Avviso Registrazioni

Scusandoci per l'inconveniente, informiamo i nuovi utenti i quali desiderino commentare gli articoli che la registrazione deve essere fatta tramite Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

Login Form






Password dimenticata?
Nessun account? Registrati

Cerca


 
  SiteGround web hostingCredits
Polonia nel mirino? PDF Stampa E-mail

29 Gennaio 2016

Image

 

 

Da Comedonchisciotte del 27-1-2016

 

 

Il 10 gennaio scorso in venti città polacche si sono tenute manifestazioni e cortei a favore della libertà di espressione e contro la controversa legge sui media appena promulgata dall’esecutivo di destra di Diritto e giustizia (PiS). Su invito del Comitato della difesa della democrazia (Kod), la cosiddetta espressione della società civile che in dicembre scorso ha difeso l’autonomia della Corte costituzionale e che pare abbia legami con l’Open Society di George Soros, la gente è scesa nelle strade di Varsavia, Cracovia, Danzica, Poznan, Lodz, Lublino, Breslavia, Kielce, Katowice e Rzeszow. A Cracovia l’esperto di media, professor Tomasz Goban Klas, ha detto ai 5mila presenti (un vero oceano) che il telecomando è il nuovo “simbolo di libertà, perché con il telecomando è possibile sconfiggere le tv del governo”, scegliendo i canali concorrenti (magari su CNN o Fox News) e cercando le vere notizie su internet (magari su Lercio).

“Ogni potere autoritario aspira ad avere il controllo sui media ma noi non lo permetteremo” ha dichiarato poi Jaroslaw Kurski, viceredattore del quotidiano Gazeta Wyborcza. Suo fratello, Jacek Kurski, ex vice-ministro della Cultura, il giorno prima era stato nominato dal PiS nuovo presidente della televisione polacca Tvp, mentre la giornalista e scrittrice Barbara Stanislawczyk è stata chiamata alla guida della Polskie Radio. Due fedelissimi del governo, occorre ammetterlo, tanto da scatenare le vibrate proteste delle organizzazioni nazionali e internazionali dei giornalisti e anche un allarme dalla sempre presente Unione europea.

Cosa ha fatto di diverso il governo polacco rispetto ai quelli italiani dal pentapartito in poi? Nulla, ha lottizzato l’informazione pubblica ma almeno ha avuto la decenza di fare una legge al riguardo, mentre qui da noi i giornalisti e i capi-struttura di viale Mazzini si pongono proni al potente di turno per loro scelta e senza bisogno di imposizioni. Certo, con Berlusconi sono stati meno zerbini del solito ma forse anche perché il Cavaliere poteva contare sull’altra metà del cielo mediatico per difendersi. Il problema non è la legge sul servizio pubblico e nemmeno quella che a dicembre ha portato sotto il potere del presidente la nomina dei giudici costituzionali: il problema è che in Polonia c’è un governo di destra che ammicca alle idee di Victor Orban. Insomma, la bandiera del pericolo fascista sta sventolando.

E le piazze si riempiono, i cortei sfilano con le bandiere polacche e quelle dell’Ue insieme: Bruxelles sta forse preparando una Maidan 2.0 in Polonia per scalzare un governo sgradito alle lobby e ai potentati? I fatti paiono dirci di sì. Mettiamoli in fila. Tre giorni dopo le manifestazioni, il 13 gennaio, un primo screzio diplomatico si è tenuto tra il ministro della Giustizia polacco, Zbigniew Ziobro e il Commissario europeo, Gunther Oettinger: il primo, in una lettera al vetriolo, ricordava come già una volta nella storia i tedeschi avessero deciso di supervisionare la Polonia e lo invitava a guardare in casa propria riguardo alla tematica della libertà di stampa, riferendosi al silenzio mediatico rispetto ai fatti di Colonia a Capodanno. […]

Ma c’è di più e di peggio. Perché dopo lo scontro, il vice-presidente della Commissione Europa, Frans Timmermans, ha inviato alle autorità polacche due lettere con richieste di chiarimenti e informazioni. Come dire, uno Stato sovrano con un governo eletto democraticamente attraverso libere elezioni deve comunque rendere conto al Grande Fratello comunitario. Lo stesso ministro, Zbigniew Ziobro, si definì “basito” per la richiesta giunta da Bruxelles, salvo diventare furibondo quando con poche ore di ritardo arrivò la notizia in base alla quale la Commissione Europea aveva aperto un’indagine senza precedenti riguardo la nuova legislazione polacca e sui rischi che questa infranga le regole della democrazia.

E l’Ue può farlo, poiché sotto il cosiddetto meccanismo della “rule of law”, Bruxelles può imporre a un Paese membro di cambiare qualsiasi misure presa se questa pone un minaccia sistemica ai valori fondamentali dell’Unione. E la faccenda è seria, perché in base al meccanismo introdotto nel 2014, dopo che la Commissione ha offerto un’opinione e poi dato una raccomandazione sui tempi in cui un Paese deve agire, se questo non lo fa scatta l’articolo 7 del Trattato di Lisbona che prevede la sospensione del diritto di voto nel Consiglio Europeo.

