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Verso un'altra guerra mondiale PDF Stampa E-mail

14 Novembre 2015

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Da Comedonchisciotte dell’11-11-2015 (N.d.d.)

 

Come già sapete, “Russia accusata di doping di Stato. La Wada, l’Agenzia mondiale antidoping, accusa la Russia e chiede la revoca di tutte le medaglie vinte all’Olimpiade di Londra 2012 e la sospensione dell’atletica dai prossimi Giochi di Rio “.

Provo a fare un elenco delle altre provocazioni occidentali contro la Russia, specie sul pericoloso teatro siriano:

il numero dei missili anticarro TOW in mano ai jihadisti, che con questi distruggono i cingolati siriani, “è aumentato in modo esponenziale”.

Il Pentagono ha dispiegato in Turchia sei caccia F-15 C, aerei il cui unico scopo è ingaggiare combattimenti con altri aerei. “Non servono certo per combattere l’ISIS”, hanno notato i comandi russi (che hanno mandato in Siria altri sistemi anti-aerei). “Non intendiamo fare della Siria un campo di guerra per procura fra Russia e Usa”, aveva detto Obama pochi giorni fa. È esattamente quel che sta facendo.

Gli Usa hanno fatto penetrare in Siria 50 uomini delle loro truppe speciali, ovviamente senza chiedere permesso al governo siriano, con lo scopo (dichiarato) di affiancare, addestrare e comandare i “ribelli moderati”. Identificati questa volta in una formazione che hanno chiamato “Sirian Democratic Forces”. Ma secondo Ben Hubbard, inviato del New York Times, che ha passato una settimana con loro, queste forze democratiche “esistono finora solo di nome”, trattandosi di spezzoni di miliziani kurdi e di reduci arabi già di Al Nusra (Al-Qaeda) senza un comando unificato (le due etnie si odiano). David Ignatius, la grande firma Washington Post, ha fatto notare che se 50 teste di cuoio sembran poche, avranno bisogno di supporto aereo Usa anche per rifornirle, per evacuarle in caso di guai, per tutto: insomma per provocare uno scontro aereo possibile coi russi.

Sulla tragedia del volo carico di turisti russi abbattuto sul Sinai, Usa e Regno Unito hanno dato per prime la notizia che si è trattato di un attentato e non di un incidente. Non hanno condiviso con Mosca quel che sapevano. Risulta ora che sono stati i servizi israeliani a captare conversazioni (i terroristi parlavano con accento britannico…) degli attentatori (prima o dopo l’attentato non si sa) e l’hanno detto agli americani. La tragedia ha suscitato ostentate manifestazioni di piacere ufficioso a Washington e Londra, per non parlare di Parigi e di Charlie Hebdo.

L‘ex vicedirettore della Cia Michael Morell ha spiegato perché: “Rafforza la percezione che l’ISIS sta vincendo, che è la chiave della forza di questo gruppo ad attrarre reclute”.

Il colpo finale all’economia dell’Egitto (il cui 11,3% del Pil è portato dal turismo, 8-9 miliardi) è amplificato enormemente dopo che Regno Unito, Francia, Germania, Olanda e Lettonia e Lituania hanno vietato tutti i voli delle loro linee aeree sul Sinai – costringendo Mosca a far lo stesso. È una punizione per il regime del Cairo che si avvicinava troppo alla Russia. È un disastro economico per le agenzie turistiche russe (avevano là 80 mila persone da riportare a casa) e malumore popolare per tutti quelli – molti di più – che avevano prenotato vacanze a Sharm e non ci possono andare.

Un veicolo subacqueo radiocomandato e carico di esplosivo è stato casualmente scoperto, da operatori svedesi, nelle immediate vicinanze del North Stream, il gasdotto che porta il gas russo alla Germania, costruito da Gazprom. È un avvertimento a Berlino, oltre che a Mosca.

Usa annuncia: venderà l’8 per cento delle sue riserve strategiche di petrolio. In questo momento di prezzi bassissimi, la cosa non ha senso economico. Ma ha senso politico: si tratta di far calare il barile ancor di più, per togliere alla Russia i mezzi per la sua presenza militare in Siria, mentre si cerca di impantanarla in un nuovo Afghanistan. L’evidente tensione del Medio Oriente rischiava probabilmente di provocare un rialzo- occorreva intervenire a manipolare i prezzi al ribasso. Infatti è bastata la notizia per far calare il petrolio di un 1,8%.

La guerriglia yemenita anti-saudita ha catturato in Yemen due operatori con passaporto americano che lavoravano per i sauditi – e che pare abbiano a che fare con l’abbattimento dell’aereo russo. I due sono contractor (della ex Blackwater); hanno detto di lavorare per l’ONU – l’Onu li ha smentiti.

La morte di Michail Lesin a Washington. Lesin, intimo amico di Putin, era il creatore del nuovo sistema d’informazione internazionale di Mosca, che fa concorrenza alla CNN e all’insieme del sistema di informazione-propaganda Usa e occidentale, con gran dispetto della cosca mediatica occidentale. Morto “per attacco cardiaco”. Mentre era in un hotel di lusso e, formalmente, sotto la protezione del BDS (Bureau of Diplomatic Security) Usa, ossia la scorta fornita dall’America ai diplomatici esteri. Secondo voci che non siamo in grado di confermare, era stato Putin a mandare Lesin a Washington, come suo personale inviato, per trattare con Washington – con la dovuta riservatezza- gli scottanti retroscena dell’abbattimento sul Sinai dell’aereo russo, ossia le implicazioni occidentali. La misteriosa morte di Lesin, amico personale di Putin, è la risposta.

“La Russia mette in pericolo l’ordine mondiale”: così Ashton Carter, il ministro del Pentagono. “La Russia è pericolosa per la sicurezza nazionale”: rapporto dei servizi inglesi reso noto in questi giorni.

