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Odiatori della democrazia PDF Stampa E-mail

3 Marzo 2016

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Da Conflitti e strategie del 24-2-2016 (N.d.d.)

 

    

 

Dobbiamo dircelo francamente, senza giri di parole, circonlocuzioni ed eufemismi particolari. La democrazia elettorale è un imbroglio colossale. Uno schifo senza precedenti. Un esercizio di libertà per dementi; una transumanza, dalle case alle urne, di caproni che delegano a branchi di lupi famelici, riuniti in liste di partito, la responsabilità di pensare e di scegliere (male, se non malissimo) per conto di tutti; un rito apotropaico per servi contenti di potersi scegliere, con uno scarabocchio su una scheda, i propri tiranni. Chi vota è un cretino che dimostra reiteratamente di esserlo, ogni 5 anni o giù di lì. Il voto è una riffa, nel doppio senso del termine. I votanti si azzuffano per una lotteria pilotata in cui gli organizzatori si beccano sempre i premi della truffa.

 

Il sistema è così perfido che ogni tanto ci rinfila pure qualche referendum, cosiddetto popolare, in cui l’idiota con diritto di v(u)oto, chiamato ad esprimersi su argomenti che non conosce e non maneggia intellettualmente, di urgenza sociale inesistente ma di clangore mediatico e giornalistico totale, si precipita, con spirito di partecipazione e senso del dovere (dovere di tenere fede alla propria natura balorda), a mettere una croce definitiva sulla sua intelligenza. Però, di costui che segue la mandria nella cabina, come una pecora con gli occhi coperti dal pelo, la pelosa opinione generale dice che è un esempio di gran bella coscienza civica. Ecco dimostrato matematicamente una volta per tutte che coscienza e cervello sono caratteristiche inversamente proporzionali. E si sa che noi italiani siamo gente “de core” più di qualsiasi altro popolo al mondo. La democrazia produce soltanto ladri di portafogli ministeriali e orde di puttane parlamentari che nell’attesa di ascendere a miglior scranno si fottono tutta la nazione con gran danno del prossimo ed esclusivo vantaggio personale o corporativo. La democrazia è una dittatura a maglie larghe, un’oppressione dolce che non ti ammazza subito ma ti sfinisce sulla lunga durata con i suoi contorcimenti politicamente corretti e le sue chiacchiere opinionistiche: su progresso/conservazione dei costumi, regresso/avanzamento culturale, integrazione/emarginazione sociale. Cirinnà, cirinnò, ciribiribi Kodak. Una menzione particolare merita la solita battaglia fondamentale per la parità dei sessi ma soprattutto per quella dei fessi di tutti i sessi. Si parla, insomma, dell’inessenziale, affinché ciascuno possa dire la sua su un tema a caso che non sposta quasi mai gli equilibri politici reali. Ma sotto tutto questo carnevale i manovratori del vapore secernono le loro trame oscure per perpetuare i loro privilegi e disputarsi il dominio sui concorrenti e sui demodeficienti a dorso di cammello verso il macello. Come diceva il grande Lenin la democrazia è il miglior involucro della dittatura. Un altro che la sapeva lunga, Benito Mussolini, definì la principale istituzione democratica un bivacco di manipoli. Il letterato Papini coniò una bestemmia memorabile contro il regime democratico e i suoi sostenitori democretini diffusi tra le varie chiese: bischeri sollevatissimi, bischeri smargiassi, bischeri ventosi, bischeri girandoloni, bischeri soppiattoni, bischeri politicanti, bischeri economicizzanti, bischeri vani, bischeri solenni, bischeri tronfi, bischeri crespi, bischeri callosi, bischeri pensosi, bischeri pacifisti, bischeri leghisti, bischeri classisti, bischeri marxisti, bischeri riformisti, bischeri collettivisti, bischeri revisionisti, bischeri comunisti, bischeri credenti, bischeri fetenti, bischeri ufficiali, bischeri legali, bischeri del cervello, bischeri antilibici, bischeri internazionalisti, bischeri democratici, massa di straccioni e stronzoni, mangiasputi e fiutarutti, tinconi, turabuchi, scorticapidocchi, merdaioli, caconi, galoppini, pagnottisti, biasciconi, lumaconi, minchioni, balordi gonzi e grummi, ciglioni appuzzoni e citrulli, questi sussurroni coccoloni, questi satraponi virtuosoni…ecc. ecc.