Insomma, guerra. Ma si sa, la politica arriva fino a un certo punto. Per inviare i messaggi in maniera chiara serve altro. Detto fatto, due giorni dopo, il 15 gennaio, Standard&Poor’s a sorpresa abbassa il rating polacco da A- a BBB+ con outlook negativo e sapete con quale motivazione? “Indebolimento delle istituzioni”. Insomma, il primo caso di palese downgrade politico! Nel report, infatti, non si parla affatto di problemi economici – e basta vedere lo stato di salute della Polonia per capire come mai – o di solvibilità dello Stato ma unicamente di clima politico nel Paese che appare sfavorevole soprattutto per i settori bancario e finanziario. E chi è stato l’analista a compiere questo vero e proprio golpe? Il tedesco Felix Winnekens, specialista in questioni legate all’Europa centrale. Che caso.

Ora, al netto che mi piacerebbe sapere come la legge sulla Corte costituzionale o sui media pubblici possa influenzare lo spread polacco e che farei notare a Standard&Poor’s che la Polonia vanta per la prima volta nella storia recente un surplus di commercio estero (forse lo zloty debole che favorisce l’export e sfavorisce l’import di beni tedeschi dà fastidio a Berlino), occorre sottolineare come ormai la decenza sia sepolta. Sapete cosa aveva firmato poche ore prima del downgrade il presidente polacco, Andrzej Duda? Una legge sulla tassazione bancaria in base alla quale dal prossimo febbraio sarà obbligatorio per banche, compagnie assicurative e altre istituzioni finanziarie fornire un contributo al budget nazionale con lo 0,44% del valore dei loro assets. E sapete cosa aveva approvato nella mattinata di quello stesso giorno il presidente Duda? Una bozza di legge in base alla quale si tutelavano i cittadini che avevano contratto prestiti e mutui in franchi svizzeri, pratica molto diffusa ad Est e che ora erano in difficoltà finanziaria dopo l’addio al peg con l’euro. Eh beh, direi che un downgrade dopo poche ore è davvero sintomo di professionalità e fedeltà verso i padroncini da parte di Standard&Poor’s.

Insomma, all’Europa non sono andate giù le due vittori del PiS alle presidenziali e alle politiche dello scorso anno e quindi comincia ad agire. Ma anche agli Usa non piace l’andazzo che circola a Varsavia, tanto più che la Polonia è membro Nato e i suoi confini sono strategici per i dispiegamento di mezzi e truppe in quello che l’Alleanza Atlantica intende trasformare in progetto duraturo: ovvero, basi di sicurezza fisse nate dalle ceneri di quelle emergenziali in chiave anti-russa proprio durante la crisi ucraina. E se la CNN, ad esempio, sta facendo un lavoro egregio nel dipingere l’esecutivo polacco come un covo di pericolosi fascisti, tutta la vecchia nomenklatura politica spazzata via dalla vittoria del PiS sta organizzando le manifestazioni di piazza, quasi una prova generale di quella che potrebbe diventare l’ennesima primavera a colori finanziata da Dipartimento di Stato Usa e fiancheggiata dalle lungimiranti autorità europee.

Come spiegare altrimenti il fatto che poco prima delle elezioni parlamentari dello scorso ottobre, sia saltata fuori dal nulla una nuova formazione politica, Nowoczesna (Partito moderno), guidata guarda caso da un ex economista della Banca Mondiale, Ryszard Petru e che abbia preso il 7,5% e 28 seggi in Parlamento praticamente in poche settimane di campagna elettorale? Il tutto con enormi disponibilità economiche e il supporto quasi unanime dei media: insomma, o abbiamo a che fare con un genio del marketing politico o con l’ennesimo pupazzo cui tirano i fili filantropi alla George Soros. Non so perché ma propendo per la seconda ipotesi, visto che in Polonia l’esercito dei trombati a causa della vittoria del PiS comprende i servizi speciali e molti oligarchi, per i quali il denaro non è un problema, così come l’organizzazione dal nulla di manifestazioni di massa e proteste varie. L’uomo delle provvidenze, con solidi legami con il mondo bancario, salta fuori all’improvviso e noi dovremmo credere alla versione polacca dell’american dream. Fossi il governo di Varsavia starei molto attento, visto che al porto di Danzica arrivano i tanker che portano il petrolio saudita a sconto in Europa nell’ambito della strategia di Ryad di rubare quote di mercato alla Russia. Se dovesse succedere qualcosa, sarebbe quasi un capolavoro: mandare un segnale a Varsavia e contemporaneamente additare come principale, possibile responsabile Vladimir Putin. Ecco l’Europa dei diritti, quella che coccola i migranti e vuole abbattere governi democraticamente eletti ma scomodi. Volevamo l’inferno, l’abbiamo trovato.

