad. Obama ha favorito il caos in medio-oriente ed in Nord Africa aprendo vari fronti d’instabilità che hanno portato alla morte di milioni di civili in Siria, Egitto, Libia ecc. ecc. Nonostante ciò, il dittatore aggressivo è Putin mentre Obama resta il Presidente buono e idealista, con giuste motivazioni, anche prescindendo dal risultato concreto delle sue azioni. Se Colombo non ha dato del nazista anche a Putin è unicamente perché lo fanno già i suoi per lui, come l’inviata anzidetta che lo ha apostrofato Putler in un suo mirabile pezzo di cretineria.

Ma torniamo alla questione principale. Tornerà davvero il nazismo in questo III millennio? Direi proprio di no. La storia non si ripresenta mai alla stessa maniera, per quanto si diverta ad indossare abiti usati per confondere gli sciocchi. Chi teme il pericolo bruno sbaglia. Il nazismo, nei nostri tempi, può assumere solo forme tragicamente scenografiche e strumentali: come spauracchio per certi fessi che credono ancora ai fantasmi o come fornitore di manovalanza per i lavori sporchi di chi ci governa. Occorrerebbe qualcosa di molto più cattivo e risoluto per fermare i prepotenti che comandano in questa fase. Né Hitler, né Stalin, né Mao sarebbero stati capaci dei delitti e degli stermini di cui si sono resi protagonisti gli americani e il loro codazzo di paesi servi. Come ha recentemente detto Gianfranco La Grassa: “L’odierno informe ammasso di politicanti, di giornalisti, di intellettuali, è ancora più schifoso in quanto falso e ipocrita. Parlano di diritti umani, di libertà di pensiero; e conculcano ogni e qualsiasi libertà. Per di più sono criminali che fingono d’essere molto civili e umani; intanto si servono di poveracci, con il cervello fumante di ideologia religiosa, per scatenarli e uccidere, in modo da occultare i loro ben peggiori misfatti. Altro che nazisti, fascisti, comunisti, ecc. Sono i liberali odierni i veri mostri, belve feroci mascherate da pecorelle”. Ed è proprio così. Non ci possono essere nazisti in assenza di nazismo o comunisti in assenza di comunismo. A riportare in vita simili spettri sono falsi antifascisti che rimestano nel torbido per fabbricare gli esecutori dei loro (attuali e prossimi) infami crimini, sia su piccola scala che su grande scala.

Gianni Petrosillo

 

 
Il Forum di San Pietroburgo PDF Stampa E-mail

20 Giugno 2016

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Da Rassegna di Arianna del 18-6-2016 (N.d.d.)

 

Il Forum economico internazionale di S. Pietroburgo è una conferenza che si tiene annualmente; nato nel 1997, è andato crescendo di peso fino a divenire un contraltare di Davos. Ormai è capace d’attrarre il meglio dell’imprenditoria non solo europea; la prova è la presenza di Rex Tillerson, il capo di Exxon Mobile, intervenuto malgrado i fulmini del Dipartimento di Stato Usa. Quest’anno si tiene fra il 16 ed il 18 giugno e Putin se ne è servito per mandare un messaggio all’Europa: tornare alla collaborazione fra il colosso dell’energia (e delle risorse naturali in genere) e il più grande mercato commerciale del mondo; un’ovvia reciproca necessità, soprattutto in tempi di crisi. Un messaggio che non è caduto nel vuoto. Più che i tantissimi contratti siglati a margine degli incontri, ciò che ha dato peso alla manifestazione sono state due presenze: quella di Jean-Claude Juncker e quella di Matteo Renzi, accolto come l’ospite d’onore da Putin. La presenza del Presidente della Commissione Ue sarebbe stata impensabile solo un anno fa, ma Juncker sa bene che il clima all’interno dell’Unione è assai mutato e che la lista degli Stati che premono più o meno apertamente per una normalizzazione dei rapporti è sempre più lunga. Per questo si è esposto alle critiche dei Paesi Baltici (ed alle reprimende d’oltre Oceano) accettando l’invito di Putin; ovviamente non poteva sbilanciarsi sull’Ucraina, ma le sue dichiarazioni sul futuro grondavano pragmatismo e, in fondo, la sua sola partecipazione basta e avanza per mandare un messaggio di distensione. Certo, la strada da fare è ancora lunga; troppo repentino sarebbe il cambio di rotta dopo aver obbedito senza reticenze ai voleri della Casa Bianca, lo testimonia il repentino rinnovo delle sanzioni fino al 23 giugno del 2017 deciso dal Consiglio Europeo quasi a bilanciare le aperture, ma è chiaro che si apre un discorso per il futuro, quello dei “ponti” che Juncker ha dichiarato di voler costruire.

 

