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La nostra idea del sovranismo PDF Stampa E-mail

16 Dicembre 2015

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Il desolante scenario attuale, per altro da noi previsto con notevole anticipo, sta producendo un’infinità di dibattiti, articoli, libercoli e interviste su temi quali il rapporto con l’Islam, l’avanzamento del FN in Francia, la finanza mondiale ed europea, la BCE, la perdita di sovranità politica e monetaria e via discorrendo. Tutti temi a noi cari, molti dei quali già sviscerati in tempi non sospetti, sia qua che su La Voce del Ribelle. L’attuale aumento esponenziale del dibattito però rischia a parer nostro di generare anche un aumento della confusione. Di fatto la nostra posizione non dovrebbe spostarsi di un solo millimetro secondo il vento che tira nei vari ambienti politici e giornalistici o nelle intellighenzie riciclate.  Vediamo quindi di fare chiarezza rispetto alle nostre posizioni in rapporto ad alcune ricette sbagliate che sono prospettate ultimamente come soluzioni.

Movimento Zero è un movimento europeista e sempre lo sarà. Noi siamo per un’Europa unita, autarchica e armata, un’Europa dei popoli ovviamente, come si usa dire ormai in modo anche logoro, non certo l’attuale Europa finanziaria, però ribadiamolo un’Europa realmente unita. Un’Europa composta di piccole patrie autonome federate tra loro che combacino con le reali differenze culturali, geografiche e politiche dei popoli. Piccole il tanto da poter permettere forme di democrazia diretta. Autarchica perché è necessario invertire il processo della globalizzazione, sarebbe inutile inseguire gli altri paesi nella loro folle corsa capitalistica di crescita continua (dove per altro cresce il volume della ricchezza generale, ma peggiora la sua distribuzione sociale). Un’Europa indipendente dalla NATO e fuori dal giogo USA che possa così recuperare la sua sovranità non solo politica ma anche militare e quindi armata non in funzione aggressiva ma difensiva, perché vien da sé che un’Europa del genere per sopravvivere dovrà mostrare i denti. Le ultime scelte della NATO come l’ambiguità sulla questione turca sembrano sempre più mostrare non solo l’inutilità per noi di stare in quest’alleanza ma anche la pericolosità. Un’Europa capace di aprirsi anche verso il mediterraneo, senza paure xenofobe immotivate verso i paesi musulmani, ma con spirito di collaborazione con tutti quei popoli che vorranno condividere il ritorno a una vita in una comunità politica e sociale a dimensione d’uomo e non di tecnica e capitale. Collaborazione dove gli scambi siano fatti tra parti alla pari che contrattano e non su basi di rapina. Interesse europeo primario per andare verso questa direzione è per prima cosa la stabilizzazione della Libia e di tutto il nord-africa al fine di terminare la confusione causata dalle primavere arabe e poter ripristinare la vocazione mediterranea europea. Un’Europa del genere sarebbe un grosso colpo per la globalizzazione e per il mondialismo e una rinascita dell’umanità che ripartirebbe proprio da quell’Occidente che sciaguratamente innescò con la modernità l’attuale stato degenerativo.

Per questi motivi non dobbiamo pensare che il problema della mancanza di sovranità politica, monetaria e militare italiana attuale debba essere risolto con la semplice riproposizione di un nazionalismo urlato che non tenga conto di tutti questi fattori: i singoli stati non possono, infatti, oggi essere capaci da soli di uscire e combattere la globalizzazione, lo può fare solo con un’unità politica più ampia che abbia la maggior parte delle risorse dentro i suoi confini. Solo un grosso blocco può opporsi allo strapotere della finanza mondiale, del turbocapitalismo e degli USA. Per questo motivo è velleitaria qualsiasi soluzione che miri al ritorno della vecchia sovranità dello stato nazionale ottocentesco.

Naturalmente la necessità di unità tra i popoli europei deve essere affiancata dalla rivalutazione dell’ambito locale, sia a livello politico che economico, in modo da tutelare tutte le differenze tra i popoli europei e la loro autonomia per le questioni che riguardano solo loro senza pelose supervisioni. In quest’ottica Movimento Zero dovrebbe collaborare con movimenti sovranisti, identitari ma anche localisti, bioregionalisti, autonomisti, ecc. ma evitare certi indipendentismi che, come avverte de Benoist, spingono invece per la riproposizione in ambiti più limitati di ricette già viste.