 

 Mauro Bottarelli

 

 
L'ideologia del lavoro PDF Stampa E-mail

27 Gennaio 2016

Image

 

 

Da Rassegna di Arianna del 25-1-2016 (N.d.d.)

 

 

 

Sempre più di frequente si sente da più parti esaltare il lavoro, qualunque esso sia ed in qualsiasi modo lo si compia, quasi a voler fare di esso, avulso da un ordine di cause superiori, un valore a sé; il lavoro è infatti il soggetto di innumerevoli declamazioni, tanto ampollose quanto vuote, come quella contenuta nell’articolo primo della Costituzione italiana che addirittura fonda lo stesso ordinamento repubblicano su di esso. È facile capire come quest’ordine d’idee sia in rapporto diretto con l’esagerata necessità d’azione che caratterizza gli occidentali moderni. È a Voltaire, uno dei filosofi che più ha influito sullo stato di cose presenti dell’Occidente, che si deve questa massima: «Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio, il bisogno».

Il lavoro come inteso dai moderni, per la verità, non essendovi in una società strutturata sulla mera materialità alcun valore superiore, funge da vero “oppio dei popoli”: in primo luogo permette di tener soggiogate le masse mediante la meccanicizzazione delle attività produttive, che non richiedono più un ente pensante per essere svolte, come fu per le arti medievali, ma utili ingranaggi, meri automi inseriti in catene di montaggio; in secondo luogo determina la sussistenza di una classe dirigente, che in barba ad ogni valore, schiavizza le classi subalterne non solo sfruttandole secondo modalità di lavoro che violano la dignità umana, ma soprattutto con il ricatto del licenziamento o della non assunzione.

È in questa classe dirigente viziata e parassitaria che prende forma l’état d’exprit della nostra epoca, di cui l’altro tratto distintivo è un malcelato cupio dissolvi nichilistico, dettato proprio da quella noia che tutto avvolge quando l’uomo moderno per un attimo cessa i ritmi frenetici che gli sono congeniali. Infatti, se nelle società tradizionali vi furono esempi di otium e di alta contemplazione, in virtù della viva credenza in un Principio superiore, nel nostro mondo che nulla sa di ciò che è oltre l’asfittica cortina di fumo che gli è posta innanzi, spesso e volentieri chi per un motivo o per l’altro si ritrova ad avere l’opportunità di un periodo di ozio e di quiete, vive questa esperienza preso dall’angoscia e da un parossistico senso di vuoto interiore, non sapendo stare solo con sé stesso.

C’è da dire inoltre che contrariamente a quanto pensi l’uomo moderno, un lavoro qualsiasi, che chiunque indistintamente può compiere per mera necessità o ai fini di un’”ascesa sociale”, non dev’essere affatto oggetto di esaltazione, ma è anzi da considerarsi agli antipodi di ciò che il lavoro in senso tradizionale, dunque normale, richiederebbe. È insegnamento della Chiesa che il lavoro debba corrispondere ad una reale vocazione e soddisfare le necessità del proprio stato, ai fini di un perfezionamento della persona e di un compimento di vita. Simili princìpi animano la dottrina orientale dello svadharma, su cui si basa l’istituzione delle caste tradizionali indiane, incentrata sulla ricerca della trascendenza nell’azione stessa, e non nella sua negazione (come, invece, avviene nell’ascesi contemplativa), il lavoro essendo inteso come progressiva purificazione e aderenza al Dharma (la Legge universale) attraverso le proprie azioni, dalle più piccole e quotidiane a quelle più importanti e decisive, purché l’azione sia compiuta con distacco, perseguendo il proprio dovere e non provando desiderio o avversione verso i frutti delle proprie azioni, in accettazione del proprio ruolo e al servizio dell’universo e della Divinità. Allo stesso ordine d’idee è da far corrispondere l’asserzione di Aristotele circa l’esecuzione da parte di ciascun essere del suo «atto proprio», esplicantesi nell’esercizio di un’attività conforme alla propria natura.

Uno dei miti più duraturi propagandati dal sistema capitalistico è quello secondo il quale rispetto al passato avrebbe ridotto i tempi lavorativi ed elargito ricchezza un po’ a tutti senza quasi nulla richiedere in cambio. Ciò è generalmente fatto credere contrapponendo la moderna settimana lavorativa di quaranta ore con la sua omologa di settanta o ottanta ore del XIX secolo, dimenticando che il secolo XIX rappresentò proprio l’epoca del sorgere dell’industrialismo e del capitalismo. Sono questi i “tempi difficili”, gli Hard Times che avrà a ritrarre Charles Dickens, e contro cui Carlyle polemizzerà dicendo – scagliandosi nella fattispecie contro l’utilitarismo manchesteriano: «non è che la città di Manchester sia divenuta più ricca, è che sono diventati più ricchi alcuni degli individui meno simpatici della città di Manchester».

