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Un modo diverso di essere europei PDF Stampa E-mail

10 Agosto 2015

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Da Comedonchisciotte del 9-8-2015 (N.d.d.)   

 

“Nessuno vi ha invitati. Ma adesso che siete qui, dovete rispettare le nostre norme, come noi rispettiamo le vostre quando andiamo nei vostri paesi. Se non vi piace qui, andatevene”. È la frase che il presidente ceco Milos Zeman ha rivolto ai clandestini, che avevano organizzato una rivolta in un centro di ritenzione a nord-est della repubblica, compiendo atti di vandalismo; la polizia aveva dovuto far ricorso ai lacrimogeni. Un tipo di cose cui siamo assuefatti noi, ma nei paesi civili fanno ancora una certa impressione.

Indignazione ufficiale e ufficiosa dei “grandi” media, mentre la frasetta è diventata (come si dice) “virale sul web”. È tipica patologia del nostro tempo che le più ovvie asserzioni di verità siano vietate, e che chi le pronuncia sia additato come uno scandaloso o (secondo i casi) come un coraggioso alternativo. Sono forse stati invitati, i clandestini? No. Esigere che rispettino “le nostre norme” è forse una pretesa assurda, che denota mancanza di carità? Se no, possono andarsene da casa nostra: Zeman dice la verità. Che cattiveria!

La Stampa, divenuta sotto la direzione del Calabresi l’Amerikano il modello del politicamente corretto più viscido e untuoso, qualche settimana fa ha voluto assestare il calcio dell’asino (è la sua specialità) su Orban. “L’Ungheria alza un muro contro i migranti”, e commenta: “Nuove cortine di ferro rischiano di spuntare in Europa”. Un esempio di furfanteria giornalista impunito (come tanti altri). Naturalmente si tace che l’Ungheria ha 9 milioni di abitanti e vede arrivare decine di migliaia di immigranti ogni mese. Quanti milioni se ne devono accettare? Quando è il momento di dire basta prima che la popolazione nazionale si trovi uno straniero in ogni casa?

Ecco un’altra domanda che è vietato porre (si ricordi: il “divieto di far domande”, ossia di porre le questioni che contano, è il segno più certo che siamo oppressi da un totalitarismo): quanti ne dobbiamo accogliere, in Italia, di africani negri subsahariani? Verso cui (scusate, lo so, non si può dire) l’Italia non ha alcun obbligo storico, non essendo stati mai colonizzati da noi? L’intera popolazione africana supera ormai il miliardo. Ci sarebbero i cristiani siriani, verso cui abbiamo magari un obbligo più alto, prima dei negri. Ci sarà pure un limite, scusate tanto, dopo il quale si ha il diritto (magari il dovere) di dire basta, e cominciare a respingere?

Hai fatto la domanda! Xenofobo! Senza carità!

Impara dal papa Bergoglio che dice che bisogna accoglierli tutti. Non avete sentito? “Respingere gli immigrati in mare è un atto di guerra” I media più atei e secolari hanno tutti ciucciato e risputato con delizia e voluttà l’ultima casuale espettorazione pontificia: tacendo che la frase era detta in tutt’altro contesto; parlava a giovani asiatici della tragedia che si sta consumando in quei mari, dove i fuggiaschi dal regime del Myanmar sulle barche, vengono rimandati indietro da paesi come la Tailandia, la Malesia e l’Indonesia. Perché noi, gli immigrati, non li respingiamo in mare, nemmeno uno; anzi li andiamo a prendere appena gli scafisti ci chiamano col satellitare. Certo Bergò non parlava di noi, stavolta. Un’altra furfanteria giornalistica, naturalmente: ma ogni colpo basso è lecito, perché si tratta di smentire, dar torto e demonizzare – tenetevi forti – Salvini. I progressisti esibiscono la loro “solidarietà” senza limiti, si fanno papisti, per uno scopo: esprimere odio. Verso un avversario politico.

Il politicamente corretto è infatti uno strumento per esprimere odio con (falsa) buona coscienza. In questo caso, si tinge di buonismo, o financo di “amore per il lontano” onde poter sputare veleno sul vicino, il concittadino. Il politicamente corretto è odio in sé (basta vedere la faccia della Boldrini: quando esala uno dei suoi decretali, è storta dall’odio). Così possono lasciar inevasa la domanda: quando si può dire basta? Domanda che non si deve fare.

Poi ce n’è un’altra che Boldrini, Napolitano, Mattarella, Bersani, (per fare qualche nome) giornalisti, prelati e politici caritatevoli non fanno mai. Come mai arrivano tutti questi immigrati? Qual è la causa di questa ondata?

