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Lo stoicismo contro la decadenza dei costumi PDF Stampa E-mail

30 Novembre 2015

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Da Rassegna di Arianna del 23-11-2015 (N.d.d.)

 

Il pensiero stoico, a partire dalla Grecia, è approdato a Roma, inserendosi perfettamente entro una determinata struttura di valori e di schemi comportamentali, in netta antitesi rispetto ad un’etica della decadenza e della mollezza dei costumi.

Intorno al 300 a.C., in Grecia, in un periodo storico caratterizzato da forti mutamenti socio-politici, destinati a modificare il modo stesso di interpretare l’esistere e porsi rispetto alla vita e all’etica, sorge una dottrina filosofica (ispiratasi, in parte, al socratismo del V secolo, in parte al cinismo e, parzialmente, anche al pensiero di Eraclito), che influenzerà corsi di pensiero successivi. Questa dottrina di pensiero (per la natura stessa dei suoi contenuti), riuscirà a riscuotere un certo consenso nel contesto culturale della Roma repubblicana, coniugandosi adeguatamente con le strutture socio-politiche del tempo e con l’antropologia dell’uomo romano dell’epoca (il cittadino guerriero, spiritualmente forte, virile, determinato e moralmente retto). È la filosofia stoica, fondata da Zenone di Cizio, un pensatore proveniente dall’isola di Cipro, dalle antiche origini Fenice. Quest’uomo, ch’ebbe modo di conoscere la filosofia di Socrate (mediante alcuni autorevoli insegnanti) e di apprendere gli insegnamenti del cinico Cratete, nel IV secolo a.C., fondò la “Stoa”, una scuola di pensiero che prese il nome dalla cosiddetta “Stoá pecìle”, un portico ateniese sotto il quale il nostro era solito intraprendere le sue lezioni. Lo stoicismo, sviluppava il suo discorso filosofico a partire da una concezione tripartita dell’intero impianto filosofico, ovvero come agglomerato di tre ambiti disciplinari differenti: la logica (dottrina volta ad analizzare i legami razionali tra i pensieri e del linguaggio), la fisica (dottrina che analizza la fisicità, appunto, dell’universo) ed, infine, l’etica (l’interrogativo intorno al comportamento umano). Secondo l’impalcatura concettuale del sistema stoico, le prime due discipline sarebbero funzionali alla conoscenza della giusta etica umana, in quanto comportamento umano pratico volto ad indirizzare l’uomo verso il fine ultimo della sua esistenza: la felicità (L’imperturbabilità dello spirito). Il tema della felicità come fine ultimo del vivere umano, è di profonda centralità nel panorama etico-politico del pensiero antico (Socrate, Platone ed Aristotele stessi, ma soprattutto l’epicureismo, pongono la questione della felicità come fine ultimo del comportamento umano).

Nel panorama d’analisi stoico, l’universo (riprendendo molti aspetti del pensiero di Eraclito, in questo senso), è un concatenarsi di leggi, norme e relazioni ed il mezzo necessario al compimento del fine ultimo del vivere umano è, dunque, la conoscenza di tali rapporti (la capacità di saperli dominare, comportandosi  in relazione a tali leggi cosmiche). Lo strumento umano in grado di coglierle, altro non è che la ragione. Perciò, il modello di riferimento del pensatore stoico è il saggio imperturbabile (riprendendo, in tal senso, il pensiero di Socrate) che, annullando la propria interdipendenza rispetto alle proprie passioni (in grado di deviare il proprio corso etico) domina con forza le stesse, e si pone come padrone incontrastato di se stesso e del cosmo intero. Il saggio stoico è l’uomo che riesce ad essere obiettivo dinnanzi le cose, non lasciandosi sottomettere dal potere deviante e degradante del vizio (dei desideri della carne), che conosce la virtù e sa come applicarla. È l’uomo che persegue, contro l’eccesso, l’abuso e l’estremismo, l’equilibrio, il giusto mezzo, la misura e la compostezza. Per questo, il pensiero stoico appare come irresistibile all’uomo romano, in quanto, in qualche modo, si sposa profondamente con una morale di tipo guerriero (fondata sui valori della forza fisica ma anche interiore, dell’equilibrio, della disciplina, dell’auto-disciplina e della virtù e della capacità di dominare le pulsioni di tipo negativo, rimanendo lucidi e razionali sul campo di battaglia).

