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Sovranismo e leghismo PDF Stampa E-mail

27 Ottobre 2015

 

 Da Appelloalpopolo del 25-10-2015 (N.d.d.)

 

Mi chiedono di chiarire quali punti programmatici dovrebbero differenziare, secondo il mio punto di vista, il partito sovranista che l’ARS desidera e vuole concorrere a creare, da un lato, e la Lega, dall’altro. Molti no-euro che ci conoscono e credo ci stimino, infatti, non comprendono l’atteggiamento severo dell’ARS nei confronti della Lega.

Mi limito soltanto ad alcuni punti. Il partito sovranista dovrebbe sostenere:

1) lo statismo socialista nei settori strategici, che andrebbero nazionalizzati, socializzati, o sottoposti a controllo pubblico mediante la riscoperta delle partecipazioni statali, che sono state gloria dell’Italia;

2)  una critica del grande capitale finanziario e della rendita non solo finanziaria, ma anche di quella urbana, la quale è in parte pulviscolare (molte persone comuni ne beneficiano, per corruzione, cointeressenza ignara con chi compie la corruzione, o fortuna);

3) l’esigenza di una nuova classe dirigente che il partito dovrebbe formare e selezionare (le classi dirigenti le formano e selezionano i partiti, sia nelle democrazie sia negli stati totalitari); se i partiti abdicano, entrano i Colaninno, i De Benedetti, i Bazzoli, i Serra, i Monti, i Passera, i Della Valle, le mignotte, i papponi, gli spacciatori, i cocainomani e i ruffiani;

4) dovrebbe essere antimoderno nelle strategie di comunicazione, nel senso di ricorrere a una efficace comunicazione delle proprie idee, rifiutando i trucchetti, spesso squallidi e pericolosissimi, suggeriti dal marketing politico. Per esempio la Lega, pur non sostenendo, da un punto di vista politico-legislativo, soluzioni razziste ai vari problemi posti dalla presenza degli stranieri irregolari, utilizza questi problemi per una propaganda che cavalca e diffonde il razzismo, ergendoli a primo problema degli italiani. Questo comportamento è verminoso e indebolisce e fa degenerare il popolo italiano;

5) dovrebbe sostenere una imposizione progressiva che arrivi, oltre un certo livello (500.000 euro?), anche al 90% dei redditi. Tutto ciò non avrebbe la funzione di fare gettito ma quella di fare giustizia. Ovviamente le imposte complessivamente dovrebbero diminuire e i ceti popolari e medio-bassi pagherebbero meno imposte, anche per lo spostamento del peso fiscale dalle imposte indirette a quelle dirette;

6) dovrebbe combattere il capitale marchio, in vari modi, rivitalizzando così il piccolo commercio e la piccola impresa, e sottoporre a trattamento fiscale diverso e molto più severo sia i proventi della pubblicità e delle sponsorizzazioni, sia la possibilità di dedurre le spese pubblicitarie (i costi per la pubblicità non sono costi di produzione e distribuzione);

7) dovrebbe fare della Scuola e della Università decisivi strumenti di mobilità culturale e sociale, rigettando l’autonomia scolastica e universitaria, centralizzando la disciplina dell’attività didattica, tornando a mettere al centro della scuola l’insegnamento delle discipline da parte degli insegnanti e l’apprendimento delle medesime da parte degli studenti. La valutazione dovrà tornare ad essere giusta e quindi giustamente severa. Chi non raggiunge i risultati minimi richiesti deve ripetere l’anno. Fare di tutto per far conseguire i risultati minimi è un conto ed è cosa giusta e sacrosanta, ma abbassare l’asticella o mandare avanti chi non ha dimostrato di saperla saltare è assurdo, rovinoso e in ultima analisi ultra-classista;

8) dovrebbe promuovere la riduzione al minimo del regionalismo, togliendo alle Regioni quanti più poteri la Costituzione del 1948 consentiva di togliere, combattere il macroregionalismo come una follia stupida ed eversiva e perseguire esclusivamente il localismo. Il localismo implica il centralismo, perché è lo Stato che promuove il localismo: la vita dei cittadini, a parte le grandi città, si svolge nella contrada, nemmeno nella provincia, che spesso è costituita da due, tre o quattro contrade;

9) dovrebbe sottrarre al grande capitale il potere di conformare l’opinione pubblica, l’animo, la psicologia e l’immaginario dei cittadini, sia mediante il trattamento fiscale della pubblicità sopra suggerito, sia promuovendo molte televisioni e radio a diffusione quantitativamente limitata;

10) dovrebbe perseguire la piena occupazione a beneficio di tutti coloro che vivono di redditi da lavoro, autonomi e subordinati;

11) raggiunto il potere, dovrebbe porre la questione della liberazione dell’Italia dagli occupanti statunitensi.

 

Come vedete, secondo il mio punto di vista il Fronte Sovranista Italiano dovrà essere completamente opposto alla Lega.

Cari no-euro, volete restare immobili per i prossimi tre anni e mezzo in attesa di votare Lega, perché ha detto “no-euro” (ma sappiate che anche Renzi dirà no-euro e che l’Italia uscirà per decisione di Renzi e Berlusconi), e difenderla se qualcuno osa criticarla, perché bisogna criticare soltanto il PD (come un tempo bisognava criticare soltanto Berlusconi e successivamente soltanto il partito unico ma non il M5S)? O volete aiutarci a costituire il Fronte Sovranista Italiano? Qual è la scelta che testimonia il vostro valore? E quale quella che sancisce la vostra pigrizia e la vostra accidia?