Prima dell’avvento del sistema capitalista i ritmi lavorativi basati su una forma di economia di sussistenza erano infatti molto blandi. Certo, ricchezza e beni di lusso non erano diffusi come al giorno d’oggi, ma vi era abbondanza di tempo libero, del resto il calendario medievale era costellato di festività sacre e ricorrenze coincidenti sovente con le grandi date astronomiche: solstizio d’inverno e Natale, equinozio di primavera e Pasqua, solstizio d’estate e San Giovanni Battista, la cui incidenza agiva direttamente sulle attività rurali. L’idea contemporanea «profana» del lavoro basata su ritmi frenetici di produzione ha origine solo con il capitalismo manifatturiero di fine secolo XVIII.

È noto come in Giappone, sino almeno dal Periodo Yamato, i metodi di forgiatura delle spade, propri di ciascun fabbro, fossero gelosamente vincolati al segreto, e la forgiatura ritenuta rito sacro; non a caso il forgiatore indossava i paramenti sacri del sacerdote dello Shintò. A chi fosse già avvezzo al mondo della Tradizione tale atteggiamento non sembrerebbe inusuale, tenendo presente il fatto che in ogni società tradizionale, sia orientale che occidentale, ogni arte e mestiere fossero protetti dal segreto iniziatico e considerati sacri, in quanto inseriti in un contesto armonico di compartecipazione alla natura dell’Essere. […]

Nelle antiche società umane, il lavoro per l’uomo corrispose infatti ad una «vocazione» nel senso più proprio del termine, tale da fare apparire il profitto materiale che pur lecitamente poteva derivarne, come un fine del tutto secondario e accidentale allo scopo primario, l’imitazione da parte dell’artigiano umano dell’opera dell’Artigiano divino e la prosecuzione della sua opera creatrice. La nostra epoca invece, risolve tutto ricorrendo ad un meccanico raziocinio regolatore, che ha fatto dell’economia una vera e propria religione laica. Ma l’economia è il problema, non di certo la soluzione: fin quando si permane in ambito economico per l’uomo non ci sarà vero progresso, giacché si permane nell’arido terreno della reificazione, della mercificazione, e della prostituzione della propria più intima natura nei postriboli governati da un’unica legge, quella della domanda e dell’offerta.

È fondamentale, pertanto, la liberazione della società umana dalla dimensione universale ed unilaterale economicista, mettendo in evidenza come il modello economico dominante fino ad ora, quello della crescita infinita, vada assolutamente abbandonato, non foss’altro per la finitezza delle risorse naturali. Al paradigma della crescita infinita, andrebbe contrapposto un nuovo paradigma di civiltà, più socialmente equo e più rispettoso della Natura, non riducibile, peraltro, ad un vago ed estemporaneo sentimento ambientalista, quanto ad un profondo sentire mistico e cosmico che un uomo legato alla Tradizione dovrebbe avere, riconoscendosi parte di un Tutto armonico governato da leggi eterne quale è la Creazione.

Bisogna riconoscere, innanzitutto, come la società industrializzata e dei consumi, autoproclamatasi come non plus ultra della civiltà, e come stato normale delle cose, rappresenti in realtà un monstrum senza eguali nella storia umana che ci è dato conoscere, con tutto il suo corollario di miti di cartapesta, riconducibili agli stati più deteriori dell’esperienza umana. Società industrializzata e dei consumi che in un delirio di onnipotenza, in ossequio ai canoni della produzione di massa, avendo abbreviato drasticamente la durata delle cose, minaccia di coinvolgere gli stessi uomini nel medesimo vortice di repentina quanto insensata liquidazione.

Ciò non può non condurci a pensare che per risanare la società sia oggi più che mai necessario prendere le mosse da una visione del mondo che vada oltre le superstizioni dei moderni: economicismo, razionalismo, scientismo, non essendovi cifra, calcolo, o residuale che possano giustificare l’inautenticità e l’insensatezza dell’odierna società disorganica e atomizzata.

 

Giovanni Balducci

 

 
Gli squali di Davos PDF Stampa E-mail

26 Gennaio 2016

Image

 

 

Da Rassegna di Arianna del 25-1-2016 (N.d.d.)

 

 

 

La classe dirigente del pianeta si appresta da mercoledì a partecipare al consueto Forum Economico Mondiale di Davos in un clima internazionale mai così cupo e minaccioso dalla presunta fine della crisi globale del 2008. Ad anticipare l’arrivo delle élite politiche ed economiche nell’esclusiva località alpina svizzera è stata come al solito la pubblicazione del rapporto Oxfam sulle disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze, giunte ormai a livelli più che insostenibili.