Il saggio stoico, sapendo dominare le passioni, è, dunque, capace inoltre di superare il dolore e la fatica, ponendosi al di sopra di esso. Inoltre, la società romana repubblicana pre-imperiale, è una società fondata ancora sugli antichi principi del legame tra gli uomini e la terra, del pragmatismo e della concretezza, contro l’orpello, il superfluo, la dismisura. È una cultura che vede nel limite e nell’ordine razionale valori degni d’essere perseguiti e di indirizzare le cose, contro la decadente opposta barbarie del caos e dell’irrazionalità. Questo modo d’intendere le cose, di impostare la vita, secondo alcuni storici, è uno tra i principali punti di forza della società romana, che gli ha permesso di risplendere sul mondo conosciuto fino ad allora ed inoltre di rendersi autorevolmente padrona incontrastata per un certo periodo di tempo. Il declino di Roma, infatti, è incominciato quando sono penetrati nella società e nelle coscienze collettive nuovi valori e nuovi costumi e quando la morale della virtù e della severità austera, ha lasciato lo spazio ad una morale meno rigida. Quando i costumi dell’uomo romano hanno iniziato ad ingentilirsi e a scomporsi entro una logica etica maggiormente lasciva e lussuriosa (indubbiamente, queste non sono le uniche ragioni del crollo dell’Impero romano d’Occidente). Quel che è noto è che il pensiero stoico si inseriva alla perfezione nelle strutture immaginarie del mito del fiero ed audace uomo latino, coraggioso e dinamico, contro la mollezza del costume e l’etica del vizio.

Alex Barone 

 

 
Per il socialismo e contro la sinistra PDF Stampa E-mail

29 Novembre 2015

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Da Appelloalpopolo del 28-11-2015 (N.d.d.)

 

L’analisi di Michéa si incentra sull’obsolescenza e sull’equivocità del termine “sinistra”, ma anche su come essa sia ormai organica al progetto dominante capitalistico. Quest’ultimo – che Marx definiva nel libro III de Il Capitale non come una «cosa», ma come «un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società» che si costituisce «dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa contrapposizione personificati nel capitale» – è antropologicamente strutturato in senso individualista e anti-comunitario, fondandosi infatti, com’è sottolineato in Les mystères de la gauche: de l’idéal des Lumières au triomphe du capitalisme absolu, pubblicato nel 2013, sul paradigma dell’«uomo-mercante», sull’accrescimento smisurato del profitto individuale, anche a discapito dei rapporti affettivi e di sangue, sulla fiducia assoluta verso la Mano Invisibile della provvidenza, cioè del mercato (come scriveva Smith, e in seguito, con la secolarizzazione di quest’etica, la mano del Caso), che avrebbe sistemato tutto, bypassano l’odiato – e noi aggiungiamo, hegeliano – Stato, un mostruoso Leviatano capace di distruggere ogni libertà individuale.

Per Michéa – come per Marx ed Engels – la struttura capitalista è tutto tranne che conservatrice, ed è capace di archiviare ogni sovrastruttura appartenente alle epoche precedenti (la morale, l’etica, lo stato, ecc.), pur di mantenersi e proiettarsi verso il futuro – rivoluzionandosi. Il crollo del comunismo sovietico viene identificato dal filosofo come l’evento che proietta globalmente tale modello di produzione, che diviene Pensiero Unico, un evento che riconosce formalmente ogni libertà di espressione e di ogni «stile di vita» a «tutti», purché non si metta in discussione il suo modello di sviluppo, che si presenta, scrive l’Autore, «come una totalità dialettica di cui tutti i momenti sono inseparabili (siano essi economici, politici e culturali) e invitano, a loro volta, ad una critica radicale». Una struttura che si legittima culturalmente (come rilevavano anche i filosofi della Scuola di Francoforte), e che rifiuta tutto quello che è “altro da sé”, delegittimato come “male assoluto” mentre quello liberalcapitalista diviene il “migliore dei mondi possibili” (nonostante certi autori della sinistra per bene trovino “alcune” contraddizioni: quelle di genere, ad esempio, tanto per cambiare, interpretate naturalmente a senso unico…).

L’autore si rivolge alla galassia socialista, rivendicando lì la propria appartenenza (ma non alla “sinistra”), un socialismo diverso da quello progressista e illuminista sviluppatosi dalla morte di Marx e da quello “reale”, sviluppatosi nell’Est dell’Europa dal 1917 al 1989/1991, un socialismo che senz’altro fa sua l’analisi di Marx (l’analisi non economicista), unito all’eredità di Proudhon, di Sorel e, soprattutto, di George Orwell, chiedendo alla sua area una seria riflessione. Com’è rilevato ne Il vicolo cieco dell’economia (Elèuthera, 2004), viene contestato l’utilitarismo e l’economicismo presente nell’apparato ideologico dominante trasversalmente i due schieramenti, animatori di un sistema che offre ogni giorno al cittadino “due narrazioni”, una col capitale che ci offre nuovi progressi e nuove potenzialità, promettendoci l’avvento di un mondo in cui l’umanità realizzerà tutti i suoi sogni secolari, l’altra, appena si arriva alle “cose concrete”, che cambia il discorso, ricordandoci che nell’era socialdemocratica si è vissuti al di sopra dei nostri mezzi, che occorre rinunciare a diritti sociali che si erano creduti acquisiti, come un lavoro stabile, una pensione dignitosa, cure mediche e istruzione universali gratuiti, che oramai diventano sempre più privilegi in contrasto con le leggi dell’economia.

