L'insegnamento dell'antica Roma |
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4 Aprile 2016 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/insegnamento di roma repubblicana.jpg)
Da Appelloalpopolo del 2-4-2016 (N.d.d.) Giuseppe Mazzini concepiva il principio fondante della Repubblica una, libera e indipendente come distintamente separato da qualsiasi calcolo utilitario, “razionale”, dei vantaggi e degli svantaggi che un’Italia unita avrebbe portato ai singoli. Coerente con questa idea, rigettò ne I doveri dell’uomo l’individualismo illuministico della Rivoluzione francese e, implicitamente, quello possessivo della logica capitalistica: “L’ educazione […] è la gran parola che racchiude tutta quanta la nostra dottrina». “Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l’armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione. Colla teoria della felicità, del ben essere, dato come oggetto primo alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia, che porteranno le vecchie passioni nell’ordine nuovo, e lo corromperanno pochi mesi dopo”. Convinto che non fosse possibile educare il popolo senza un principio morale, aggiunge: “Si tratta dunque di trovare un principio superiore a siffatta teoria che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza del sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il DOVERE”. Un altro grande italiano, poco considerato come teorico dell’educazione, disseminò nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio elementi di una “teoria dell’educazione” per aiutare chi governa a trarre insegnamento dagli episodi e dai personaggi della storia. Già nella dedica de Il Principe, Niccolò Machiavelli dichiara di voler donare «la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata con una lunga esperienza delle cose moderne ed una continua lezione delle antique». Colloquiando appunto con gli «antiqui huomini», lo scienziato della politica elabora una pedagogia elettivamente rivolta alla classe dirigente, basata sulla storia come fonte di modelli comportamentali da imitare da chi vuole ben governare la cosa pubblica. Nei Discorsi la tensione pedagogica e l’acutezza analitica sviluppano una teoria educativa dell’esempio, per il cui materiale documentario il patriota e il sovranista ante litteram attinge a piene mani in un periodo storico ben definito, da lui prediletto e da cui trasse ispirazione, quello della Repubblica dell’antica Roma. In questi ultimi decenni, il nostro sistema scolastico e le nostre istituzioni culturali in genere, influenzati pesantemente da storiografie straniere o egemonizzate da ideologie antinazionali, hanno diffuso il vezzo autolesionista di diffidare dell’antica Roma repubblicana. È invalso l’andazzo di definire quella vicenda vecchia, ininfluente e insignificante, come periodo di storia non più magistra, come materia sospetta perché presunta ispiratrice di derive nostalgiche, il timore delle quali ha spinto molti a ignorare i migliori patrimoni ideali, culturali e politici. Eppure, in questi momenti di confusione politica, di scompigli ideologici, di disgregazione sociale, di incrinature istituzionali, di rarefazione dei principi e valori costituzionali, di perdita dello spirito civile, di apatia e torpore politico, sarebbe bene tornare a studiare quella irripetibile grandezza, la quale, a conoscerla a fondo, potrebbe impartirci parecchie lezioncine su cosa e come nasce un popolo, su cosa e come matura un gruppo dirigente, su quali valori puntare e a cui aggrapparci. Lo studio di quegli ordinamenti e di quelle epocali scelte politiche potrebbe rivelarci le doti e le qualità che trasformarono quei coriacei discendenti di contadini in eccellenti statisti. Dopo aver cacciato i re, respingendo non l’etnia ma un ristretto ceto di parassiti stranieri (è il caso di rileggersi la lezione), e ripreso il controllo della Città, i Quiriti si ispirarono a un complesso di valori, ereditati dagli antenati (mos majorum), per praticare un insieme di costumi che oggi definiremmo anticonsumista. Si educarono alla frugalità e alla modestia delle esigenze. La moderazione dei consumi contrassegnò la società romana fino alla tarda repubblica, almeno fino a quando le città magnogreche non fecero intravedere un tenore di vita meno severo e sobrio di quello