Gli Usa lanciano un missile Trident da un sottomarino nucleare davanti alle coste di Los Angeles: è un missile balistico intercontinentale a testata atomica plurima di quelli che sarebbero lanciati nella guerra globale. “È probabilmente la più grande minaccia militare per Russia e Cina”, il segnale che l’America “è ancora il più grosso bullo del quartiere e può ridurre in cenere radioattiva i suoi nemici in un istante”, ha scritto un sito geopolitico.

Interrompo la lista perché a completarla sarebbe troppo lunga. Questa basta, credo, a indicare la strategia occidentale. L’accordo accettato da Kerry a Vienna è lettera morta, o Washington fa il pompiere incendiario. Mosca aveva proposto quell’incontro per mettere fine alla guerra ed aprire un tavolo di negoziati con tutti gli attori dell’area, avendo bisogno di arrivare presto alla fine delle operazioni militari. La forza russa impiegata non basta a liquidare un ISIS che viene continuamente riarmato di armi sempre più sofisticate. Secondo Saker, del resto (ammissione indicativa) “l’intervento russo non è mai stato inteso a debellare totalmente Daesh né a cambiare il corso della guerra civile”. Anzitutto, ha avuto lo scopo di spezzare l’impeto di Usa e Turchia per una invasione della Siria, perché era questo che pendeva sul paese un mese e mezzo fa; poi, fornire appoggio aereo alle forze di terra siriane, demoralizzate e rarificate da tanti anni di combattimenti. Infine, una difesa aerea sui siriani, che è sufficiente a rendere costoso un intervento aereo – poniamo – turco, ma non uno americano. Fedeli al detto di Clausewitz, i russi hanno usato la guerra come arma politica, per forzare Usa, arabi, turchi a sedersi al tavolo con l’Iran e a cessare il mantra Assad must Go.

Invece, il superstato-canaglia ha accresciuto la posta. D’altro canto, Daesh ha imparato ad adattarsi alla campagna aerea russa; sicché, dai bombardamenti a strutture dei terroristi, relativamente tranquilli, l’aviazione russa deve impegnarsi oggi nell’appoggio aereo ravvicinato alle forze di terra siriane impegnate in combattimento diretto, aumentando i pericoli di abbattimento (specie dato che in Usa si è parlato di fornire ai tagliagole i missili A/A a spalla) . Inoltre, “invece di trincerarsi sotto i bombardamenti, Daesh è andato all’offensiva in vari settori del fronte”, obbligando le povere forze siriane a dispersioni, che hanno impedito la concentrazione di sufficienti uomini e volume di fuoco che permetterebbe di ottenere un risultato risolutivo.

L’esplosione dell’aereo Kogalymavia volo 9268 sul Sinai, la cui responsabilità ultima sta nelle centrali che hanno promosso, armato e rafforzato il jihadismo takfiro (ossia gli occidentali coi sauditi e i turchi), più tutte le provocazioni citate sopra, hanno dato a Mosca la visione che “l’Occidente” la sta per impegnare in un conflitto militare, economico, propagandistico “senza fine prevedibile”, in cui come Occidente si debbono intendere anche Turchia, Saudia, Katar, Israele, tutto il jihadismo fanatico, la NATO e la UE: un confronto che Putin sa di non potersi permettere. Rispetto a tutti questi nemici, la Russia è un piccolo paese, la cui forza è limitata; non solo, ma mai intesa ad operazioni di lunga durata a migliaia di chilometri dalla madrepatria. “I russi hanno dato una soluzione audace e all’ultimo minuto, assolutamente vitale, a una situazione pericolosa che stava per peggiorare di molto”, scrive Saker. Se l’armata siriana non ottiene abbastanza presto uno sfondamento delle linee terroristiche, è inevitabile un intervento diretto di truppe dell’Iran, il che susciterebbe l’immaginabile stracciamento di vesti in “Occidente” e l’occasione per un vero ampliamento della guerra a Turchia, Saudia, Katar, Israele – magari NATO, in ogni caso il CENTCOM.

Washington (non necessariamente la Casa Bianca, che a questo punto non conta più nulla) sta evidentemente alzando la posta in tutte le direzioni – non ultima, facendo mediaticamente della Russia lo stato-mostro, lo stato-paria che deve restituire le medaglie, il pericolo per la pace mondiale peggio di Daesh – e aumentandone i costi per Mosca, fino a che Putin si ritirerà, umiliandosi, prima di arrivare al punto in cui diventa inevitabile la terza guerra mondiale, atomica.

Il rischio di un simile calcolo dovrebbe essere evidente. Mosca non può già battere in ritirata. Dunque risponde alle provocazioni aumentando a sua volta la posta. Con atti che diventano sempre più irreparabili.

Ha violato il divieto di sorvolo sullo Yemen imposto dai sauditi con un aereo da trasporto che è atterrato a Sana, a portare (dice) aiuti umanitari alla popolazione…diciamo meglio, agli Houthi che i sauditi stanno massacrando. L’aereo era un cargo militare, è atterrato a Sanaa durante una delle peggiori tempeste di sabbia che lo Yemen ricordi, ed è stato scortato in volo dall’aviazione iraniana. Cosa ci fosse davvero in quell’aereo per gli Houthi, difficile dire; qualcuno giura che potrebbero essere missili A/A per abbattere i caccia sauditi. Secondo altri, la cattura dei due contractors americani (probabilmente) della Blackwater, avvenuto a Sanaa, è stata opera di spetznaz che erano su quell’aereo umanitario; sarebbero stati addirittura i gestori-radar e comunicazioni che hanno reso possibile l’abbattimento del volo russo sul Sinai…una voce che non possiamo controllare.