 

Stefano D’Andrea 

 
Il Risiko mondiale e la lotta di classe PDF Stampa E-mail

25 Ottobre 2015

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Da Rassegna di Arianna del 19-10-2015 (N.d.d.)

 

Ci sono periodi, nella storia, in cui il cosiddetto conflitto orizzontale, fra gruppi dominanti che si spartiscono il mondo, oscura o addirittura azzera il conflitto verticale, cioè la mitica “lotta di classe”. Il periodo storico che stiamo attraversando, con sempre maggiore difficoltà e il rischio incombente di una guerra planetaria, ha proprio questa caratteristica: Risiko mondiale a mille e lotta di classe scomparsa dai radar. In simili contesti, le uniche speranze di parziale riscatto, per le classi dominate, possono nascere da un’evoluzione a loro favorevole dello scontro fra gruppi dominanti, che si contendono il potere e le risorse.

Se la lotta di classe fra la borghesia e il proletariato è stata la più visibile (anche se non l’unica) contraddizione del capitalismo industriale nella fase dialettica, fino alla fine del secondo millennio, oggi il neocapitalismo imperante ci mostra soltanto lo scontro – commerciale, armato, propagandistico – fra una spietata élite finanziaria, che accentra il potere a livello globale e rastrella tutte le risorse del pianeta, e gruppi dominanti “dissidenti” o addirittura ribelli, come quello della Russia di Putin.

Assistiamo impotenti al conflitto orizzontale fra una sorta di imperialismo finanziario privato, nato in occidente e alimentato dalla globalizzazione neoliberista, e modelli politico-economici “patriottici” in cui la potenza e la sovranità dello stato, nazionale o federale che sia, giocano ancora un ruolo determinante.

Non si tratta di una mera riproposizione della guerra fredda fra i due blocchi Usa e Urss, esauritasi alla fine del Novecento, ma di un nuovo confronto a tutto campo, energetico, militare, politico e propagandistico, in cui gli attori principali sono gli “agenti strategici” neocapitalisti occidentali, da una parte, e il gruppo di potere ribelle putiniano dall’altra.

Ciò che dovrebbe essere molto chiaro è che la parte del leone, oggi, la fa la geopolitica a scapito del confronto fra classe dominante e classi dominate, per la divisione delle risorse e la giustizia sociale, anche se quello che ho definito “gruppo di potere ribelle putiniano”, fa riferimento a un modello economico molto più conveniente per le classi dominate, in oriente e anche in occidente.

La lotta di classe, come ho già scritto, sembra scomparsa dai radar, in Europa e in tutto il mondo occidentale. Gli operai italiani che qualche tempo fa salivano per protesta sui tetti dei capannoni industriali e sulle gru, depauperati e minacciati di licenziamento, non rappresentavano esempi di lotta di classe, pur incruenta, ma altrettanti casi di disperazione sociale e individuale, anche questa “privatizzata”. Per non dire dei dipendenti di France Telecom che si toglievano la vita vessati dall’azienda, espressione massima dell’impotenza politica dei lavoratori, in balìa degli appetiti del capitale finanziario. Persino i lavoratori di Air France, colpevoli di aver “spogliato” un manager che avrebbe voluto licenziarli in massa, sono esempi di pura rabbia dal fondo della piramide sociale e non di un vero scontro classista, in cui tutti e due i contendenti si organizzano e combattono.

Perché ci sia lo scontro di classe, esteso ad aree significative del mondo, dovrebbe esistere anche l’aspetto coscienziale che muove, nelle correnti della storia, le classi dominate. Un aspetto cruciale e sicuramente dialettico che oggi manca completamente, nel pieno di una trasformazione indotta e violenta dell’ordine sociale. Questo i marxisti novecenteschi non solo non l’avevano previsto, ma per anni, anche dopo la fine dell’Urss, con la globalizzazione neoliberista avanzante, hanno continuato a sperare nella mitica Lotta di Classe, nella Rivoluzione proletaria. Chi scrive preferirebbe di gran lunga – a questo punto – poter dare ragione ai vecchi marxisti, ma così non è, poiché la storia ha continuato spedita su altri binari e la stessa classe proletaria non esiste più come tale. Se la storia di ogni società finora esistita è storia di lotta di classe, come scrisse Marx nel celeberrimo Manifesto del Partito Comunista, l’assenza del conflitto verticale che oggi costatiamo è un indizio di fine della storia? Sicuramente no, perché in questa fase storica (la cui ampiezza non sappiamo prevedere) ha ragione il professor Gianfranco La Grassa, il quale sostiene che il conflitto orizzontale, fra gruppi di vertice nella scala sociale, mette in ombra il conflitto orizzontale fra dominanti e dominati, diventando cruciale, nei suoi sviluppi, anche per le condizioni di vita dei dominati.

Ha ragione La Grassa, ma con una correzione non da poco: in qualche modo la lotta di classe continua, ma a senso unico, quale esclusivo appannaggio della classe dominante global-finanziaria. Non si tratterebbe in tal caso di una lotta vera e propria, che presuppone due parti attive in conflitto reciproco, ma di oppressione e di sterminio sociale di una parte nei confronti dell’altra, ridotta a una sconcertante passività.

