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Cittadini disarmati PDF Stampa E-mail

8 Maggio 2016

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«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, non potrà essere infranto il diritto dei cittadini di detenere e portare armi». II Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.

 

I “fascisti” di Bruxelles vogliono disarmare i cittadini. Mi scuso per l’uso improprio del termine “fascista”, le istituzioni europee del Fascismo hanno solo la retorica e lo spirito illiberale; non il consenso e nemmeno lo slancio ideale. Ancora una volta l’Unione Europea per mano della Commissione ha mostrato il peggio di sé. Non bastavano le politiche lacrime e sangue imposte dalla Troika (Commissione Europea, BCE e FMI) alla popolazione europea; la politica neocolonialista e filo - atlantica che ha destabilizzato il Medio Oriente e scatenato una nuova Guerra Fredda con la Russia, la politica suicida adottata in materia di immigrazione, la produzione di leggi spesso inutili e dannose. Ora l’Unione vorrebbe disarmare i cittadini con la scusa di combattere la criminalità e il terrorismo. Un’operazione di facciata per illudere la gente che le istituzioni europee tutelano la sicurezza dei cittadini; un passo avanti verso la deriva totalitaria dell’Unione Europea. Contro la proposta di inasprire la legislazione sulle armi si sono schierate: la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Finlandia, la Svezia, la Slovenia, la Polonia, l’Ungheria, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. A favore di norme più restrittive sulle armi si sono schierate: il Belgio, la Francia, l’Italia e il Regno Unito. In Europa il fronte degli anti armi è rappresentato dall’Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici (Partito Democratico per l’Italia) e da uno schieramento trasversale di parlamentari che comprende anche membri del Partito Popolare e di partiti vicini alla sinistra.

 

Non esiste nessuna relazione tra uso legale delle armi e le attività criminali o terroristiche. Le limitazioni sulle armi volute dalla Commissione Europea sono espressione di un nascente totalitarismo fondato su un sistema invasivo di divieti e di controlli che limita la libertà senza garantire la sicurezza (vedi gli attentati di Parigi e di Bruxelles): la schedatura del traffico telematico, i reati di opinione (l’omofobia e il negazionismo), gli adempimenti burocratici inutili e costosi, i controlli sui conti correnti e sui depositi, la proposta di inserire la scatola nera alle auto per controllare i nostri spostamenti e stile di guida, i limiti al pagamento in contanti e alla detenzione legale di armi. Il ministro per gli Affari Europei Cecilia Malmstrom e il responsabile della Task Force Commissione Europea armi da fuoco Fabio Marini, vogliono limitare - negare l’uso delle armi ai cittadini (Direttiva 91/477/CEE): si va dal bando delle armi semi-automatiche “simili a modelli militari”, la famigerata categoria B7 (concetto vago che può essere applicato in maniera arbitraria a quasi ogni arma); al sequestro di quelle già detenute in forza della vigente legislazione. A tutto questo si aggiungono i limiti contenuti nella proposta di legge delle senatrici P.D. Granaiola e Amati: maggiori adempimenti burocratici alla concessione e alla validità del porto d’armi per uso sportivo, il divieto di detenere presso la propria abitazione le armi considerate sportive, ecc. Su posizioni analoghe si schiera l’ex sindacalista Cofferati che oltre alle limitazioni sopra elencate, vorrebbe che le munizioni fossero custodite separate dalle armi; una norma che sarebbe in contrasto con l’articolo 52 del codice penale, che concede al cittadino il diritto di difendersi con le “armi legittimamente detenute”. Anche un cretino sa che è impossibile difendersi con un’arma scarica.   Il Governo Renzi tramite il Ministro degli Interni si sta adeguando alle misure restrittive della Commissione: i caricatori delle pistole superiori a 15 colpi vanno denunciati, come quelli dei fucili superiori a 5; i caricatori dei fucili catalogati sportivi possono contenere solo 29 colpi e non 30 come quelli militari. L’imbecillità dei rappresentanti delle nostre istituzioni non ha limiti, come il loro servilismo verso i poteri sovranazionali. Il Consiglio dei Ministri ha impugnato la legge della Regione Veneto n. 7/16 (legge di stabilità regionale), per la parte che istituisce un Fondo regionale per il patrocinio legale gratuito a sostegno dei cittadini vittime della criminalità. Detto Fondo è stato creato dalla Regione per pagare la difesa legale dei cittadini citati a giudizio per l’esercizio della legittima difesa. Secondo il Consiglio l’istituzione di detto Fondo è di competenza dello Stato, titolare della potestà legislativa in materia di ordine pubblico, sicurezza e ordinamento penale. È chiaro che si tratta di un pretesto per affermare il potere dello Stato sulle Regioni; anche a scapito della sicurezza e dei diritti dei cittadini. La Regione Veneto è stata costretta a istituire il Fondo sopra citato per porre rimedio alla latitanza dello Stato. Infatti, grazie alla legislazione vigente, chi si difende da vittima diventa carnefice, è sottoposto a una lunga e drammatica peripezia giudiziaria, che spesso termina con la condanna del malcapitato: la pena detentiva, il pagamento delle spese processuali e il risarcimento al delinquente dal quale si è difeso.