Secondo lo studio della no-profit britannica, appena 62 individui, dei quali molti presenti a Davos, nel 2015 sono giunti a detenere ricchezze pari a quelle che è costretta a spartirsi metà della popolazione terrestre, ovvero più di 3,5 miliardi di persone. Questo livello di ricchezza era concentrato nelle mani di 338 persone soltanto cinque anni fa.

La barzelletta dell’impegno dei potenti riuniti in Svizzera per mettere un freno alle disparità economiche mondiali - ripetuta costantemente alla vigilia del summit - è smascherata appunto dal fatto che la polarizzazione delle ricchezze è aumentata in maniera rapida negli ultimi anni. Ad esempio, la ricchezza a disposizione dei 62 uomini o donne più ricchi del pianeta è salita del 44% dal 2010, mentre quella nelle mani della metà più povera del pianeta è crollata del 41%.

Le caratteristiche tutt’altro che inevitabili di questi processi sono confermate, tra l’altro, da uno studio dell’università di Berkeley citato da Oxfam, secondo il quale singoli e aziende custodiscono 7.600 miliardi di dollari in paradisi fiscali “offshore”. Anche ammettendo la legittimità di queste ricchezze, la sottrazione di esse ai rispettivi sistemi fiscali priva ogni anno i vari governi di qualcosa come 190 miliardi di dollari di entrate e, quindi, di risorse teoricamente indirizzabili verso programmi sociali di vitale importanza.

Da questo scenario, prodotto direttamente dalla crisi del capitalismo globale, derivano una serie di questioni e di crisi che saranno con ogni probabilità al centro degli incontri di Davos, al di là dell’argomento ufficiale del vertice, ovvero la “Quarta Rivoluzione Industriale”.

Dagli effetti del rallentamento della crescita dell’economia cinese alla disoccupazione, dal crollo del prezzo delle risorse energetiche al rischio esplosione di una nuova bolla finanziaria, dall’aumento delle tensioni sociali al moltiplicarsi delle agitazioni dei lavoratori in tutto il mondo, i motivi per tenere in apprensione i convenuti nel “resort” elvetico sono molteplici.

I fattori che hanno permesso a pochi individui di arricchirsi ed entrare oppure guadagnare posizioni nel club dei miliardari a partire dal 2008 sono in definitiva gli stessi che hanno determinato la mancata ripresa dell’economia reale o, per meglio dire, che hanno gettato le fondamenta per l’esplosione di una nuova crisi globale.

Ciò a cui si è assistito è stata piuttosto una continua concentrazione delle ricchezze verso il vertice della piramide sociale, oltretutto a un ritmo più sostenuto del previsto. La stessa Oxfam dodici mesi fa si aspettava che l’1% della popolazione mondiale giungesse a controllare ricchezze maggiori del rimanente 99% solo nel 2016, mentre ciò è accaduto già nel corso dell’anno da poco concluso.

Un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, quello che continua a essere registrato, che è inestricabilmente legato alle politiche messe in atto dai governi di tutto il mondo, fatte di austerity, smantellamento dei diritti dei lavoratori e implementazione di misure da stato di polizia per il controllo e la repressione del dissenso. L’altra faccia della stessa medaglia che ha favorito questa evoluzione è rappresentata dalle iniziative delle grandi aziende, restie a investire ma impegnate a tagliare costi e personale, progettare fusioni e acquisizioni, riacquistare proprie azioni ed erogare dividendi agli azionisti. Il tutto con il sostegno delle politiche delle banche centrali che hanno messo a disposizione o, nel caso dell’Europa, continuano a mettere a disposizione quantità infinite di denaro virtualmente senza alcun costo.

I fatti di questi ultimi sette anni hanno aperto gli occhi a centinaia di milioni di persone in tutto il mondo circa i meccanismi e le regole del capitalismo internazionale e delle “democrazie” liberali. Per questa ragione, le illusorie esortazioni di organizzazioni come Oxfam, indirizzate ai leader politici e del business globale per adoperarsi a invertire la rotta in merito alle disuguaglianze, suonano del tutto vuote, se non come una vera e propria beffa, dal momento che sono precisamente questi ultimi i responsabili di quanto viene denunciato. In una dichiarazione che ha accompagnato il già citato rapporto, il direttore esecutivo di Oxfam, Winnie Byanima, ha affermato assurdamente che “le preoccupazioni dei leader mondiali per le crescenti disuguaglianze non si sono per ora tradotte in azioni concrete”.

Tralasciando qualsiasi considerazione sul grado di auto-illusione delle parole della numero uno di Oxfam, azioni concrete in questo senso non sono giunte proprio perché le “preoccupazioni” dei governi un po’ ovunque sono in realtà diametralmente opposte. Iniziative più che efficaci sono state in realtà messe in atto, ma per un obiettivo contrario, ovvero la salvaguardia dei livelli di profitto degli strati più ricchi della popolazione.