Secondo l’Autore: «suppongo non sia necessario avere un carattere particolarmente ombroso o incontentabile per arrivare alla conclusione che un sistema sociale che ha bisogno di favole di questo genere per legittimare le proprie modalità di funzionamento reali sia ingiusto e inefficace nel principio stesso, e proprio per questo imponga una critica radicale». Il capitalismo, quindi, è contestato alla sua stessa radice: l’individualismo anticomunitario. Per l’Autore infatti «la peggiore delle illusioni in cui oggi può cullarsi un militante di sinistra è quindi quella di continuare a credere che quel sistema capitalista che egli afferma di combattere costituisca in sé un ordine conservatore, autoritario e patriarcale, i cui pilastri fondamentali sarebbero la Chiesa, l’Esercito e la Famiglia. Se si confronta questa prospettiva delirante con ciò che abbiamo realmente sotto gli occhi, ci si rende conto che poggia su una confusione micidiale fra le differenti figure proprie allo spirito borghese (…) e allo spirito del capitalismo».

Concetti che, per chi ha letto Preve, non sono di per sé così nuovi, ma che risuonano come una bestemmia urlata all’interno della cattedrale del politicamente corretto. Ma «come può essere […] che un movimento storico di tale portata non sia mai riuscito a rompere nella pratica l’organizzazione capitalistica dell’esistenza?». “La sinistra” è ormai divenuta per Michéa un significante-padrone fatto prostituire già da molti anni, un’area che ormai ha dismesso la parola “socialismo”, che in origine indicava il mutuo soccorso operaio promosso da Pierre Leroux, divenendo negli anni ’80 sinonimo delle pagliacciate à la Jack Lang. Per l’Autore l’origine della crisi di tale area è da situarsi nel ‘900: all’inizio, in seguito all’affaire Dreyfus, era naturale il compromesso storico (è così definito dall’Autore) tra movimento operaio socialista e sinistra liberale e repubblicana, cioè «il “partito del movimento”, dove il partito radicale e la massoneria volteriana dell’epoca marciavano fianco al fianco», contro i fautori dell’Ancien Régime, nobiltà e clero.

Ma per l’Autore – sotto questo profilo in netta sintonia con Preve – tale fronte reazionario è stato definitivamente sconfitto dal Maggio del ’68, mentre l’odierna destra di oggi è anch’essa erede di quella stagione, dato che fa sue le istanze individualiste del liberalismo economico di Friedrich Hayek e Milton Friedman. Per l’Autore, quindi, che attacca Hollande alla pari dei conservatori gollisti dell’Ump, la sinistra si è adeguata a questo “partito del movimento”, cioè alla “sinistra liberale”:

