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Carbonari del Web PDF Stampa E-mail

8 Ottobre 2015

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 7-10-2015 (N.d.d.)

 

Oramai il tema della censura va reinterpretato. Non esiste più, e da un decennio almeno, il muro invalicabile, composto dal costo delle strutture, per poter pubblicare praticamente ogni cosa e riuscire a raggiungere un numero potenzialmente infinito di persone. Certo, l'estensione del numero delle possibilità e dei media sui quali pubblicare messaggi e contenuti che prima era del tutto impossibile riuscire a diffondere, ad esempio il web, non significa automaticamente che l'efficacia di tale azione sia uguale a quella che tuttora hanno i media mainstream, televisione sopra ogni cosa.

Il discorso dovrebbe essere chiaro a tutti ed è inutile tornarci sopra a lungo: ancora oggi, a dominare la scena sono la televisione e tutto il carrozzone che in televisione continua a essere rappresentato, dai giornali di massa (che in Tv hanno ospitalità e megafono) a tutta la pletora di opinionisti e comunicatori che alla televisione vengono fatti accedere a discapito di tutti gli altri. Con i criteri ben precisi che conosciamo. Ma è parimenti importante considerare come le nuove strategie dei nodi fondamentali della rete, oggi, e cioè Google e i social network, stiano operando al fine di rendere anche internet molto meno libero di quanto originariamente non fosse e di quanto ancora oggi si abbia percezione che sia.

Siccome la quasi totalità delle ricerche on-line, e dunque dei contenuti che effettivamente vengono proposti come risultati e indicati come luoghi da raggiungere è solo potenzialmente infinita e libera, ma invece mirata e orientata, tutta questa libertà in cui ancora, soprattutto sul web, ancora si crede, è in realtà uno specchietto per le allodole (felici e incoscienti).

Se due persone diverse, da due postazioni differenti, dunque con due Ip di provenienza differenti, fanno la medesima ricerca sul principale motore di ricerca del mondo, ottengono oggi dei risultati molto diversi. E molto uguali, invece, alle proprie personali inclinazioni, che Google stessa, registrando e imparando i temi che cerchiamo più frequentemente, sceglierà per noi di metterci davanti.

È un esperimento che può fare chiunque: basta scambiarsi una telefonata, tra almeno due persone in due luoghi differenti, e decidere di fare una ricerca su Google allo stesso momento con le stesse identiche parole chiave. Il risultato che i due browser restituiranno (purché la ricerca, ribadiamo, avvenga da due Ip differenti) cercando due identiche parole chiave (parola uno+parola due oppure anche con una frase che restituirà un risultato a una ricerca semantica) come si verificherà sarà enormemente differente per i due soggetti che stanno facendo l'esperimento.

Il motivo ufficiale di Google è quello di far emergere per ogni utente la sua ricerca personalizzata per fargli ottenere il più precisamente possibile l'obiettivo. Google, come detto, imparando e registrando, via via che lo utilizziamo, i temi e gli argomenti che ci interessano più frequentemente, si arroga il diritto di consegnarci i risultati che ritiene più opportuni. In pratica, in luogo di tutti i risultati che la rete sarebbe in grado di restituirci, ci indica quelli che - secondo lui - sono più adatti e pertinenti per noi.

Non un motore di ricerca, dunque, ma un vero e proprio tutor personalizzato. Che opera con dei criteri tutti suoi, e senza che noi gli avessimo richiesto di farlo, orientando i risultati che mostra.

Si dovrebbe capire immediatamente l'importanza di tale cambiamento. Perché non solo dichiara chiusa definitivamente la possibilità di accedere effettivamente a qualsiasi contenuto che magari può sul serio interessarci (e che qualcuno, in assoluta libertà, può avere pubblicato) senza che lo siamo andati a cercare in modo preciso, ma dichiara aperta la stagione di un nuovo - e unico - creatore di senso. Come fosse una persona in carne ed ossa (un amico, un libraio di fiducia, un giornalista cui si crede) al quale si chiede una cosa e ci si affida per la risposta. Solo che le motivazioni che spingono Google alle risposte per noi, ovviamente ci rimangono oscure. Oltre al fatto che "il nostro amico Google" proprio amico non è, né gli abbiamo scientemente concesso la fiducia che pure gli accordiamo inconsciamente ogni volta che ci rivolgiamo al suo motore di ricerca.

Insomma è il motore di ricerca che ci guida, che sceglie per noi. Cioè l'azienda che lo produce e lo sviluppa. Con criteri tutti suoi. 