Il presidente Zeman ha osato dirlo: “Di questo grande afflusso di rifugiati e di clandestini illegali verso l’Europa sono responsabili gli Stati Uniti ed i paesi europei che hanno partecipato nella esecuzione dei piani dementi attuati in paesi come l’Iraq, la Libia e la Siria”.

Il presidente Zeman ha osato dirlo: “L’ondata di migranti prende origine dalla idea assurda di lanciare un intervento militare in Irak, accusato di avere armi di distruzione di massa mentre non è stato trovato niente”.  Poi se l’è presa con la voglia americana di “restaurare l’ordine in Libia” e destabilizzare la Siria, ma con piena complicità degli europei che “hanno aiutato a coordinare le operazioni in Libia”, seminando il caos dove prima c’erano degli Stati. Da queste destabilizzazioni sono nati i gruppi terroristi islamisti che adesso contribuiscono a far fuggire profughi dal Medio Oriente col terrore.

Pensate un po': è qualcosa che sanno tutti, e nessuno lo dice. Che la colpa sia dell’Impero del Caos, delle destabilizzazioni che ha sparso e sta spargendo in Nordafrica, in Medio Oriente e in Europa (Ucraina) su pulsione di un progetto israeliano e neocon, è evidente per sé. Non lo dice il presidente Mattarella, non lo dice il Papa. Figurarsi se lo dicono la Merkel e Hollande o Cameron, o Juncker. Non lo dicono i politici e i giornalisti.

La dice il presidente di una piccolissima repubblica ceka, Milos Zeman.

Del resto, è lui, Zeman, che l’aprile scorso ha annunciato che andava a Mosca per la parata celebrativa della fine della seconda guerra mondiale, mentre tutti gli europoidi la disertavano in odio a Putin. E siccome l’ambasciatore Usa (tal Schapiro..) l’aveva rimproverato, lui ha rifiutato di accoglierlo al palazzo di Praga, dicendo: «Fatico a immaginare l’ambasciatore ceco a Washington che dice al presidente degli Stati Uniti dove debba andare. E non permetterò a un ambasciatore di interferire con i miei programmi di viaggio». Mostrando che non c’è bisogno di essere dei giganti militari per avere una dignità, e saperla difendere.

Viene il dubbio: che esista un altro modo di essere europei. È un’altra domanda che è vietato fare, figurarsi poi praticarla.

Victor Orban, nazionalista ungherese, sulla scena politica dall’89, primo ministro all’età di  35 anni. Nel 2002 perde le elezioni; otto anni d’opposizione. Quando il popolo magiaro lo riporta al governo nel 2010, non nasconde la sua visione: il modello liberista d’Europa è fallimentare, l’Ungheria (in mano alle banche e agli interessi stranieri, che hanno comprato i suoi beni comuni) ne ha sofferto troppo; la via è la riconquista della sovranità ceduta. Lo anima una precisa idea dell’interesse nazionale. Riprende il controllo dei settori strategici di Stato, perduto con la “apertura ai capitali stranieri” nel 1989. Le ditte fornitrici di gas, elettricità ed acqua sono straniere? Lui però impone il controllo dei prezzi, e le carica di imposte. L’introito fiscale conseguente consente il risanamento delle finanze pubbliche. Nel 2008, rimborsa in anticipo l’ultima tranche del prestito contratto con il Fondo Monetario, liberandosi così della tutela dell’ente pignoratore globale e dei “consigli” dei suoi cosiddetti esperti.

La demografia ungherese è in tragico calo (tasso di fecondità 1,41); Orban facilita l’accesso alla cittadinanza a tutti coloro che sono di origine magiara, ma sono fuori dai confini dello stato attuale. È un tema delicato e scottante: colpevole di essere rimasta fedele all’impero absburgico, l’Ungheria è stata saccheggiata e lacerata alla fine delle Grande Guerra, col trattato di Trianon. I paesi vicini ne hanno divorato intere regioni e popolazioni, le viene negato lo sbocco al mare che aveva in Croazia, la superficie del territorio è stata ridotta dei due terzi, la popolazione passa da 19 a 7milioni. Ciò significa che ancor oggi ci sono più ungheresi fuori dall’Ungheria, che dentro: fratelli, la cui lingua e il cui aspetto li distingue e rende inconciliabili agli slavi. Una ferita – un’offesa – che il piccolo eroico popolo non ha mai dimenticato d’aver ricevuto dalle potenze europee vincitrici, , e che spiega la “deviazione” dall’europeismo beota e servile degli altri, italiani compresi, e il perseguimento di una via originale.