 

È illiberale limitare o negare le armi ai cittadini. I regimi totalitari negano le armi al cittadino perché lo considerano un potenziale nemico o un irresponsabile. Le democrazie concedono le armi ai cittadini per esercitare attività sportive, difendere se stessi e la Patria (vedi la Guardia Nazionale negli Stati Uniti). Recita il II emendamento della costituzione americana: «Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, non potrà essere infranto il diritto dei cittadini di detenere e portare armi». Una vera democrazia si limita ad accertare che i cittadini abbiano i requisiti per detenere e usare le armi (l’assenza di condanne e di procedimenti penali, di disturbi mentali, la non dipendenza da droghe o da alcol, la maggiore età) vieta le armi da guerra (automatiche o a raffica, granate, mine, lanciarazzi, missili, pezzi di artiglieria, ecc.). Questi limiti e condizioni sono già presenti nella legislazione italiana ed europea, è inutile aggiungerne altri. È irresponsabile limitare o negare le armi ai cittadini, perché li espone alla violenza della criminalità che le nostre istituzioni spesso deboli e latitanti non riescono a reprimere. Non si tratta di spingere il cittadino a farsi giustizia da sé e trasformare la nostra società in un “Far West”; ma di permettere al cittadino di difendere la propria vita e i propri beni, quando aggredito nella propria abitazione o attività commerciale. L’Italia è già un “Far West”: dove la criminalità straniera delinque indisturbata, macchiandosi di crimini aberranti come l’omicidio dei coniugi Pellicciardi di Gorgo al Monticano (21 agosto 2007); e dove le organizzazioni mafiose si sostituiscono alla Stato nel governo del territorio. Dobbiamo temere i cittadini armati o i criminali armati? Dobbiamo temere il benzinaio Stacchio che si difende o chi lo rapina? È inutile limitare o negare le armi ai cittadini per combattere il terrorismo e la criminalità. Negli attacchi terroristici che hanno colpito la Francia e il Belgio non sono state usate le armi che la Commissione vorrebbe vietare (armi semiautomatiche o B7); ma armi automatiche reperite nel mercato clandestino ed esplosivi prodotti artigianalmente. Nel mercato clandestino è possibile acquistare in modo anonimo e senza limitazioni: armi, munizioni ed esplosivi. Gli altri canali sono il furto e le “donazioni”: il Califfato sottrasse le armi all’esercito iracheno, le milizie islamiste sono armate dall’Arabia Saudita e dal Qatar; in Italia le organizzazioni mafiose utilizzano armi provenienti dai mercati clandestini dell’est Europa o dell’Africa settentrionale. A Trieste (26.11.2015), la Guardia di Finanza sequestrò un carico di 781 fucili a pompa provenienti dalla Turchia e diretti in Belgio, Germania e Olanda. Gli autori degli attentati di Parigi acquistarono due versioni cinesi dell’AK-47 e due Zastava M70 (AK 47 di produzione jugoslava) da un venditore tedesco che sfruttava i canali offerti dal “deep web”. Il “deep web” è una rete sotterranea, accessibile tramite il programma TOR, dove è possibile navigare in anonimato e senza censura, acquistando e vendendo: armi, droga e materiale pedo pornografico. Questo sottobosco di traffici illegali è ignorato dalla Direttiva 91/477. In Francia, dove sono vietate le armi simili a modelli militari, le vittime degli attentati di Parigi (13 novembre 2015) furono 130; negli Stati Uniti, dove si possono acquistare armi automatiche, nella strage di San Bernardino in California furono uccise 14 persone (2 dicembre 2015).

 