Ed è così anche per il social network che mostra nella nostra timeline alcuni risultati e contenuti e altri no, vedi il recente accordo con "le maggiori testate giornalistiche del mondo", ovviamente considerate tali da lui, e non scientemente da noi.

Nessun complotto, beninteso, tutto alla luce del sole (tanto ormai chi vorrete che capisca la portata di tale cambiamento?). Prendiamo in esame questo titolo di un video di Repubblica di ieri: "Facebook: così vi guidiamo alla scoperta della vostra pagina" (qui il video). A parlare è Adam Mosseri, uno dei responsabili del team di prodotti di Facebook. E se non vi volete digerire il video (e la pubblicità che lo precede) basta comunque analizzare il titolo per capire la conferma di quanto abbiamo appena scritto. Insomma: il social network si arroga il diritto di scegliere e di guidarci alla scoperta della nostra pagina.

In definitiva, pertanto, ciò che viene veicolata come la possibilità di ricerche personalizzate, non è altro che un filtro scelto da altri per mostrarci alcune cose e per occultarcene delle altre. In barba alla libertà del Web...

Prima non si era in grado di poter veicolare tutti i messaggi perché i costi di avviamento di una struttura comunicativa erano enormi. Oggi, con i costi che sono drasticamente ridotti, molto semplicemente è del tutto inutile pubblicare alcuni messaggi, perché in luogo dell'accesso o meno a tali costosi strumenti è stato sostituito il meccanismo di filtro, di muro di ingresso. Con la semplicità di un algoritmo.

A prima vista dunque si potrebbe parlare di un meccanismo di censura 2.0 e il tema dunque sembrerebbe ritornare di pressante attualità. Vero, ma esiste ancora - almeno per ora - una via di uscita. Che ci riporta alla natura analogica che contraddistingue l'uomo a differenza delle "macchine".

Questa via d'uscita è rappresentata dalla possibilità di concedere fiducia a individui in carne ed ossa, cioè a uomini. O a un gruppo bene definito di uomini e donne che si mettono assieme per costituire un (possibile) punto di riferimento di informazione e comunicazione. È quello che oggi viene definito "news brand". Affidarsi, per la propria informazione, per raggiungere una tipologia (e una qualità) ben precisa di messaggi e di risposte, a un soggetto che si conosce e al quale si accorda proprio per questo fiducia, è l'unica possibilità di sfuggire alla rete dei nuovi filtri della comunicazione. Ed è guarda caso ciò che i social network e i grandi motori di ricerca hanno preso come obiettivo principale da abbattere. Essi scelgono per noi, scompattano i messaggi di ogni news brand e ci restituiscono ciò che reputano opportuno diluendo, fino a farlo dissolvere, il "marchio" originario di provenienza, cioè, in sostanza, il nome e cognome, e il volto - cioè la sua storia, la sua credibilità - e anche l'indirizzo preciso di chi ha emesso il messaggio. Vogliono che tutto passi da loro, che le persone non vadano più a casa (cioè sul sito) di chi hanno scelto di frequentare, ma utilizzino il mega supermaket dell'infotainment targato Google e Facebook, con prodotti bene selezionati, naturalmente. Da loro per noi.

Loro puntano al Centro Unico di Emissione (e controllo). Tutti noi, per salvarci, dobbiamo tornare a sostenere e a frequentare solo i nostri personali (in quanto scelti personalmente) centri di emissione. Quelli che hanno nome e cognome, per intenderci. Quelli in cui noi crediamo e scegliamo di concedere fiducia. Esiste ancora - per ora - la possibilità di farlo. Perché un centro di emissione, almeno dalle nostre parti, può ancora essere raggiunto personalmente quando lo si è scelto, puntando direttamente al suo indirizzo (che è la url) digitandolo sul browser. E può ancora essere rilanciato e diffuso nella propria agenda di contatti. In modo analogico, uno a uno, o uno a molti, nella propria personale sfera di influenza. Operazione quasi carbonara, potremmo dire. Ma ancora in grado di sfruttare le possibilità offerte dalla rete, da internet.

È dunque essenziale intanto scegliere e selezionare coloro cui dare fiducia, e quindi, parimenti importante, evitare scientemente il resto.

Quando ciò non dovesse essere più possibile, quando cioè anche da noi renderanno impossibile raggiungere alcuni indirizzi (in Cina, ad esempio, già è così) si dovrà fare un ulteriore passo avanti, tornando ancora di più all'analogico, cioè indietro, e chiudendo il cerchio. A quel punto sarà del tutto inutile avere un computer. E la resistenza, la sopravvivenza, il proprio modo di continuare ad essere alive, dovrà finalmente tornare ancora più umano.