La geopolitica, ci piaccia o no, la fa da padrona e il Risiko mondiale ci appare in tutta la sua imprevedibile gravità. Gli strumenti usati dalla parte più forte e in espansione, quella neocapitalista occidentale, sono la guerra, il terrorismo, le azioni subdole note come “false flag”, per incolpare di stragi, attentati, omicidi, abbattimenti di aerei di linea gli innocenti, la disinformazione in dosi massicce (Assad usa armi chimiche contro il suo stesso popolo!), la destabilizzazione degli stati ribelli, o comunque da “normalizzare”, la produzione di profughi da utilizzare, anch’essi, come arma. La parte più debole, a guida russa, ci sembra molto più trasparente ed eticamente accettabile, perché non destabilizza, non usa l’arma terroristica, non produce disinformazione in dosi massicce, ma interviene in difesa di stati sovrani martirizzati, come la Siria, tenendo fede ai trattati di alleanza e amicizia.

La parte più forte usa come strumenti di dominio la potenza militare americano-Nato e vari stati-canaglia (questi sì!), quali la Turchia, l’Arabia Saudita e Israele, mobilitando decine di altri stati e staterelli tributari in ambigue coalizioni a copertura dei suoi crimini. La parte più debole risponde con alleanze più piccole, ma compatte, che riescono a mettere in difficoltà gli attaccanti e i loro biechi mercenari, come sta accadendo in Siria. Ripeto, però, quello che ho già scritto: gli Usa capofila delle forze del male contro la Federazione russa, capofila dei resistenti ed emergenti, non è una replica, concessa una tantum dalla storia, del confronto fra i precedenti blocchi capitalista e comunista, cioè la guerra fredda fra gli Stati Uniti di allora e la compianta Unione Sovietica.

Il Risiko mondiale di oggi sembra uno scontro, un po’ “asimmetrico” per la differenza di potenza di fuoco dei due contendenti, fra potenti pirati senza scrupoli, predatori di energia e ricchezze dei popoli, e soldati regolari di stati nazionali sotto attacco, guidati da una Russia risorgente decisa a porre un limite invalicabile alle razzie dei pirati. Gli scontri, almeno per ora, sono indiretti dal punto di vista militare, in quanto i predatori neocapitalisti si valgono di mercenari, avventurieri e tagliagole vari (neonazi ucraini, isis, al-nusra, salafiti, tsahal sionista, giannizzeri turchi, eccetera), mentre quelli dell’altro campo combattono con le loro truppe regolari (esercito siriano, guardie rivoluzionarie iraniane, soldati e piloti russi) e con milizie di autodifesa (patrioti russi del Donbass ucraino, Mobilitazione Popolare in Iraq, milizie filo-governative in Siria, Hezbollah). Il confronto fra i due campi è però destinato a estendersi pericolosamente, anche sul piano energetico e dei prezzi del petrolio, e in ballo potrebbe esserci, già da domani, una lotta ai coltelli per il controllo sull’Opec.

Se non ci sarà un confronto militare diretto fra la soldataglia americano-Nato e le truppe russe – voluto dalle élite finanziarie occidentali – con il rischio di una guerra nucleare, come dominati e oppressi, in Italia e in Europa, non ci resta che sperare nella vittoria sul campo e in una chiara vittoria politica dell’alleanza guidata dalla Russia. Questo perché la lotta di classe, qui, da noi, coverà ancora per molto sotto le ceneri e il potere resterà nelle mani dei collaborazionisti sub-politici di Soros e Goldman Sachs. Una sconfitta del campo neocapitalista occidentale, invece, per opera delle forze russe e degli alleati di Mosca, potrebbe innescare la crisi del modello ultraliberista finanziario e globale, o almeno un rallentamento nella distruzione del sociale e nell’impoverimento collettivo in paesi come l’Italia.

Per quanto precede, in assenza della Lotta di Classe che pare un ricordo di epoche remote, non ascoltate le cavolate propagandistiche di lacchè sub-politici che non contano niente, come Matteo Renzi, non date troppo peso alle parole ben calibrate di un furbo di tre cotte come Papa Francesco, che vuole rifare il “look” alla chiesa, senza irritare troppo i veri potenti. Concentrate, invece, la vostra attenzione sul Risiko Mondiale, sullo scontro fra opposte élite in Siria come in Iraq, nel Donbass ucraino come in Libia, nello Yemen insanguinato come in Palestina e a Gaza. È dall’esito di questo scontro che dipendono le vostre future condizioni di vita, anzi, forse la vostra stessa esistenza in vita …

 

Eugenio Orso 

 
Non ancora PDF Stampa E-mail

24 Ottobre 2015

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Ci sono spie linguistiche estremamente significative per chi sappia leggerle.

Una di queste è il “non ancora” utilizzato da Obama nell’annuncio della sua decisione di mantenere un contingente armato in Afghanistan, contraddicendo il suo impegno precedente di un ritiro totale entro il 2016.

Le truppe resteranno perché le forze armate afghane “non sono ancora pronte” ad affrontare da sole la guerriglia.

Quel “non ancora” denuncia ipocrisia, imbarazzo, impotenza. È il balbettìo di chi non sa più cosa dire.

 L’Afghanistan è stato invaso nel novembre del 2001, prima dell’invasione dell’Iraq e subito dopo il famoso e famigerato 11 Settembre. Sono dunque trascorsi 14 anni. Se in 14 anni non è stata piegata una guerriglia dotata di una potenza di fuoco mille volte inferiore a quella dell’aggressore e armata di mortai, lanciagranate e kalashnikov contro sistemi d’arma da fantascienza, vuol dire che la guerra per USA e NATO è persa, irrimediabilmente e definitivamente persa.