 

Gianfranco La Grassa descrive meglio di chiunque l’essenza della democrazia (la sua intimità ferocemente mistificatoria) e le sue forme fenomeniche di distorsione della realtà, come le libere elezioni a scadenze prefissate. Scrive il pensatore veneto: “La democrazia …è un semplice e schematico sondaggio d’opinione, in cui si tratta solitamente di rispondere sì o no a poche semplici domande su questioni che tutto toccano salvo il reale potere dei grandi centri strategici, che si battono tra loro con ben altri mezzi e massima incisività (magari anche con il metodo dell’assassinio se occorre). Non è un caso che l’opinione “pubblica” muti d’accento con una certa facilità e frequenza; ne vengono premiati ora questi ora quelli fra i cosiddetti partiti, vere accozzaglie informi dirette da manigoldi, che rappresentano la copertura e la maschera “pubblicitaria” dei suddetti centri strategici, i reali poteri da cui si irradiano poi le principali decisioni, molto spesso ignote al “popolo” o comunque assai differenti da quelle su cui si era svolto il sondaggio. Non vi è dubbio che una simile “democrazia” presenta alcuni svantaggi in fatto di celerità ed efficacia delle decisioni, poiché a volte bisogna avvolgere queste ultime in una “bella confezione” in grado di meglio ingannare, compiacendo, i cittadini elettori”.

 

Quanto valga davvero la democrazia e la sacra scelta elettorale lo si riscontra durante le fasi di crisi istituzionale in cui forze invisibili, non elette da nessuno ma operanti a livelli di centri strategici internazionali, spiano e rovesciano governi regolarmente insediati per volontà dei cittadini portando in sella i loro mansueti burattini. Per questo bisogna scagliarsi contro la democrazia ed i suoi accidenti di destra, di sinistra e di centro, invocando parole d’ordine più efficaci per la nostra stagione storica come autodeterminazione e sovranità, obiettivi che non portano la libertà per tutti gli individui o l’uguaglianza tra le classi ma almeno proteggono lo Stato nazionale dai suoi razziatori esterni. Inoltre, bisogna schiacciare senza remore anche certi movimenti del quarto tipo come i grillini, i quali, nonostante si autodefiniscano a parole oltre destra-centro-sinistra, hanno trasformato in feticcio la democrazia (diretta) rendendola ancor più obnubilante e “schermatica” della vera sostanza dei rapporti di forza e di potenza, di cui è innervata la società in cui viviamo. Non facciamoci intenerire dai diritti umani. Non facciamoci distrarre da quelli civili. EVVIVA LA FORCA! Odiatori della democrazia uniamoci!

 

Gianni Petrosillo

 

 
Troppo tardi per un federalismo europeo? PDF Stampa E-mail

2 Marzo 2016

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Da Rassegna di Arianna del 28-2-2016 (N.d.d.)

 

Lo stato di dissoluzione della Ue è sotto gli occhi di tutti: nessuno finge più di crederci e le stucchevoli riunioni che si succedono sono stanche liturgie, passerelle dove ogni membro recita una parte a beneficio degli egoismi del proprio elettorato. Neppure la Germania, che fino a un anno fa era capace di mettere in riga tutti col suo potere, riesce più a governarla e si ritrova fra le mani un’assemblea rissosa di tutti contro tutti, dove gli Stati s’associano o si dividono in funzione d’interessi immediati.

 

Non c’è da stupirsi, la Ue non ha un progetto, è solo figlia delle convenienze e se il benessere passato poteva celare le sue spaventose carenze, i lunghi anni di una crisi senza fine, di decisioni politiche e di gestione dell’economia suicide, imposte da Washington e da Berlino, l’hanno condotta sfiancata dinanzi a problemi veri e, cozzando su quegli scogli, i falsi valori su cui basava una coesione bugiarda si sono dissolti mostrandola per quella che è: un ectoplasma privo di sostanza. In questa situazione, anche la sua finzione amministrativa, fatta di regole astruse e di burocrati, è condannata a dissolversi in breve travolta dall’incalzare di un mondo che s’è messo a correre e che chiede risposte immediate. Al di là delle semplificazioni che non servono, tutt’altro, comprendere il perché d’un simile fallimento serve a indicare la via che dovrebbe intraprendere questo Continente da tempo autoreferenziale ed avviato all’irrilevanza.