È fondamentale che la battaglia europeista e quelle identitarie dei popoli si leghino insieme: quel po’ di sovranità che si perde federandosi si riguadagnerebbe così nel locale, e anzi proprio una tal Europa sarebbe davvero l’unica garanzia di libertà per i popoli europei.

Alberto Cossu 

 
Meritocrazia PDF Stampa E-mail

15 Dicembre 2015

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Da Appelloalpopolo del 13-12-2015 (N.d.d.)

 

“Il termine “meritocrazia”, coniato negli Stati Uniti, è stato introdotto in Italia negli anni Settanta con riferimento a sistemi di valutazione scolastica basati sul merito (ma ritenuti tali da discriminare chi non provenga da un ambiente familiare adeguato) e alla tendenza a premiare, nel mondo del lavoro, chi si distingua per impegno e capacità nei confronti di altri, ai quali sarebbe negato in qualche modo il diritto al lavoro e a un reddito dignitoso. Altri hanno invece usato il termine con connotazione positiva, intendendo la concezione meritocratica come una valida alternativa sia alle possibili degenerazioni dell’egualitarismo sia alla diffusione di sistemi clientelari nell’assegnazione dei posti di responsabilità.” (Vocabolario Treccani)

Un’ oscura presenza dalle anglosassoni origini si aggira indisturbata nel nostro paese ormai da diversi decenni.

Essa rappresenta un’ideologia imperante che si professa incontrovertibile e si presta ad essere l’irrinunciabile vessillo di chi vuole cambiare e progredire, di chi si batte contro la “casta”, di chi vuole superare l’italietta, di chi vuole uscire dal provincialismo ed aprirsi al mondo, di chi è moderno, di chi è onesto, insomma, di chi merita.

Il termine “merito” è diventato la sintesi dei valori positivi che ci mancherebbero e che dovremmo acquisire.

Si moltiplicano studi, ricerche, statistiche, istituti che stilano classifiche, tutti impegnati a valutare se e quanto siamo meritevoli e, nel nostro caso, per farci capire quanto NON lo siamo. Il popolo deve provare vergogna per il fatto di non essere al passo con i tempi, con l’Europa, con gli Usa, persino con la Cina.

È interessante scoprire che il termine “meritocrazia” nasce con una valenza negativa in un’opera distopica di Michael Young. L’autore immagina una società in cui si concretizza l’ascesa al potere di una nuova subdola forma di dittatura: i più intelligenti e capaci si convincono di “meritare” il bastone del comando e si impongono sugli altri con l’aggravante della presunta superiorità morale.

Di fatto la maggior parte dei sostenitori italiani della meritocrazia si pongono l’obbiettivo di combattere le lobby, le raccomandazioni, gli inciuci, gli sprechi nel tentativo di premiare solo chi merita. Chiaramente la battaglia è importante e va portata avanti (trattasi di semplice buon senso), ma, per poterlo fare degnamente, bisognerebbe aver ben presente il quadro della situazione. Al riguardo i meritocrati odierni sono piuttosto deludenti.

Come si definisce il merito? Chi lo valuta? La meritocrazia presuppone un assunto antropologicamente discutibile: chi infatti può affermare di aver meritato di nascere? Affermare il merito come principio determinante in un sistema sociale significa rischiare di trascurare questa fondamentale legge della natura che non permette a tutti di partire alla pari.

Un’altra caratteristica che spesso accompagna la visione meritocratica della società è l’individualismo che, a sua volta, è strettamente legato alla concorrenzialità. Chi merita di più? Anche tale presupposto è discutibile: il merito individuale è in qualche modo legato anche alla collettività; ciò che ognuno fa è direttamente o indirettamente correlato ad aspetti della vita e dell’operato altrui. Attribuire il merito ad un singolo risulta quasi sempre una forzatura.

Ciò che dovrebbe fare la differenza allora non è premiare o meno il merito ma stabilire cosa considerare merito in base ai parametri che si decide di prendere in considerazione. È su questo che bisogna fare chiarezza altrimenti ci si perde in vuoti formalismi. Non si può considerare il merito secondo parametri universali. Farlo significa essere gravemente ingenui o perfidamente in malafede.

Va considerato più meritevole chi studia per un master in economia o chi lavora come barista in un quartiere malfamato? Chi sa rispondere a complicati quesiti matematici o chi sa farsi valere in battaglia? Chi accumula risparmi o chi aiuta i più deboli? Chi sa analizzare e comprendere un testo o chi sa far funzionare e magari riparare attrezzature tecnologiche?