 Da 14 anni l’esercito fantoccio afghano viene addestrato, eppure “non è ancora” pronto. Quando lo sarà?

La verità che anche Obama conosce ma non può dire è che tutto un popolo vede negli eserciti della NATO non dei liberatori ma delle forze di occupazione. Un popolo montanaro, rozzo e fiero, che non si piega. Un popolo diviso in tribù ma che trova una sua unità quando vede il proprio suolo calpestato da stranieri invasori. I giovani afghani che si arruolano nell’esercito fiancheggiatore della NATO, lo fanno per lo stipendio e non per altro. Molti sono del resto militanti della resistenza infiltrati. Lo dice il fatto che negli ultimi anni la maggior parte delle perdite fra i soldati della NATO è stata causata da combattenti che indossavano la divisa dell’esercito afghano e volgevano le armi contro i loro teoricamente commilitoni della NATO.

 Insomma, poche chiacchiere: un’altra guerra sbagliata e criminale è persa.

Ancora una volta, come in Iraq, come nello stesso Afghanistan per l’occupante sovietico, come in Viet Nam sempre per gli USA, una guerriglia infinitamente più debole militarmente ma eroica e tenace, contando sul fattore tempo, alla fine prevale. Si possono perdere tutte le battaglie eppure vincere la guerra. L’aggressore deve riuscire a piegare il più debole nel primo assalto, come accadde alla NATO in Jugoslavia, quando il serbo Miloshevich dopo alcuni mesi si arrese. Se invece la resistenza dura anni, colmando con nuove generazioni di combattenti i vuoti causati nelle proprie file dai bombardamenti e dai rastrellamenti, il potente invasore alla lunga deve cedere per la pressione politica, per il logorìo cui sono sottoposte le sue supertecnologiche forze armate, per il peso finanziario della guerra.

Obama mantiene sul posto le sue truppe perché non può chiudere il suo mandato con lo spettacolo dei talebani che rientrano a Kabul mentre le ambasciate occidentali fanno fagotto precipitosamente come successe in Viet Nam, ma quel “non ancora” esprime lo sconforto di chi sa come stanno le cose.

 Anche noi stiamo da quelle parti, vergognosamente e inutilmente.

Eppure Renzi si allinea subito con la decisione del nostro padrone: le truppe italiane resteranno a loro volta, per addestrare gli afghani “non ancora pronti”.

Non ci sono dubbi che il Parlamento approverà a larga maggioranza.

SEL borbotterà qualche frasetta genericamente pacifista.

M5s farà un po’ di rumore poi si occuperà d’altro, perché la politica internazionale esige conoscenze, anche storiche, che quei giovanotti non possiedono.

La Lega si opporrà adducendo un unico argomento: la “missione” italiana costa troppo.

Qui non si tratta di costi.

Se si trattasse veramente di una “missione” per proteggere un Paese che chiede aiuto, anche costi decuplicati sarebbero accettabili. Quanto alle perdite in vite di nostri militari, una cinquantina di caduti in 14 anni di guerra sono poca cosa, soprattutto se si pensa che si tratta di volontari ben retribuiti: andare “in missione” all’estero è l’aspirazione di tutti i militari di carriera.

Qui si tratta di opporsi per principio a guerre di aggressione cui partecipiamo unicamente per “cupidigia di servilismo” nei confronti dei padroni che si sono impossessati del nostro Paese e delle nostre anime.

Non aspettiamoci che qualche “oppositore parlamentare” lo dica forte e chiaro.

 I talebani non suscitano particolare simpatia.

Gente che ferisce, uccide o deturpa mutilandole ragazze che vanno a scuola, perché le donne devono restare ignoranti e sottomesse, ci è estranea.

Non abbiamo niente da condividere con gente che quando governava proibiva di far volare aquiloni perché sono un passatempo troppo frivolo.

Però quello è il loro Paese, quella è la loro storia, quelli sono i loro costumi. Soltanto loro hanno il diritto di rivederli e superarli.

Non abbiamo nulla da insegnare a nessuno, tanto meno con le armi.

Quei talebani ci sono lontanissimi ma si sono resi benemeriti con la loro resistenza eroica che indebolendo l’Impero beneficia anche noi.

 

Luciano Fuschini 

 
Ritorno alla terra, ritorno alla natura PDF Stampa E-mail

23 Ottobre 2015

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Da Rassegna di Arianna del 19-10-2015 (N.d.d.)

 

Nell’epoca del modernismo tecnocratico più fanatico è distruttivo, il ritorno alla terra, la reazione a questo progressismo positivista che annulla le categorie naturali dell’umano, il ritorno alla terra sarebbe un atto di dissidenza costruttiva.