Mosca ha finalmente cominciato a consegnare all’Iran i sospirati sistemi anti-aerei S-300, un contratto che aspettava di concretizzarsi dal 2007, e Mosca aveva sospeso per essere cortese con Israele (l’Iran è giunta ad aprire una causa arbitrale contro la Russia a Ginevra nel 2011). Ovviamente non occorre più aver tanti riguardi con Israele, se si è dipinti come il nuovo Terzo Reich, lo stato-mostro alla conquista del mondo (e delle medaglie olimpiche).

La polizia egiziana ha giusto ieri confermato l’uccisione di Ashraf Ali Hassanein Gharabli, indicato come capintesta di Daesh in Egitto, gruppo “Wilayat Sinai” che ha rivendicato l’attentato all’aereo russo: sembra per mano di speznaz o di teste di cuoio inglesi (o forse gli inglesi hanno collaborato per silenziare il terrorista, e non cadesse vivo in mano ai russi? Una strana e intensa guerra sotterranea è in corso attorno all’Airbus esploso…).

Contro lo scudo antimissile installato dagli americani in Europa, che punta a rendere possibile il primo colpo nucleare secondo Mosca, Putin ha annunciato che “in questi ultimi tre anni, diversi missili efficaci sono stati testati con successo in Russia capaci di perforare lo scudo”.

Putin ha inviato in Siria un contingente di 4 mila russi: non in funzioni di combattimento, ma è il raddoppio del contingente rispetto a ieri.

Il rafforzamento della presenza militare Usa nei paesi dell’Est europa è tale, che un analista serbo, Joaquin Flores, ha parlato di una “occupazione militare di Lettonia, Lituania e Polonia sotto il pretesto di un’aggressione russa”.

Mosca può, in questo gioco al rilancio, armare i curdi contro la Turchia o fornire armamento agli Houthi in Yemen.

Il rischio è che in questo gioco pericoloso di provocazioni e risposte, dove né l’una né l’altra parte vogliono o possono indietreggiare, si scenda per la china scivolosa – che fu percorsa irresponsabilmente dalle potenze nel 1914 – in cui il conflitto diventa inevitabile, o scoppia per un “incidente”.

L’Europa potrebbe far qualcosa per interrompere questo gioco al rialzo. Ma naturalmente, è pienamente, ovinamente accodata alla follia Usa.

 

Maurizio Blondet 

 
Finta ripresa in USA PDF Stampa E-mail

13 Novembre 2015

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, dell’11-11-2015 (N.d.d.)

 

Dunque gli ultimi dati sulla occupazione provenienti dagli Stati Uniti hanno scombinato le previsioni dei mercati, soprattutto europei per un verso, e statunitensi, per il verso opposto, poiché determinano delle apprensioni sull’operato che la Fed dovrà varare di qui a poco. Almeno in teoria.

Dal punto di vista numerico, infatti, l’ultimo rilevamento ufficiale presenta valori incoraggianti. Il tasso di disoccupazione è sceso al 5%, ma soprattutto ha invertito la tendenza della scorsa estate che aveva invece visto un rallentamento (imprevisto?) di tutta la sedicente ripresa statunitense.

Anche il tasso denominato con la sigla U-6, cioè quello che comprende pure i lavoratori scoraggiati e marginali, ora è invece sceso al 9.8%. E si tratta, in senso assoluto, del migliore risultato dal 2008. Ciò significa che a questo risultato si è arrivati dopo sette anni di economia drogata dall’intervento del Quantitative Easing della Federal Reserve. Il corsivo utilizzato per la parola lavoratori poc’anzi, dovrebbe richiamare l’attenzione sul nodo principale cui rivolgersi per cercare di mettere a fuoco la situazione.

Solo di passaggio, un accenno alla risposta dei “mercati”. In Europa si brinda moderatamente alla cosa, negli Usa si è in apprensione (apprensione per ciò che farà la Fed). A nostro avviso presto l’apprensione si spalmerà ovunque. Anzi, lo sta già facendo in queste ore (chi segue il suo andamento se ne sarà accorto). Il motivo è il seguente: con tassi di disoccupazione a questi livelli, adesso la Fed non ha più motivazione (sempre a livello ufficiale) per continuare a stampare quelle quantità abnormi di moneta così come sta facendo da quasi un decennio. Dovrà, e le parole di Janet Yellen che ne è a capo ne sono la conferma, iniziare a dare una stretta.

Per “dare una stretta” intendiamo tornare gradatamente verso quella che prima del 2008 era la normalità (per gli Usa almeno), ovvero una situazione di tassi più alti rispetto ai livelli praticamente a zero degli ultimi anni. In altre parole, è come se adesso non vi fosse più motivo per continuare a dare morfina al malato e si debba iniziare a sperimentare se questi può provare a riprendere a farcela da solo. E qui vengono i dolori. Dei mercati, che sono rimasti in piedi sino a ora unicamente grazie alle droghe della Fed, e dell’economia reale, che non è letteralmente deflagrata del tutto proprio per questo intervento.

Ora, la Yellen, in merito a tali decisioni, da prendere il prossimo dicembre, ha fatto intendere chiaramente che un rialzo dei tassi è “una possibilità reale”.  Si capisce subito la delicatezza della cosa, anche perché solo non più tardi dello scorso 5 novembre, sempre negli Usa si era arrivati all’ennesimo fiscal cliff (cosa che ormai non fa più notizia): solo due anni addietro si festeggiava all’accordo raggiunto tra democratici e repubblicani sull’innalzamento del tetto del debito pubblico statunitense. Era il 2013, e il tetto dei debito, fissato per legge, venne raggiunto. Gli statunitensi trovarono una soluzione semplice quanto efficace: alzarono il debito modificando la legge, cancellando il vecchio numero e inserendone uno nuovo. Oggi ci risiamo. Il tetto è raggiunto e si aspetta la nuova soluzione dal cappello a cilindro.