«Privato del suo nemico storico e dei suoi bersagli specifici (come la famiglia patriarcale o “l’alleanza tra il trono e l’altare”), il “partito del movimento” è stato immediatamente costretto, per mantenere la sua identità originaria, a perseguire a tempo indeterminato la sua opera di “modernizzazione” del mondo (che è il motivo per cui, oggi, “essere di sinistra” non significa altro che essere in testa a tutti i movimenti che lavorano per la costruzione della società capitalistica moderna, che vadano incontro o meno agli interessi del popolo, o finanche al semplice buon senso). Anche se i primi socialisti condividevano con i liberali e i repubblicani il rifiuto di tutte le istituzioni oppressive e portatrici di ineguaglianza dell’Ancien Régime, non avevano alcuna intenzione di abolire tutte le forme di solidarietà popolare tradizionale, neppure quindi di attaccare le fondamenta del “legame sociale” (perché questo è ciò che inevitabilmente accade quando si afferma di voler fondare una “società” moderna – ignorando tutti i dati dell’antropologia e della psicologia – esclusivamente sulla base di un accordo privato tra individui considerati come “indipendenti per natura”). La critica socialista degli effetti atomizzanti e distruttivi sull’umanità del credo liberale, secondo il quale il mercato e il diritto astratto sarebbero stati sufficienti a formare, secondo le parole di Jean-Baptiste Say, un “collante sociale” (Engels scrisse nel 1843 che l’ultima conseguenza di questa logica sarebbe stata un giorno la “dissoluzione della famiglia”), divenne quindi chiaramente incompatibile con il culto del “movimento” come fine in sé, di cui Eduard Bernstein aveva formulato il principio sin dalla fine del XIX secolo, proclamando che “il fine è nulla” e “il movimento è tutto”. Per liquidare quest’alleanza ormai priva di senso tra i sostenitori del socialismo e recuperare la sua indipendenza originaria, la “nuova” sinistra non dovette fare altro che imporre mediaticamente l’idea che qualsiasi critica dell’economia di mercato o dell’ideologia dei diritti umani (il “pomposo catalogo dei diritti dell’uomo” a cui Marx contrapponeva, ne Il Capitale, l’idea di un modesta “Magna Carta” capace di proteggere realmente le sole libertà individuali e collettive fondamentali) porterebbe ineluttabilmente al “gulag” e al “totalitarismo”. La missione è stata portata a termine alla fine degli anni ’70 da quella “nouvelle philosophie” che oggi è diventata la teologia ufficiale della società dello spettacolo. In queste circostanze, io continuo a pensare che oggi è diventato politicamente inefficace, se non pericoloso, continuare a promuovere un programma di ritiro graduale del capitalismo sotto le insegne esclusive di un movimento ideologico la cui missione emancipatrice è finita, in sostanza, quando la destra monarchica, reazionaria e clericale è definitivamente scomparsa dal panorama politico. Il socialismo è per definizione incompatibile con lo sfruttamento capitalistico. La sinistra, purtroppo, no. E se tanti lavoratori – autonomi o dipendenti – ormai votano a destra, o non votano per nulla, è spesso perché hanno percepito intuitivamente questa triste verità».

L’autore è colpito da questa graduale mutazione genetica – parallela a quella della sinistra italiana – che porta il PS ad essere accostato con l’UMP nel considerare l’economia capitalista come l’orizzonte ultimo del nostro tempo, con Christine Lagarde nominata direttrice del FMI per perseguire la stessa politica di Strauss-Khan, a sua volta finanziatore, attraverso lo stesso organismo, della fondazione Terra Nova, che ha introdotto le primarie – un sistema americanizzato quindi – nel partito progressista “di maggioranza”.

Oggi, prosegue l’Autore, «stiamo assistendo ad una surreale e feroce lotta tra coloro la cui unica missione è difendere tutte le implicazioni antropologiche e culturali di questo sistema e coloro che devono far finta di combatterlo», con una sinistra che da una parte cancella i diritti dei lavoratori, e dall’altra si fa dettare la propria linea da «un ex groupie di Bernard Tapie e di Edouard Balladur come Christiane Taubira», quella del matrimonio gay, una “stilettata” anche contro chi mette in croce Alexis Tsipras per non aver nominato ministri di sesso femminile, incappando nell’accusa di “sessismo” e “paternalismo”, facendo dimenticare – nonostante le contraddizioni di Syriza – che in Grecia non si muore di sessismo, ma di precarietà, disoccupazione e crisi economica, e che vi sono altre priorità alla lotta di genere, e cioè portare la pagnotta sulla tavola ponendo fine all’attacco della troika.

Una riflessione che ci porta a convergere col pensiero autenticamente socialista di Michéa, che contesta al movimento noglobal non le sue giuste critiche al neoliberismo, ma la base liberale di questi movimenti, che fanno l’elogio dell’individuo isolato che manifesta per il diritto di restare un individuo isolato, la “moltitudine” di Toni Negri che “contesta” l’anonimo Impero.

 

Matteo Luca Andriola 

 

 

 

 

 

 

 

  

 
Free hugs PDF Stampa E-mail

28 Novembre 2015

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 27-11-2015 (N.d.d.)

 

Mentre settimanalmente accadono stragi ovunque, mentre noi piangiamo i morti ma non tutti – pare che le vittime francesi avessero molta più vita alle spalle di quelle siriane o russe – e mentre i nostri politici continuano scientemente a perseguire una politica estera terroristica, prendono via via piede i “Free Hugs”.

Tale “manifestazione d’affetto”, proveniente dall’Australia e insediatasi anche in Italia negli ultimi anni, prevede che dei perfetti ignoti, appostati in una qualsiasi piazza di città o di provincia, invitino altri emeriti sconosciuti a scambiare un abbraccio. Qualora la cosa venga gradita oltre misura, i nuovi avventori potranno sempre emulare il gesto con gli altri passanti sulla via di Damasco.

Lo scopo – come spiega Annalisa Zupo, l’organizzatrice del “gruppo” – consiste nel «cambiare le frequenze del Pianeta». Niente di meno. E, siccome tra le persone esistono fin troppa paura, diffidenza e rabbia, cosa può esserci di meglio dello stringere a sé il primo che passa, cercando nel frattempo anche di volergli bene almeno per un minuto?