L’economia è troppo dipendente dalla UE (il 76% degli scambi commerciali avvengono con la Unione); Orban apre a Russia e Cina, facilita il rilascio di visti di lunga durata ai cinesi, sperando così di attrarre loro capitali, iniziative, dinamismo economico. Con Mosca, cerca di approfondire relazioni politiche oltre che economiche. Ha fortemente criticato la politica europea delle sanzioni alla Russia, che danneggia il suo stato. Per questo, la Nuland lo ha minacciato direttamente senza nominarlo in un discorso fatto in Romania l’estate del 2014: “Come si può dormire sotto la coperta dell’articolo 5 della NATO – ha tuonato la Nudelman in Kagan – di notte, e promuovere la ‘democrazia illiberale’ di giorno; eccitare il nazionalismo; restringere la libertà di stampa, e demonizzare la società civile?”. La “società civile” sono, ovviamente, le ONG e le “spontanee” organizzazioni di “cittadini” da utilizzare per rivoluzioni colorate.

Ovviamente, le autorità europee eseguono, lanciano continue procedure d’inflazione contro Budapest. Le multinazionali spogliatrici lamentano di soffrire di politiche discriminatorie, e premono su Bruxelles, Berlino, Washington, perché sia riportato l’ordine della “libera” competizione. Juncker (calcio dell’asino) insulta Orban pubblicamente dandogli del “benvenuto dittatore” e salutandolo col saluto fascista.

Orban gioca sul filo del rasoio. Non può fare a meno degli aiuti UE – che peraltro gli spettano come a qualunque stato sfavorito – che valgono il 97% degli investimenti pubblici. Ma persegue la sua politica, con risultati che – inaudito – segnano un relativo successo. Fra i successi c’è il fatto che la GDF Suez (la multinazionale francese) ha preferito cedere le attività elettriche che s’era accaparrata durante le “liberalizzazioni”; alla MET Zrt, azienda ungherese: una nazionalizzazione (ma non lo dite!). Nel gennaio 2014, Budapest annuncia che Rosatom (russa) costruirà due reattori per la centrale atomiche di Paks: ricerca di autosufficienza energetica? (ma non si può dire). Un mese dopo, Orban incontra Xi Jinpin e parlano di relazioni economiche. Intanto, le tasse pagate dalle multinazionali in fuga hanno permesso di ridurre il debito, e abbassare il deficit sotto il mitico livello del 3% (al 2,7 nel 2013) che è la pietra di paragone della virtù germanico-europoide: quando riduci il deficit sotto il 3, chi ti può criticare? Non è politicamente corretto.

La crisi mondiale in corso dal 2008, ovviamente, colpisce anche l’Ungheria; nonostante che il paese abbia fatto meglio di molti altri della UE a livello macroeconomico, parte crescente della popolazione si impoverisce. Come in Italia, meno che in Spagna e Portogallo, o in Grecia: ma qui i nemici infileranno il cuneo per provocare una rivoluzione colorata. La sola forza di Orban è il suo seguito popolare inalterato. È qui che cercano di usurare, puntando sui malcontenti. Nell’ottobre 2014, la proposta di porre una tassa su Internet (50 cents per ogni gygabite scaricato) ha suscitato una spontanea protesta; Orban ha ritirato la proposta. Commento di Repubblica: “A volte anche gli autocrati sono costretti a cedere alle proteste popolari e alle critiche internazionali, americane o dell’Unione europea”. Ah, ecco. A gennaio ci hanno riprovato: manifestazione contro l’avvicinamento alla Russia. Grandissima, “almeno cinquemila persone”, titolano i giornali italiani: “Da ottobre, da quando il governo ha presentato una tassa sull’uso di internet, poi ritirata, nel paese si svolgono regolarmente manifestazioni contro l’esecutivo”. Ah ecco, è la famosa società civile di cui parlava la Nudelman. Altra prova della “società” civile a luglio: stavolta, la protesta è contro “Il muro anti-immigrati” che tanto spiace a a Bruxelles. Numero dei manifestanti “un migliaio”. Nelle zone dove il reticolato viene levato (175 chilometri) “la gente è piuttosto favorevole”.

Un giorno o l’altro però ci riusciranno, a fare la rivoluzione colorata e ad espandere la democrazia anche lì. Fino a quel giorno, Orban, con il ceko Zeman, resistono a mostrare che c’è un modo diverso di essere europei.