Ma torniamo al lavoro e ai dati occupazionali recenti. Fatti salvi in numeri citati in apertura, teoricamente positivi, ci sono due temi che sono in grado di rendere la cose più chiare. Il primo è relativo al fatto che la partecipazione alla forza lavoro è rimasta inchiodata ai minimi da oltre quaranta anni, e cioè al 62,4%. Il secondo è relativo al reddito da lavoro, che pur registrando un più 2,5%, rileva il vero tema per capire il tutto, ovvero il fatto che questo reddito, per i lavori “creati” durante questa fase di crisi infinita, è basso, molto basso. In estrema sintesi, è fortemente sbagliato prendere come riferimento i dati sull’occupazione se prima non ci intendiamo su cosa oggi significhi occupazione. È sbagliato parlare di lavoro se prima non ci mettiamo d’accordo sul significato di questo termine. Anche perché, e questo è il vero punto, grazie a ciò che è avvenuto dal 2008 in poi, ciò che si intendeva prima con il termine lavoro è molto differente da ciò che si intende oggi.

Se un occupato, prima, poteva essere considerato come una persona che con il proprio reddito era in grado di vivere, ebbene oggi le cose stanno diversamente. La compressione dei salari e la nuova tipologia di lavoratori con occupazioni di altro tipo (in termini di orari e di compensi) ha creato una nuova figura sociale (e non solo negli Usa), quella del lavoratore-povero. Di colui, cioè, che pur lavorando non riesce a vivere del proprio lavoro. Ciò che guadagna non gli è sufficiente.

Aziende in ogni ordine e grado, e accordi statali di modifica delle tipologie di ciò che può considerarsi come offerta di un posto di lavoro, hanno introdotto la progressiva eliminazione dei posti di lavoro di un tempo con la sostituzione di nuovi posti di lavoro molto meno costosi, e molto meno pagati e tutelati (anche dalle nostre parti ne sappiamo qualcosa). Il risultato nel medio termine è stato quello di poter vedere crescere il numero degli occupati, ma non quello di veder crescere l’economia (per non parlare della capacità dei lavoratori di vivere con il proprio stipendio).

La prova del nove di tale conclusione risiede nel fatto che, appunto, se il primo obiettivo della Fed appare raggiunto (cioè il calo della disoccupazione), non è affatto raggiunto il secondo, ovvero l’aumento dell’inflazione verso il valore del 2% indicato come target sia dalla Fed sia dalla Bce. Ed è elementare capirne il motivo: come possono crescere i prezzi, in relazione diretta con l’aumento dei consumi, se i lavoratori, pur in aumento, non possono consumare perché hanno stipendi da fame?

È esattamente ciò che inizia a verificarsi anche da noi in Europa: interviene la Bce con il Quantitative Easing, intervengono gli Stati con le nuove norme sul lavoro, i numeri sull’occupazione appaiono in miglioramento ma l’economia ristagna per il semplice motivo che le persone non hanno denaro a sufficienza da spendere.

Insomma, un lavoratore-povero non può di certo fa ripartire l’economia.

Ecco perché gli entusiasmi Usa sono farlocchi. Ecco perché la Fed sul serio non sa cosa fare, al di là degli annunci. Ed ecco perché, osservare cosa accade da quelle parti è utile anche per cercare di prevedere, con un pizzico di anticipo, cosa potrà accadere a casa nostra.

Per ora l’Ocse alza la stima della crescita italiana all’1,4% nel 2016, che è esattamente il valore di crescita stimato e strettamente collegato ai suoi motivi reali: il Qe della Bce e la diminuzione del costo del petrolio. Altro che ripresa ottenuta dalla riforme statali. Altro che ripresa dell’economia e uscita dalla crisi. E i valori sulla disoccupazione anche da noi miglioreranno un tot. Resta da vedere - e lo vedremo - cosa accadrà a inflazione e Pil (e dunque cosa deciderà di fare la Bce, in questo caso).

Ma per ora la situazione statunitense è, come molto spesso accade, un caso scuola. Da seguire. La decisione che prenderà Janet Yellen alla Fed a dicembre è molto importante. E ancora più importante sarà verificarne i risultati, perché è una decisione potenzialmente in grado di rendere manifesta la realtà delle cose, cioè il castello di carta sul quale si cerca di veicolare il concetto di uscita dalla crisi. A meno che, ovviamente, da quelle parti non ci si inventi qualche altro trucco per occultare la realtà. Per un altro poco di tempo.

 

Valerio Lo Monaco 

 
Destra patetica e teppisti manovrati PDF Stampa E-mail

12 Novembre 2015

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Da Rassegna di Arianna del 9-11-2015 (N.d.d.)

 

Come tutti ben sapete, Salvini ha organizzato una manifestazione a Bologna, radunando i resti del vecchio centro-destra e ottenendo l’adesione della Meloni e di un Berlusconi mummificato, oltre il crepuscolo. Tutto sommato l’idea non è originale, perché tende a ricostituire in forma un po’ diversa l’onusto centro-destra, spazzato via gradualmente dopo l’avvento di Monti e l’occupazione definitiva del paese da parte della troika globalista. La sola novità è che adesso alla guida c’è la Lega Salviniana e non più il quasi ottuagenario Cav.