È chiaro che rispondere significa operare delle scelte in base a necessità specifiche ma anche e soprattutto in base a criteri culturali. Nasciamo all’interno di società con codici morali e comportamentali che assimiliamo fin da bambini e che crescendo possiamo riconoscere, accettare, modificare o abbandonare. Questo substrato è attivo quando immaginiamo o parliamo di merito ed esserne consapevoli è fondamentale per non cadere nell’assurdo o nel fanatismo; anche perché spesso le opzioni sono tra loro in conflitto, ed allora, a seconda di quale sia la nostra cultura, il nostro giudizio di fondo, una stessa azione o scelta saranno considerate più o meno meritevoli. Senza valori di riferimento si rischia di ratificare modelli etici che in realtà sono scelte tra le altre, e non necessariamente migliori.

In ambito lavorativo è abbastanza comprensibile che risulti meritevole chi persegue diligentemente gli obbiettivi stabiliti dai propri superiori. È chiaro che in questo senso il rischio di sottomettersi acriticamente al volere dei capi è alto. Chi pone problemi, chi critica è meno meritevole? Un lavoratore che rifiuti di fare “le ore piccole” in ufficio per stare con la propria famiglia o per coltivare un interesse o una passione, o semplicemente perché vuole del tempo per se stesso è meno meritevole? È un merito non esser mai stati licenziati? Ed è un demerito esser stati licenziati per aver affrontato a viso aperto una capo tirannico che faceva pressioni al collega sfigato?

Sempre più spesso è giudicato meritevole un atteggiamento che, nell’immediato, si rivela economicamente vantaggioso. Questo è riscontrabile quando oggi si parla di pubblica amministrazione, di gestione d’impresa e spesso anche in riferimento a carriere e scelte personali. È tutto così semplice? Davvero il denaro è il criterio da anteporre ad ogni altro aspetto della vita umana?

Essendo la meritocrazia un sistema di valutazione tipico delle società liberiste non è un caso che i meritocrati, anche nel criticare corruzione e sprechi, finiscano inevitabilmente con il proporre quello che per loro è l’unico giudice concepibile: il libero mercato. Ma questa filosofia di vita votata all’individualismo, alla competitività, alla precarietà, alla flessibilità e alla legge del denaro senza più confini può davvero portare a una valorizzazione dei meriti? E soprattutto, produrrà una società che sia per tutti migliore rispetto a quella precedente? […]

Il consumatore moderno, purtroppo, non ha valori di riferimento se non la sovrastruttura ideologica che fa propri i valori della libertà dei mercati, della vita sregolata e dell’individualismo illimitato che mira ad una sorta di “selezione naturale”. In questo modo le libertà reali dei soggetti, la capacità d’essere realmente soggetti pensanti ed autonomi diventa, sempre più, un privilegio per pochi. Tenderei, perciò a non fidarmi degli anglosassoni. Non convince la loro concezione di libertà individualistica né lo sbandierato efficientismo del sistema meritocratico.

Meglio i “difetti” italici. Noi abbiamo altri tipi di risorse e molte di queste hanno a che fare con una tessuto sociale fitto, con legami personali e locali di collaborazione e solidarietà. Di esempi positivi e degni di merito ne abbiamo a bizzeffe. Probabilmente cercando su internet o sui giornali “meritocrazia” in Italia troverete ad accompagnarla il verbo “mancare”. Sarà anche vero (e meno male), ma ormai viene facile pensare che a farla da padrone anche in questo caso sia la solita tendenza autolesionista instillata per diffondere delusione, malcontento, vergogna, umiliazione. Tutti stati d’animo che possono essere agevolmente sfruttati per impiantare un modello che, per aver messo alla gogna le alternative, viene fatto passare per il più meritevole.

Pierluigi Bianco 

 
Ciclicitą del clima PDF Stampa E-mail

14 Dicembre 2015

 

Sembrerebbe finita nel migliore dei modi la conferenza "Cop 21" di Parigi sui cambiamenti climatici, con accordi internazionali giuridicamente vincolanti per limitare il presunto innalzamento della temperatura globale a soli 1,5 C nei prossimi anni o decenni, un dato che servirebbe ad evitare la "catastrofe" indotta dal Global Warming Antropico.

Lasciando perdere tutti i ragionamenti già effettuati sull' impatto ecologico della civiltà nata dalle rivoluzioni industriali e dall' assurdità di conciliare sviluppo, crescita e benessere, cosa che per chi segue queste pagine dovrebbe essere scontata, concentriamoci invece su altre riflessioni.