La ragione dell’esplosione delle disuguaglianze e del peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, secondo le classi dirigenti di tutto il mondo, sarebbe da collegare principalmente, come suggerisce lo stesso argomento scelto per il forum di Davos di quest’anno, ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel nuovo secolo. A spiegare questa interpretazione artificiosa è stato la settimana scorsa anche il presidente americano Obama nel corso del suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione a Washington. Obama ha definito questi cambiamenti come portatori di “opportunità” ma anche la causa dell’aumento delle disuguaglianze. Come se fossimo davanti a un fenomeno impersonale e inarrestabile, il presidente USA ha poi ricordato che le “aziende, in un’economia globalizzata, devono far fronte a una concorrenza spietata e possono delocalizzare ovunque”, così che “i lavoratori hanno meno potere” per far valere i propri diritti e negoziare adeguamenti di stipendio. Le aziende, allora, “sono meno vincolate alle comunità” in cui operano e, in definitiva, l’intero processo fa sì che “sempre maggiore ricchezza e redditi siano concentrati verso l’alto”.

Ben lontana dall’essere una dinamica di questo genere, la concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi e l’impoverimento di massa di centinaia di milioni (se non miliardi) di persone è la conseguenza di politiche deliberate e del funzionamento di un sistema economico in stato di avanzato deterioramento, in grado soltanto di produrre devastazione sociale, crisi internazionali e conflitti rovinosi.

Di fronte a problematiche di questa portata, la funzione di summit come quello al via da mercoledì a Davos sembra essere dunque quella di consentire ai governi e ai miliardari che li controllano di preparare risposte - improntate rigorosamente a politiche di classe - alla nuova imminente crisi del sistema, in modo da farla gravare ancora una volta sulle spalle di coloro che ne hanno pagato il prezzo più caro in questi ultimi durissimi anni.

 

 Michele Paris

 

 
La Bomba non è uguale per tutti PDF Stampa E-mail

24 Gennaio 2016

 

 

 

Sabato è stato firmato a Vienna l’accordo che pone fine all’embargo e alle sanzioni all’Iran in cambio della definitiva desistenza di Teheran a farsi la Bomba. Era ora.

Ufficialmente le sanzioni e l’embargo all’Iran erano state sancite dall’Onu nel 2007, ma in realtà erano in vigore, almeno da parte degli Usa e dei loro principali alleati, dall’epoca della Rivoluzione komeinista del ’79 che aveva cacciato lo Scià di Persia Reza Palhavi. Chi era lo Scià? Nonostante ci fosse ammannito quasi quotidianamente dai rotocalchi occidentali insieme a Soraya (‘la principessa triste’) e in seguito a Farah Diba, era un dittatore spietato, la prigione di Evin era zeppa di mullah, comunisti e curdi (i curdi ci sono ancora) e la sua polizia segreta, la Savak, era la più famigerata del Medio Oriente, il che è tutto dire. Rappresentava una sottile striscia di borghesia ricchissima che in quegli anni si poteva vedere a Londra, a Parigi, a New York. Il resto era povertà. Naturalmente era un protetto degli americani che gli avevano anche fornito la tecnologia per costruirsi l’Atomica. È dall’avvento di Khomeini che l’Iran entrò per l’Occidente, con la Corea del Nord e l’Iraq di Saddam, nell’‘Asse del Male’. In quanto ai comunisti furono protagonisti di un equivoco grottesco. Poiché in attesa dell’arrivo di Khomeini in esilio a Parigi da dieci anni il governo provvisorio era stato assunto da un moderato, Bakhtiar, i comunisti fermi alle logiche della Rivoluzione d’Ottobre fecero l’equazione: Bakhtiar = Kerenskij, Khomeini = Lenin. Khomeini provvide subito a smentirli definendo Urss e Usa “i due Grandi Satana” (“il piccolo Satana” era Saddam che l’Ayatollah chiamava, giustamente, “l’impresario del crimine”). Qual era il programma di Khomeini? Un modello di sviluppo islamico che non fosse né capitalista né marxista e conservasse le tradizioni di quel Paese. Concetto che ribadirà poco prima di morire in una straordinaria lettera a Gorbaciov dove gli dice sostanzialmente: ora che state abbandonando il marxismo non fate l’errore di farvi attrarre dai verdi prati del capitalismo (questa lettera, insieme a un’altra, altrettanto straordinaria, indirizzata a Papa Wojtyla, in Italia è rimasta praticamente clandestina e potete trovarla solo nelle Edizioni del Veltro).