La manifestazione di Bologna rappresenta veramente un “punto di svolta” nella politica italiana, come sostiene Salvini? Sarà di buon auspicio per “sfrattare” Renzi dalla presidenza del consiglio che ha usurpato (al pari di Monti e Letta)? Ci permettiamo di dubitare, perché questa manifestazione, in parte di reduci (primo fra tutti Berlusconi), in parte di seconde e terze schiere emerse dopo la dissoluzione, assomiglia molto a un “vorrei ma non posso” e darà vita, al più, a un nuovo cartello elettorale, in attesa che i poteri esterni dominanti concedano, all’Italia occupata, elezioni politiche. Del resto, eventi simili, anche se più circoscritti, ne abbiamo visti di recente, soprattutto a “sinistra” (ma di cosa?). La fumosa coalizione sociale del guitto sindacal-televisivo Landini (a proposito, dov’è finita?) e la più recente costituzione, nel teatro Quirino di Roma (coup de théâtre?), dell’inutilissima sinistra italiana, composta di alcuni fuoriusciti dal piddì e di elementi del sel. Certo che l’odierna manifestazione di Bologna, per la ricostituzione del centro-destra – senza che vi sia ancora una legge Scelba, come quella del ’52, a impedirlo – ha un po’ più peso, se non altro perché i sondaggisti onniscienti la danno al 30% circa.

Se la sinistra “ideologica”, come quella italiana di Fassina e Fratoianni, aiuta la destra a vincere, secondo un Matteo Renzi blindato che non se ne cura troppo, il nuovo centro-destra salviniano, tenuto a battesimo oggi a Bologna, più di tanto non impensierirà il partito collaborazionista della troika chiamato piddì, per i suoi evidenti limiti a recuperare consensi oltre la soglia necessaria. Infatti, Salvini ha davanti lo scoglio del sud, pienamente superabile solo in tempi medio-lunghi, i Fratelli d’Italia sono troppo piccoli e tali resteranno per un po’, mentre Forza Italia è in piena decadenza, senza una nuova guida.

Posto che i piddini e piddioti non scendono più in piazza (e che bisogno ne avrebbero, ci sono la troika e la Nato che li proteggono!), men che meno per disturbare le spoglie di un centro-destra sconfitto, ecco che si muovono gli “attivisti” – ma non come in Siria per ordine di Washington, per nostra fortuna! – e cercano di impedire la manifestazione con l’uso della violenza e del sabotaggio. È un copione già visto, trito e ritrito, soprattutto in occasione dei comizi di Matteo Salvini, tanto da far sorgere in noi dei sospetti.

Liberiamoci e Ripartiamo, in Piazza Maggiore a Bologna, è una buona occasione per gridare ancora “guai ai razzisti!”, ma soprattutto guai a chi pensa (magari solo pensa, senza avere il coraggio di agire) di poter tornare alle frontiere, all’autonomia in politica estera, agli stati nazionali sovrani e … al controllo della moneta. Altrimenti non si capirebbe il perché gli “attivisti” di collettivi e centri sociali, variamente denominati, dovrebbero accanirsi così su un simulacro di centro-destra sconfitto, scontrandosi (ritualmente) con la polizia e addirittura incendiando nottetempo i cavi per la gestione del traffico ferroviario, onde impedire l’arrivo di treni “stracarichi” di leghisti, razzisti, sovranisti, populisti e forzaitaliani.

Questi “attivisti”, che vorrebbero impedire la manifestazione salviniana per la ricostituzione del centro-destra parlamentare, rispondono a una logica ben precisa, che non nasce da loro, o dalle esigenze degli ultimi nella società, ma, bensì, dai loro “manovratori”, legati a Bruxelles, Washington e Francoforte. In breve, semplificando al massimo, possiamo dire che costoro fanno il lavoro sporco per un piddì collaborazionista dei globalisti, il quale non si degna ovviamente di scendere in piazza e “lottare”. Quella che dovrebbe essere la marginalità ed esprimere una dura protesta sociale – soprattutto contro il governo renziano, che massacra per conto troika poveri, lavoratori e precari – funge, invece, da soldataglia ascara e mercenaria utile per disturbare le kermesse di piazza di un’opposizione parlamentare debole e per intimorire chi vorrebbe partecipare. Hanno un ruolo da “bravacci” e assolvono il compito a loro assegnato con “professionalità” e cinismo teppistico. Quello che ci vuole per far capire ai più che uscire dai binari anche solo a parole – come fa Matteo Salvini – presenziare a certe manifestazioni non gradite alle eurocrazie (e al pentagono) può essere pericoloso e riservare brutte sorprese …

Perciò, gli “attivisti” che hanno funestato Bologna domenica 8 novembre, non sono l’espressione di forze che rappresentano la marginalità sociale e l’opposizione alle politiche neoliberiste imposte dall’esterno, ma semplicemente le piccole orde mercenarie della troika e del pentagono, che favoriscono, una volta di più, il piddì di Matteo Renzi.

 

Eugenio Orso 

 
Anni Trenta PDF Stampa E-mail

11 Novembre 2015

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Da Appelloalpopolo dell’8-11-2015 (N.d.d.)

 

Se oggi mi si chiedesse “in che epoca avresti voluto avere 30 anni?”, risponderei senza esitazione: “negli anni Trenta”. Non perché io sia un guerrafondaio, ma perché avrei voluto assistere ai più grandi esperimenti economico-sociali che l’umanità abbia mai visto.

Il 24 ottobre del 1929 a New York, dentro le caotiche stanze della borsa di Wall Street, accadde quello che per alcuni sembrava impensabile dopo i “ruggenti anni venti”, mentre per altri era diventata ormai una timida speranza. In quel giovedì di fine ottobre furono 12.894.650 le azioni che cambiarono di mano, a prezzi sempre più bassi, gettando nella disperazione molti risparmiatori e investitori. La seduta era iniziata in modo tranquillo, ma i prezzi dopo qualche ora presero a scendere a perpendicolo e alle 11,00 si era diffuso un clima di paura, a tal punto che nessuno più comprava. Mezz’ora dopo il mercato era in preda alla psicosi e si verificarono vere e proprie vendite da panico. Quel giorno è passato alla storia come il “giovedì nero” e come il momento più brutto dell’era del capitalismo. Da quel momento in poi, nel campo economico-sociale le cose cambiarono per sempre.