Si sa, però, che le persone sono bizzarre e talvolta risultano anche sfacciatamente timide: non sono infatti rare quelle che, una volta avvistati gli “abbracciatori seriali” e compresi i loro audaci propositi, sgusciano via con un certo sgomento negli occhi e con un passo, per quanto smarrito, tuttavia spedito. Tra gli ammutinati, i primi in classifica sono i peggiori, vale a dire i fisiologicamente asociali: quelli che detestano il bacio sulla guancia con il conoscente di turno e persino con l’amico caro; quelli che sui mezzi pubblici provano un immediato fastidio fisico nonché un’urgenza di distacco, qualora il vicino casualmente sfiori loro la mano; quelli che, se proprio ci si deve confrontare, lo si faccia per lo meno a debita distanza, mantenendo lo spazio vitale; quelli infine che, dopo anni e anni trascorsi nello stesso quartiere, ancora non conoscono vita, morte e miracoli del fruttivendolo sotto casa e sono ben lieti che anche i casi loro non vengano dispersi nell’ambiente. Ecco, questa categoria di ineffabili, quando incontra uno dei nostri “distributori di abbracci”, prima sgrana gli occhi come se si trovasse di fronte a un malaugurato miraggio e immediatamente dopo fa una smorfia di orrore e persino di dolore: anch’essi, in fin dei conti, provano delle emozioni, solo che spesso non sono granché positive.

Per fortuna, la gente non è sempre così scontrosa; anzi, a detta della stessa Zufo, sono sempre più numerose le persone che accolgono di buon grado i “Free Hugs”. Tra queste, risalta chi, dopo avere prontamente dribblato l’abbraccio, si ritrova faccia a faccia con un certo angosciante dubbio; bastano però pochi istanti soltanto per sciogliere l’enigma e su quel volto, fulgida, si riaccende la speranza: eccolo, infatti, tornare indietro e scusarsi con gli “omini degli abbracci” per non avere capito al volo di cosa si trattasse. Il finale è scontato, ma lieto.

I più ammirevoli restano coloro che, intercettati dallo sguardo del promotore – il primo approccio punta tutto sul contatto visivo – senza essere sfiorati lontanamente da una perplessità, già sgambettano festosi verso l’abbracciatore, ricambiandone la stretta come se si trovassero tra le braccia della mamma – quella, nel frattempo magari reclusa all’ospizio, solo perché «lì ha tante comodità» – ed è un vero peccato che non solo non si tratti evidentemente della loro creatrice, ma anche che non sappiano proprio chi sia quel tale. Questi, però, sono solo dettagli inutili all’economia del Pianeta e alle sue frequenze energetiche.

Sarebbe interessante domandarsi chi si cela dietro questi improvvisati “abbracciatori seriali” – promotori o utenti che siano – se già non si conoscesse a menadito i loro profili schizofrenici. Sono, infatti, quelli che tifano comunque l’imperialismo buono e giusto della democrazia, sia esso ambientato in Madagascar o in Svezia: tutto il mondo è paese e, se non lo è, lo diventerà.

Sono quelli che, se nel giro di pochi minuti una redazione francese viene messa a ferro e fuoco da terroristi, diventano per settimane degli incalliti “Charlie Hebdo” – pur non avendo mai letto una copia dell’omonima rivista –  mentre se l’intera Siria viene maciullata per anni dagli stessi terroristi, il presidente Assad va in ogni caso buttato giù, perché si è scoperto all’improvviso, cioè  dopo vent’anni, che si tratta di un feroce dittatore, e pazienza se anche lui e il suo popolo provano la ferocia sanguinaria dell’ISIS. 

Ancora, sono quelli che in un passato non troppo remoto hanno applaudito e invidiato la Grecia per avere tentato, tramite un referendum popolare, di dire no all’usura europea, ma non hanno poi retto e accettato la vista della Russia, perfettamente contraria ai diktat politici dell’U.E.

Sono quelli che non sopportano il crocifisso appeso al muro delle scuole, i presepi e in genere ogni manifestazione di religiosità, ma poi sono pronti ad accogliere a man bassa quei popoli sì disperati, ma ancora vitali di fede e ossequiosi del rito.

Sono quelli che, senza remora alcuna e senza accettare alcun contraddittorio, pretendono i matrimoni gay, le adozioni per le coppie omosessuali, la “teoria gender”, gli uteri in affitto, la pornografia come atto liberatorio dalla cupa borghesia – esiste ancora? – e la sessualità adulta nei bambini, ma che allo stesso tempo si schierano per il sacrosanto diritto di parola e sempre, sempre in favore delle differenze.