Ma chi, piaccia o no, è stato posto al centro delle attenzioni come leader di un Paese espressamente considerato amico, è stato Matteo Renzi. Preceduto dalle sue dichiarazioni secondo le quali ci sono tutte le condizioni per scongelare le relazioni con Mosca, è stato l’ospite d’onore del Forum a testimonianza di un rapporto considerato espressamente speciale dai Russi. A Mosca hanno la memoria lunga e ricordano come l’Italia abbia fatto da apripista alla presenza di Juncker ed alle attuali posizioni francesi, per un superamento delle sanzioni. Posizioni che Renzi ha ribadito nel bilaterale avuto con Putin, dove, oltre al riassetto dell’attuale situazione, s’è parlato anche di Libia, Siria ed Ucraina. Ma oltre all’aspetto politico, che per il Cremlino conta, eccome, c’è anche quello economico che pesa: i cinque contratti già firmati da aziende italiane nella cornice del Forum valgono 1,4 Mld e dai due memorandum d’intesa e due lettere d’intenti dovrebbero venirne molti di più. D’altronde, in altri tempi l’interscambio fra Italia e Russia s’avvicinava ai 50 Mld a testimonianza di legami solidi con enormi margini d’incremento; invece, doppiamente assurdo in questi tempi di crisi persistente, il 2015 s’è chiuso a 27 Mld con tendenza alla diminuzione. E non si tratta solo dell’effetto delle sanzioni, ma dell’incapacità dell’Italia di fare sistema e di comprendere che la Russia sta cambiando: ha varato un imponente programma di modernizzazione dell’economia per affrancarsi dalla semplice rendita energetica e rendere competitivo il proprio sistema. Ora l’Italia ha l’occasione colossale di cogliere l’opportunità che Mosca continua ad offrirle di passare, nelle relazioni reciproche, da un modello di esportazione di manufatti ad uno di partnership tecnologica ed industriale. Per questo, il ministro dello Sviluppo Economico Calenda e i leader delle grandi aziende pubbliche e private italiane sono stati invitati ad una tavola rotonda con i boiardi di Stato russi, che sarà l’evento principale del Forum. Inoltre, l’Italia è l’unico Paese ad avere un suo padiglione, visitato da Putin e Renzi al termine del loro bilaterale. E ancora, dal Cremlino si sono spinti a prefigurare l’Italia come hub energetico europeo, ricevendo quanto meno la piena disponibilità di Calenda. Insomma, un’opportunità a tutto tondo che fa schiumare di rabbia non solo il fronte europeo dell’opposizione a Mosca (e Washington che lo manovra), ma i tanti possibili concorrenti, soprattutto europei (Germania in testa).

 

Vista la caratura dei personaggi, è quantomeno dubbio che l’occasione sia sfruttata per quella che è: enorme; tuttavia è un fatto che le aziende italiane siano al centro dell’interesse russo e che il Cremlino, per ovvie questioni di convenienza, consideri l’Italia un interlocutore privilegiato.

 

Salvo Ardizzone

 

 
Il multiculturalismo non esiste PDF Stampa E-mail

19 Giugno 2016

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Da Appelloalpopolo del 16-6-2016 (N.d.d.)

 

L’enraciment (Il radicamento) Simone Weil avrebbe potuto pubblicarlo oggi e invece lo scrisse nello storico Café Flor di Parigi. Era il 1943. Con sessant’anni di anticipo raccontava la Francia dei nostri giorni, quella urbana, metropolitana, cosmopolita, post-industrializzata. La trasformazione delle grandi città – Parigi, Marsiglia, Lione -, la nascita delle banlieues (quartieri periferici), la distruzione dei bistrot e delle botteghe tradizionali. È la parabola di tutte le metropoli d’Occidente dal Piano Marshall (1945) passando per il Sessantotto (1968), dove la città diviene sempre meno rappresentativa dello spirito profondo della nazione. In Francia però questo snaturamento appare più evidente che altrove in Europa. Da un lato c’è il fattore demografico – le grand remplacement (la grande sostituzione) lo chiamano Oltralpe -, legato al passato coloniale e alle politiche immigrazioniste pianificate entrambe dalla sinistra repubblicana e progressista, che vede le popolazioni magrebine e africane insediarsi nelle città, dall’altro c’è quello economico-simbolico, in un Paese colonizzato integralmente da marchi e prodotti-spazzatura statunitensi (dalla ristorazione al vestiario, dal Mc Donald ai jeans). In Europa i guardiani della pensée unique lo chiamano “multiculturalismo” (convivenza di culture diverse), ma in realtà questi due elementi (le grand remplacement e la colonizzazione economica) sono perfettamente complementari e finalizzati all’americanizzazione dell’immigrazione che è in fondo sinonimo di sradicamento. Diremo noi con un sillogismo: il multiculturalismo porta allo sradicamento e lo sradicamento conduce all’americanizzazione dei costumi.

 

“Il denaro distrugge le radici ovunque penetri”, annotava Simone Weil insistendo sul valore sacro del radicamento: “Un essere umano possiede delle radici attraverso la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività, che mantiene viva i suoi tesori del passato e alcuni presentimenti dell’avvenire”. Le popolazioni immigrate rappresentano l’opposto teorizzato dall’allieva di Heidegger. Un gruppo sociologicamente sfruttato (il più delle volte fa lavori a basso costo che i francesi non fanno), analfabeta (non parlano il francese correttamente), non integrato (si auto-esclude oppure viene marginalizzato nelle banlieues), parassitario (molti non lavorano e vivono di sole sovvenzioni statali), disorganizzato (non occupano posti chiave nell’apparato statale e dunque incidono poco sulle decisioni politiche), e soprattutto vengono manipolati dal sistema economico e cultural-mondano (i loro desideri sono quelli fabbricati dal mercato). Le nuove popolazioni non portano con loro la propria cultura, ma lo sradicamento. Ecco perché ogni immigrato è un potenziale iper-consumatore che aspira all’american way of life. Se Simone Weil attraversasse oggi Parigi in metrò non vedrebbe donne africane vestite con splendidi abiti tradizionali ma delle fotocopie di Rihanna o Beyoncé. Come non vedrebbe uomini di fede islamica con un Corano in mano, ma dei racailles (ragazzo della banlieu), pura imitazione del gangster bling bling americano. Non esiste il multiculturalismo perché si è americanizzato. Il passo successivo è il melting-pot di marchio statunitense: un mondo di plastica nel quale viene forzata la fusione tra la popolazione locale e quella immigrata. Oppure avrà ragione Céline: “me ne fotto dei posteri, il futuro appartiene ai cinesi”.

 

Sebastiano Caputo

 

 
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