Mentre a Wall Street si respirava un’aria di profondo nervosismo e già si diffondeva la voce che undici noti speculatori si fossero tolti la vita, c’è da immaginarsi la faccia di Stalin, dall’altra parte dell’oceano che leggeva soddisfatto i giornali e i dispacci provenienti dagli Stati Uniti o da Londra, Parigi e Berlino. Se il leader dell’Unione Sovietica usciva per le strade di Mosca o San Pietroburgo la situazione era completamente diversa, come se i sovietici vivessero su un altro pianeta. Mentre nel mondo occidentale le attività chiudevano e si spargevano povertà, disoccupazione e disperazione, le nuove fabbriche sovietiche erano colme di lavoratori e la disoccupazione si avviava verso lo zero. Il liberismo economico, che aveva caratterizzato la politica europea e statunitense negli anni Venti, aveva fallito miseramente, mentre il “socialismo in un Paese solo” propugnato da Stalin trionfava. I russi, spinti dalla dottrina marxista e quindi consapevoli della fallacia del capitalismo, furono i primi a sperimentare un’organizzazione economico-sociale differente. Sotto la suddetta dottrina stalinista l’economia sovietica era interamente pianificata ed organizzata dallo Stato tramite i piani quinquennali, ossia dei piani che stabilivano determinati obiettivi economici (una precisa quantità fisica di beni da produrre) da raggiungere in un periodo di cinque anni. Sotto la guida dello Stato, vennero costruite un’infinita di fabbriche nelle sterminate campagne russe, mentre l’agricoltura venne interamente collettivizzata. Nella nuova organizzazione sovietica non esisteva la proprietà privata, non c’era spazio per giochini finanziari in borsa, esisteva soltanto l’economia reale e non c’erano capitalisti, ma non era tutto così perfetto. L’ossessione di Stalin per i capitalisti, portò il regime sovietico a compiere crimini rilevanti nei confronti dei contadini, i quali erano restii a cedere i loro piccoli poderi allo Stato per andare a lavorare nei campi comuni (kolchoz). Nella mente del leader sovietico era sufficiente avere un piccolo orto e magari due mucche per essere considerato un proprietario terriero (kulako) e pertanto un nemico del nuovo ordine costituito. Ad ogni modo, con il sangue dei contadini, in particolar modo di quelli ucraini che opposero una dura resistenza, gli obiettivi del governo sovietico vennero raggiunti e negli anni Trenta la differenza con i Paesi occidentali era evidente.

Mentre negli USA, nello stesso periodo, nessuno riusciva a capire dov’era il problema e la politica non faceva altro che spendersi in messaggi incoraggianti per il mercato, che puntualmente finivano nel nulla, in Europa qualcuno iniziò a guardare con interesse agli esperimenti sovietici.

Nelle stanze di Villa Torlonia a Roma, vi era spesso un Mussolini intento a leggere con estrema attenzione i dispacci provenienti da Mosca. In Italia la crisi del ’29 era stata avvertita meno, rispetto al resto d’Europa, per via di alcune politiche protezioniste che il governo aveva intrapreso. Nel 1927 era stata redatta la Carta del Lavoro, ossia un programma di riforme economiche e sociali che avrebbe portato alla costruzione dello Stato corporativo. Quello che i giuristi Carlo Costamagna e Alfredo Rocco avevano pensato nel redigere il documento era un processo lungo e tortuoso, ma che nella loro idea avrebbe portato alla fine della lotta di classe. Mussolini e i suoi uomini erano consapevoli della fallacia del capitalismo liberista, ma erano anche ostili agli eccessi del sistema stalinista, così tentarono un altro esperimento economico-sociale. L’economia italiana sarebbe stata organizzata in corporazioni, ossia delle istituzioni dove vi erano sia i rappresentanti dei lavoratori che dei datori di lavoro di un determinato settore economico, i quali dovevano smettere di “combattersi” e trovare insieme il miglior assetto per la produzione in quel settore. Tutto ciò doveva essere fatto, partendo dal presupposto che l’interesse e il benessere della nazione erano più importanti di quelli di classe. La proprietà privata non era abolita, ma responsabilizzata socialmente e sottoposta al controllo dello Stato, il quale si assumeva il compito di controllare e dirigere le scelte delle corporazioni e si ritagliava un ruolo importante nell’economia, intervenendovi direttamente in determinati settori strategici, avendo come obiettivo primario il raggiungimento della piena occupazione. Per tutti gli anni Trenta il governo italiano fu impegnato nella graduale realizzazione del sistema corporativo con alterne fortune, ma dando così al mondo una terza possibilità.

In quegli anni molti furono attratti dal complesso sistema italiano, primi fra tutti i tedeschi che guardavano con occhi sognanti alle realizzazioni del regime fascista. Se nelle stanze di Villa Torlonia Mussolini leggeva attentamente i dispacci provenienti da Mosca, nelle camere del Nido dell’Aquila, tra le Alpi Bavaresi, Hitler leggeva avidamente i dispacci provenienti da Roma. Tuttavia i tedeschi decisero di non seguire l’esempio italiano e intrapresero un’altra via. Forse non avevano del tutto compreso i complessi meccanismi del corporativismo, visto che ci sono svariate testimonianze di eminenti professori tedeschi che affermano che il sistema italiano fosse troppo complesso e non adatto per una rapida rivoluzione socio-economica. La Germania nazionalsocialista intraprese così una forma di durissimo dirigismo statalista, non troppo lontano da quello sovietico. Si distingueva da esso per non aver abolito la proprietà privata, ma di fatto essa era sottoposta ad un durissimo controllo statale. Infatti nel 1936 il ministro dell’economia Hermann Göring varò il piano quadriennale per l’economia tedesca, il cui obiettivo principale era rafforzare l’autarchia del regime. Lo Stato intervenne direttamente nelle industrie strategiche, vennero tagliate il più possibile le importazioni, furono stabilite le politiche produttive di determinate aziende e fu avviato un ingente programma di opere pubbliche, di cui la rete autostradale era l’opera più grande.