Sono infine quelli che si commuovono, odiano e credono per automatismo, sia che questo si presenti sotto forma di un bambino trovato morto su una spiaggia, di un selfie di gruppo in Turchia poco prima dell’attentato o di un venerdì sera stroncato a Parigi; ma si tratta solo e soltanto di un riflesso condizionato: nessun amore in particolare, e dunque nessun vero tormento, abita i loro petti.

Sono anonimi, sparpagliati e tragicamente seriali, i nostri benintenzionati degli “Abbracci Gratis”, e sono proprio come li vuole il terrore, questo terrore che ovunque tra le strade e le piazze può fare incetta di adepti.

Esclusivamente per questa volta, è un peccato non vivere in Cina: i “Free Hugs”, laggiù, per legge non sono tollerati, pena il fermo immediato.

 

Fiorenza Licitra 

 
Le contraddizioni della Turchia PDF Stampa E-mail

27 Novembre 2015

 

Permane altissima la tensione tra Russia e Turchia dopo l'abbattimento del "Sukhoi-Su 24" da parte di un "F16" dell'aviazione militare turca.

Al momento, per fortuna, le conseguenze sono solo sul piano diplomatico-economico e si spera che in questo terreno rimangano, senza giungere ad una escalation che avrebbe conseguenze tragiche e incontrollabili.

Al di là del fatto se il velivolo russo abbia sconfinato o meno nei cieli turchi, la reazione di Ankara è stata del tutto ingiustificabile, deplorevole e sproporzionata alla gravità dell'accaduto, a prescindere dai diritti di sovranità territoriale: non si abbatte un aereo di un Paese col quale si hanno (meglio, si avevano) rapporti di buon vicinato ed impegnato nella comune causa internazionale di contenimento e repressione dello "Stato Islamico".

Il gesto inconsulto di Ankara va visto nel quadro del labirinto di contraddizioni in cui è immersa la geostrategia turca.

L'aviazione turca, checché se ne dica, è impegnata non tanto a bombardare le postazioni dell’ ISIS quanto a colpire le basi ed i santuari del PKK curdo in Iraq e nel sud-est della Turchia stessa, pericolosamente a contatto con la frontiera siriana.

Il vero nemico di Erdogan non è un terrorismo islamico che non ha nessuna "chance" di conquistare neppure un solo centimetro di territorio turco, ma sono le velleità indipendentiste dei curdi, mai sopite e che specialmente adesso, nel grande gioco della politica internazionale, sono in netta ascesa: è la fanteria curda dei "peshmerga" che affronta faccia a faccia i militi del Califfato, che contende palmo a palmo città, villaggi, vallate, passi di montagna. Sono i peshmerga a riprendere e a liberare le località sotto la bandiera del Califfo, non i poco convincenti raids di supporto dei francesi, degli americani, degli inglesi, dei turchi e di quant' altri, russi a parte -i quali stanno dimostrando di essere i soli, della fantomatica "coalizione", ad agire sul serio.

E alla fine della storia non è detto che i confini mediorientali debbano rimanere in una situazione di status quo ante bellum, considerato che l'Iraq è uno Stato ormai polverizzato, balcanizzato e praticamente fallito; la Siria medesima potrebbe uscirne o menomata o come una federazione/confederazione, a seconda degli avvenimenti.

Chiaro che in questo gioco complicato i curdi cercheranno di inserirsi il più possibile, facendo valere i loro diritti, ritagliandosi magari un embrione di Stato tra Siria e Iraq o comunque ottenendo amplissime autonomie locali.

Un futuro ed ipotetico Stato curdo, seppur piccolo di territorio, sarebbe un pericolo assai serio per l'unità territoriale della Turchia stessa: potrebbero esserci escalation terroristiche, disordini, pressioni insostenibili per il governo di Ankara, che dovrebbe affrontare una grossa gatta da pelare.

Anziché reprimere manu militari i curdi in decenni di guerriglia sterile (come sterili sono, del resto, tutte le guerriglie per chi le affronta con eserciti convenzionali), i governi turchi avrebbero dovuto ad un certo punto prendere in considerazione serie opzioni di autonomia, pur salvaguardando -sia chiaro -l'unità territoriale e nazionale.