Come afferma brillantemente Massimo Fini lo scontro politico futuro “Non sarà più tra un liberalismo trionfante e un marxismo morente, fra destra e sinistra, ma fra modernisti ed antimodernisti “. Infatti, in quest’epoca ormai totalmente post-ideologica, dove le categorie politiche della Destra e della Sinistra iniziano, ormai, sotto l’influsso di una perdita progressiva d’autorità da parte delle vecchie logiche partitocratiche, a palesare tutta la loro illusione innaturale, il vero scontro di idee è rappresentato dal dibattito tra chi sostiene la cosiddetta cultura del progresso e chi, invece, difende maggiormente i valori tradizionali e naturali. La cultura dei diritti civili, della competitività economica o dell’”eurofilia” patologica (portati avanti soprattutto dall’attuale Sinistra italiana), sono la massima espressione di un certo tipo di pensiero che, ripudiando, invece, il tradizionalismo conservatore o l’identitarismo comunitario, sostiene le logiche dell’artificializzazione progressista dell’uomo. Questo pensiero si pone in perfetta sintonia con l’ordine produttivo neo-liberista, che non può trovare dinnanzi a sé attriti ideali o spirituali che si pongano come limite alla propria cultura del non-limite. Come numerosi intellettuali contemporanei, profondi analisti delle strutture sociali, hanno modo di evidenziare, la nostra, infatti, è un’epoca, per sua natura, profondamente labile e mutevole, all’interno della quale la solidità delle fondamenta che sorreggono, ad esempio, i ruoli o le condizioni tradizionali, è destinata ad un’evanescenza totale.

È, la nostra, si può dire, un’epoca guidata da un dinamismo ed un fluire temporale a ritmo accelerato, dove il manifestarsi fenomenico delle cose non possiede nemmeno il tempo di cristallizzarsi nel mondo e nelle coscienze, poiché, repentinamente, è sostituito da nuovi flussi d’eventi, nuovi valori e nuove invenzioni. Tuttavia, altro non è, questo, che la rappresentazione esatta del modello antropologico-culturale che si pone ad essenza vitale degli interi assetti e rapporti di potere di un mondo neo-liberista e post-industriale, guidato dai principi del progresso e della produttività economica ad ogni costo. L’impressione è che l’uomo moderno, a causa di questo processo di industrializzazione di massa, operata da questa cultura del progresso cieco e mistico, abbia, progressivamente, subito una sorta di scollatura, di abbandono rispetto, invece, alla propria naturalezza d’origine. Il progresso della Scienza e della Tecnica ha, infatti, migliorato indubbiamente la vita materiale dell’uomo, ma lo ha impoverito nello spirito, ha prodotto quel processo di divario totale tra la vita quotidiana dell’individuo e la propria terra.

La terra, cioè la Natura, l’Origine, è la patria del valore e della tradizione, della costanza, in opposizione rispetto al mondo della tecnica e dell’artificio. Con l’avvento del progresso e della tecnica, con l’affermarsi delle società mercantili e, conseguentemente, del sistema capitalista del libero scambio economico, l’urbanizzazione e l’industrializzazione quasi totalizzante delle cose, quel rapporto primitivo tra l’uomo e la terra è andato gradualmente disperdendosi. L’uomo, nei corsi dei secoli, aveva instaurato con la terra e con la profondità universale della natura e del mondo un rapporto di spiritualità e di sacralità, in grado di mantenere, conservare e sviluppare certi valori e principi morali e sociali. Nell’era della non naturalezza per eccellenza, dove i principi antropologici vengono totalmente posti sotto dubbio, dove le cicliche leggi di natura e di necessità sembrano dover essere posti in secondo piano quasi eliminati, in favore di quelle individualistiche pulsioni distruttive che inducono l’uomo ad alterare questo ordine naturale, mediante la tecnica e la scienza, il rapporto uomo-terra è sempre meno forte.

L’uomo antico era il guerriero che difendeva con la spada, ed in nome di quel naturale istinto di territorialità, i propri confini naturali, e il contadino che dal duro lavoro nei campi e dalla sapiente conoscenza della propria terra traeva la linfa vitale della propria esistenza. L’uomo antico conservava nella propria coscienza la devozione e l’ammirazione verso gli dèi o verso Dio, perché sapeva ch’egli non era l’unico legislatore delle cose, poiché quel rapporto simbiotico con la natura consentiva di comprendere che esistono ordini universali supremi che governano il mondo. L’uomo di oggi, il modello ideale dei paladini del progressismo ad ogni costo, della tecnocrazia incontrastata, è l’ateo materialista che trascende il valore e fa del suo nichilismo passivo lo stile di vita dogmatico.

L’uomo moderno non conosce la natura, poiché i sistemi culturali attuali sono plasmati ed indirizzati verso le logiche del ripudio totale di ciò che è naturale, poiché ciò che è per natura può essere modificato. In questi ultimi decenni stanno infatti sorgendo, con spirito di reazione, sempre più movimenti ed espressioni di pensiero che, invece, ambiscono alla ripresa e conservazione di un certo rapporto di fusione tra l’uomo e l’ambiente. Si pensi, ad esempio, alle teorie filosofiche della decrescita economica di Serge Latouche che, opponendosi alle logiche della crescita illimitata della produzione a discapito della natura e della spiritualità, ambiscono alla creazione di una società, invece, più sobria e più sostenibile.

Ultimamente, sta rinascendo anche la tendenza (specialmente tra alcuni giovani) a ritornare, come i propri nonni, alla terra, attraverso la ripresa delle moderne tecniche di agricoltura. Questo ritorno alla terra, la rinascita del vecchio mestiere del contadino, di fatto, potrebbe essere una valida soluzione per arrestare questo infantile processo di modernizzazione eccessiva del reale, che distrugge l’ambiente e lentamente demolisce ogni ambito di umanità e naturalezza ancora esistente.

Si ritorni, dunque, a contemplare i mari e gli oceani, i boschi ed i ruscelli, i monti ed i paesaggi, a percepire la spiritualità nel mondo. Contro il fanatismo modernista e tecnocratico si ritorni alla terra, alla contemplazione della propria sana e pura natura.