 

Valerio Lo Monaco 

 
La pazienza della ragione PDF Stampa E-mail

7 Ottobre 2015

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Da Appelloalpopolo del 6-10-2015 (N.d.d.)

 

Faccio due esempi di altrettanti enunciati dell’ideologia dominante che, per essere confutati, necessitano di più gradi d’argomentazione.

Il primo enunciato-esempio recita: “gli italiani non fanno più figli, dunque per sostenere il sistema previdenziale e sanitario, abbiamo bisogno di milioni di immigrati in più”.

Dinanzi a questo slogan noi – working class e ceto medio impoverito – siamo tutti impotenti. Non perché lo slogan affermi il giusto ma perché, al fine di confutarlo sul piano etico, sono necessari almeno due livelli di argomentazione.

– Primo livello: in effetti sì, negli ultimi quarant’anni si è diffusa una cultura tendenzialmente ostile alla riproduzione e, per averne riprova, è sufficiente fare un sondaggio presso i ventenni e quindi registrare in quale percentuale essi rispondano “non farò mai figli nella vita”; si tratterà, difatti, d’una percentuale elevatissima.

– Secondo livello: eppure, malgrado quanto appena detto, è anche vero che l’ingresso tardivo nel mondo del lavoro – e l’ancor più tardivo passaggio dai “lavoretti” a una forma di precariato contrattualizzata – sottraggono desiderio, motivazione e possibilità concreta alla generazione di figli da parte dei giovani – e tutto questo fino ad età molto avanzata.

 

Il secondo enunciato-esempio, invece, è quello che recita “i migranti fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare”.

Anche qui si è impotenti, giacché la confutazione dello slogan richiede almeno due passaggi argomentativi.

– Primo passaggio: in effetti sì, per tutti gli anni ’90 e buona parte del primo decennio dei Duemila, il settore col tasso di crescita percentuale più elevato fra gli ingressi nel mercato del lavoro, è stato quello dei mestieri creativi/cognitivi a discapito dei lavori usuranti. Infatti, era l’epoca in cui si parlava di “economia della conoscenza”, “classe creativa” e altre categorie che poi si sarebbero rivelate – in seguito alla crisi 2007-2008 – nulla più che suggestione poetica o, per dirla più brutalmente, pura e semplice fuffa.

– Secondo passaggio: d’altro canto, la tesi degli “italiani che non vogliono più fare certi lavori” può essere sì considerata valida per i due decenni sopra citati, ma non è più – nella maniera più assoluta – applicabile al contesto odierno. La situazione è difatti mutata profondamente e, per averne riprova, è sufficiente essere italiani, andare a cercare un lavoro “umile” e riscontrarne, quindi, l’evidente scarsità (ovviamente, chi scrive parla per esperienza diretta). Le uniche prestazioni che il mercato del lavoro oggi richiede – anzi, delle quali vi è carenza – sono quelle tecnico-manuali a elevato grado di specializzazione.

 

Conclusione: quando i fenomeni storico-sociali richiedono spiegazioni complesse, semplificare a fini comunicativi costituisce un errore strategico. Sul terreno della semplificazione, l’ideologia dominante vince sempre: vuoi per maggiore potenza di fuoco (controllo dei media), vuoi perché qualunque cosa suddetta ideologia enunci viene venduta come innovazione, come un “guardare avanti”; e tutto ciò che si contrappone è facilmente stigmatizzabile, grazie a questa retorica neo-moderna e neo-futurista, come un “guardare indietro”.

Pertanto, occorre svolgere un lavoro lento e pedagogico che abitui le platee fisiche e telematiche alle argomentazioni pluristratificate, al ragionamento lungo e articolato, all’applicazione di rigore epistemologico nel momento in cui si deve assumere o confutare un dato concetto.

Altra strada, per combattere l’ideologia dominante, credo non sia percorribile

 

Riccardo Paccosi 

 
Il sonno della ragione PDF Stampa E-mail

6 Ottobre 2015

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Come non dovrebbe essere difficile – usando un pensiero indipendente - capire che se i Paesi da cui fuggono i rifugiati non fossero stati devastati da guerre volute e finanziate dall’Occidente e dai suoi lacchè wahabiti, questa marea di disperati non cercherebbe rifugio in Europa, altrettanto non dovrebbe essere impossibile inquadrare il problema dei foreign fighters in un’ottica meno insensata.