Erdogan rischia di cacciarsi in un vicolo cieco: la NATO lo appoggia, certo, ma allo stesso tempo stempera le tensioni parlando di "de-escalation","inchieste","dialogo", ossia fa una politica cerchiobottista perché tanto folle da attaccare direttamente la Russia al momento ancora non lo è; seppur nel torpore letargico una buona  fetta dell'opinione occidentale ora parla apertamente di "doppiogiochismo turco"(e questo lo ha scritto pure un giornale conformista come "Repubblica") e di fiacco se non nullo impegno a contrastare l'ISIS; Bashar Assad, il secondo dei nemici di Erdogan, è ben lungi dall' essere scalzato dal potere, anzi alcune voci in Occidente parlano apertamente di "tenerlo ancora in sella"; la rottura dei rapporti con la Russia significa, per Ankara, una mazzata alla sua economia che da veloce locomotiva sta diventando un triciclo da bambino dell'asilo ed infine i curdi si stanno ritagliando ampie simpatie nel mondo, utili alla loro causa.

Un fallimento su tutta la linea, un disastro che il "sultano" copre ormai solo con una involuzione dispotica interna, censure, chiusure di radio, blog, giornali, processi, arresti e uso massiccio della polizia (questi comunque sono problemi dei turchi e loro dovranno, se vorranno, sbrigarseli) ed una politica internazionale basata su gesti folli, come l'ultimo, in nome di una esibizione muscolare che ha solo complicato ancor di più il ginepraio del Medio Oriente.

E che, alla fine, sta facendo il gioco del Califfato, il quale ha sì molti nemici, ma paralizzati e scoordinati dalle divisioni, dai diversi obiettivi, fanno solo molto fumo e poco arresto...nel frattempo, il mondo diventa un luogo sempre meno sicuro.

 

Simone Torresani 

 
"Eccezionalismo" americano PDF Stampa E-mail

26 Novembre 2015

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Da Rassegna di Arianna del 23-11-2015 (N.d.d.)

 

Al mercato elettorale si chiede a gran voce che i musulmani si dissocino da quanto accaduto a Parigi venerdì 13 novembre. E se lo fanno non è mai abbastanza. Non si tratta di una richiesta sincera ma di una psicosi collettiva di chi vuole rivendicare la propria identità soltanto quando essa è (o sembra) minacciata. Allora capisci il sistema dell’informazione occidentale quando vedi con che facilità il circo politico-mediatico associ Islam, Corano e Terrorismo e come dalla caduta del muro di Berlino ad oggi nessuno abbia mai contestato il fatto che gli Stati Uniti d’America possiedano, fin dalla loro nascita, la convinzione di essere stati scelti da Dio (quale? Il nostro?) per redimere l’umanità. Dopo l’11 settembre George W. Bush si rivolse all’Altissimo per chiedere la benedizione della sua crociata in Medio Oriente contro “l’asse del Male”. Così in quegli anni tornava di moda l’eccezionalismo americano, vale a dire un nazionalismo religioso ed ecumenico dettato da una teologia imperiale che dal 2001 non ha fatto altro che seminare odio, morte e distruzione. Gli attentati di Parigi rivendicati dallo Stato Islamico – un’organizzazione semigovernativa nata sulle macerie della guerra irachena – così come gli attacchi precedenti nel cuore del continente europeo, non sono altro che una conseguenza di questa tragica parabola tutta occidentale.

Per capire il doppio standard dei commentatori politici basta leggere “Democrazia di Dio. La religione americana nell’era Impero e del Terrore” (Editori Laterza, pag. 228) di Emilio Gentile, un libro straordinario scritto da un allievo di Renzo De Felice, il quale vinse un premio internazionale per i suoi studi su religione e politica nei totalitarismi: Fascismo, Comunismo, Nazionalsocialismo e Democrazia Americana. Che quest’ultima si trovi al fianco delle grandi ideologie novecentesche dovrebbe, di per sé, far pensare. La fede democratica infatti ha avuto origine dalla tradizione religiosa dei coloni americani e la religione è sempre stata, come osservava già Alexis Tocqueville nel 1830, la principale istituzione politica degli Stati Uniti. Questi sono sempre stati – come lo sono tuttora – una delle nazioni più religiose dell’Occidente. La Costituzione afferma il principio della separazione fra lo Stato e la Chiesa, eppure nel corso della sua storia, la politica non è mai stata separata dalla religione. Il groviglio politico-religioso si percepisce nella celebrazione corale “God Bless America” cantato dai credenti delle varie chiese e confessioni che compongono il mosaico religioso statunitense, così come negli inni patriottici che si intrecciano con quelli religiosi nei luoghi di culto laici decorati dalla bandiera a stelle e strisce. L’America, osservò nel 1922 lo scrittore cattolico inglese Gilbert K. Chesterton, “è una nazione con l’anima di una Chiesa” perché “è l’unica nel mondo fondata su un credo, esposto con dogmatica, teologica lucidità nella Dichiarazione d’indipendenza”.