 

Alex Barone 

 
La demonizzazione dell'Ungheria PDF Stampa E-mail

22 Ottobre 2015

 

Da Rassegna di Arianna del 19-10-2015 (N.d.d.)

 

Sul conto dell’Ungheria, finora, se ne sono sentite davvero di tutti i colori. A quanto pare in Italia, e non solo in Italia ma anche negli altri paesi della “Comunità Europea Storica”, vale a dire Francia e Germania, c’è tutta una categoria di giornalisti, intellettuali ed opinionisti che si guadagna da vivere a spese proprio dell’Ungheria, dicendone peste e corna dalla mattina alla sera. Tutto è cominciato, grossomodo, con l’elezione al governo di Viktor Orban: e si precisi che parliamo di “elezione al governo” e non di “salita al potere”, perché ciò è avvenuto in maniera del tutto democratica, tramite le elezioni, e non con qualche sinistro e sanguinoso colpo di Stato. Anche per questo motivo, che oggi si dipinga Viktor Orban alla stregua di un Francisco Franco magiaro suona decisamente molto grottesco. S’è detto, in quell’occasione, che l’arrivo al governo di Viktor Orban coincidesse con una pericolosa e preoccupante avanzata dei movimenti di destra in Europa: cosa che certamente è vera, ma che non riguarda di sicuro soltanto l’Ungheria. E, in ogni caso, quei movimenti d’estrema destra, additati come discendenti più o meno diretti dei movimenti fascisti che provocarono innumerevoli disgrazie nel Novecento e che non hanno mai fatto realmente e completamente i propri conti col passato, non sono mai divenuti forza di governo né in Ungheria né in nessun’altra parte d’Europa. Accostare Viktor Orban ed il suo partito, certamente molto legato all’identità nazionale, culturale e storica del suo paese, a questi movimenti, è decisamente un atteggiamento sleale e fuorviante.

Fin dai primi giorni della sua elezione, Viktor Orban è stato accusato di voler mettere al bando le forze politiche tradizionali, che infatti erano talmente messe al bando da poter godere di tutta la libertà d’organizzarsi ed agire contro di lui, per esempio portando un cospicuo numero di militanti a manifestare contro di lui in piazza, a Budapest. Basterebbe già solo quest’aspetto, che si commenta veramente da solo, a dirimere una volta per tutte la questione. Ma, senza senso della vergogna, ed aggiungerei anche senza senso della misura, una certa destra liberal ed una certa sinistra altrettanto liberal hanno preferito non demordere e continuare a negare dinanzi all’evidenza, ostinandosi nel propagandare con successo l’idea di Viktor Orban “fascista” e “dittatore”.

Probabilmente il problema si trova molto più a monte di quanto siamo disposti a credere. Tanto la destra tradizionale quanto la sinistra socialdemocratica e post-comunista, in Ungheria, vantano da sempre un profondo legame con l’Europa occidentale e con gli Stati Uniti d’America. Le loro scelte di governo sono sempre state tese a soddisfare questi due loro importanti committenti, in modo e maniera da rendere l’Ungheria sempre armonica e soprattutto “ancillare” nei loro confronti. Tutto è venuto meno con Orban, che ha pesantemente messo in discussione questo modello, basato su una strategia che mirava ad edificare un’idea di paese completamente diversa dalla sua. Secondo Orban l’Ungheria doveva essere un paese sovrano, in grado di misurarsi ad armi pari con le altri grandi potenze mondiali, facendo valere il suo peso strategico e geopolitico e, cosa importantissima, anche la sua grande storia.

Così Orban ha cominciato ad impostare una politica d’intesa con quei paesi che, guarda caso, sono visti come il fumo negli occhi dalle forze politiche tradizionali, che si tratti della destra liberal o della sinistra altrettanto liberal. Ha cominciato a parlare con la Russia e soprattutto con la Cina, con cui ha stabilito di fare dell’Ungheria uno dei paesi d’approdi della moderna e rivoluzionaria strategia della Nuova Via e della Nuova Cintura della Seta. Ciò ha comportato importanti intese anche con altri paesi europei e non europei che si trovano al di fuori dell’UE o della sua rete di simpatie, e che parimenti non sono visti di buon occhio nemmeno dalla Casa Bianca. Il risultato è sotto i nostri occhi: di fronte ad un simile atteggiamento, Orban non poteva che essere demonizzato ed additato come colui che aveva compiuto, nel cuore dell’Europa, la “resurrezione del fascismo”. Come ben sappiamo, la demonizzazione di Orban e dell’Ungheria data ormai a ben prima del caso dei migranti giunti ad ondate in Europa centrale e meridionale a causa del caos mediorientale e siriano in particolare. Quest’ultimo caso è stato strumentalizzato a dovere, per accrescere presso il pubblico occidentale e soprattutto europeo l’immagine negativa dell’Ungheria, ma anche per causare a quest’ultima non pochi guai di tipo logistico, politico ed organizzativo. Non è un caso che si siano usati i migranti per far pressione soprattutto su quei paesi che, per un motivo o per un altro, sono da tempo caduti in disgrazia presso la politica occidentale, come la Macedonia, la Serbia o l’Ungheria. Anche la Grecia, da questo punto di vista, ha avuto il suo bel prezzo da pagare, e così Cipro. Sono tutti paesi che, neanche a farlo apposta, hanno stabilito ormai da tempo relazioni costruttive con le potenze orientali, in primo luogo la Russia, soprattutto in materia economica, commerciale ed energetica, e che guardano ancora più in là, fino alla Cina. Che sia solo un caso? Sono, poi, paesi che anche sulla crisi ucraina hanno rotto le uova nel paniere alla politica occidentale, per inciso a quella atlantista formata dal duetto Washington-Bruxelles, ben più di una volta. Che sia anche questo solo un caso? Pare tutto molto strano.