Si calcola che vi siano oggi circa 30.000 combattenti stranieri nelle file di chi lotta per il Califfato islamico nei Paesi dove l’invasione occidentale ha annientato il tessuto sociale e seminato solo morte, distruzione e disperazione. Vale a dire in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia.

Di questi, ben 2.000 proverrebbero da Paesi europei, dunque figli nostri, prodotti della cosiddetta società civile, figli del benessere, della libertà e dell’emancipazione. Che cosa spinge dunque questi giovani britannici, francesi, italiani, norvegesi, tedeschi a prendere le armi e rischiare la propria vita per un ideale così lontano dalla nostra cultura? E non parlo solo di figli di famiglie di fede musulmana, ma di tanti giovani che hanno abbracciato la crociata islamica pur provenendo da famiglie di tradizione cristiana o apertamente atea.

Che cosa li spinge? Questa dovrebbe essere la domanda da porsi prima di sentenziare, minacciare, condannare.

Allora diamo uno sguardo alle nostre società, a come si sono sviluppate dal secondo dopoguerra.

Dopo la ricostruzione, la ripresa economica e le istanze libertarie del ’68 e dintorni, abbiamo assistito ad un progressivo appassire, sfiorire degli ideali. Ancora trenta o quarant’anni fa ci si confrontava – a volte anche scontrandosi in modo violento – per degli ideali.

Si era comunisti, fascisti, anarchici, di destra, di sinistra. Si credeva di poter cambiare il mondo a partire da quegli ideali. Giusti o sbagliati che fossero, erano comunque forze propulsive impersonali, non egoistiche. Si pensava, se pur ingenuamente, che i mali della società, le ingiustizie, le iniquità, sarebbero - come per incantesimo - scomparse se avesse trionfato l’ideale in cui ci si riconosceva.

Cosa è accaduto dopo?

È accaduto che quegli ideali si sono dimostrati incapaci di guarire il mondo e sono progressivamente sfioriti.

Cosa è rimasto allora?

Nella Storia e nelle società umane quando si crea un vuoto, esso non rimane tale, viene subito riempito. Quando l’elemento ideale muore, viene sostituito da qualcos’altro.

Cosa ha sostituito dunque gli ideali?

Come ben diceva Lukács “il sonno della ragione genera mostri”; e quali sono questi mostri?

Innanzitutto il Mercato ha sostituito gli ideali.

Il Mercato, questo feticcio figlio del liberismo assoluto, che ha divorato l’economia, con le sue multinazionali che hanno spazzato via la piccola imprenditoria e i diritti dei lavoratori, tutti ormai trasformati in consumatori condannati a rincorrere l’ultimo prodotto da acquistare.

In secondo luogo la tecnologia.

Oggi l’ultimo modello di smartphone per un giovane è più importante del confronto diretto con i propri simili, si chatta invece di dialogare, ci si collega in video invece di guardarsi negli occhi, si twitta invece di esprimere concetti articolati, si postano commenti di terza mano invece di pensare. Per inciso, sono personalmente un sostenitore della tecnologia ma non posso non notare che essa – come ogni cosa umana, peraltro – può diventare estremamente dannosa se il soggetto ne viene usato invece di usarla.

Infine l’angoscia e la paura, che sono state seminate ad arte per rendere i popoli sempre più malleabili e sottomessi a poteri ormai incontrollati e incontrollabili.

Che orizzonti hanno dunque oggi i giovani davanti a sé?

Senza ideali, senza lavoro, senza certezze per il futuro, cittadini di un pianeta oltraggiato, devastato e avvelenato. Con l’unica prospettiva di correre – come la gazzella nella savana – a perdifiato tutta la vita per conquistarsi prima un posto di lavoro, per poi comprarsi casa, auto, TV e tutti i gadget possibili, per fare carriera, rincorrere il benessere, senza neppure la certezza di avere una pensione alla fine del percorso? Senza il tempo per fermarsi a pensare, senza potersi chiedere il senso della vita, senza un elemento impersonale - un ideale - verso cui alzare lo sguardo.

Come stupirsi allora se alcuni di loro – i più fragili certamente, ma al tempo stesso i più bisognosi di un elemento ideale – oggi si giochino la stessa vita per una causa non loro, oltretutto distorta e mostruosa – ma pur sempre una causa ideale?

Il mondo si è sì liberato degli ideali, ma qualcosa di molto più inquietante ha preso il loro posto.

 

Piero Cammerinesi  (corrispondente dagli USA di Coscienzeinrete Magazine, Altrogiornale e Altrainformazione) 

 
Sulla libertà d'espressione PDF Stampa E-mail

5 Ottobre 2015

 

Da Comedonchisciotte del 26-9-2015 (N.d.d.)