 

In realtà, la strada presa con i trattati di Roma, nel ’57, non era questa, tutt’altro; allora, una classe dirigente europea con cui avremmo cento e più motivi di dissenso, ma di levatura infinitamente superiore ai miserabili guitti di adesso, ebbe l’intuizione di un processo aggregativo fra Popoli, culture ed economie, che rendesse un Continente che si risollevava da una crisi immane un vero soggetto politico oltre che economico. Allora si comprese che la semplice aggregazione economica e commerciale, anche se necessaria, non poteva bastare a governarlo, per il semplice fatto che solo la politica gli avrebbe dato un’anima e gli avrebbe consentito di agire. Allora si era nel pieno della Guerra Fredda, e l’Europa di cui parliamo era quella occidentale e neanche tutta; un pugno di Paesi, ma con culture, economie e storie affini e che per questo potevano ambire a fare una forza delle diversità. Allora c’era la Nato e pure la sudditanza a Washington, ma pur col Patto di Varsavia agitato come continua minaccia erano diversi i premier che rivendicavano una certa autonomia, e l’aggregazione europea era vista da molti come lo strumento per dare peso a un Continente frammentato. Il dibattito politico sul futuro dell’Europa si stava orientando verso il naturale sbocco di un federalismo, quando su di esso s’abbatté improvviso il cataclisma geopolitico del crollo del muro di Berlino e la successiva implosione dell’Urss. Tutto cambiò proprio al momento della decisione dei suoi destini, e ciò che più d’ogni altro lasciò il segno fu la repentina riunificazione della Germania.

 

In Europa nessuno voleva una Germania unita, temendone il potere, ma il Cancelliere Kohl, manovrando con tempestiva abilità, seppe cogliere un’opportunità unica per il suo Paese e nell’ottobre del ’90 giunse a riunificarlo. Quel fatto, con la paura del peso che Berlino avrebbe avuto in un soggetto politico federale, fece deragliare il processo di unione del Continente. Fu una decisione miope, dettata dall’emotività e da calcoli errati, ma i decisori europei optarono per un’Unione essenzialmente economica e commerciale, lasciando la sfera politica in mano ai Governi, e pensando che, diluita in una moneta unica, la forza economica della Germania sarebbe stata innocua. Nel corso di pochi anni fu ribaltato un percorso di decenni, da Maastricht in poi di Unione politica e di federalismo non si parlò più, e la stessa Difesa comune fu ridotta a uno slogan vuoto dalla furiosa opposizione dell’Inghilterra, e dalle fortissime pressioni Usa che vedevano insidiato il ruolo della Nato. C’è stata nei fatti una sorta di spartizione di ruoli; alla Germania, conseguita la riunificazione e col tempo priva di personalità politiche di rilievo, importava solo della propria economia, importava usare quelle Istituzioni per il proprio tornaconto: ha usato la Ue scaricandole addosso i colossali squilibri di un sistema sbilanciato sulle esportazioni, ed ha lasciato la politica ad altri. Cioè a Washington. E in questa deriva mercantile, l’Inghilterra ha strappato il privilegio (che ora intende incrementare a dismisura) di stare alla finestra, mettendo la finanza della City all’interno di un mercato enorme ma senza averne le limitazioni. Gli Usa, dal canto loro, hanno mantenuto la Nato, un’alleanza difensiva verso un nemico che non esisteva più, accettata senza fiatare come l’organismo di “difesa” dell’Europa; nei fatti lo strumento operativo dell’assoggettamento di un Continente che per miopia e grettezza aveva rifiutato la propria sovranità. Questa mancanza di politica ha determinato un vuoto che ha fatto sorgere una casta di superburocrati, perfettamente funzionali sia ai disegni tedeschi, che attraverso essi controllavano le istituzioni, che a quelli di Washington, che hanno visto in quei tecnocrati pedine ideali da manovrare a piacimento per i propri fini.

 

In questo quadro, che prescinde da motivazioni politiche proprie, ma se le fa imporre dall’esterno; che ignora assonanze culturali o storiche in nome delle esclusive ragioni dell’economia; con la piena comunanza d’interessi fra Washington e Berlino che così ampliavano le proprie sfere d’influenza, la Ue s’è lanciata in una corsa verso Est, fino a giungere ai confini stessi della Russia, e la Nato con essa. Un’espansione dissennata, che ha affastellato Paesi diversissimi ed ha reso impossibile qualunque aggregazione politica. Una costruzione artificiosa su cui ha impattato la tempesta finanziaria e poi economica iniziata nel 2008, alla quale la Germania ha reagito imponendo ricette funzionali ai propri interessi, ma al prezzo di logorare Istituzioni viste sempre più estranee e nemiche dai cittadini di tanti Stati. A quella crisi mai superata, perché necessitava di risposte politiche mai date, se ne sono aggiunte presto altre che politiche lo erano intimamente: l’Ucraina, col suo strascico dei rapporti con la Russia; la destabilizzazione del Medio Oriente e del Sud del Mediterraneo; l’emergenza dei migranti che ne consegue. Dinanzi ad esse, la Ue ha mostrato il suo vero volto andando in pezzi. Di più: ha mostrato non solo la mancanza di una politica propria, ma tutta la sudditanza verso Washington che le ha imposto di volta in volta politiche schiacciate sugli interessi propri, anche quando erano opposti a quelli dell’Europa. Così ha obbedito supinamente anche a costo di perderci, e tanto, come nel caso della contrapposizione con la Russia e delle sanzioni suicide; o non ha agito, come nel caso delle crisi mediorientali, condannandosi all’irrilevanza; o ha agito in ordine sparso a seconda dell’utile immediato dei vari Stati, come nel caso della Libia; o si è letteralmente frantumata fra gli interessi contrapposti dei vari Paesi, come nel caso dei migranti.