a cui s’erano educati. Non un re ma due consoli, non a vita ma per un solo anno, fu la carica che garantì la condivisione del potere, mirata non solo a controllarsi a vicenda, ma soprattutto a non fare del governo un appagamento di ambizioni e di interessi personali, ma un servizio da rendere allo Stato. I magistrati in pace, i generali in guerra, i patrizi e i plebei, tutti erano chiamati ad anteporre sempre il benessere e la salvezza dello Stato (salus Rei Publicae) agli interessi delle parti. La collaborazione di tutti gli ordini sociali (concordia ordinum) non fu sempre armoniosa e stabile, ma tutti la riconoscevano come presupposto per l’esistenza dello Stato, equilibratore e garante della Libertas, la possibilità di accedere alle cariche pubbliche. E così gli antichi Romani crearono la Repubblica e fecero di Roma il primo Stato della storia degno di definirsi tale: una creazione politica collettiva nata dall’opera concorde di uomini e strutturatasi nel corso di molte generazioni in una lunga gestazione (res publica constituenda), che forgiò la loro capacità di governo e la loro maturità politica. L’atto fondativo dello Stato fu un mitico e leggendario solco tracciato dall’aratro di un contadino italico, che rimase a simboleggiare l’immenso valore storico e giuridico del Limes, la frontiera, al di qua della quale vige la Lex, cioè la norma, la regola, la misura, l’equilibrio giuridico e sociale. Oltre il limite, domina l’arbitrio e la pirateria, l’in-civile e l’a-politikon, la rapina e l’usura. Il senso del limite e della realtà, così concreto da sembrare a volte spietato e crudele, nasceva dall’attaccamento alla terra e dalla convinzione che soltanto la terra può assicurare la ricchezza e la sicurezza dello Stato. La terra non produce solo beni, ma uomini che, disciplinati e temprati dalla fatica durissima che l’agricoltura impone, sviluppano le qualità fisiche e morali per diventare buoni soldati, pronti sempre a difendere la Repubblica dai nemici. Nella Roma repubblicana le qualità contadine furono trapiantate e innestate – un unicum nel mondo antico – anche nell’arte di governare, dove i senatori per istinto primeggiarono su qualsiasi altro sovrano del tempo. Questo straordinario risultato deve essere attribuito alle indiscutibili qualità politiche e morali a cui gli antichi romani erano educati fin dall’adolescenza: la fermezza dei propositi (constantia), il rigoroso senso del dovere (officium), la lealtà assoluta verso lo Stato (fides). Il romano antico sentiva la dedizione allo Stato così drammaticamente da ritenersi, nella sua mentalità arcaica e contadina, legittimato in qualche misura a esercitare il potere di governo e il diritto di decidere sulle questioni dello Stato per conto di tutti quelli che facevano parte della Comunità, senza riconoscere titoli a chi, troppo dedito e condizionato a cercare l’utile quotidiano, sarebbe stato incapace di concepire l’interesse generale, il bene comune. Nel periodo repubblicano, più che in altri, i Romani, pur scannandosi in guerre civili e sociali quasi ininterrotte, posero le basi della civiltà più grande e più duratura della storia occidentale. Come ci riuscirono? Quale fu il “segreto”? Si è soliti rispondere che i Romani avrebbero edificato la loro potenza sulla forza militare. Eppure non poche furono le sconfitte catastrofiche e le occupazioni, anche molto umilianti, che subirono dai nemici storici (Forche caudine, Brenno, Canne, Teutoburgo e un elenco non breve di battaglie perse). Anche nei momenti più drammatici, quando tutto sembrava congiurare per una totale distruzione, il cittadino di Roma non disperava mai del destino dell’Urbe (constantia). Dunque la legione non spiega tutto. Il segreto è da rinvenire piuttosto nella straordinaria saldezza delle istituzioni repubblicane, frutto della Virtus, l’eccezionale forza d’animo al servizio dello Stato, di cui non solo il ceto dirigente senatoriale doveva dare massima prova nei momenti di estremo pericolo, ma anche ogni singolo cittadino, che alla virtus era stato educato e dalla virtus faceva dipendere l’onore personale e la dignità sociale. La stabilità e la fermezza della Repubblica Romana metteva soggezione e incuteva timoroso rispetto nei re e nei capi degli eserciti nemici, i quali avvertivano di dover fronteggiare