 

Sono solidale con Erri De Luca, sotto processo per avere sostanzialmente affermato che, di fronte alla sordità nei confronti delle ragioni e dei sentimenti di un’intera popolazione, il sabotaggio può essere l’unico modo per fare sentire la propria voce inascoltata e tentare di modificare il corso prevedibile degli eventi. Mettere sotto processo una persona (importa poco che sia scrittore o meno) perché in un’intervista giustifica chi fa uso di cesoie per tagliare reticolati, e questo di fronte all’enormità di questo rifiuto, mi sembra una cosa inaccettabile e grave.

Io non mi sono fatto della velocità un feticcio ideologico negativo. Mi piace la lentezza, ma mi piace anche la velocità. Però qui siamo di fronte a un progetto contestato da un’intera popolazione, da sindaci e da esperti che ne hanno rilevato in modo documentato le gravi pecche e i risvolti negativi legati all’impatto ambientale e alla salute degli abitanti (la montagna d’amianto che si vorrebbe bucare) e che hanno anche presentato progetti alternativi, ma che non sono stati ascoltati. E questo in nome di un’idea astratta di “progresso”, oltre che dei grandi e concreti interessi legati a questa astrazione. Così una persona che si è fatta portavoce di questo motivato rifiuto è finita sotto processo, mentre altre persone, amministratori, tecnici e anche politici di primo piano, che pure hanno ricevuto un mandato elettorale dai cittadini e che quindi dovrebbero ascoltarne le ragioni, sarebbero invece gli eroi positivi del progresso contro i negativi e retrivi abitanti della valle che rifiutano il progresso.

Tutto ciò pone dei gravi interrogativi sul nostro futuro di specie e sulle scelte che bisognerà avere il coraggio e l’immaginazione di fare di fronte al deteriorarsi del nostro rapporto con l’ambiente planetario in cui viviamo, lacera il rapporto tra elettori ed eletti e straccia il velo di una simile democrazia a senso unico.

Perciò -per quanto può valere la mia solidarietà- non posso che essere dalla parte di Erri De Luca, senza riserve, senza se e senza ma.

Però, nello stesso tempo, non posso firmare la mozione di solidarietà con lui in nome della libertà di espressione. E questo non per viltà o per ragioni di opportunità, ma perché dissento profondamente da come la questione è stata posta in questa mozione.

Cercherò di spiegare il perché.

Io non credo che le parole siano un insieme dove sono tutte interscambiabili e ineffettuali, non credo che ci sia una zona franca e neutra dove ogni parola possa venire astrattamente permessa e nello stesso tempo depotenziata e disinnescata in nome della libertà di opinione. Firmare una mozione posta in questi termini sarebbe per me come dire: “Che bello! Avete proprio ragione. Le parole non contano niente. Possiamo dire tutto quello che vogliamo, tanto non conta niente”. Vorrebbe dire che io sono d’accordo sul fatto che le parole non hanno peso, che non vanno prese sul serio, vorrebbe dire che accetto la dimensione vuota in cui si vorrebbero collocare le persone che si esprimono anche attraverso parole, e questo non posso farlo, come uomo e come scrittore.

Inoltre, a firmare questa mozione -cui vedo stanno aderendo noti scrittori, capi di stato e altri paladini di questa idea di libertà- mi sentirei un ipocrita, perché io non sono affatto sicuro di poter essere sempre e comunque solidale con chi esprime determinate opinioni, e questo in nome della sola e astratta libertà di espressione. Se, per esempio, domani qualcuno sostenesse -in un suo libro, in un’intervista o in qualsiasi altro modo- che bisogna schedare e bruciare le case e i negozi degli ebrei, oppure incendiare i campi rom o radere al suolo la Cappella Sistina, io certo non firmerei una mozione in sua difesa. Perciò mi sentirei un ipocrita a firmare oggi una mozione posta in questi stessi termini e che poggia sulle stesse astratte motivazioni. Né credo che questa contraddizione si possa aggirare con una capriola dialettica, come altri fanno, mettendomi cioè al riparo da questo rischio stabilendo a priori ciò che non rientra in questo campo di possibilità, come ad esempio le ideologie totalitarie di destra, negatrici di libertà.