 

È uno sfacelo; Berlino, che fino a qualche tempo fa ha pilotato a piacimento le Istituzioni di Bruxelles secondo i propri fini, assiste attonita al loro sbriciolarsi; non riesce a comprendere che le sfide attuali non possono essere affrontate con i Regolamenti, ma solo con quella politica che per decenni ha ignorato concentrata com’era sul denaro, abbandonando i temi “pesanti” a Washington. Dinanzi al fallimento dell’Unione quale è ora modellata, e per scrollarsi di dosso regole stringenti (quelle dettate dalla convenienza tedesca insieme alle altre della convivenza comune nella Ue), s’affaccia in molti la tentazione della via inglese: un’Europa che sia solo un colossale mercato, un libero terreno di caccia per multinazionali e Istituzioni finanziarie globali sotto l’egida Usa del Ttip. La fine insomma anche della finzione che esista un Continente come soggetto autonomo, ed il trionfo del liberismo più sfacciato che distrugga quanto resta di Popoli e Nazioni. Storia e Culture millenarie ridotti a orpelli, al massimo spot per quel turismo di massa che nulla comprende e tutto omologa.

 

È questo il necessario epilogo dell’Europa? Eppure si potrebbe ricominciare dalla fine degli anni ’80, quando egoismo e grettezza fecero deragliare un processo federalista, imperfetto e criticabile, certo, ma infinitamente migliore del mostro generato dalle pressioni Usa da un canto e dalle manovre di Berlino. Un nucleo di Stati, anzi, di Popoli prima di tutto, e di Culture affini da cui ricominciare; attorno gli altri Stati che volessero avvicinarsi, ma condividendo, prima d’ogni cosa, un progetto politico dettato da valori comuni e non dettato dall’esterno. In fondo era questa l’idea che si faceva strada allora, prima d’essere spazzata via da miopi convenienze. E i poli attorno a cui riedificare questa costruzione sarebbero due: uno del Nord e uno mediterraneo, coerenti alle diverse vocazioni e proiettati su sfere d’influenza diverse ma sinergiche: l’area mediterranea e quella eurasiatica verso la Russia e oltre.

 

Un’utopia? Purtroppo potrebbe esserlo, troppi e troppo forti sono gli interessi che spadroneggiano sul Continente, e troppo lacerate le Nazioni che ormai stentano ad esprimere valori propri (semmai ne hanno conservati), insteriliti da vuote proteste dettate dal disagio e dalla paura. Ma è una via da esplorare comunque, quella presente è solo sudditanza e sfacelo.

 

Salvo Ardizzone

 

 
Per un fronte unito anticapitalista PDF Stampa E-mail

1 Marzo 2016

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Da Rassegna di Arianna del 28-2-2016 (N.d.d.)

 

In accordo con le logiche capitalistiche tutto ciò che è immateriale e che quindi non può essere oggetto di compravendita, come i valori spirituali, i culti religiosi, il senso di appartenenza ad una patria e ad un popolo, i legami familiari e sentimentali, l’estetica, l’indagine filosofica, l’amore per la cultura, deve essere inesorabilmente distrutto ed immolato sull’altare dell’incessante ricerca del profitto.

 

Tre sono i “fronti” che si oppongono all’avanzata incessante del capitalismo su scala mondiale: quello socialista, quello tradizionalista, quello religioso. In quanto “rivoluzione permanente” e “distruzione creatrice” il capitalismo considera le forme tradizionali della vita comunitaria come limiti alla sua espansione e quindi come ostacoli da abbattere. La tradizione, ovvero il retaggio identitario, culturale, storico di una comunità, tramandato di generazione in generazione e sedimentatosi nella coscienza collettiva dei suoi membri, rappresenta pertanto un elemento intollerabile a cospetto dell’ideologia della forma merce. Anche se non si riconosce la natura spirituale o “divina” della Tradizione e ci si approccia ad essa attraverso gli schemi della sociologia o del materialismo storico, le conclusioni alle quali si perviene osservando l’azione del capitalismo sulle forme di vita tradizionali sono le medesime: il sistema capitalistico è per definizione sovra-trans-nazionale e non riconosce la validità di leggi, precetti, norme che non siano funzionali alla logica del profitto.