Con le armi legalmente detenute è possibile delinquere o provocare incidenti mortali (vedi la caccia); ma questo vale per qualsiasi oggetto, anche il più inoffensivo. La pericolosità non sta nell’oggetto ma nell’uso improprio o criminale dello stesso. Adottare una legislazione più restrittiva sulle armi legalmente detenute non impedisce ai pazzi e ai criminali di delinquere. Coltelli da cucina, utensili da lavoro, auto, bombole di gas e aeroplani possono trasformarsi in “armi”, anche più efficaci di un Kalashnikov. In Ruanda nel 1994, gli hutu massacrarono circa 800 mila tutsi con armi improvvisate: coltelli, accette, mazze e bastoni. Le bombole di gas quando esplodono possono provocare una strage, ne sanno qualcosa le sventurate vittime di tanti incidenti domestici e stragi. Le pentole a pressione riempite di chiodi ed esplosivo prodotto artigianalmente con materiali di facile reperimento (fertilizzanti, acetone, ecc.) sono state le armi utilizzate negli attentati di Boston (15.4.2013) e di Bruxelles (22.3.2016). Le automobili sono un’arma micidiale quando il guidatore è pazzo, drogato o ubriaco; come nel caso del marocchino Chafik El Ketani, che in preda all’alcol e alla droga investì una comitiva di ciclisti, uccidendone nove (Lamezia Terme 5.12.2010). Peggio delle auto sono gli aerei: Andreas Lubitz, pilota della Germanwings, si uccise con l’aereo della compagnia provocando la morte delle 150 persone imbarcate (24 marzo 2015); negli attentati dell’11 settembre 2001 il dirottamento di 4 aerei fece quasi 3000 morti. Per evitare queste stragi vogliamo vietare: i coltelli, le bombole di gas, le pentole a pressione, le auto e gli aeroplani? Negli Stati Uniti le stragi non sono il frutto di una legislazione permissiva sulle armi, ma di un profondo disagio personale o di tensioni etniche e sociali. In Svizzera ogni cittadino che presta servizio militare può detenere in casa il proprio fucile, ma non avvengono le stragi degli Stati Uniti. Per fermare i pazzi e i criminali è necessario stroncare sul nascere i loro comportamenti violenti. Quanti femminicidi si potevano impedire se le istituzioni avessero soffocato nel nascere la violenza dei molestatori? Gli autori degli attentati di Parigi e di Bruxelles erano noti alle forze dell’ordine per i precedenti penali e per le posizioni estremiste; ma non furono fermati in tempo. La Gran Bretagna dal 1997 mise al bando le pistole e adottò la legislazione più restrittiva in materia di armi, ma è nell’Unione Europea al primo posto per crimini violenti: aggressioni, stupri, rapine violente (226 ogni 100 mila abitanti) e per gli omicidi (203 ogni 100 mila abitanti) (Eurostat Ufficio Statistico U. E. 2002 - 2012). La “civile” Gran Bretagna è più violenta della “mafiosa” Italia.

 

In Europa la principale causa di morte violenta non sono le armi da fuoco ma gli incidenti stradali, domestici e sul lavoro. Inoltre, le armi che uccidono sono spesso illegali. Nel periodo 2008 - 2010, secondo l’European Injury Data Base (Banca dati dell’U. E. - Cause di morte violenta) dei circa 4.600 omicidi annui commessi all’interno del territorio degli Stati membri, solamente il 17% (381) è causato dalle armi da fuoco (quasi tutte illegali) mentre ben il 34% da oggetti contundenti. Nel 2010 lo sport ha causato la morte di circa 7.000 persone, soprattutto per affogamento e cadute. Dobbiamo abolire lo sport? Limitare o negare le armi ai cittadini non è solo irresponsabile, illiberale e inutile, ma anche dannoso per la nostra economia e per l’attività delle forze dell’ordine. Uno studio dell’Università di Urbino (F. Musso, M. Cioppi, B. Francioni: Il settore armiero per uso sportivo, venatorio e civile in Italia. Imprese produttrici, consumi per caccia e tiro, impatto economico e occupazionale Edizioni Franco Angeli 2012) indica che il settore armiero italiano genera circa 90.000 posti di lavoro e circa lo 0,8% del Prodotto Interno Lordo; le inutili e vessatorie norme “anti armi” possono solo danneggiare questo settore vitale della nostra economia, già indebolita dalla crisi. Inoltre il sequestro di armi retroattivamente dichiarate illegali imporrebbe allo Stato pesanti costi economici (i rimborsi dovuti ai cittadini espropriati, le spese legali per fronteggiare i ricorsi delle associazioni e dei cittadini, le spese per il sequestro, il censimento, lo stoccaggio e la distruzione di migliaia di armi legalmente detenute); avrebbe ripercussioni negative sulla sicurezza (una parte degli agenti destinati a compiti di ordine pubblico sarebbero costretti a dedicarsi a inutili attività burocratiche).

 

Nell’aprile del 2015 è nato il Comitato Direttiva 477, un’associazione che ha lo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, italiani ed europei, che detengono legalmente armi da fuoco. I soprusi di Bruxelles giustificano il diritto di resistenza e la disobbedienza civile (San Tommaso e John Locke). Non meravigliamoci se alle politiche dell’Unione Europea i cittadini risponderanno con la disobbedienza: il rifiuto di consegnare le armi legalmente detenute o l’acquisto di armi nel mercato clandestino. Non si tratta di difendere un diritto astratto all’uso delle armi, ma di combattere la deriva totalitaria dell’Unione Europea.

 

Giorgio Da Gai

 

 
Non tempo libero ma tempo liberato PDF Stampa E-mail

6 Maggio 2016

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Ora che è passato il Primo Maggio, con tutta la falsa e obsoleta retorica sul lavoro fatta dai mass media "embedded", possiamo anche noi permetterci di scrivere qualcosa. Il nostro silenzio non deve ingannare: abbiamo scelto di proposito di posticipare l'argomento, per far smaltire la sbornia fornita sia dalla informazione ufficiale che dalla controinformazione. A mente fredda si ragiona meglio, quindi ora è arrivato il nostro turno d' esprimere un'opinione a proposito. Tralasciando le menzogne ufficiali, vorremmo focalizzarci esclusivamente sulle critiche e sui rimedi letti in molti articoli di antagonisti, sparsi qua e là nel vasto oceano della Rete.