un Popolo e uno Stato, non soltanto legioni. Cicerone, nel descrivere questa realtà storica, economica e sociale, identificò la Res Publica con la Res Populi: quando entrambi si immedesimano l’una nell’altra, si realizza la forma ideale di Stato (optimus status civitatis). La sua secolare resistenza era dovuta all’organizzazione della struttura istituzionale, all’addestramento rigoroso che, prima ancora che il miles, selezionava il civis chiamato a dirigere; era dovuta in particolare alla disciplina ferrea, la dote morale richiesta non soltanto al soldato in guerra, ma al cittadino nella sua formazione civile, da praticare poi con rigidezza militare in tutti i campi della vita. Eppure, in questa società, che oggi a torto definiremmo ‘militarista’, la distinzione tra il momento politico e quello militare era fondamentale al punto da condizionare l’esistenza della stessa Repubblica. Quando infatti qualcuno (Mario, Silla) cominciò a volersi imporre politicamente sfruttando la forza delle armi, l’ordinamento repubblicano precipitò in una crisi gravissima e finì per soccombere a quello imperiale. Non diversamente succede oggi che, sotto i nostri occhi, altre forze dissolvono la politica, e la finanza e i mercati distruggono le costituzioni democratiche. La società della Repubblica romana si reggeva su un sistema di profondi valori morali, primari, semplici, univoci, chiari, assoluti e indiscussi, che i Romani sentivano più come requisiti civili che come indicazioni educative. Il centro di trasmissione di questi valori era la famiglia, principium urbis et quasi seminarium rei publicae (Cicerone), uno Stato embrionale, un elemento dell’organizzazione politico-militare, nella quale ogni pater sentiva il dovere di introdurre i figli. Cardine di questo sistema era l’assoluta preminenza dello Stato, della collettività sul singolo cittadino, principio alla luce del quale la Repubblica rapportava e giudicava qualunque qualità e comportamento personale: non il coraggio in sé, ad esempio, era da apprezzare, ma il coraggio dimostrato nell’interesse e per la salvezza dello Stato; non le libertà personali (oggi finte e pseudo) ma la Libertas era il valore irrinunciabile, inteso come opportunità e diritto di ricoprire le cariche pubbliche e da magistrato mettersi al servizio dello Stato. Perfino la pietas, che per tradizione era il culto dovuto agli dei, fu declinata come rispetto dovuto allo Stato e in tale forma definita addirittura come pietas maxima (Cicerone nel De Re Publica). Anche la maiestas, che indicava la dignità dello Stato come rappresentante del popolo, si evolse in un sentimento, la fierezza di appartenere a un grande popolo, che oggi parecchi sdegnerebbero con sufficienza e ironia, ma che non guasterebbe coltivare come salutare antidoto contro l’avvilimento e l’autorazzismo dilaganti e indotti dagli apparati politici e massamediatici. In definitiva, era l’antico mos majorum a mantenere compatto il ceto dirigente, unito il popolo e salda la Repubblica di fronte alle avversità. I mores che all’inizio identificavano i costumi e le usanze, più tardi diventarono strumenti portatori di valori, un’ideologia, un insieme di doti a cui addestrarsi per contribuire al bene comune. Essere fedeli a questi valori significava riconoscersi in un popolo, avvertire i vincoli di continuità con i padri e con i figli, incanalare le energie e lo slancio a fondare ed edificare entro l’alveo della tradizione e in funzione della salus publica. Un tempo su questa Penisola ricercare il bene comune per farsi onore e rendersi degno della comunità patria perché la si desidera grande per civiltà, non era compito disdicevole. Luciano Del Vecchio
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3 Aprile 2016 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/kamikaze.jpg)