E poi, oltre a tutto questo, mi domando anche perché questa libertà dovrebbe essere privilegio di uno scrittore più che di qualsiasi altra persona. Questo spazio sostanzialmente infantile e deresponsabilizzato concesso agli scrittori è qualcosa che infantilizza e deresponsabilizza anche le loro stesse parole. Si mostra di concedere loro qualche lusso in più, ma al prezzo di rendere depotenziate, ineffettuali e inerti le loro parole.

Strana cosa questo destino che, in nome della “tolleranza” (grande mito delle nostre società avanzate, che bisognerebbe prendere a scatola chiusa e senza vederne i risvolti), si vorrebbe riservare alle parole degli scrittori o di chiunque ne faccia un uso mediatico pubblico. Infatti, mentre in ogni altro campo si attribuisce un potere effettuale e vincolante alle parole (in un documento di matrimonio o divorzio, in un rogito, in un testamento ecc…), in quello che riguarda invece il cosiddetto discorso pubblico e in particolare nelle cose dette da uno scrittore o da chiunque sia visto come accreditato a esprimere opinioni le si riduce appunto a “opinioni”, le si fa rientrare nella dimensione ineffettuale, insiemistica e deresponsabilizzante della “libertà di opinione e di espressione”. E allora è concesso tutto, è concesso tutto perché è stato tolto tutto.

Certo, questo può sembrare un passo in avanti rispetto a ciò che succede nei regimi totalitari, siano essi di natura politica o religiosa. Basti pensare a quanto hanno sofferto scrittori e poeti nell’Unione Sovietica di Stalin (chiusi nei lager e condotti a morte da un regime che prendeva maledettamente sul serio le loro parole), o altri più vicini a noi, costretti a vivere nascosti perché minacciati di morte e/o sottoposti a mostruosi editti religiosi e fatwe, quando non massacrati da feroci giudici-boia, come è successo poco fa in Francia ai vignettisti di Charlie Hebdo. Però, se guardiamo a fondo, non è anche questo un altro modo (umanamente preferibile, certo) di togliere peso e forza alle parole, di rendere interscambiabile e gratuito ciò che dicono non prendendolo sul serio, di impedire la loro effettualità e il contagio che ne può derivare? E anche, allargando il campo, non è un altro modo di rendere neutra, ineffettuale e depotenziata l’intera letteratura?

Io sono particolarmente sensibile a questo, e lo sono non solo per ragioni di principio ma anche perché l’ho vissuto sulla mia pelle. Mi è capitato infatti, dopo i vent’anni, di venire incarcerato per un reato cosiddetto d’opinione, perché avrei cioè vilipeso l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone durante un comizio tenuto in un paese dell’Oltrepo Pavese. Per questo reato sono stato arrestato, portato via in manette e poi con i ferri ai polsi tra due carabinieri armati di mitra, ho visitato un paio di prigioni dove sono stato sottoposto a ispezione rettale e dove ho passato diversi giorni in isolamento in una cella sotto terra con paglione e bugliolo, sono stato poi scarcerato per gravi errori contenuti nel documento di carcerazione, processato a piede libero e condannato a un anno e due mesi.

Perciò lo so bene: il reato di opinione è una cosa grottesca e orribile. Ma non è altrettanto grottesco e orribile depotenziare le parole e le convinzioni dei viventi, ridurle a scatole vuote, non entrare mai nel merito delle parole stesse, che possono essere molto diverse le une dalle altre e meritare diversa riflessione e ascolto, invece che essere collocate nella categoria insiemistica della libertà di opinione in cui è concesso tutto perché è stato sottratto tutto alla radice? Se io domani dovessi venire processato o condannato per un reato di questa natura, mi piacerebbe certo sentire la vicinanza e l’amore delle persone libere ma, a torto o a ragione, non me la sentirei di chiedere a nessuno la solidarietà in nome di un principio che nega l’urgenza, la necessità e la verità delle stesse parole che ho pronunciato o scritto. Per tutto questo e per altro ancora sto con Erri De Luca, ma non sto con una generica libertà di espressione e di opinione che toglie ogni verità, responsabilità e forza a espressioni e opinioni.

 Antonio Moresco 

 
Il piano Kalergi PDF Stampa E-mail

4 Ottobre 2015

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Da Rassegna di Arianna del 28-9-2015 (N.d.d.)

 

Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi era un conte austriaco considerato pioniere dell’integrazione europea. Nato a Tokio nel 1894 e morto nel 1972. Nel 1923 scrive il suo primo libro, che guarda caso si chiama “Pan-Europa“. Lo manda a tutte le persone più influenti e allega ad ogni copia un modulo di adesione. Oggi lo chiameremmo spam. Così nasce il Movimento Pan-Europeo. Che non era mica il circolo del bridge: dentro c’era gente come Albert Einstein, Thomas Mann e Sigmund Freud.