 

La prima impressione è che tutte le analisi abbiano azzeccato la diagnosi, restando però largamente vaghe, incerte, fumose, astratte sulla terapia da adottare. Demolire il mito del lavoro così come è nato dalla Rivoluzione Industriale, fare a pezzi l'attuale sistema di sviluppo economico e globalizzato ­giunto allo stadio finale del capitalismo assoluto e della reificazione totale ­è giustissimo, così come giusto è sottolineare quanto il Primo Maggio sia da considerare ormai una festa della schiavitù, non del lavoro. Tuttavia non basta, non serve a nulla spaccare il capello in quattro e analizzare sino al minimo dettaglio se non si ha, come contraltare, una formula alternativa: si rischia solo di scivolare nella pura accademia e nell' autoreferenzialità, isolandosi in una "turris eburnea" che diviene esiziale principalmente per chi ne è all'interno ancor più di chi ne sta al di fuori. Si leggono troppi concetti astratti, come "cooperativismo", "spiritualità del lavoro", "economia del dono", eccetera: queste sono solo vaghe teorie e parole che vogliono dire tutto o nulla, concetti che fanno un gran fumo ma cuociono ben poco arrosto. Siamo consapevoli che nessuno ha la soluzione in tasca, anche perché la Storia, con buona pace di Marx, non è materialista ma si basa su mille varianti impossibili da prevedere. La Storia non è una operazione di ingegneria, ma di matematica, aperta a mille varianti ed incognite, quindi forse ancor più che elaborate teorie servirebbe agire su punti fermi, su basi da prendere come riferimenti per cercare di costruire qualcosa.

 

Sicuramente noi dobbiamo guardare "oltre" il capitalismo, oltre la mondializzazione, oltre il liberismo sfrenato, essendo essi stessi concetti ormai irrimediabilmente tarati e con al proprio interno i germi della autodistruzione: non è questione di "se", ma di "quando" sarà. Per ripensare l'economia e il lavoro, a nostro avviso, si dovrebbe lavorare su taluni punti, tenendoli come faro guida:

 

1­ Anzitutto, eliminazione del concetto di lavoro, che a livello etimologico indica solo la bruta fatica, lo sforzo: labor, in latino, significa fatica, il lavoro è quello di una leva, di una macchina, di un pistone, non di una persona. Non lavoro, ma mestiere, un termine ormai caduto in disuso ma usato durante le epoche preindustriali, assieme ad "arte", che era garanzia di un'opera ben fatta, di ottima qualità, di un sapere gelosamente custodito e tramandato da maestro ad allievo. In una parola, riscoprire in termini ragionevoli e applicabili ai giorni nostri la qualità anziché la quantità, distruggere il concetto di obsolescenza programmata a favore di un prodotto ben fatto, che duri nel tempo, tagliando alla radice il consumo compulsivo ed indotto.

 

La tecnologia, fatalmente, distrugge più posti di lavoro di quelli che crea e non solo: rende le nuove professioni sempre più complesse, come studi e capacità. Non tutti hanno le capacità di svolgere professioni altamente complesse. Bisogna mettersi nella testa, volenti o nolenti, che un tasso alto di disoccupazione non sarà più congiunturale, ma strutturale. Tutto il rapporto uomo­tecnologia­lavoro dovrà essere rimesso in discussione e rivisto, piaccia o no.

 

Maggior tecnologia significa allo stesso tempo maggiore produzione di merci. Maggiore produzione di merci, significa maggiore consumo e maggiore consumo vuol dire esaurimento delle limitate risorse terrestri. Sarebbe interessante rivisitare il discorso delle quote di produzione delle vecchie economie socialiste, cercando di mantenere la produzione entro limiti ragionevoli.

 

Non più parlare di "tempo libero", che è l'altra faccia del "produci, consuma, crepa", in quanto finanzia la macchina industriale e dei consumi, ma di "tempo liberato", liberato cioè dai lacci dell'economia e del consumo. Dobbiamo riappropriarci del nostro tempo, la vera essenza della Vita, senza piegarlo alle logiche mercantili e sprecarlo in straordinari su straordinari solo allo scopo di pagare il mutuo o le rate dell'ultimo, effimero prodotto della Apple. D' altronde la riduzione dell' orario di lavoro, secondo una formula non più recente ma sempre attuale quale "lavorare meno, lavorare tutti", è sempre nell' agenda delle priorità da discutere e da fare.