“Il kamikaze ha una sua nobiltà. Perché mette in gioco la vita altrui solo al prezzo della propria”. Questa affermazione che ho fatto alla Zanzara ha suscitato scandalo e sono stato accusato di simpatie per l’Isis. Eppure tutti i media occidentali hanno definito “un vigliacco” Abdeslam Salah, il terrorista che all’ultimo momento ha rinunciato a farsi saltare in aria. Se le parole e la logica hanno ancora un senso questo vuol dire che, anche se occultiamo questo sentimento come vergognoso e riprovevole e non osiamo confessarlo nemmeno a noi stessi, consideriamo gli altri, quelli che portano fino in fondo la loro missione, degli uomini coraggiosi. Io credo che soprattutto nei foreign fighters più che una voglia di uccidere, ci sia una voglia di morire. Perché è ‘un morire per qualcosa’. Per un’idea, per un ideale, per sbagliati che siano, piuttosto che vivere nel nulla e per il nulla. Ha spiegato molto bene questo concetto in un articolo su Sette dell’11 marzo Lorenzo Cremonesi, forse il migliore inviato che abbiamo oggi sul campo: “Il carisma dei jihadisti sta anche nella loro morte. Un elemento che affascina anche i volontari che arrivano dalle città occidentali. I loro principi sono nichilisti e folli, eppure vanno capiti, non per giustificarli, ma per comprendere il tipo di pericolo che ci minaccia. Legittimare la morte, glorificarla, darle un senso ultimo inserendola in un’ideologia, aiuta ad affrontare la vita”. Cremonesi dice, sia pur con un po’ più di circospezione, ciò che ho detto io (del resto Churchill, un uomo intellettualmente onesto, definì “nobilissima” la carica disperata, che aveva solo il senso di una immolazione senza speranza, dei cavalieri Dervisci contro le mitragliatrici inglesi nella battaglia di Omdurman in Sudan del 1898- The river war). Come ho affermato in altre occasioni, e in modi diversi, la forza dell’Isis non sta tanto nell’indubbio coraggio dei suoi guerriglieri che soprattutto in Medio Oriente si battono con grande valentia contro la superiorità tecnologica delle due grandi super potenze mondiali, Stati Uniti e Russia, dell’Inghilterra, della Francia e della quarantina di altri Stati che fan parte della coalizione anti Daesh (e quando sono tutti contro uno io comincio ad avere il sospetto che non sia solo quest’uno il reprobo), ma sta nel vuoto di valori dell’Occidente. Noi non abbiamo più valori, né collettivi (per esempio la Patria, la religione) né individuali (dignità, coraggio, onore) che ci consentano di affrontare la morte. Abbiamo delegittimato la morte, non solo quella eccezionale, in guerra, ma anche quella normale, biologica e quindi inevitabile. L’abbiamo scomunicata, interdetta, proibita, dichiarata pornografica, oscena. La morte è il Grande Vizio dell’era tecnologica, quello che davvero “non osa dire il suo nome”, altro che la pederastia di vittoriana memoria. Tanto che non azzardiamo nominarla nemmeno nei luoghi, nelle sedi, nelle occasioni in cui non ci si può esimere dal parlarne, basta leggere i necrologi dei quotidiani: “la scomparsa”, “la perdita”, “la dipartita”, “si è spento”, “ci ha lasciato”, “è mancato all’affetto dei suoi cari”, “i parenti piangono”, “è tornato alla pace del Signore”, “è terminata la giornata terrena”, la parola morte a indicare ciò che realmente è successo, non c’è mai. La morte non sta nella società del Benessere. E quindi è ancora più difficile inserirla in un altro fenomeno che abbiamo da tempo scomunicato: la guerra. Da qui le ipocrisie degli ‘interventi di peacekeeping’, ‘missioni di pace’, ‘operazioni di polizia internazionale’. La morte che accettiamo è solo quella degli altri, non la nostra. Nel 2009 Barack Obama, da poco eletto Presidente, dichiarò a proposito dell’Afghanistan: “Sogno una guerra combattuta solo con i robot, per risparmiare la vita dei nostri soldati”. Adesso, con i droni, ci siamo arrivati. Ma il combattente che non combatte perde ogni legittimità. Perché la particolare legittimità di uccidere, assolutamente esclusa in tempo di pace, in guerra è resa possibile dall’altrettale possibilità di essere uccisi. Se uno solo può colpire e l’altro solo subire usciamo dai confini della guerra per entrare nel territorio dell’assassinio (ecco perché il kamikaze che uccide immolandosi “ha una sua nobiltà”, mentre il pilota che stando al sicuro, a diecimila chilometri di distanza, sgancia i suoi missili mortali, la perde). È quanto abbiamo fatto per una quindicina d’anni, dall’Afghanistan in poi. Poiché la guerra non ci toccava, e continuavamo a vivere tranquillamente nelle nostre città, la guerra non esisteva. E così adesso, che è entrata anche nei nostri territori, non siamo più pronti ad affrontarla. Massimo Fini
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Anti-islamismo interessato |