 

Estranea al capitalismo non è solo qualsivoglia forma di etica o di legge morale, ma anche di religione. Il monoteismo del mercato non tollera altro Dio al di fuori di esso. Nel Vangelo e nel Corano vi è il divieto espresso, senza deroghe, riguardo la pratica dell’usura, (la cui condanna peraltro attraversa tutta la cultura “occidentale”, da Aristotele agli idealisti tedeschi, da Shakespeare a Goethe, da Marx a Nietzsche), mentre nella Bibbia essa è consentita solamente nei confronti dei gentili, ossia i non ebrei. Non è un caso che l’unico episodio del Vangelo nel quale Gesù Cristo appare adirato sia la cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme: secondo la dottrina cristiana non si può servire contemporaneamente Dio e Mammona, ovvero il dio denaro nonché uno dei nomi di Satana (Lutero definiva il denaro “sterco del demonio”).

 

Il capitalismo produce necessariamente disuguaglianze e squilibri sociali, conduce le società verso inevitabili crisi dopo periodi di crescita economica, ha come sbocco naturale l’oligopolio ed il monopolio; tutto ciò è ineluttabile a meno che non vi sia un’istituzione politica, come lo Stato, in grado di subordinare ad essa la sfera economico-finanziaria ed impedire il verificarsi di questi esiti per la società. Essendo il “mercato” (l’insieme dei soggetti che operano nelle sedi preposte avendo come fine la massimizzazione dei profitti) incompatibile con il concetto di “democrazia” (i diritti, gli interessi e le libertà comuni ai cittadini facenti parte di una “polis”), politiche autenticamente democratiche, ovvero anticapitaliste, ovvero socialiste, non possono prescindere dal sottrarre ai gruppi economico-finanziari privati il controllo di settori vitali e strategici per uno Stato, come quelli legati all’energia, ai trasporti, all’istruzione, alla sanità, all’edilizia, oltre al subordinare la politica monetaria a quella economica, attraverso la statalizzazione della propria banca centrale.

 

Pertanto una grande alleanza tra i difensori della tradizione, della libertà religiosa e dell’ideale di giustizia sociale appare imprescindibile dinanzi all’odierno capitalismo assoluto, una forza oramai soverchiante autoproclamatasi unico orizzonte possibile e che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sembra non avere avversari geopolitici in grado di opporvisi efficacemente.

 

Daniele De Quarto

 

 
L'Inghilterra non è Europa PDF Stampa E-mail

29 Febbraio 2016

 

 

Non si capiscono tutte queste ‘ammoine’, strusciamenti, invocazioni, implorazioni, concessioni di statuti speciali e deroghe alla Gran Bretagna perché resti nella Ue. Mentre invece sarebbe nostro interesse che ne uscisse. Perché la Gran Bretagna ha poco o nulla a che fare con l’Europa, ne è anzi una palla al piede. Ha detto bene Flavio Briatore, un uomo che viaggia per il mondo e lo conosce: “Londra ha una dimensione internazionale ma non europea. I londinesi non vivono l’Europa né a livello finanziario, né a livello culturale”. Da questo punto di vista l’Europa è molto più legata alla Russia. La grande aristocrazia russa parlava francese e dopo la Rivoluzione d’Ottobre gli emigrés si ritrovavano a Parigi non a Londra. Nonostante oggi un tunnel sotto la Manica la unisca alla terraferma la Gran Bretagna resta un’isola che dell’Europa non ha mai voluto veramente saperne. Neppure Hitler riuscì a coinvolgerla nel suo particolare progetto di unità dell’Europa sotto il suo tallone di ferro ma con la Gran Bretagna come partner a pari livello. Vi provò fino all’ultimo, persino due anni dopo la dichiarazione di guerra, col misterioso volo di Rudolf Hess, il numero due del regime nazista, sui cieli londinesi quando la Wermacht stava vincendo su tutti i campi.