 

Abbiamo elencato quattro concetti base, ma logicamente potrebbero essere molti di più. Il nostro auspicio è che da questo pungolo, da questo stimolo, forse anche provocazione ­ma ben vengano, le provocazioni, quando sono costruttive e non distruttive ­ possano nascere nuove idee, possa nascere un dibattito che lungi dal criticare e destrutturare un sistema ormai screditato da chi legge queste righe, miri al contrario a piantare i primi capisaldi di una lontana economia finalmente disintossicata dalla putredine mefitica del capitalismo assoluto e terminale, vero Moloch sul cui altare tutto viene sacrificato. Si è lanciato il sasso, senza ritrarre la mano: ben vengano le riflessioni, gli spunti, le diagnosi.

 

Simone Torresani

 

 
Fracking PDF Stampa E-mail

5 Maggio 2016

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Da Rassegna di Arianna del 3-5-2016 (N.d.d.)

 

Alcuni indizi geofisici emersi di recente hanno fatto salire le probabilità di apertura della faglia di Sant’Andrea, che scatenerebbe un sisma di proporzioni inaudite in grado di produrre danni enormi in tutta la California. La stessa tragica prospettiva va profilandosi anche per Stati federati collocati nel sud degli Usa, vale a dire Texas, Oklahoma e Kansas. A differenza della California, questi Stati  non si estendono, però, lungo una delle zone sismiche più attive del mondo, e non a caso sono stati colpiti solo da scosse di piccola intensità nel corso degli ultimi decenni. A incrementare le possibilità di un terremoto devastante a nord del confine messicano non sono, infatti, determinate condizioni naturali, ma le fratturazioni idrauliche degli strati sottostanti alla superficie per estrarre petrolio e gas non convenzionali, che hanno permesso agli Usa di accreditarsi a primo produttore mondiale di petrolio, garantendo 4 milioni di barili di petrolio addizionali al giorno. Tecniche estrattive come l’hydrofracking (meglio noto come fracking) e l’horizontal drilling prevedono l’infiltrazione ad alta pressione nel sottosuolo, e quindi nelle falde acquifere che lo attraversano, di notevoli quantità di sostanze  -si parla di oltre 200 litri di una miscela contenente circa 600 agenti chimici per ciascun pozzo- che, oltre a produrre un inquinamento al di fuori di ogni controllo, sono alla base dei fenomeni sismici che hanno colpito le aree interessate dalle fratturazioni idrauliche degli scisti. Lo ha riconosciuto in uno studio apposito l’autorevole Us Geological Survey (Usgs), individuando la causa dei sismi soprattutto nelle operazioni successive alla trivellazione. Sotto il profilo prettamente tecnico, non sarebbe la frantumazione delle rocce a indurre i terremoti, ma la re-iniettazione sotto terra della miscela chimica impiegata per far venire a galla gli idrocarburi, che comprometterebbe la stabilità del sottosuolo favorendo forti scosse di assestamento.

 

Le statistiche parlano chiaro: nei 35 anni che separano il 1973 dal 2008 l’area geografica comprendente Texas, Oklahoma e Kansas è stata colpita in media da 24 terremoti all’anno di intensità pari o superiore ai 3 gradi della scala Mercalli; dal 2009 al 2015, anni in cui si è verificato il boom del fracking, questa media è salita vertiginosamente a 318 fenomeni sismici, con un incremento spaventoso negli ultimi mesi -si parla di oltre 1.000 terremoti nel solo 2015. Dal 1° gennaio al 1° marzo del 2016, sono stati registrati 226 terremoti; lo Stato più colpito è l’Oklahoma, dove si è passati dai 3 terremoti di media prima del 2008 ai 2.500 del 2015. L’area geografica in questione è abitata da milioni di cittadini statunitensi, i quali si sono così trovati improvvisamente esposti al pericolo sismico che, secondo un altro studio realizzato, per la rivista scientifica ‘Science’, dalla sismologa Katie Keranen della Cornell University, tende ad estendersi anche a tre Stati limitrofi, vale a dire New Mexico, Colorado e Arkansas. Lo studio della Keranen dimostra, inoltre, che all’aumento dei terremoti va sommata un’altra conseguenza diretta del fracking, ovvero il progressivo allargamento dell’area sismica, che può arrivare a molti km di distanza dagli impianti estrattivi a causa della diffusione a macchia d’olio delle acque reflue re-iniettate nel sottosuolo, le quali «creano una pressione che deve scaricarsi da qualche parte […] entrando talvolta in contato con le linee di faglia». L’analisi suggerisce, quindi, che anche le zone di faglia inattive possano essere indotte a muoversi dietro l’impulso delle attività connesse al fracking. Il che significa che l’intensità tutto sommato ridotta dei fenomeni sismici legati al fracking non implica l’inesistenza di un pericolo di grande portata, dal momento che i terremoti provocati dall’attività umana vanno a minare la stabilità di faglie con sciami di piccole scosse che, nel lungo periodo, possono indurre terremoti di grandi proporzioni. E questo non vale solo per l’Oklahoma, sui cui impianti si è concentrata l’indagine della Keranen, ma per quasi tutte le aree perforate con queste nuove tecniche estrattive. L’agenzia federale Usa ha, infatti, verificato un forte aumento della sismicità in altre 21 aree geografiche -concentrate soprattutto in Georgia e nello Stato di New York- dislocate esattamente nelle zone in cui sono stati impiegati i metodi previsti dal fracking.