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2 Aprile 2016 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/anti islamismo interessato.jpg)
Da Lettera 43, quotidiano on line, del 29-3-2016 (N.d.d.) Dopo quanto accaduto a Bruxelles il 22 marzo 2016, è naturale che lo sguardo generale si soffermi solo sugli eventi in quanto tali: evitando di prendere seriamente in considerazione le conseguenze. Proviamo, allora, a farlo: la tragedia si è consumata, l’orrore è sotto gli occhi di tutti. Ma quali saranno gli effetti di quegli attentati? Notiamo, intanto, che all’unisono tutti i premier d’Europa si sono subito trovati d’accordo: e come una sola voce hanno detto: «Ci vuole più Europa». E ancora, hanno affermato: «Serve un esercito unico». «C'è bisogno di maggior sicurezza». «CE LO CHIEDE IL MERCATO». La grande macchina della propaganda e della fabbrica dei consensi si è già attivata: «Ce lo chiede il mercato» e «ce lo chiede l’Europa». La strage viene già artatamente impiegata in nome dell’ideologia europeista. E lo sarà ancora di più prossimamente. Sappiamo che nel quadro dell’odierna “Quarta guerra mondiale” (sulla quale mi permetto di rimandare al mio saggio Il futuro è nostro, cap. VI) ogni qual volta si è sventolata la bandiera della lotta al terrorismo e all’integralismo islamico ne sono seguite guerre: Iraq, Afghanistan, eccetera. L’analogia storica con l’11 settembre 2001 è, in questo caso, feconda. AGGRESSIONE IMPERIALISTICA. Nell’epoca della “Terza guerra mondiale” (la Guerra fredda) il nemico era identificato nel comunista; oggi, nella “Quarta guerra mondiale”, diventa il terrorista. Si legga il surreale discorso del presidente George W. Bush all’indomani dell’11 settembre e si capirà cosa intendo. Il terrorismo diventa il casus belli per le ipocrite politiche di aggressione imperialistica da parte dell’Occidente, sempre in nome dei diritti umani e della libertà. Presto verrà bombardato qualche nuovo Stato, con la roboante retorica dei diritti umani e della lotta al terrorismo: l’imperialismo sa sempre nascondersi e legittimarsi, già lo sappiamo. CI FANNO ODIARE LA RELIGIONE. Il nuovo avversario ora è diventata la religione - sia islamica sia cristiana - che costituisce un impedimento per l’estensione illimitata (reale e simbolica) della forma merce: la religione insegna che il senso del mondo non si esaurisce nei perimetri della società reificata; di più, mostra come la sola divinità sia quella trascendente e non quella immanente (il monoteismo del mercato). Essa costituisce un potente fattore di resistenza alla logica illogica della mondializzazione capitalistica, ed è per questo che essa è oggi sotto permanente scacco da parte del fanatismo economico e del terrorismo finanziario. Che lo si sappia oppure no, l’anti-islamismo conduce more geometrico alla capitolazione nell’ultracapitalismo magnificato come «valori occidentali», «civiltà buona», eccetera. L’anti-islamismo conduce dritti dritti all’apologia del Capitale. CI ASPETTANO ALTRE RESTRIZIONI. Insomma, lo scenario che ci attende non è roseo. Ci aspettano, verosimilmente, reazioni terroristiche al terrorismo e restrizioni delle libertà individuali in nome della sicurezza. Ancora una volta, chissà come mai, è il potere a trarne giovamento. Diego Fusaro
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1 Aprile 2016 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/stones a cuba.jpg)
Il recentissimo concerto dei Rolling Stones a L' Avana, dopo ben 52 anni di ostracismo, ha piantato un altro chiodo nella bara del regime castrista-comunista a Cuba. Questo chiodo è di un peso assai notevole, in quanto un regime può benissimo sopravvivere ad aperture diplomatiche, generici accordi, vaghe promesse, ma quando gli usi ed i costumi di un mondo considerato sino a prima ostile, decadente, rivale, del tutto diverso, iniziano a penetrare nei suoi confini e a far presa sugli abitanti, allora questo è il conto alla rovescia verso la fine. Al di là dello sdoganamento dei Rolling Stones e dei valori da essi rappresentati -valori non da poco, che hanno permeato e ancora permeano gli ultimi decenni della nostra decadenza esponenziale- il regime castrista ormai si sta svuotando di ogni contenuto e sopravvive solo in virtù dei suoi fondatori: parafrasando una antifona cattolica, a Cuba in Castro