Nel 1933 anche a Washington capirono che il mercato non si sarebbe ripreso con le sue forze e così dopo aver lasciato milioni di americani nella povertà e nell’indigenza per ben quattro anni, decisero di fare ciò che per ogni buon americano era considerata praticamente una bestemmia: lo Stato sarebbe intervenuto direttamente nell’economia. Dopo tre presidenti repubblicani che difesero il liberismo fino all’ultimo giorno, venne eletto il democratico Franklin Delano Roosevelt che varò un vasto piano di riforme che prendeva il nome di New Deal. Lo Stato avviò un vastissimo programma di lavori pubblici che ridiedero finalmente lavoro ai milioni di disoccupati statunitensi, la FED aumentò la quantità di denaro in circolazione, abbandonando la parità aurea del dollaro e fu avviata la creazione di un’apposita agenzia di elettrificazione che avrebbe portato la corrente elettrica anche nelle campagne, le quali finora non ne avevano giovato. Buona parte di questa energia elettrica era creata dalla TVA (Tennessee Valley Authority), un progetto pubblico per la creazione di centrali idro-elettriche nella valle del fiume Tennessee, il quale costituì la più grande realizzazione pubblica del New Deal.

Gli statunitensi scelsero una via più leggera rispetto a quella italiana, tedesca o sovietica, tuttavia ciò non risparmiò durissime critiche al presidente Roosevelt e ai suoi collaboratori, i quali vennero accusati di importare il fascismo o il comunismo negli Stati Uniti, dove la libertà d’impresa e la non ingerenza statale nell’economia erano considerati dogmi inoppugnabili.

Quando anche gli USA abbandonarono il credo liberista, fu ormai chiaro a tutti che l’era del laissez-faire era finita, come il più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes, aveva già lucidamente previsto nel suo libro La fine del laissez-faire del 1926. Nella prima metà degli anni Trenta egli ebbe modo di raccogliere tutte le sue idee, espresse in diversi saggi precedenti, nel suo capolavoro Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, che vide la luce nel 1936 e su cui si basarono tutte le politiche economiche del dopoguerra. Keynes, che si definiva liberale, riteneva che per salvare il sistema capitalista fosse necessaria una più equa redistribuzione della ricchezza, al fine di non escludere le classi subalterne dal mondo del lavoro, evitando così che esse rivolgessero tutte le loro speranze verso il fascismo o il comunismo. Per fare ciò era necessario che lo Stato intervenisse direttamente nell’economia nei momenti di crisi, creando nuovi posti di lavoro e quindi aumentando la domanda di beni sul mercato.

Gli anni Trenta possono essere considerati un laboratorio in cui vennero condotti i più grandi esperimenti di riforma economico-sociale della storia dell’umanità moderna. I governi occidentali del secondo dopoguerra seppero far tesoro di tali esperienze e debellarono la dottrina liberista. In questo senso, l’assemblea costituente italiana fu particolarmente all’avanguardia, come è testimoniato dalla parte della nostra Costituzione che disciplina i rapporti economici, nella quale non vi è alcuna traccia del liberismo economico.

Oggi l’Unione Europea persegue un’anacronistica restaurazione liberista, ma la Storia ha già condannato il liberismo una volta e non tarderà a farlo una seconda. Viva la Repubblica Sovrana!

 

Luca Mancini 

 
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10 Novembre 2015

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Da Comedonchisciotte del 7-9-2015 (N.d.d.)

 

Il povero presidente dell’INPS si è visto rigettare la sua ennesima richiesta: dare un reddito di 500 euro il mese ai disoccupati 55enni, prelevando il denaro necessario dalle pensioni d’oro di 230.000 persone e da 4.000 vitalizi di parlamentari oltre gli 80.000 euro. Si noti: tutte persone che percepiscono assegni oltre la quota dei versamenti effettuati, vale a dire senza effettiva copertura, un elenco lungo che va dai parlamentari agli amministratori locali fino ai sindacalisti. Insomma, il “cuore” del sistema mafioso di potere.

Qualcuno ha detto “non si può smettere di lavorare a 55 anni”, altri “non si mettono le mani sulle pensioni” ed altre facezie del genere. Il piano di Boeri era ben congegnato, ed a noi interessa il titolo “Non per cassa, ma per equità”: Dio sa di quanta equità distributiva questo Paese abbia bisogno, visto che il 10% della popolazione possiede quasi il 50% della ricchezza. Ma, quel 10%, ha deciso di tenersela (fra di loro ci sono tutti i parlamentari).

Boeri stesso diede il buon esempio: il suo predecessore, Mastrapasqua – quello che aveva falsificato gli esami universitari, e quindi condannato, e dunque non si capisce come potesse occupare quel posto (oggi è stato rinviato a giudizio per altre malversazioni e truffe varie nella sanità) – percepiva, come presidente INPS, la “cifretta” di 1,2 milioni di euro l’anno. Boeri se l’è auto-ridotta a 120.000 euro, ossia un decimo. Non desidero tessere il panegirico di Tito Boeri, però i fatti sono fatti.