Nel settembre del 1980 Saddam ritenendo che l’Iran fosse indebolito lo aggredì. Per 5 anni gli Stati occidentali, l’Urss e tutti i venditori di morte si limitarono a fornire di armi entrambi i contendenti perché potessero ammazzarsi meglio. Ma nel 1985 le truppe iraniane, sorprendentemente perché quelle di Saddam erano molto meglio equipaggiate, si trovavano davanti a Bassora e stavano per prenderla. La presa di Bassora avrebbe comportato l’immediata caduta di Saddam, la creazione di uno Stato curdo nel nord dell’Iraq e l’annessione dell’Iraq sciita all’Iran (fatto naturale perché si tratta, dal punto di vista antropologico, culturale e religioso della stessa gente). Ma tutto ciò non poteva piacere alle grandi potenze che cominciarono a rimpinzare di armi Saddam, comprese quelle di ‘distruzione di massa’ in funzione anti-iraniana e anti-curda. Naturalmente l’intervento contro l’Iran a favore di Saddam fu mascherato con ‘ragioni umanitarie’ (“non si può permettere che le orde iraniane entrino a Bassora, sarebbe un massacro” –le truppe degli altri sono sempre ‘orde’ solo le nostre sono eserciti). Così, grazie all’’intervento umanitario’, la guerra Iraq-Iran che sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di morti terminò solo 4 anni dopo con un bilancio di un milione e mezzo di vittime. Se non ci fosse stato quello sciagurato intervento anti-iraniano forse la situazione nell’area si sarebbe stabilizzata in modo naturale. Invece che cosa fa una rana con sopra la groppa un grattacielo di armi? Le rovescia dove gli capita. E fu l’aggressione dell’Iraq al Kuwait. Da qui la prima guerra del Golfo del 1990. La filiera che ne è seguita la conosciamo.

Negli anni ‘90 l’Iran, che nel frattempo aveva firmato il Trattato di non proliferazione, aveva ripreso un programma nucleare a scopo, a suo dire, di uso civile e medico. Per la verità le ispezioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica non avevano mai accertato nelle centraline dell’Iran un arricchimento dell’uranio superiore al 20% che è esattamente quanto serve e quanto basta per l’uso civile del nucleare (per costruire l’Atomica l’arricchimento deve essere del 90%). Ma agli Usa non bastava, sospettavano che gli iraniani avessero delle centrali segrete. E nel 2007, quando in Iran al governo c’era l’ex sindaco di Teheran ed ex pasdaran Ahmadinejad, convinsero l’Onu a decretare embargo e sanzioni internazionali.

Come mai gli americani hanno cambiato improvvisamente il loro atteggiamento nei confronti dell’Iran? Le rassicurazioni di Teheran sono in verità poca cosa sul piano concreto. La situazione non è diversa da quella del 2007. Per questo cambiamento dobbiamo ringraziare l’Isis. I diffamati pasdaran sono oggi, insieme ai peshmerga curdi, gli unici a poter contrastare sul terreno (e non con droni e cacciabombardieri) i guerriglieri del Califfato.

Anche se ci sono voluti quarant’anni tutto è bene ciò che finisce bene. Oggi c’è una maggior sicurezza internazionale e, con la fine dell’embargo, la possibilità di notevoli affari, in entrata e in uscita, con l’Iran dove ora esiste un ceto medio voglioso di consumi (il che vuol dire anche che la Rivoluzione komeinista ha diffuso un relativo benessere). Quest’accordo soddisfa tutti tranne (Arabia Saudita a parte) Israele. Il premier Netanyahu ha dichiarato: “Si apre una nuova e pericolosa epoca: l’Iran non ha rinunciato alle sue ambizioni nucleari”. Eppure Israele non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e la Bomba, com’è noto, ce l’ha da tempo. Dice: se non ha firmato il Trattato non ha nemmeno alcun obbligo di rispettarlo. Ma nemmeno la Corea del Nord ha firmato il Trattato eppure è soggetta a un embargo e a sanzioni durissime. Ma nessuno si è mai sognato d’imporre le stesse misure a Israele.

 

Massimo Fini

 

 
Nessun martire per l'Europa PDF Stampa E-mail

23 Gennaio 2016

 

 

Da Appelloalpopolo del 18-1-2016 (N.d.d.) 

 

 

 

Gli pseudo-ragionamenti volti a paragonare l’Unione europea e l’unificazione Italiana non hanno alcun senso.

 

Basti pensare che per l’Unità d’Italia morirono circa due o tre decine di migliaia di persone, moltissime delle quali furono combattenti VOLONTARI, senza problemi economici, anzi abbienti (figli di persone abbienti, i quali avrebbero potuto spassarsela tutta la vita senza fare nulla o con poco impegno). È sufficiente leggere i diari garibaldini per verificare che l’unica ragione per la quale lottarono e combatterono e morirono era l’edificazione dello Stato Italiano (la tesi di Gramsci del Risorgimento come riforma agraria mancata è antistorica; una delle poche cose insensate che ha scritto, forse l’unica).