In un simile clima di demonizzazione del “nemico interno”, ovvero di colui che dentro l’Europa unita fa il bastian contrario e segue una politica economica ed estera tutta sua, un paese come l’Ungheria non può che farne le spese. Ed ecco che allora si parla di “vagoni piombati”, di “compagni socialisti e comunisti” messi al bando oppure financo “deportati”, e così via. Quante ne sono state dette? Tutto fa brodo, quando si tratta di demolire l’immagine di un paese che, invece, è tra i più civili ed avanzati del Continente Europeo. Un paese che, non dimentichiamocelo, è stato anche imperiale e che ha vissuto una stagione “risorgimentale” con molti lati in comune con la nostra. Anche per questo dovremmo sentirlo come fratello, come amico, e non come il suo contrario. Ma, fintantochè dovremo fare i conti con parole e sortite come quelle del nostro presidente del consiglio Matteo Renzi (“Oggi il vero rischio per l’Europa non è la Russia [che è fuori], ma l’Ungheria”), difficilmente si potrà sperare in un qualche positivo eppure indispensabile passo in avanti.

 

Filippo Bovo 

 
Complicità USA coi takfiri PDF Stampa E-mail

21 Ottobre 2015

 

Da Rassegna di Arianna del 19-10-2015 (N.d.d.)

 

Da alcuni giorni, constatiamo che sono quasi sparite dai giornali e dalla TV le informazioni relative ai due principali conflitti in Medio Oriente, ci riferiamo naturalmente al conflitto in Siria, che dura da quasi 5 anni, con il massiccio intervento militare russo, iniziato il 30 di Settembre ed a quello in Iraq, dove lo Stato islamico ed altri gruppi terroristi avevano preso il controllo di vaste aree dei territori di quei paesi.

Tralasciamo di parlare del conflitto o “dell’intifada dei coltelli” in Palestina, che richiederebbe una lunga trattazione a parte su quali ne siano le cause e gli effetti.

Circa il conflitto in Siria, si era registrato un grosso clamore mediatico iniziale determinatosi nell’ occasione dell’intervento delle forze aeree russe in Siria ed il coro dei media occidentali aveva riportato fedelmente le ridicole accuse della propaganda USA fatte alla Russia per aver bombardato non soltanto le postazioni dell’ISIS (lo Stato Islamico) ma anche quelle degli “oppositori” di Assad, altrimenti denominati dalla propaganda USA come “ribelli moderati”.

Inoltre Mosca era stata accusata da Washington e da Londra di aver prodotto con i suoi bombardamenti diverse vittime civili. Da notare che l’accusa è stata fatta da quelle stesse centrali anglo americane che, soltanto in Iraq, con la loro campagna di guerra basata su menzogne (le armi di distruzione di massa) hanno prodotto circa un milione e 500.000 vittime civili, tralasciando quelle prodotte in Afghanistan, in Libia, in Somalia, in Sudan e le migliaia di vittime civili causate le operazioni attuate con i droni senza pilota, coordinate dal Pentagono ed attuate in altri paesi. Questo però per i media atlantisti è un argomento che risulta preferibile non trattare ed in genere anzi gli opinionisti di questi giornali cercano di far dimenticare questi come “effetti collaterali” delle guerre di Washington e della NATO, fatte comunque per ” portare la democrazia”.

Negli stessi giorni in cui era partita la campagna di criminalizzazione della Russia di Putin, si è avuta la notizia del bombardamento dell’aviazione statunitense effettuato sull’Ospedale di Emergency in Afghanistan, con vittime fra medici, infermieri e pazienti arsi vivi nei loro letti e questo ha avuto l’effetto di far tacitare di colpo le accuse sulle vittime civili dei bombardamenti russi. Tutto ha un limite ed anche la propaganda più becera, alle volte, deve arrestarsi di fronte all’evidenza dei fatti.

Le tesi della propaganda USA, circa gli obiettivi dei bombardamenti russi, sono talmente insostenibili e al di fuori da ogni logica, che la stessa propaganda dei media occidentali oggi si è dovuta frenare di fronte alle rivelazioni, alle prove documentate ed alle stesse ammissioni di personaggi dell’establishment USA di quanto Washington sia stata coinvolta nella creazione dell’esercito mercenario dell’ISIS e degli altri gruppi che operano in Siria ed in Iraq come il Fronte al-Nusra. Neppure il penoso pretesto degli “oppositori moderati” ha retto per più di tre giorni di fronte all’evidenza che questi “oppositori moderati”, addestrati dalla CIA, per ammissione degli stessi generali del Pentagono, sono finiti a rimpinguare le fila dei miliziani takfiri di AL Nusra (ramo di al-Qaeda) e dell’ISIS portando in dotazione tutte le armi che erano state loro consegnate.

È emerso anche il caso dei veicoli Toyota acquistati tramite gli USA e l’Arabia Saudita  e dati in dotazione ai terroristi dell’ISIS, un caso esilarante che dimostra chi aveva interesse a fornire tutte le dotazioni necessarie ai terroristi islamici. Questo spiega il silenzio dei media atlantisti ed il tentativo di “distrarre” l’opinione pubblica dal teatro delle operazioni che avrebbe un effetto negativo sulla credibilità degli USA e delle politiche occidentali. C’è però molto di più di quello che sembra e le notizie più imbarazzanti per l’Amministrazione di Washington provengono oggi dall’Iraq.