Prima di tutto, si sta facendo un grosso equivoco tra i verbi "inquinare" e "modificare": tra le mille colpe dell' uomo moderno, una delle maggiori è quella di sporcare, imbrattare e ridurre a pattumiera questo meraviglioso Pianeta per mera ingordigia di crescita, sviluppo, consumismo ma, per quanto ci metta del proprio, l' uomo non ha assolutamente la forza, a prescindere da ossidi e anidridi immessi nell' atmosfera, di modificare il clima e la circolazione atmosferica in generale, i quali sono sottoposti sia a varianti terrestri -temperature acque superficiali oceaniche, vortici polari, venti stratosferici, eruzioni- che extraplanetarie, quali ad esempio i cicli undecennali di attività solare: dal 1675 al 1715 durante il "minimo solare di Maunder",ad esempio, si ebbero invernate freddissime, gelide, con fiumi ghiacciati anche in Nord Italia; l' eruzione intensa di diversi vulcani tra l' XI e il XIII secolo, secondo certi studiosi, fu una delle concause del raffreddamento conosciuto come "Piccola Età Glaciale" che si produsse dal XIV secolo sin verso il 1850 circa, con temperature medie inferiori di 1,5 C rispetto ad oggi.

Ulteriori studi su pollini, alghe marine e vegetazione dimostrano che ai tempi di Cicerone ed Augusto il clima mediterraneo ed europeo era ben più caldo di oggi: per alcune forzanti ancora non chiare, si ebbe un raffreddamento nei secoli successivi e poi un nuovo riscaldamento: ai tempi del Barbarossa e dei Comuni erano di più gli inverni miti e secchi, anche in montagna, rispetto a quelli freddi e nevosi.

Si dice che i ghiacci dell'Artico sono ridotti, ma chi lo dice è disonesto a tal punto da non mettere in chiaro che sempre oggi, 2015, l'estensione dei ghiacci dell'Antartide è a livello record: quasi una legge di compensazione.

Eppure non solo nessuno dei cosiddetti "esperti" dell'IPCC -la nota agenzia dell'ONU famosa per truccare i dati climatici a proprio beneficio- prende ad esempio questi casi del passato, ma la stessa opinione pubblica, ormai un tubo digerente cui si può far credere che la luna è fatta di formaggio, prende queste asserzioni acriticamente e le ripete come pappagalli ammaestrati.

La verità è che l' uomo postmoderno non solo ha aumentato la visione antropocentrica del mondo, non solo ha deificato la scienza a entità suprema (eppure dal dubbio nacque la scienza moderna, non dalla convinzione preconcetta dell' "ipse dixit": misteri del mondo postilluminista) fino a farla divenire, in molti casi, "futurologia" (i supposti aumenti di 2,4,6 gradi entro fine secolo sono calcolati, non si sa con che dati, da modelli matematici computerizzati e algoritmi, gli stessi che non pigliano una previsione meteo a 5 giorni..) ma vive egli stesso scollegato dalla natura, dalla biosfera, in ambienti artificiali e considera ormai il clima, gli elementi, la natura, come corpi estranei, fastidiosi, finché arriva il giorno che madre natura presenta un conto salato.

Questo scollegamento totale va di pari passo con la perdita del senso temporale ciclico: racconta R.Bacchelli, nel suo monumentale "Mulino del Po", che ancora nel XIX secolo i contadini del Ferrarese contassero gli anni dalle piene o dalle magre del "grande fiume", vivendo un tempo circolare basato su una natura che muta e si rinnova ma alla fine è sempre la stessa.

Siamo una specie resiliente, che si è sempre adattata ai cambiamenti, ma la perdita del senso del passato, della ciclicità del tempo, del rapporto con la biosfera, con la natura, l'eccessiva dipendenza dalla tecnologia e la fiducia assoluta in una scienza totalitaria e onnipotente, unita ad un modello di sviluppo ormai altro che alla frutta, ma al caffè, ci porteranno sì ad una entropia di origine antropica che ci condurrà alla rovina.

Di questo dovremmo avere paura, non delle normali fasi meteo-climatiche che alternano, da tempi remotissimi, piogge e siccità, caldo e freddo, inverni caldi ad altri miti, a cui l'uomo si è ogni volta adeguato.