L’Inghilterra è, insieme agli Stati Uniti e all’Urss, una delle tre Potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, ad essere sconfitta fu l’Europa. Che anche i francesi si siano seduti al tavolo della pace è solo un’astuta gherminella per mascherare questa verità, perché la Francia fu pienamente collaborazionista (il mito del ‘maquis’ vale poco più di quello della Resistenza italiana), collaborazionisti furono alcuni dei suoi maggiori intellettuali, da Robert Brasillach a Drieu La Rochelle e anche i giovani Jean Paul Sartre e Albert Camus conobbero le loro prime consacrazioni letterarie (Sartre con Le mosche, Camus con Lo straniero) proprio sotto l’occupazione tedesca, perché i tedeschi anche nazisti (si veda in proposito La Rive Gauche di Lottmann) sono sempre stati affascinati dalla cultura francese benché sia questa ad essere loro tributaria e non viceversa, da almeno due secoli (tutto l’esistenzialismo francese, per esempio, ha alle sue spalle Nietzsche e Heiddeger).

I vincitori del secondo conflitto mondiale, anglosassoni o russi che siano, hanno quindi tutto l’interesse a mantenere lo ‘status quo’, cioè un’Europa debole, eternamente vinta, nel ruolo di ancella dei loro obbiettivi. In più gli inglesi sono, storicamente, legati a filo doppio agli americani che, dopo il 1989, per l’Europa sono diventati da alleati obbligati degli avversari occulti. Tanto per cominciare sono dei competitor sleali sul piano economico. Mentre noi europei ci costringiamo a una politica di austerity per non creare altre bolle speculative, loro, gli americani, dopo il collasso della Lehman Brothers del 2008, hanno immesso nel sistema, in varie forme, tre trilioni di dollari che, prima o poi, ricadranno sulla testa di tutti. Sotto l’aspetto geopolitico le migrazioni che l’Europa è costretta a subire sono dovute in gran parte alla dissennata politica di aggressione degli Usa nei confronti dei popoli musulmani negli ultimi quindici anni. E gli inglesi, da alleati leali, gli han sempre tenuto bordone. Quindi altro che ‘statuti speciali’ perché ci facciano il piacere di rimanere in Europa.

Non creda il lettore che io disprezzi gli inglesi. Fanno, coerentemente, il loro gioco. E anzi li ammiro perché sono quello che noi italiani non siamo mai stati: un popolo. Quando Mussolini lanciava i suoi strali contro ‘la perfida Albione’ era perché ne era consapevole. E ha cercato, il buon Benito, di fare degli italiani un popolo e c’era quasi riuscito se non avesse commesso la tragica e imperdonabile imprudenza di entrare in guerra impreparato (“Sta’ bon Benito, lascia fare a lori”), convinto che l’alleata nazista avrebbe fatto un sol boccone degli avversari (“Ci basteranno poche centinaia di morti per sederci al tavolo della pace”). Invece furono proprio gli inglesi a fermare Hitler in prima battuta.

Si potrebbe dire che un’unità il popolo italiano l’ha acquisita negli ultimi trent’anni. Ma non sotto la bandiera del Tricolore, ma quella della corruzione che ci coinvolge tutti, finalmente compatti, dalla classe politica, in ogni sua forma e gradazione, a quella imprenditoriale, alla polizia, ai vigili urbani, giù giù fino al popolo minuto.

Non disprezzo quindi gli inglesi. Ma il fatto è che gli inglesi non sono in realtà che una propaggine dell’imperialismo americano. Quindi ‘foera di ball’. L’Europa, dopo i settant’anni che ci ha fatto perdere la follia di Hitler, deve tornare ad avere un suo posto nel mondo e, messi a cuccia i comprimari, ha da essere a guida tedesca. Heil Angela.

Massimo Fini

 

 
Una guerra illuminante PDF Stampa E-mail

28 Febbraio 2016

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Da Appelloalpopolo del 25-2-2016 (N.d.d.)

 

Per me tutto cominciò – o ricominciò – con la criminale aggressione alla Serbia. Da quell’episodio inizia la mia rinascita politica e credo anche che soltanto da quel momento cominciai a tirar fuori il cervello dal barattolino nel quale qualcuno lo aveva collocato sott’olio. Questi i ricordi e le confessioni:

il disprezzo per D’Alema, che si reca ad Aviano ad assistere alla partenza dei bombardieri statunitensi;

la scoperta che l’Europa non esisteva e non voleva esistere, perché tanti e popolosi Stati europei chiamavano gli USA per venire in Europa a bombardare uno stato di 8 milioni di abitanti: “se proprio la guerra si deve fare, dobbiamo avere il coraggio di farla noi“, dicevo alterato ma inascoltato e suscitando lo stupore di tutti i cervelli fritti, che mi stavano attorno, guerrafondai o pacitonti che fossero;