Due aspetti della vicenda mi sembrano interessanti. Il primo è che, contrariamente alla normalità, è stato il ministro del lavoro Poletti ad “andarci giù pesante” con la proposta Boeri: stranamente, né Renzi si è pronunciato (oltre le consuete frasi di circostanza ed i soliti slanci d’ottimismo sul futuro) ma, soprattutto, totale silenzio dal suo High Controller, quel bel elemento del ministro dell’Economia Padoan, uno che – se lo fissi per più di 3 secondi – ti fa venire una fitta allo stomaco. A mio parere, è poco credibile che Renzi ed il suo Controller non si siano sentiti: probabilmente, non desideravano uno scontro con Boeri, poiché trovarne un altro non è facile. Oddio sì: le mezze calzette abbondano, sono i veri economisti a scarseggiare. Tutto sommato, meglio tenerselo buono, avranno pensato.

La seconda vicenda riguarda più espressamente la politica economica di questo disgraziato Paese: è lapalissiano che stornare le cifre eccedenti a quegli altissimi emolumenti per dirottarle su un assegno di disoccupazione (com’è in tutta Europa, salvo Italia e Grecia) avrebbe significato un “travaso” da Wall Street a Main Street, come in gergo sono chiamate la finanza bancaria/industriale/amministrativa (ecc.) e l’economia reale. È chiaro a tutti che i 500 euro dati ad un disoccupato sarebbero stati “scialacquati” in spaghetti, biscotti, qualche vestito, scarpe...ossia tutti beni che sostengono l’economia reale (ossia la direttrice vendite-lavoro-posti di lavoro, ecc), mentre nelle mani di chi attualmente li detiene significano grandi investimenti esteri in fondi (azionari, sovrani, ecc.), ossia soldi che – al comune italiano – non portano nessun beneficio.

La risposta è allora chiara, soprattutto per un uomo intelligente come Boeri: questo Paese non deve “decollare” bensì sarà gradualmente “decollato”, poiché quei poteri non arretrano di un centimetro. Vorrei far notare che questa è tutta una questione italiana, ossia interna al bilancio italiano: difatti, Boeri ha precisato le coperture. Qui non c’entra nessun potentato straniero: una partita di giro interna.

Allora, caro Tito: cosa vogliamo fare? Ommini, mezzi ommini, omminicchi, pigliainculo e quaqquaraquà: cosa scegli? Una lettera di dimissioni sarebbe un bel gesto: per te e per l’Italia.

 

 Carlo Bertani 

 
Le tariffe di Varoufakis PDF Stampa E-mail

9 Novembre 2015

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 Da Comedonchisciotte del 3-11-2015 (N.d.d.) 

           

 

“Varoufakis trae profitto dalla crisi economica greca”. A scriverlo è il settimanale greco Proto Thema, che ha pubblicato una mail dell’agenzia London Speaker Bureau, poi ripresa anche dal Daily Telegraph, dove vengono elencati i compensi che l’ex ministro Yanis Varoufakis chiede dall’estate scorsa per conferenze e incontri pubblici. Si va dai 60mila dollari per un discorso tenuto “al di fuori dell’Europa”, ai 5mila per un discorso in Europa, fino ai 1500 dollari per una lezione universitaria. Clamoroso il passaggio italiano a Che tempo che fa , la trasmissione di  Fabio Fazio,  il 27 settembre 2015,  costato agli abbonati Rai 24mila euro. Più di mille euro al minuto, visto che l’intervista è durata nemmeno 22 minuti, a cui vanno aggiunte spese di “viaggio in business class, alloggio, trasferimenti aeroportuali e di terra, pasti e spese accessorie”.

Il paladino dell’anticapitalismo ellenico è “assistito” dalla multinazionale della comunicazione, la London Speaker Bureau, a cui fanno capo l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer, il Nobel per la pace Muhammad Yunus, l’ex segretario della Nato George Robertson, e tra gli italiani Romano Prodi, Enrico Letta, Chicco Testa, Alex Zanardi e la deputata del Pd Irene Tinagli. A vincere, dietro una bella spolverata “progressista”, sono le logiche del mercato.

In quanto agli “esempi” meglio lasciare perdere. Noi, che siamo degli inguaribili romantici, abbiamo ben altri ricordi, quelli dei primi deputati socialisti che viaggiavano di notte, gratis grazie alla medaglietta di parlamentare, per risparmiare sulla pigione. Oggi gli esponenti del progressismo si spostano in business class ed hanno i tariffari come qualsiasi star della canzone. Allora gli esponenti socialisti frequentavano le piazze e le galere. Oggi il problema è il cachet televisivo o la conferenza remunerata.

Scriveva nella sua autobiografia Costantino Lazzari, figura storica del primo socialismo italiano:  "Tra poco avrò raggiunto i settant'anni della vita. Arrivato a quest'ultimo periodo della vita, povero e proletario come sono nato, trovo di non possedere altra ricchezza che la coscienza tranquilla e la fede sicura nell'avvenire del socialismo (...). Come si è formata in me questa fede e come ho acquistata questa tranquillità di coscienza? Non è possibile rispondere a queste domande senza avere la conoscenza dell'ambiente sociale in cui sono cresciuto e il cui carattere ebbe certamente una influenza capitale nel determinare in me la comprensione completa delle dottrine egualitarie moderne."

C’è – in queste parole – tutto il senso non solo di un impegno, ma di una ragione di vita. Ecco la questione. Quali sono le ragioni di vita a muovere certi esponenti della nuova sinistra europea? Quali i valori profondi che li animano? Viste certe “tariffe” non sembrano essere diversi dall’odiato capitalismo contro cui i conferenzieri alla Varoufakis dicono di scagliarsi. In fondo – come al solito – due facce di una stessa medaglia. È il mercato, baby …

 

 Mario Bozzi Sentieri

 
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