E se la religiosità in America è inizialmente di matrice protestante, poi negli anni 30 del Novecento si ebraicizza, negli ultimi decenni invece ha acquisito una dimensione spirituale autonoma: la sacralizzazione della democrazia patriottica. Un’ideologia, al pari di quelle novecentesche, che in nome di Dio è stata esportata con la violenza prima in Afghanistan, Iraq e Libia, oggi in Siria e domani probabilmente in Iran. In questi 14 anni nessuno ha mai chiesto a noi europei, subalterni all’americanismo, di dissociarsi da questa spiritualità mortifera. Esportare la democrazia di Dio: not in my name.

 

Sebastiano Caputo 

 
Stragi occasionali PDF Stampa E-mail

25 Novembre 2015

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 24-11-2015 (N.d.d.)

 

Terrorismo q.b.  Terrorismo “quanto basta”. Sarà di certo un caso, ovvero una provvidenziale combinazione di circostanze, ma le stragi in grande stile compiute dagli estremisti islamici in Occidente rimangono episodiche. Sull’arco di quattordici anni, quanti ne sono trascorsi dal doppio attentato alle Torri gemelle di New York, se ne contano soltanto quattro all’interno della UE (a Madrid l’11 marzo 2004, a Londra il 7 luglio 2005 e le due di Parigi dell’anno in corso, prima a gennaio con l’assalto del 7 gennaio alla sede del settimanale Charlie Hebdo e poi con gli eccidi del 13 novembre), mentre non ne è avvenuta neanche una negli USA.

Decisamente troppo poche, per una strategia prettamente terroristica. La cui finalità dovrebbe essere, appunto, quella di determinare nelle popolazioni colpite uno stato psicologico di continuo allarme e di crescente prostrazione. Di paura per sé stessi e per i propri cari. Di sfiducia nelle pubbliche istituzioni. Di disponibilità ad accettare di ritirarsi definitivamente nel proprio guscio, pur di essere lasciati in pace.

La realtà, al contrario, ci dice che questi eccidi sono serviti allo scopo opposto. Passato il momento iniziale dello sbigottimento, che dipende innanzitutto dall’aver rimosso l’idea di conflitti cruenti e vissuti in prima persona, la generalità dei cittadini non solo non ha preso le distanze dai governanti, e men che meno dalle logiche del massimo profitto e del consumismo forsennato, ma si è rinsaldata nella convinzione di essere nel giusto. E, perciò, di ritrovarsi assalita senza alcuna ragione e senza alcuna colpa, a opera di fanatici pervasi da un odio incomprensibile e da una follia pseudo religiosa.

Dal punto di vista dell’establishment non si potrebbe chiedere di meglio. Nel perdurare di una crisi economica di eccezionale gravità, che ha spazzato via le precedenti aspettative in un futuro sempre più ricco e sicuro, l’antidoto allo sgretolamento sociale diventa quello di una rinnovata coesione. Imperniata su basi diverse. Su necessità diverse. Meno gratificanti per un verso, più pressanti per l’altro. Ed ecco allora che una minaccia esterna può fungere da collante per ricompattare quella legittimazione interna che correva il rischio di andare in frantumi, a causa dei contraccolpi intrecciati della speculazione finanziaria e della corruzione politica.

La chiave di volta, per le oligarchie che ci dominano, è evitare che nei popoli emerga un’esigenza insopprimibile di verità. Il bisogno di fare piena luce sui valori effettivi delle sedicenti liberaldemocrazie occidentali, sui loro obiettivi dentro e fuori dai propri confini, sui metodi con cui li si persegue. La messinscena deve srotolarsi imperterrita, intorno al mito di una società che per quanto perfettibile è comunque superiore a ogni altra. E che, quindi, resta sia per l’oggi che per il domani la migliore, la più promettente, la più desiderabile.

Dietro le evidenze, e la retorica, della tragedia collettiva, il terrorismo si riduce a un fastidiosissimo contrattempo, che mette a repentaglio le nostre pacifiche abitudini di rotelline produttive e di amanti dello svago. Gli estremisti islamici come una sorta di disturbatori, all’ennesima potenza, della quiete pubblica. La guerra all’ISIS come una soluzione auspicata solo a patto che si vinca in fretta e lasciando l’incombenza ai militari di professione, nel presupposto che pure loro se la possano cavare senza troppi danni, a colpi di raid aerei e di droni.

Siamo malati di comfort. Malati e assuefatti. E non vediamo l’ora di spargere ovunque la nostra stessa malattia, affratellandoci con tutti gli altri “cittadini del mondo” nelle corsie accoglienti – o almeno riparate – di un sempre più vasto Global Park Hospital.

Federico Zamboni 

 
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