l’abbandono di “La Repubblica”, sulla quale Eugenio Scalfari e Umberto Eco sostenevano la “guerra giusta”. In particolare Umberto Eco argomentava, vergognosamente, con criptica ipocrisia – “C’è un male terribile a cui opporsi (la pulizia etnica): è l’intervento bellico lecito o no? Si deve fare una guerra per impedire una ingiustizia? Secondo giustizia sì. E secondo carità? Ancora una volta si ripropone il problema della scommessa: se con una violenza minima avrò impedito una ingiustizia enorme, avrò agito secondo carità, come fa il poliziotto che spara al pazzo assassino per salvare la vita a molti innocenti” – e con stratosferica stupidità: “Se qualcuno per esempio dicesse che tutti i guai della Serbia derivano dalla dittatura di Milosevic, e che se i servizi segreti occidentali riuscissero a uccidere Milosevic tutto si risolverebbe in un giorno, questo qualcuno criticherebbe la guerra come strumento utile per risolvere il problema del Kosovo, ma non sarebbe pro-Milosevic. D’accordo? Perché nessuno adotta questa posizione? Per due ragioni. Una, che i servizi segreti di tutto il mondo sono per definizione inefficienti, non sono stati capaci di fare ammazzare né Castro né Saddam ed è vergognoso che si consideri ancora giusto sperperare per essi pubblico denaro…“;

lo squallore del moralista Veltroni e del minus habens sottosegretario Ranieri, secondo i quali dovevamo fare la guerra “per i bambini Kosovari“;

le modalità della guerra – 70 giorni di bombardamenti, senza invasione di terra e senza concedere all’avversario l’onore delle armi -, un plotone d’esecuzione, una operazione da boia, la guerra come semplice sevizia scientificamente attuata, modalità che mi spinsero a sperare che Milosevic avesse una atomichetta da far esplodere a Washington: lo confesso e non me ne vergogno, a 29 anni, dinanzi a un crimine di tali proporzioni, ci può stare; tutti voi che non notaste le cose che notai io dovreste vergognarvi ma in realtà avevate il cervello fritto o sott’olio, come me, ed io ebbi soltanto la fortuna di avere un Maestro che in quei giorni, stupendosi per la mia iniziale stoltezza da lettore di La Repubblica, mi stimolò a riflettere;

la scoperta di Danilo Zolo, che l’anno successivo pubblicò Chi dice umanità (per me meglio del successivo Cosmopolis) e l’abbandono di Bobbio, a lungo letto, che aveva invece sostenuto la “guerra giusta”.

Insomma, quella guerra mi fece cambiare cultura, posizioni politiche e quotidiano; mi fece scoprire che esisteva il partito unico atlantista e che l’Unione europea politicamente non era nulla  e non voleva essere nulla; mi convinse che gli Stati Uniti dovessero essere distrutti e che prima ancora dovesse essere distrutta la sinistra italiana: da allora, infatti, pur non avendo mai votato Berlusconi (nel 2001 cominciò il mio astensionismo), cessai di essere antiberlusconiano, perché ero divenuto tanto antiberlusconiano, quanto anti-antiberlusconiano. Quella guerra mi fece anche scoprire il valore del “nazionalismo resistenziale”, che poi chiamai patriottismo.

 

Stefano D’Andrea

 

 

 

 
Omaggio a Ida Magli PDF Stampa E-mail

27 Febbraio 2016

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Da Comedonchisciotte del 25-2-2016 (N.d.d.)

 

I media - tranne rare eccezioni - hanno passato sotto silenzio la morte di Ida Magli. Quasi un ordine di scuderia impartito dal quel potere mondialista che lei aveva definito “laboratorio per la distruzione”. Una sorta di “damnatio memoriae” nell’era della comunicazione di massa. Con effetto immediato. Ma non è un caso. Ida Magli è stata la più grande antropologa italiana, studiosa di fama mondiale, una mente da premio Nobel e pubblicazioni tradotte in molte lingue. Però si era macchiata di una grave colpa. A partire dagli anni Novanta, aveva infatti osato imboccare la strada del “non politicamente corretto”.

 