 

Se tante migliaia di persone diedero la vita e probabilmente decine e decine di migliaia restarono invalide, e se De Sanctis, Spaventa, Nievo, Stanislao Mancini, Ricciotti, Felice Orsini e migliaia di altre personalità di grande valore fecero la galera, vissero esuli o morirono fucilati o impiccati, è chiaro che siamo su un altro piano, che l’uomo moderno, economicista, non può nemmeno capire.

 

Invece, non c’è nessuno che sia morto o sia disposto a morire per l’Europa unita ed è questa la ragione per la quale l’Europa unita non ci sarà e l’Unione europea imploderà.

 

 

 

Stefano D’Andrea

 

 
Missione compiuta PDF Stampa E-mail

21 Gennaio 2016

Image 

 

Da Comedonchisciotte del 20-1-2016 (N.d.d.)   

 

Dopo gli ultimi crolli in borsa, sulle rovine fumanti del Sistema bancario italiano, riempito di sofferenze, decotto, e grazie a ciò oramai interamente svenduto alla grande finanza imperialista, che ormai possiede al 95% anche la Banca d’Italia, ora Renzi può raccogliere il frutto dell’azione dei suoi predecessori filobancari da Veltroni in poi, e annunciare al suo patron americano il fatidico “Mission accomplished!”

Con un grazie sonoro a tutto l’ampio mercenariato pseudo-intellettuale della sinistra (oggi liberal e filoamericano), nei media, nelle scuole, nella “giustizia”, nonché ai babbei della sua base elettorale, senza la cui fede non sarebbe stato possibile consegnare il Paese interamente e dal suo interno agli interessi privati stranieri, né omogeneizzarlo alla loro cultura e ai loro valori, strumentalmente congegnati, dissolvendone l’identità storica.

[…] Renzi è così sul punto di portare a compimento la lunga road map di riforme bancarie e finanziarie commissionata alla sinistra italiana, da Andreatta in poi, che, iniziata nel 1981 col rendere la Banca d’Italia indipendente da governo e parlamento, e col privatizzare il finanziamento del debito pubblico, ha rapidamente raddoppiato il medesimo, creando ad arte una situazione di cronica emergenza, sulla cui onda la sinistra (spesso con l’appoggio dei filoamericani del centro) ha poi eseguito le successive riforme, sopra tutte l’abolizione del Glass Steagall Act (omologo italiano), l’autorizzazione della creazione bancaria di moneta elettronica per i prestiti,  l’autorizzazione al massiccio uso truffaldino dei derivati finanziari, l’ingresso nel Sistema Europeo delle Banche Centrali, la riforma della Banca d’Italia nel 2006, la sua definitiva privatizzazione-esterizzazione nel 2014, l’adesione agli accordi privati di Basilea I, II, III, che erano studiati per lasciare senza credito le imprese italiane in favore delle grandi imprese nordeuropee, l’introduzione del fiscal compact e del bail-in, e la sistematica negligenza dei controlli sul deterioramento dei crediti delle banche (sofferenze arrivate a oltre 300 miliardi) e sulla concessione di prestiti compiacenti agli amici e ai raccomandati – che poi non pagano.

Era tutto preordinato a due obiettivi:

-sul lato esterno, per consegnare il sistema bancario italiano, compresa la Banca d’Italia, quindi il potere economico-politico sul Paese, ai finanzieri stranieri, trasformando l’Italia in una loro dipendenza, quale è ora, e le sue istituzioni in altrettante marionette, senza alcuna libertà di scelta politica;

-sul lato interno, per consentire ai finanzieri nazionali e ai loro affiliati politici di mantenere i loro privilegi e continuare a saccheggiare il risparmio e i beni reali degli Italiani senza mai pagare il fio.

La riforma della Costituzione e della legge elettorale che Renzi sta completando, è il perfezionamento di questo disegno, in quanto consentirà ai suoi mandanti della grande finanza di governare un paese immiserito e lacerato, vanificando ogni possibile opposizione, pilotando un unico uomo che controlla partito, parlamento, Quirinale, CSM, commissioni di controllo. E al contempo consentirà alla partitocrazia di impedire alla parte non allineata della magistratura e dei mass media di scoprire e far conoscere i traffici criminali della medesima partitocrazia: casi quali Mafia Capitale e Banca Etruria non potranno più venire alla luce, dopo la conferma referendaria della riforma costituzionale – conferma comperata da Renzi con la riforma della riscossione del canone Rai, che porterà ai dirigenti Rai circa 300 milioni in più, così da fidelizzarli al PD e da renderli leali sostenitori della sua linea.

I fatti stanno confermando, insomma, che la politica italiana si regge ormai strutturalmente sull’alleanza tra la partitocrazia interna e le lobby finanziarie esterne, alleanza per spartirsi le risorse del Paese.

Marco Della Luna

 
<< Inizio < Prec. 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 Pross. > Fine >>

Risultati 2433 - 2448 di 3745