Simone Torresani 

 
La Grande Guerra non č mai finita PDF Stampa E-mail

13 Dicembre 2015

 

Il papa parla di guerra mondiale in atto, “a pezzi” secondo la sua espressione linguisticamente non felicissima. Alcuni negano che ci sia una guerra mondiale, essendo normale che esistano conflitti locali in qualche area del mondo. Altri parlano di terza guerra mondiale in corso. Infine i più pedanti precisano che questa sarebbe la quarta, classificando come terza la cosiddetta “guerra fredda”.

Sono tutti discorsi futili.

Si è cominciato a numerare le guerre mondiali quando scoppiò quella del 1939-45. Allora si ritenne di doverla chiamare seconda, non tenendo conto dell’opinione oggi prevalente fra gli storici che la cosiddetta seconda guerra mondiale non fu altro che il prolungamento della prima, in fondo un’unica terribile guerra civile europea, con diramazioni in altri continenti.

Lo stato di guerra è una condizione normale fra le società umane, tanto che i più cinici (o i più realisti?) concepiscono la pace come niente altro che una tregua fra due guerre, una pausa in cui ogni potenza si prepara e si riposiziona per affrontare la guerra successiva nelle condizioni più favorevoli.

Le guerre fra l’impero persiano e l’Ellade furono già intercontinentali, come quelle di Alessandro Magno e di Roma. Le invasioni dei mongoli nel nostro Medioevo furono guerre intercontinentali, investendo Asia orientale, Asia occidentale ed Europa orientale.

La guerra dei 7 anni, alla metà del XVIII secolo, fu un conflitto mondiale perché si combatté in Europa e nelle colonie francesi e inglesi dell’America e dell’Asia, coinvolgendo le tribù locali. Le guerre napoleoniche furono mondiali nello stesso senso.

Lo iato si verificò con la guerra del 1914-18, non per la sua intercontinentalità, che come abbiamo visto non era affatto una novità, ma per il salto qualitativo rispetto a tutti i conflitti precedenti.

Mai prima c’era stata una simile mobilitazione di tutte le risorse dei Paesi in conflitto, economiche, umane, propagandistiche. Mai si era visto un simile macello. Mai ci si era spinti fino a concepire e a usare armi di sterminio di massa come i gas, la chimica al servizio di un modo vile di colpire il nemico, fuori dalla logica dell’eroismo in battaglia che aveva contraddistinto tutte le guerre precedenti.

Fu chiamata giustamente non “prima guerra mondiale” ma la Grande Guerra.

Quel conflitto non è mai finito.

Dopo l’intervallo degli anni ’20, riprese sui vari scacchieri del mondo. Gli anni ’30 videro già almeno tre grandi scontri. In Asia orientale, fra cinesi e giapponesi, una mischia furibonda fra masse enormi. In Africa orientale, per iniziativa italiana. In Spagna, una sanguinosissima guerra civile, dove era regola non fare prigionieri, che si internazionalizzò, con le interferenze di Germania e Italia dalla parte di Franco e con l’afflusso di volontari da diversi Paesi a sostegno del governo repubblicano: un quadro che ricorda quello attuale in Siria, sia per la ferocia della lotta sia per le intromissioni esterne.

Già negli anni Trenta c’era una guerra mondiale, che continuava la Grande Guerra.

Il ’45 ha segnato una nuova tappa di un orrore che non ha soluzione di continuità, con la scoperta dei campi di sterminio e con l’uso della bomba atomica, ancora più vile e più distruttiva dei gas di 30 anni prima.

La guerra mondiale “a pezzi”, direbbe Bergoglio, è ripresa immediatamente. I conflitti coloniali, i più lunghi e sanguinosi dei quali furono quello vietnamita e quello algerino contro i francesi; le guerre fra il neonato Stato di Israele e gli arabi, il massacro fra indù e pachistani, la terribile guerra di Corea, il decennale conflitto vietnamita, nella fase americana che seguì quella francese,  durante il quale sulla penisola indocinese fu sganciato il triplo del tonnellaggio di bombe sganciate in tutto il mondo durante la cosiddetta seconda guerra mondiale, fra cui ordigni al napalm e defolianti che hanno avvelenato vasti territori, dove ancora oggi nascono vite deformi. Il macello quasi decennale fra Iran e Iraq, in quegli anni ’80 che videro anche il lungo conflitto che oppose i jihadisti afghani agli invasori sovietici.

Sono solo alcuni episodi di una guerra che fu fredda solo in Europa.