il comunismo è creato e tutto sussiste in lui. I fratelli Castro ormai sono il solo piedistallo che supporta tutta l'impalcatura nata nel lontano 1959, sono divenuti il Francesco Giuseppe d' Asburgo dei Caraibi (il monarca asburgico, negli ultimi anni, era il solo simbolo vivente a tenere unita un'Austria-Ungheria in decomposizione) e sarà molto difficile assistere, in un prossimo futuro, ad una versione del castrismo senza i Castro. Si inizierà con le riforme, si finirà come sempre in odore di neoliberismo trionfante, la pecorella smarrita che torna all' ovile dello zio Sam, le cui parole melliflue sono più subdole di quelle dei lupi delle favole. Per l'importanza non modesta che ha avuto negli ultimi 60 anni nella Storia del mondo e per il fatto che, seppur severi nel giudizio dell'ideologia comunista, Cuba era rimasto uno dei pochi Paesi non piegati al pensiero unico di un appiattimento dilagante, crediamo che tale regime meriti almeno una orazione funebre. Il giudizio più equilibrato sul castrismo potrebbe essere riassunto nel fatto che fu una versione "sui generis" del comunismo e che all'inizio, nonostante la presenza di un Che Guevara, comunismo puro proprio non fu: non dimentichiamo che nei primi anni della sua guerriglia contro Batista, Castro non fu demonizzato dagli USA. Le cose cambiarono con le confische e le nazionalizzazioni che colpirono l’Impero nel 1960: da quella data, infatti, l'atteggiamento di Washington spinse Cuba definitivamente nelle braccia del blocco sovietico. Abbiamo detto che il castrismo fu una versione "sui generis" e non poteva essere altrimenti, anche solo per il fatto che si sviluppò in un Paese, in una temperie culturale, antropologica, sociale, totalmente diversa da quella europea od asiatica. Fu, se possiamo dire così, un "comunismo in salsa tropicale", quindi con un fondo leggero, festaiolo, costruito su misura per un popolo caraibico e latinoamericano: nei suoi 57 anni di Storia, il castrismo non conobbe mai le purghe infamanti e i processi-spettacolo con fiumi di sangue e di menzogne che si ebbero nell' URSS stalinista e nei paesi europei orientali nel secondo dopoguerra; non conobbe mai gli eccessi folli di un "Balzo in Avanti" o di una "Rivoluzione Culturale " della Cina maoista; il culto del capo, seppur presente, venne e viene visto principalmente come una forma di riconoscenza per il liberatore dal regime di Batista, senza mai sconfinare nel grottesco come avvenne con Ceausescu o Kim Il Sung; il Paese non divenne un regno eremita ma restò sempre aperto al mondo (al contrario dell' Albania di Hoxha); i deliri di un Pol Pot qui furono lontani anni-luce. Fra tutti i grandi leader comunisti, i fratelli Castro sono quelli con le mani meno sporche di sangue: vi furono processi sommari, liquidazioni, fucilazioni specie nei primi anni, ma non succedono cose simili da altre parti, dopo una guerra civile? Restano i demeriti quali, è vero, la repressione del dissenso, i prigionieri politici, i dissidenti, carceri speciali che non sono di certo hotel a quattro stelle ove vengono chiusi i reprobi in condizioni che non potremmo di certo dire umane. Ma vi sono stati anche i meriti, e non da poco: una campagna di alfabetizzazione riuscita in pieno; una sanità pubblica considerata dallo stesso OMS come la migliore dell'America Latina; nelle città cubane non esistono, sino a prova contraria, le favelas e il tasso di criminalità è a livelli del tutto tollerabili se paragonato con quelli di Honduras, Repubblica Dominicana ma anche dello stesso Nicaragua, che negli anni Ottanta ebbe una stagione comunista fallimentare sotto i sandinisti. Il turista, a Cuba, può vedere segni di difficoltà economica e magari in certi casi di penuria, dovuta ad una situazione che si trascina dalla caduta dell'URSS, ma mai di miseria, abbrutimento o disgregazione sociale. Certo, esistono i "balseros" che affrontano il mare per fuggire a Miami, ma quelli scappano in nove casi e mezzo su dieci attirati dalla sirena del finto sogno americano, non possono assolutamente essere paragonati a "migranti economici" e chi lo fa è totalmente in cattiva fede. L'avanzata del pensiero unico imperante e del solo modello di sviluppo tollerato e possibile sta incrinando sino alle fondamenta anche questo ultimo bastione, che sino a ieri