 

Giacomo Gabellini

 

 
Guerra civile globale PDF Stampa E-mail

4 Maggio 2016

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Da Rassegna di Arianna del 2-5-2016 (N.d.d.)

 

[…] Non sappiamo se in futuro definiremo questo periodo Terza Guerra Mondiale, Transizione Post-Capitalista, Guerra Civile Globale o in un altro modo, essendo il nostro presente è difficile immaginare come sarà visto dal futuro. In questo articolo vorrei fare il quadro della situazione dato l’ampliamento delle situazioni di instabilità che rendono anche difficoltoso seguirle tutte.

 

CONFLITTI IN CORSO

 

1) SIRIA: il conflitto siriano continua nella sua tragicità con le vittime totali che probabilmente raggiungono il mezzo milione. Grazie all’intervento russo e iraniano lo Stato Islamico e i Ribelli hanno perso terreno e probabilmente sarebbero anche stati sconfitti se Russia ed Iran non avessero deciso di ritirarsi parzialmente lasciando da solo Assad. La tregua che ne è scaturita ha consentito ai paesi ostili dell’area di rifornire i Ribelli di armi, soprattutto quelle in grado di distruggere carri armati e abbattere aerei. Armi di cui misteriosamente si è impadronito anche l’ISIS. Dopo la caduta di Palmyra il Califfato sembrava sul punto di implodere ma invece è riuscito a riassestarsi ed ha iniziato nuove offensive contro la sacca di Deir Ezzor, ad Aleppo ed anche contro altri gruppi ribelli. Altro “misterioso” regalo per il Califfato è il disimpegno dei curdi che si trovano ora a fronteggiare i quotidiani attacchi turchi e anche alcune milizie filogovernative con cui hanno iniziato a scontrarsi probabilmente incoraggiati da qualcuno di grosso (vedi USA). La situazione rimane quella di un tragico stallo dove le forze in campo non riescono a prevalere l’una sull’altra e dove non riescono neanche a concludere una pace data la pesante ingerenza di potenze straniere. 2) IRAQ: in Iraq la situazione sembrava migliorare con l’ISIS che perdeva la città di Ramadi e con i governativi che si organizzavano per la presa di Mosul. Anche qua però la situazione torna ad essere favorevole allo Stato Islamico grazie alla recente rivolta degli estremisti sciiti di al Sadr che hanno anche occupato alcuni edifici governativi. Se si dovesse creare una guerra civile dentro una guerra civile lo Stato Islamico potrebbe riprendere fiato e tornare ad espandersi. 3) YEMEN: anche in Yemen la guerra civile che contrappone ribelli sciiti contro coalizione sunnita e contro al- Qaeda è in una fase di stallo con una tregua violata quotidianamente e che per ora non ha portato a neanche un minimo accordo di pace. 4) AFGHANISTAN: situazione di guerra strisciante ed attentati con i Talebani che continuano lentamente a recuperare territorio. 5) UCRAINA: il conflitto con i separatisti del Donbass continua: anche se ufficialmente regge la tregua permangono violazioni quotidiane. Anche qua la situazione potrebbe degenerare velocemente soprattutto a casa del collasso economico in cui versano l’Ucraina, il Donbass e anche a causa della crisi economica in Russia. 6) LIBIA: situazione esplosiva in Libia con la creazione di un governo di unità nazionale che però gode di pochissimo sostegno tra le milizie armate. Voci di intervento militare occidentale, dove l’Italia sarebbe in prima linea, voci che però vengono sempre smentite a causa probabilmente del timore di Renzi di trovarsi coinvolto in un conflitto difficile che potrebbe rischiare di fargli perdere la poltrona. 7) NAGORNO-KARABAKH: la tensione tra Armenia e Azerbagian ha subito una brutta escalation nelle settimane scorse. Ora la situazione si è tranquillizzata ma si continua a sparare con diverse vittime tra i soldati. 8) COREA: anche il conflitto (ricordiamo che i due paesi sono ufficialmente in guerra anche se non combattono) coreano continua ad aggravarsi con il regime comunista del Nord che continua la sua politica di deterrenza nucleare con i continui test missilistici. Situazione molto tesa che potrebbe peggiorare velocemente.