Kalergi voleva una grande nazione europea che venerasse Napoleone, Mazzini, Victor Hugo, Kant, Nietzsche, gente così insomma… Ma era un elitista, seguace di quella teoria secondo cui le masse sono confuse, allo sbando, incapaci di darsi una direzione, e in questo caos hanno buon gioco le minoranze potenti e ben organizzate. La stessa teoria di cui sono convinti personaggi come Mario Monti (ricorderete che fu a capo della Commissione Trilaterale, il cui primo studio era quel “Crisis of Democracy” che sosteneva, appunto, che le masse devono restare in apnea), le cui convinzioni si traducono in presidenti del consiglio e governi che cambiano senza elezioni e in frasi come “al riparo dal processo elettorale”. Quindi Kalergi non poteva che ambire a una società che sostituisse la democrazia con una aristocrazia illuminata.

Obiettivo centrato, direi! Del resto, chi poteva finanziare il suo movimento se non un banchiere, Max Warburg, che gli era stato presentato dal barone Ludwig Nathaniel Freiherr von Rothschild? E, ironia della sorte, i Kalergi erano greci! Per la precisione, di Creta. Ma sentite questa: un antenato del nostro conte, nel ‘300, firmò un trattato per la sottomissione di Creta al dominio veneziano. Si comincia bene! Per questo Monti un giorno dirà che “la Grecia è il più grande successo dell’euro“: perché, da un’isola, sono passati a sottomettere uno Stato intero.

A dire il vero, Kalergi voleva anche una pan-America, una pan-Eurasia (con dentro la Russia), una unione pan-asiatica che comprendesse Cina e Giappone e dominasse sul Pacifico, e voleva perfino una pan-ideologia (un misto tra capitalismo e comunismo che, se volete, si è realizzato nei parlamenti nazionali con quell’illusione del bipolarismo già perseguita con il Piano di Rinascita Democratica e concretizzatasi con il Pd renziano) e un’unica pan-lingua, l’inglese, da parlarsi in tutta Europa accanto agli idiomi nazionali. Riuscì peraltro a convincere molti leader politici dell’epoca, gente del calibro di Konrad Adenauer, Robert Schuman (cui non a caso è intestato un building del Parlamento Europeo), Alcide De Gasperi, Winston Churchill. Non ebbe molta fortuna con Benito Mussolini né con un tale di nome Adolf Hitler, che lo guardava con ribrezzo e considerava il suo piano un piano massonico.

Fu Kalergi a lanciare l’idea degli Stati Uniti d’Europa: Altiero Spinelli venne molto dopo. Fu Kalergi, nel 1955, a proporre l’Inno alla Gioia di Beethoven (dalla nona sinfonia) come inno ufficiale dell’Unione Europea, che in seguito venne adottato. Fu Kalergi, aiutato da Robert Schuman, ministro degli esteri francese, ad assegnare la gestione della produzione di acciaio, ferro e carbone ad una sovranità sovranazionale, sotto la direzione dei primi euroburocrati non eletti da nessuno: i famosi commissari europei. Fu Kalergi a mandare i primi memorandum ai governi di Italia, Francia, Germania e Regno Unito, negli anni ’60, perché adottassero una unione monetaria. E per non farsi mancare niente, nel libro “Practical Idealism” il conte traccia anche l’idea di Europa che aveva in mente dal punto di vista demografico. E dice: “L’uomo del futuro sarà di razza mista. Le razze e le classi di oggi gradualmente scompariranno” e ci sarà un’unica “razza euroasiatico-negroide, simile in apparenza agli antichi egizi”, che sostituirà i popoli con gli individui. Questo, nelle intenzioni del conte, avrebbe dovuto portare a una maggiore governabilità delle masse, sempre secondo i principi dell’elitismo di cui sopra (la democrazia non esiste poiché il popolo non ha le capacità di autogovernarsi e nel momento in cui si organizza esso porta automaticamente un’élite a prendere il potere).

Si può dire che il Piano Kalergi ha avuto successo praticamente in tutto. O perlomeno i suoi discepoli stanno procedendo a grande velocità verso la sua finalizzazione (Draghi che chiede l’unione bancaria e nuove cessioni di sovranità; la Boldrini che chiede l’accelerazione degli Stati Uniti d’Europa, Mattarella che discute di cessione della sovranità fiscale), ma cosa ne è delle teorie del conte sulla questione razziale?