dimostrava che un altro modus vivendi -giusto o sbagliato che sia - economico, politico, sociale, può e deve, ha il diritto di esistere e di filarsi liberamente la propria storia, senza ingerenze altrui. I cubani ieri applaudivano gli "Stones", ma crediamo che tra 10 o 15 anni quei concerti se li permetteranno solo i membri di una élite che farà fortuna con la caduta del castrismo, in combutta coi cubani di Miami e gli USA pronti a riprendersi i tempi d' oro di Batista, in cui erano padroni dell'isola. D'altronde, se siamo giunti a rimpiangere negli ultimi anni l'Unione Sovietica, che non era appetibile, perché non dovremmo rimpiangere il più umano Fidel Castro? Simone Torresani
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La Costituzione proibisce la finanza speculativa |
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31 Marzo 2016 ![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/costituzione proibisce finanza speculativa.png)
Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 29-3-2016 (N.d.d.) L’art. 4 Cost. recita testualmente: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Il diritto al lavoro, come noto, è un principio fondamentale della Repubblica. Ciò implica che il nostro Stato debba fare tutto ciò che in suo potere per perseguire la piena occupazione. Tale diritto arriva prima di ogni libertà di iniziativa economica. Oggi è altrettanto noto che lo Stato, avendo ceduto la sovranità monetaria ed economica, non può più far nulla per garantire la piena occupazione, ma dipende esclusivamente dal vincolo esterno UE. Ciò è già gravemente incostituzionale. In questo articolo però mi interessa soffermarmi sul secondo comma della norma e dunque su quel dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. La Costituzione parla appunto di dovere, ergo di un vero obbligo positivo di concorrere con il proprio lavoro al progresso materiale o spirituale del nostro Paese. Ora lo speculare in borsa, il casinò globale della finanza, i derivati ed ogni attività affine, sono per definizione comportamenti che concorrono al progresso o sono mere speculazioni di stampo parassitario che avvantaggiano pochi a scapito di molti? Non ci sono dubbi, addirittura i media e gli esperti usano sempre, per queste attività, in questo caso con ragion veduta, il termine speculazione. Pertanto si deve concludere che la speculazione è espressamente bandita dal nostro ordinamento, che si basa invece sugli inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale. Nessuno può vivere di speculazione! La piena applicazione della Carta, non solo imporrebbe la sovranità al popolo al di sopra di ogni potere economico, ma spingerebbe dunque a considerare illecita (o al massimo un’obbligazione naturale del pari del gioco d’azzardo) ogni attività finanziaria non connessa al progresso materiale o spirituale della società, dunque in definitiva è illecita ogni attività finanziaria sconnessa con l’economia reale. In punta di diritto i contratti di tale specie andrebbero considerati nulli per violazione diretta dell’art. 4 Cost., norma ovviamente imperativa. Ma anche su questo filone nel nostro Paese non si è sviluppata alcuna linea giurisprudenziale, anzi nell’opinione pubblica è passato il concetto opposto: tutto ciò che crea profitto è lecito e la libertà inizia e termina proprio in questo semplice concetto. Così si dimentica che la libertà di ogni individuo incontra il limite della libertà altrui ed ovviamente, più in generale, il limite del rispetto dei diritti inviolabili di ogni essere umano. Diritti inviolabili dunque, anche e soprattutto, da ogni forma di potere economico, qualsiasi sia la sua dimensione ed importanza. L’iniziativa privata per la Costituzione è infatti specificata come libera solo laddove non contrasti con l’interesse pubblico. Mi riferisco ovviamente agli artt. 41 e ss. che sono la ovvia esplicitazione anche dei principi contenuti nel citato art. 4. Ecco cosa intendo quando dico che nella Costituzione del 1948 ci sono le soluzioni per il Paese. Purtroppo manca una classe politica dotata di palle sufficientemente grandi per mettere in atto questo politiche! Non già politiche rivoluzionarie, ma di semplice ripristino della legalità formale e sostanziale. Marco Mori
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