 Fonti ufficiali irachene attestano che l’esercito iracheno, nel corso della riconquista delle posizioni e degli avamposti che erano sotto controllo dell’ISIS, a Faluja, nella provincia di Al Anbar, nella zona ovest dell’Iraq, avrebbero scoperto un arsenale di armi, di munizioni e di missili anticarro di fabbricazione USA, nuovi di zecca, che erano nella mani dei terroristi. In particolare è stato ritrovato un grosso stock di missili anticarro TOW-2, armi sofisticate di cui disponevano i terroristi takfiri e che hanno abbandonato nel corso della loro ritirata di fronte all’offensiva delle forze irachene. Erano armi che avrebbero dovuto essere utilizzate contro i carri armati e gli elicotteri delle forze irachene ma che i terroristi non hanno fatto in tempo ad estrarre dai loro imballi visto che recano ancora le diciture del US Army, con n. di matricola e data di fabbricazione. Il comando USA, richiesto di fornire spiegazioni, da parte del Pentagono ha dichiarato in una nota che queste armi erano scomparse dai loro depositi l’anno scorso. Nessuno però ha dato molto credito a questa dichiarazione. 

Non è la prima volta che le forze irachene scoprono le armi americane consegnate ai terroristi ed in particolare si sono verificati degli episodi, denunciati in passato senza però seguito, di invio di armi per mezzo di aerei ed elicotteri paracadutate sulle postazioni dei terroristi con l’evidente intento di prolungare la guerra e ritardare l’offensiva delle forze lealiste del governo iracheno. L’ultimo episodio di fornitura ai terroristi, a mezzo di aviolancio di casse di armi e munizioni, è avvenuto nella zona di Beiyi, il 10 di Ottobre.

Nei mesi precedenti sono stati denunciati altri episodi simili, in particolare era avvenuto nella zona di Kirkuk, come denunciato dal comandante delle forze di mobilitazione popolare, Yafar al Yaberi, il quale aveva riferito che lui ed altri testimoni avevano potuto scorgere come aerei ed elicotteri della coalizione USA scaricassero sulle posizioni dei terroristi casse contenenti armi ed equipaggiamenti vari, testimonianza riferita anche all’agenzia Fars. Inoltre due aerei della coalizione sono stati visti pochi giorni prima paracadutare casse sulle posizioni dei terroristi anche nella zona di Al Jas, en Diyala, ha riferito al Yaberi.

Da notare che nei mesi scorsi questi episodi di rifornimento da parte degli aerei USA ai terroristi erano stati denunciati anche da parlamentari iracheni ma erano rimasti senza alcun seguito. Le autorità militari USA si sono rifiutate di fornire spiegazioni. Inoltre, all’inizio di quest’anno, due aerei britannici si sono schiantati in Iraq nella zona di Ambar mentre trasportavano armi destinate all’ISIS e sono stati fotografati da una commissione del Parlamento Iracheno diretta dal presidente del Comitato, Hakim al Zameli, con tanto di nota di protesta inviata a Londra.

Questi episodi spiegano perché il governo iracheno abbia voltato le spalle agli USA e si sia rivolto direttamente alla Russia per ottenere un appoggio nella campagna antiterrorista contro l’ISIS, richiedendo un intervento delle forze aeree russe per colpire le posizioni dei terroristi. Inoltre il governo iracheno ha realizzato a Baghdad un centro di coordinamento assieme alla Russia, all’Iran ed alla Siria per coordinare la lotta contro i terroristi.

La strategia USA che mira a favorire il caos nella regione ed ad utilizzare l’esercito dei gruppi di terroristi takfiri come pretesto per raggiungere i propri fini, che sono quelli di rovesciare i governi legittimi e arrivare ad una frammentazione dei paesi arabi è una strategia ormai svelata ed anche dichiarata da parte di esponenti dell’Amministrazione USA.

Un fatto che risulta evidente è il fallimento della campagna di bombardamenti della coalizione comandata dagli USA che, in un anno di tempo, non ha prodotto risultati ma anzi ha permesso allo Stato islamico di espandersi, quasi indisturbato, nei territori dell’Iraq e della Siria. Facile mettere a confronto con l’intervento delle forze aere russe che in due settimane sono riuscite a smantellare circa il 40% delle strutture militari dell’ISIS e di Al Nusra.

Una politica, quella dell’Amministrazione Obama, che non manca di avere effetti negativi più generali sull’affidabilità degli Stati Uniti come potenza egemone che opera con forme di sobillazione e di appoggio occulto del peggiore terrorismo wahabita, alleata con i regimi più assolutisti ed oscurantisti della regione (Arabia Saudita, Qatar, Bahrain, ecc.) e che pretende di dare patenti di democraticità o di tirannia ai regimi arabi in funzione di quanto siano conformi o meno ai propri interessi.

Tutti gli osservatori sono oggi concordi nel rilevare che i paesi arabi ormai guardano alla Russia come potenza protagonista in Medio Oriente, si registra anche un riavvicinamento alla Siria di Assad da parte di paesi come l’Egitto, l’Iraq e la Giordania ed il prestigio degli USA risulta sceso ai più bassi livelli dai tempi della spedizione di Suez (1956) in poi.

 

Luciano Lago 

 
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