 

CONFLITTI ED INSTABILITA’ IN CRESCITA:

 

TURCHIA: Erdogan sta trascinando la Turchia nella sua follia autoritaria. Il paese è già in parte in guerra civile, con il sud-est curdo praticamente in guerra (anche se i media occidentali se ne guardano di parlarne). Ma non è solo la parte curda ad essere in ebollizione, anche il resto del paese ha iniziato a ribellarsi al regime di Erdogan e la situazione diventa sempre più esplosiva anche a causa della depressione economica, delle tensioni con i paesi confinanti (Siria, Stato Islamico, Kurdistan siriano e iracheno, Grecia, Russia, Armenia) e dei milioni di profughi presenti nel paese. EGITTO: in Egitto situazione simile alla Turchia, con il governo militare che incrementa la propria deriva autoritaria e con una parte del paese (il Sinai) in guerra con importanti cellule dello Stato Islamico. Anche qui la situazione è sempre più esplosiva a causa dell’isolamento internazionale in cui sta precipitando il paese ed a causa della depressione economica e del crollo del turismo. Rumors di nuova rivoluzione e di riorganizzazione della Fratellanza Musulmana (che governava con Morsi prima del golpe). GRECIA: molto grave anche la situazione del paese ellenico che continua ad avvitarsi nella propria recessione e che presto rischierà di nuovo di essere a corto di liquidi e di non poter ripagare i propri debiti. A differenza delle precedenti volte, stavolta sembrano non esserci sponde tra i partner europei e il paese rischia di trovarsi presto senza governo, senza fondi e con banche chiuse. Potrebbe essere imminente la caduta di questo governo e nuove elezioni dove i comunisti duri del KKE e i neonazisti di Alba Dorata, sono dati vicini al 10% a testa. Se a questo aggiungiamo la difficilissima situazione con i profughi che si aggraverà per certo con l’arrivo della bella stagione, il paese potrebbe veramente collassare. EUROPA: nel resto dei paesi europei assistiamo ad un clima molto teso di scontri interni con gli estremismi di varia natura raggiungere le prime posizioni in molti paesi. Questo non potrà che spingere i governi in carica verso posizioni più dure. A questo si aggiunge la deflazione economica e il referendum sul Brexit che potrebbe dare un forte scossone all’impalcatura europea EX-BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica stanno subendo il clima di depressione mondiale, Brasile e Sudafrica sono in cattivissime condizioni, ma anche gli altri tre paesi non nuotano in acque tranquille.

 

Il quadro della situazione è quindi quello di un mondo in crisi dove nonostante i tentativi delle banche centrali, l’economia non si riprende ed anzi la bolla diventa sempre più grossa. È da anni che blogger, analisti, economisti, manager, politici gridano al collasso sistemico, ma in un modo o nell’altro si è comunque riusciti a tirare il calcio al barattolo. Ora però ci troviamo con diverse situazioni di guerra che non si sono affatto risolte ed anzi tendono a peggiorare e con ulteriori paesi anche importanti (vedi Turchia) che stanno sprofondano nell’instabilità. Il quadro è quello di tanti principi di incendio accesi con un vento ancora lieve. Quindi non è tanto importante chiedersi quale sarà la scintilla che farà scoppiare l’inevitabile incendio mondiale (che si alimenterà sopra miliardi di carta stampata) ma più che altro quale sarà il vento che spargerà le fiamme dappertutto. In Scenari per il 2016 abbiamo ipotizzato gli scenari più rischiosi, ora è possibile individuarne i più probabili, dove capeggiano in primis l’eventuale vittoria di Trump, un’ulteriore espansione dell’ISIS o il collasso dell’Egitto. A quelli scritti ora si deve aggiungere il collasso della Grecia che potrebbe veramente dare fuoco alle polveri. Concludiamo dicendo che in una situazione come questa è facile prevedere l’esplosione di un gigantesco incendio mondiale, l’unico neo rimane sapere quando e questo 2016 mi sembra troppo difficile che passi con tranquillità.

 

Gianni Cirillo

 

 
Primo Maggio PDF Stampa E-mail

3 Maggio 2016

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Da Rassegna di Arianna dell’1-5-2016 (N.d.d.)

 

Mai come quest'anno la sfilata allegorica del primo maggio, con tutto il suo corollario di bandiere rosse, sindacalisti d'accatto e guitti da cortile, appare come un esercizio retorico privo di costrutto, completamente disancorato dalla realtà. Una sorta di nemesi delle coscienze, anestetizzate dalla ripetitività di gesti senza senso e inebetite dai ritmi sincopati di concertini rock, usati per creare un pubblico all'imbonitore di turno.

 

In primo luogo non si comprende bene la natura dell'oggetto che ci si appresta a festeggiare.  Il lavoro, ormai da tempo latitante e nella maggior parte dei casi (quando c'è) associato a salari inadeguati al mantenimento di una famiglia? I lavoratori, bestie da soma in via d'estinzione, immolati sull'altare del progresso e della competitività? I disoccupati, fra le cui fila sempre maggiormente copiose albergano ogni giorno che passa, nuovi e più numerosi aspiranti suicidi che la "buona stampa" finge bellamente d'ignorare? I sindacalisti d'accatto che continuando a millantare credito attraverso belle parole e false promesse hanno permesso che si arrivasse fino a questo punto? La sinistra italiana che ha cavalcato per decenni la lotta di classe, prendendo per il naso milioni di lavoratori, fino ad arrivare a scoprire che il sodalizio con i banchieri, la grande finanza ed i "prenditori" d'accatto, rappresentava il fine ultimo della sua esistenza?