Abbiamo degli indizi. Quindici anni fa uno studio dell’Onu introduce il concetto di “immigrazione di rimpiazzo” che porta al centro del dibattito la necessità di sostituire (letteralmente) buona parte della popolazione europea con migranti, al fine – si dice – di compensare il calo delle nascite e garantire il sistema pensionistico. Massimo D’Alema invoca 30 milioni di immigrati. Il sottosegretario Sandro Gozi rilancia con 40 milioni. Laura Boldrini dice che lo stile di vita dei migranti presto sarà il nostro. Nel frattempo, Angela Merkel apre le frontiere e mette al lavoro i siriani, la Repubblica Ceca assume 5 mila rifugiati…

Insomma, tutto fa pensare che anche sul tema immigrazione, presto il Piano Kalergi potrebbe trovare una sua attuazione definitiva.

 

Claudio Messora 

 
Dialettica del meticciato PDF Stampa E-mail

3 Ottobre 2015

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Da Appelloalpopolo del 2-10-2015 (N.d.d.)

 

Il VI capitolo della celebre monografia che Sallustio dedica a Catilina si apre con una breve rievocazione delle origini (archaeologia) dell’urbs romana. Secondo la tradizione accolta dall’autore, Roma nasce dalla fusione di due comunità molto diverse per stirpe, lingua e costumi: da una parte i Troiani guidati dall’eroe Enea, dall’altra gli Indigeni (“Aborigenes”), che Catone il Vecchio, probabile fonte dello storico, considera Greci emigrati nel Lazio molte generazioni prima della guerra di Troia. Sallustio descrive gli Indigeni come un popolo rozzo, privo di leggi e di organizzazione politica (imperium) ma libero e indipendente: per contrasto, non è difficile vedere nei Troiani i superstiti di una civiltà urbana raffinata ma sconfitta e decaduta.

Che cosa accade allora? Coabitando entro uno spazio ben delimitato, le mura di Roma (“in una moenia convenere”), i due popoli si mescolano con una facilità e una rapidità che hanno dell’incredibile: presto “quella moltitudine dispersa e vagabonda” di profughi e di nomadi diventa una nazione ricca e potente. Il miracolo è potuto accadere “grazie alla concordia”, osserva lo storico – ed è una precisazione determinante -, cioè sulla base del pathos dettato dalla condivisione di una condizione, di una visione, di un obiettivo, politico e non solo (qualche studioso sostiene che Roma, anche se Sallustio non lo dice, nascesse come città santa).

Il sinecismo di Troiani e Indigeni segna l’indispensabile transizione dall’incertezza esistenziale dell’esule e del selvaggio alla sedentarietà e alla costruzione di un’etnicità dinamica, duttile, che fatalmente si nutrirà fino all’ultimo di continue ibridazioni più o meno dosate e, come dimostra l’intera storia romana, rivelatesi in fondo vincenti. Ancora nei momenti drammatici del tramonto saranno proprio due grandi generali “mezzosangue”, Stilicone ed Ezio, a difendere l’impero dai barbari.

Di segno contrario è il meticciato nomade imposto oggi dal capitale globalista e celebrato dalla retorica degli united colours, delle “razze nuove” – rappresentazione tanto ammiccante quanto falsa, perché trascura le inevitabili differenze e i punti di frizione nel rapporto fra nazionalità o civiltà o fra aspetti particolari di nazionalità e civiltà. Qui, insomma, non è in gioco la formazione di nessuna nuova civitas ma la demolizione teorica e pratica della categoria di “popolo”.

Il nomade, avverte minacciosamente Jacques Attali, sarà l’archetipo umano del XXI secolo. Il ritorno in nuove forme allo stadio preistorico o prepolitico si sta realizzando con una sostanziale, tragica differenza rispetto agli Indigeni di Sallustio: il binomio libertà-indipendenza caro a Mazzini è appannaggio delle sole élite finanziarie mentre i popoli, schiavizzati, subiscono un devastante processo di svuotamento della memoria collettiva che rischia di sfociare in reazioni violente.

Sia chiaro: il passato e l’identità non sono feticci da idolatrare. Il culto fanatico dei morti è distruttivo come l’esaltazione del nuovo in quanto tale. Ma nella vita del popolo italiano, che già nel Trecento (sostiene A. D. Smith) aveva sviluppato un sentimento di solidarietà nazionale, la longue durée della tradizione ha un peso enorme e ogni tentativo di innesto di apporti allogeni deve tenerne conto.

Non c’è nessuna mutazione antropologica che tenga: Italia non facit saltus.

 

Giampiero Marano 

 
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