Scienza, musica, letteratura, storia, filosofia, politica: era versata in ogni campo del sapere. Tuttavia la sua non era fredda erudizione. Metteva il cuore in ogni riga che leggeva, in ogni frase che pronunciava. Le sue indagini rigorose, un coraggio da leone, l’arma acuminata della parola, e un amore sconfinato per la civiltà italiana, per il nostro genio creativo: così ha combattuto il regime oscuro che ci domina tutti. Per gli italiani, progettava la fuga dalle carceri orwelliane. In fondo, non ha mai smesso di credere che prima o poi qualcosa di buono sarebbe accaduto. Nonostante sia rimasta delusa prima dalla sinistra, poi dalla Lega, infine dai 5 stelle. Qualche volta mi scriveva mail dal tono ironico, eppure disperato, nelle quali mi chiedeva di aiutarla a organizzare una sommossa. Avrebbe imbracciato volentieri il fucile, se ancora ne avesse avuto la forza. E forse, seppure anziana, quella forza l’avrebbe trovata davvero. Perché, da antropologa, si rendeva conto che la nostra cultura era un dono troppo prezioso per non preoccuparsi di tutelarlo. Millenni di splendore intellettuale arenato sulle secche dell’usura, e del malaffare: un epilogo tanto tragico non poteva accettarlo. Allora correva ai ripari, a caccia di argomentazioni affilate e immagini efficaci, per spiegare la tempesta che le attraversava l’anima. E ora i suoi ragionamenti lucidissimi brillano come stelle che indichino ai naviganti la via per non sfracellarsi sugli scogli. Sin dall’inizio strenua avversaria di Maastricht, aveva ravvisato in certe scelte sciagurate opera dei governanti europei, e dai loro cloni seduti al Parlamento italiano, il pericolo più grave per l’integrità di un popolo. Considerava infatti demenziale, autolesionista, e contro-natura la rinuncia alla sovranità territoriale e monetaria, condannava la perdita di identità culturale, guardava con diffidenza e sospetto alle ondate migratorie che soffocano il Vecchio Continente, era contraria al melting-pot globale e, per lei, “le missioni di pace” erano semplicemente guerre. Si è scagliata contro l’ambiguità sessuale, assimilava l’omosessualità alla morte, provava orrore per le politiche che miravano all’integrazione dei transgender, ha stigmatizzato il pensiero unico, le sue censure e le sue leggi liberticide, si stupiva che nessuno, nemmeno il clero, si opponesse ai trapianti d’organo, quando l’espianto del cuore avviene a cuore battente. Ha smascherato i giochi loschi delle lobby al potere, ha attaccato le banche, le multinazionali, i governi occidentali, la massoneria, le case regnanti, e persino la Chiesa. Li ha accusati di connivenza, ignavia, incompetenza, disonestà, malafede, ma solo dopo aver esibito prove schiaccianti dei loro crimini e misfatti. Ecco perché l’intellighenzia di regime ne ha decretato l’isolamento. Per evitare il rischio che il suo pensiero rivoluzionario si diffonda come un virus capace di scatenare pandemie.   Perché in effetti, con il grimaldello delle sue idee, la costruzione di questa Europa fasulla, e asservita agli interessi americani, potrebbe cadere come un castello di carte. In una dedica al libro-intervista con Giordano Bruno Guerri, Ida mi ha scritto: “Sogni e lampi di realtà visionarie”. Un’espressione paradigmatica del suo modo di sentire: da un lato, alimentava in sé la fede in un futuro di rinascita; dall’altro, stemperava la sua stessa speranza, nel timore scaramantico che quei sogni rischiassero di non realizzarsi. Basterebbe leggere alcuni suoi libri, La dittatura europea, Dopo l’Occidente, Difendere l’Italia, per capire come salvarci dalla catastrofe, dall’imminente crollo della nostra civiltà. Lì dentro ci sono tutte le ricette per smettere di essere sudditi. Però, evidentemente, chi ci comanda ha il terrore che qualche ribelle scalmanato possa infiammarsi nel leggere quelle pagine infuocate.   Ecco il motivo per cui si è parlato così poco della tua morte, mia adorata, geniale Ida. Del resto, come sempre, avevi già previsto tutto. Anzi, l’avevi anche scritto, ricordi? “Gli ideatori e costruttori dell’Ue - economisti, banchieri, politici sono stati attentissimi a non lasciare aperto neanche uno spiraglio in cui potesse prendere piede il pensiero critico, la riflessione, o anche soltanto un dubbio.” A me mancherai tantissimo, dolce Ida, con la tua sensibilità, il tuo entusiasmo, la tua tenacia e lungimiranza. Ci mancherà la luce del tuo faro, la tua rabbia e l’amarezza di fronte a questo declino che sembra inevitabile. Ma forse purtroppo non mancherai agli Italiani. Non possono certo immaginare, poveretti, fino a che punto li hai amati, quanto hai lottato, sofferto, sperato per loro. Per cambiarne il destino, ove ancora se ne presentasse l’opportunità. Magari un giorno, nel mare in burrasca, troveranno però quel tuo messaggio nella bottiglia, in cui li esortavi così: “Dobbiamo ricominciare a credere e combattere per capovolgere la situazione di angosciosa agonia nella quale ci troviamo, e lavorare al ripristino della forza e dell’identità del popolo e della nazione italiana.”  

 

Lidia Sella

 

 
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