Il crollo dell’URSS non fu affatto liberatorio, come non lo era stato quello della Germania nazista. Il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale in realtà è stato la continuazione di una guerra ininterrotta. Prima guerra del Golfo, conflitto nell’Africa orientale, ritorno dei massacri in Europa con le guerre che hanno dissolto la Jugoslavia. Nel nuovo millennio, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, tante tappe di una guerra mondiale che invero non ha soluzione di continuità.

Non ci sono prime, seconde, terze e quarte guerre mondiali. C’è un’unica Grande Guerra, quella che è iniziata nell’estate del 1914 e continua tuttora. Una Guerra diversa dalle precedenti perché totalizzante, votata allo sterminio, con l’accumulo di mezzi che per la prima volta nella storia dell’umanità possono annichilire la vita su questo pianeta.

Si tratta di un’unica Grande Guerra, il cui rimbombo ci sovrasta dal 1914.

La Guerra non escatologica ma apocalittica.

Non escatologica perché il termine evoca il conflitto ultimo e decisivo fra il Bene e il Male.

Qui non ci sono un Bene e un Male che si affrontano nel duello finale, come nei filmacci hollywoodiani.

C’è piuttosto una mischia generale fra interessi contrapposti, imperialismi che si contendono mercati, fondamentalismi che alimentano odio etnico e settario, in uno scenario che è apocalittico in quanto prospetta la possibilità della distruzione definitiva.

Anche la pazzia dilagante, le uccisioni senza movente plausibile, il delirio degli allucinati che aumentano in misura esponenziale, l’esplosione demografica, le migrazioni insensate che attraversano i continenti, parlano di un’apocalisse in atto. Un custode del sacro come dovrebbe essere un papa, ne avvertirebbe il passo cadenzato che cresce da quel 1914. La guerra mondiale “a pezzi” è linguaggio da politologi e da strateghi. Ci aspetteremmo parole in cui echeggiassero le antiche profezie, degne dei tempi eccezionali che stiamo vivendo.

 

Luciano Fuschini 

 
Le molte anime dei curdi PDF Stampa E-mail

12 Dicembre 2015

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Persino ai nostri “mass media” più o meno “embedded” non è sfuggita l’importanza della notizia: il governo iracheno ha vivamente protestato per l’invasione effettuata da parte dell’esercito turco di una zona dell’Iraq settentrionale non lontana dalle grande città di Mosul tuttora nelle mani dell’ISIS (o DAESH, come lo chiamano gli Arabi) ed ha chiesto il ritiro immediato delle truppe fedeli al Presidente-mafioso Erdogan (circa 1.200 soldati con 25 carriarmati).

Il governo turco ha risposto che quei militari sono in Iraq per “addestrare” i “Peshmerga” kurdi fedeli al governo regionale kurdo del Nord-Iraq, cioè alla fazione kurda fedele al clan tribale di Masoud Barzani ed al partito PDK di cui Barzani è leader (oltre che Presidente dello stesso governo regionale).

Barzani, i cui stretti rapporti con gli USA, con Israele e con i Turchi sono ben noti da tempo (fin da quando i suoi “Peshmerga” hanno contribuito attivamente allo sfascio dell’Iraq), non ha smentito. Anzi, correndo in soccorso all’amico Erdogan, ha fatto dichiarare ad un suo portavoce che le foto pubblicate dai Russi, in cui si vedono enormi file di autobotti che portano in Turchia il petrolio depredato dallo Stato Islamico in Iraq e Siria, ritrarrebbero in realtà autobotti che portano in Turchia petrolio venduto ai Turchi dallo stesso governo regionale kurdo del Nord-Iraq.

In queste dichiarazioni c’è qualcosa di ironico: in pratica Barzani ammette che il suo Stato semi-indipendente formatosi nel Nord-Iraq (con la copertura degli USA, della Turchia, ed Israele) vende alla Turchia petrolio che apparterrebbe allo Stato iracheno. La conquista da parte dei “Peshmerga” della zona petrolifera di Kirkuk, profittando del caos in cui si trova l’Iraq nella stretta dello Stato Islamico, ha dato ai Kurdi di Barzani un’enorme disponibilità di petrolio. Né si può escludere che il governo regionale chiuda un occhio sul contrabbando di petrolio proveniente dalle zone controllate dall’ISIS, molto richiesto in Turchia per il suo basso prezzo, e poi smerciato a vari Paesi occidentali, al Giappone, e ad Israele.