 

Quale senso possono avere le sfilate con le bandierine ed i concertini, messi in scena in una giornata in cui non c'è nulla, ma proprio nulla da festeggiare? Qualcuno ha mai visto (dimenticando la sindrome di Stoccolma) un poveraccio pesto e dolorante che canta e balla per festeggiare il suo aguzzino? O una tribù indigena che festeggia la pioggia nel bel mezzo di un periodo siccitoso? Al più anziché festeggiare, la tribù di cui sopra potrebbe spendersi in rituali propiziatori, finalizzati ad ingraziarsi la benevolenza degli dei, affinché finalmente facciano piovere. Ma il primo maggio non potrebbe neppure venire rivisitato in questa chiave, dal momento che l'Olimpo non alberga fra le nuvole ma in luoghi assai più terreni e le cause della siccità, dalle delocalizzazioni alla mancanza di dazi sono tangibili e note a chiunque possegga la licenza elementare. Nonostante ciò, con in tasca la licenza elementare e negli occhi il fervore mistico di chi crede, non importa in cosa, ma crede, tutti in fila per tre a festeggiare il primo maggio e fra un corteo, un comizio elettorale ed un concertino, ci sarà pure il tempo per qualche "vasca" ai centri commerciali, tutti aperti (Coop in testa) senza distinzioni, perché il progresso ha detto che è giusto così.

 

Marco Cedolin

 

 
Grecia sempre a rischio PDF Stampa E-mail

2 Maggio 2016

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 28-4-2016 (N.d.d.)

 

Chi pensava che la crisi del debito greco fosse ormai alle spalle, dovrà ricredersi. Dopo l’annullamento del summit tra creditori e governo, la situazione si fa nuovamente drammatica per il travagliato paese dell’area euro. Il governo Tsipras si è piegato alle domande dei creditori per poter sbloccare il terzo piano di aiuti esterni negli ultimi cinque anni, ma anche questo potrebbe rivelarsi insufficiente. Per superare la crisi una volta per tutte bisognerebbe che i creditori e obbligazionisti si rassegnassero a fare grossi sacrifici e accettare se non una svalutazione almeno una ristrutturazione del debito. Per arrivarci bisognerà prima però sbloccare l’ultima trance di prestiti della troika. Le entrate fiscali continuano a essere inferiori alle attese mentre continuano le domande dei creditori per ulteriori sacrifici e tagli ai servizi, come il sistema previdenziale. A meno che i creditori non concedano nuovi prestiti, a luglio le finanze pubbliche della Grecia faranno crac. Torna dunque a riaffacciarsi lo spauracchio del default tanto temuto all’apice della crisi del debito sovrano dell’area euro. Siamo al controsenso: senza denaro fresco dai creditori, la Grecia non sarà in grado di ripagare gli stessi creditori a cui deve montagne di soldi. Il governo di sinistra del premier Tsipras ha detto di no a nuove misure di austerity e ha chiesto di convocare un vertice straordinario con i creditori, ma il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha rifiutato la proposta.

 

Lo stallo nei negoziati ha rinnovato l’incertezza sul futuro del paese, in un momento particolarmente delicato per l’area periferica, vista l’instabilità politica in Spagna e la situazione pericolante delle banche italiane che hanno le pance piene di sofferenze bancarie e titoli di Stato. La verità è che in Grecia la crisi del debito pubblico non è mai stata risolta. Per farlo come diceva anche l’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, poi dimessosi, bisognerebbe perdonare buona parte del passivo statale. Il paese è ormai a corto di liquidità e ha chiesto ai direttori degli ospedali di girare tutti i contanti a disposizione su un contro corrente della Banca centrale. In pratica i direttori sanitari si sono visti sequestrare i soldi. Senza un’intesa con i creditori, già a maggio il governo finirebbe le risorse finanziarie. Per sopravvivere l’unica strada sarebbe indebitarsi nuovamente, sul mercato. Per ora il vertice dei ministri delle Finanze dell’Eurozona è stato prima cancellato e poi rinviato a data da destinarsi. Il premier Tsipras ha intenzione di chiedere al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk di indire un meeting straordinario dei leader dell’area della moneta unica per poter sbloccare la situazione.

 

In mezzo a tante incertezze l’unico dato certo è che i soldi che non possono essere ripagati non saranno restituiti. La sola cosa incerta è sempre la solita: non si sa quale sarà il momento esatto in cui scoppierà la crisi del credito. Quel momento potrebbe giungere in luglio, nel mezzo di un’estate che si preannuncia quanto mai calda per l’Europa, tra nuove elezioni in Spagna e referendum sulla Brexit.

 

Daniele Chicca

 

 
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