Queste vicende da un lato confermano l’ignobile strategia dell’imperialismo e del neo-colonialismo, consistente nello sfruttare tutte le divisioni etniche e religiose per creare il caos nelle aree di cui si cerca di impedire uno sviluppo indipendente ed autonomo (come in Iraq, Siria, Libia, Jugoslavia, ed altre aree del Vicino Oriente, Africa ed Europa centro-orientale); dall’altro lato attirano l’attenzione sulle varie anime e fazioni, spesso anche in lotta tra di loro, in cui sono divisi i Kurdi, spesso considerati da molti attivisti occidentali come un mitico e quasi “angelico” tutt’unico.

In realtà nel Kurdistan convivono realtà politiche di orientamento molto diverso. Tra i Kurdi della Turchia una posizione di grande rilievo ha assunto il PKK, partito di ispirazione marxista-leninista fondato da Abdullah Ocalan, duramente represso dal governo turco, e che da oltre 30 anni conduce una lotta armata di liberazione nella Turchia sud-orientale (o Kurdistan del Nord, secondo i Kurdi) ed ha forti agganci nella società civile kurda della Turchia e nei partiti legali che partecipano alle elezioni in Turchia. Il PKK ha le sue basi in alcune zone dell’estremo Nord dell’Iraq (o Kurdistan del Sud nella versione kurda), che vengono regolarmente bombardate dai Turchi nell’ambito della particolare versione turca di “lotta al terrorismo”. I combattenti del PKK, oltre che difendere la popolazione kurda della Turchia dagli attacchi dell’esercito di Erdogan, hanno dato un contributo decisivo anche alla lotta contro l’ISIS (o DAESH) in Iraq, ben più incisivo di quello dato dai “Peshmerga” di Barzani, con cui spesso sono confusi dalla disattenta (o maliziosa?) stampa occidentale. Nello stesso Iraq altri partiti e movimenti kurdi (ad esempio quelli legati al clan dell’ex vicepresidente dell’Iraq Talabani, con centro in Suleymania) contestano il predomino e la politica di Barzani.

Legati al PKK sono anche i combattenti kurdi della Siria settentrionale (o Kurdistan dell’Ovest, secondo i Kurdi) organizzati nelle formazioni femminili JPG e maschili YPG, e nel partito PYD. Questi combattenti da circa 4 anni hanno raggiunto una tregua di fatto con l’esercito siriano, con cui hanno anzi collaborato nella battaglia di Hassaka, durante la quale l’ISIS è stato scacciato lontano da questa importante città della Siria nord-orientale. I rapporti con la Turchia sono pessimi, in quanto i Turchi, dopo che i combattenti kurdi si erano impossessati di gran parte della frontiera tra Siria e Turchia dopo la battaglia di Kobani, hanno minacciato ripetutamente un intervento militare se i Kurdi avessero superato il fiume Eufrate e avessero chiuso gli ultimi 90 Km di frontiera ancora controllati dall’esercito turco e dall’ISIS, congiungendosi con il cantone kurdo isolato di Efrin. Questo tratto di 90 Km di frontiera, controllato a Nord dall’esercito turco e a Sud da DAESH, è quello attraverso cui passa verso Nord la maggior parte del petrolio contrabbandato dallo Stato Islamico e, verso Sud, il flusso di armi e combattenti islamici fanatici e mercenari provenienti da 90 Paesi, che attraversano la Turchia con l’appoggio del governo turco.

Ma ora anche i Kurdi siriani del PYD sono corteggiati dagli USA che se ne vogliono servire come truppe di terra, e domani magari contro il governo di Bashar Al-Assad. Contemporaneamente però anche i Russi, la cui azione in Siria si fa sempre più oculata ed efficace, hanno offerto supporto alle azioni dei Kurdi locali, che si barcamenano.

Come si vede la situazione sul campo è complicata e l’imperialismo non ha rinunciato ai suoi piani di divisione, mentre i suoi infidi alleati (come Turchia ed Arabia Saudita) continuano i loro giochi di ingerenza e sopraffazione, a volte anche autonomamente dalle direttive emanate dal sempre più debole Obama, contestato anche dai “falchi” statunitensi. Gli Europei che contano (Francia, Gran Bretagna, Germania) da parte loro hanno deciso di intervenire, ma senza il consenso del governo siriano, e senza coordinarsi con l’esercito siriano, per cui la loro reale strategia non è affatto chiara e le loro azioni militari alimentano i peggiori sospetti.

L’intervento russo ha cambiato i giochi nel Vicino Oriente, ma la strada verso la piena sovranità di Paesi come l’Iraq e la Siria è ancora lunga e irta di ostacoli.

 

Vincenzo Brandi 

 
Vince Sarkozy PDF Stampa E-mail

11 Dicembre 2015

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Da Rassegna di Arianna del 7-12-2015 (N.d.d.)

 

Il Front National vince il primo turno delle amministrative francesi di domenica scorsa, però non riesce a strappare neppure una regione e deve andare al ballottaggio. Il 28%, a livello nazionale, non è sufficiente per cambiare il quadro politico, o anche soltanto amministrativo, dato l’isolamento del Fronte e l’elevata astensione. Per tale motivo, scatterà la trappola del sistema, perché i socialistoidi e gli scarti della sinistra voteranno in massa per Sarkozy, come accadde più di un decennio fa, nel ballottaggio per la presidenza, con Jaques Chirac contro il “fascista” Le Pen padre. Chirac vinse e J.M. Le Pen restò con un palmo di naso, ben al di sotto del venti per cento dei consensi. Posto che le amministrative non significano, automaticamente, crisi di governo, dimissioni del primo ministro e/o del presidente, quella della (anzi, delle due) Le Pen al primo turno potrà rivelarsi una vittoria inutile, priva di effetti “di sfondamento” anche sul piano amministrativo.

Riassumendo, nonostante gli “allarmi” dei media europei che starnazzano per l’avanzante pericolo rappresentato dal Front National, primo in sei regioni su tredici, esagerando volutamente le dimensioni della sua vittoria di domenica, gli effetti, come si vedrà fra poco nel ballottaggio, saranno modesti sul piano amministrativo e non decisivi su quello politico.

Per quanto scritto finora, mi sento di dire che il pessimo Sarkozy si confermerà vero vincitore in Francia, com’era accaduto nelle recenti dipartimentali, e la cosa non potrà non avere un riflesso sulle presidenziali del 2017. Sarkozy è un euroservo filo-atlantista ormai di lungo corso e ha contributo a ridurre la Francia, prima di Hollande, così com’è ora, cioè in piena crisi, destabilizzata dal terrorismo islamosunnita e attraversata dall’insicurezza, prigioniera dell’Unione europide e dell’euro, troppo vicina, contro i suoi interessi, al blocco militare antirusso Usa-Nato.

Sarkozy ha già furbescamente dichiarato che non vuole la “desistenza” a vantaggio della sinistra, cioè l’alleanza repubblicana in atto dal dopoguerra contro formazioni come il FN, e perciò non ritirerà i suoi candidati dove ancora potrebbero farcela quelli socialisti, come ad esempio in Bretagna o nella parte sud-occidentale della Francia. I socialisti, un po’ allo sbando ma non in crollo totale, vivono contrasti interni perché vogliono ritirare i loro candidati in tre regioni, dove il FN è più forte, per far votare i candidati del cartello elettorale di Sarkozy. In ogni caso, dal quel che mi è parso di capire, quale che sia l’esito dei contrasti interni al PS francese, il voto dei suoi adepti sarà prima di tutto contro la (anzi, le Marine e Marion) Le Pen e il Front National. Tutta acqua al mulino del play-boy prestato alla politica, che ha avvicinato la Francia alla Nato e ha fatto la spalla della Merkel quando è stato presidente. Fra i “precedenti” di Sarkozy, che non lasciano ben sperare, c’è la dissoluzione della Libia grazie ai suoi bombardamenti, poi la complicità nella caduta di Berlusconi e l’avvento di Monti in Italia, e quindi il coinvolgimento in diversi processi per corruzione in Francia.

Se Hollande è praticamente finito – ma il 2017 è ancora lontano – Sarkozy si riaffaccia sornione, in un eterno ritorno delle stesse cose, poiché, con lui di nuovo in sella, il giochetto liberaldemocratico “destra contro sinistra” non cambierà la sostanza delle politiche che hanno portato la Francia in una situazione di crisi, d’insicurezza e smarrimento di un forte ruolo geopolitico. Solo il FN avrebbe potuto opporsi con decisione all’islamizzazione della Francia, alla schiavitù dell’euro, che mina l’economia e il sistema sociale francese, e far riacquistare al paese la dignità di una potenza uscendo dalla Nato e avvicinandosi alla Russia. Sarkozy andrà per la strada opposta, nella stessa direzione dei socialistoidi in calo di consensi di François Hollande.

Con Sarkozy probabile vincitore nei ballottaggi, poi nelle presidenziali del 2017, il cerchio si chiuderà e la speranza della Francia di risollevarsi svanirà forse per sempre.

 

Eugenio Orso 

 
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