 

Maurizio Blondet 

 
Le mani del Bilderberg sulla RAI PDF Stampa E-mail

9 Agosto 2015

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Da Comedonchisciotte del 7-8-2015 (N.d.d.)   

 

Già da due giorni si era capito che la nomina del nuovo presidente del Consiglio di Amministrazione della Rai sarebbe stato la "carta da spariglio" che Renzi si sarebbe giocato. Mentre tutti si accanivano sulla nomina di un outsider competente come Freccero o di illustri ma sconosciuti portaborse dentro il nuovo Cda, il Presidente del Consiglio aveva la sua carta in mano da giocare. Questa carta si chiama Monica Maggioni, la ex corrispondente internazionale della Rai che in questi anni aveva “normalizzato” quella che era stata l’isola felice di Rainews24, allineandola sempre più all’informazione embedded imposta dai poteri forti. Una funzione a questo punto realizzata e suggerita da uno dei centri di potere più forti: il gruppo Bilderberg.

La Maggioni ha partecipato agli incontri di questa organizzazione riservatissima dei potenti del mondo e lo aveva fatto facendosi legittimare proprio dalla Rai di cui si apprestava a diventare presidente. Il presidente della Commissione Vigilanza Roberto Fico (M5S) si era sentito rispondere dalla RAI, sollecitata da un’interrogazione in merito alla partecipazione della Maggioni alla riunione del Bilderberg del 29 maggio scorso: “Si conferma che la Dottoressa Monica Maggioni ha partecipato a Copenaghen al meeting annuale di Bilderberg nel periodo compreso tra il 29 maggio e il 1° giugno. La Rai - ancorché la partecipazione citata sia avvenuta a titolo personale - ritiene assolutamente legittimo che, nell’ambito della propria attività professionale, un suo dipendente possa partecipare se invitato, a prendere parte ad eventi organizzati da un think tank di tale rilevanza internazionale e che tale partecipazione costituisca elemento di prestigio per l’azienda stessa”.

Per onestà occorre sottolineare come la Maggioni non sia affatto l’unica giornalista di comando a partecipare alle riservate riunione del Bilderberg. Negli anni passati negli hotel di lusso che ospitavano gli incontri si potevano incontrare Lilli Gruber, Gianni Riotta, Ugo Stille, Arrigo Levi, Ferruccio de Bortoli, Lucio Caracciolo. Soprattutto quelli del Corriere della Sera, erano di casa.

Sulla funzione del Bilderberg come “facilitatore” nel controllo dei punti strategici del comando, è interessante il meccanismo descritto nel libro di Domenico Moro (“Club Bilderberg”), ossia quello delle “porte girevoli”, per cui un ministro (o, nel caso degli USA, un segretario di Stato) si ritrova poi al vertice di una multinazionale, o magari ne aveva fatto parte prima, mentre grandi manager pubblici come Romano Prodi dopo aver portato avanti massicce privatizzazioni si ritrovano presidenti del Consiglio o ai vertici dell’Unione europea; o ancora uomini come Mario Draghi, che passano da presidente del Comitato economico e finanziario del Consiglio della UE a direttore generale del Ministero del Tesoro italiano, per poi diventare vicepresidente della Goldman-Sachs, dopo di che governatore della Banca d’Italia e infine presidente della Banca centrale europea. 

Insomma una vera e propria oligarchia esclusiva che occupa sistematicamente tutti i posti rilevanti nell’economia, nella politica, nell’informazione e nella diplomazia internazionale. Gente che quando si incontra in località esclusive e in riunioni riservate non discute certo della fame nel mondo o del giro d'Italia di ciclismo.

Con un Presidente del Consiglio in odore di grembiulini come Renzi (e come aveva scritto l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, immediatamente messo alla porta), la nomina di una partecipante al Gruppo Bilderberg a presidente del Consiglio di Amministrazione della Rai è tutt’altro che una sorpresa, è una conferma.

Sergio Cararo 

 
Sopravvivere alle radiazioni PDF Stampa E-mail

8 Agosto 2015

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Da Comedonchisciotte del 5-8-2015 (N.d.d.)

 

Nel triste anniversario da non scordare, quello del criminale bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945), privo di valore strategico in una guerra ormai vinta, ma terroristico a tutti gli effetti, mi piace celebrare la Vita con una parola di speranza per tutti. Il mostro atomico dorme e può essere risvegliato da politici (quasi tutti!) affamati di potere, e sta per giunta bene in agguato in oltre 400 centrali nucleari “pacifiche” e sempre a rischio, come molti incidenti di ieri e dell’altro ieri testimoniano.

Forse la speranza è troppo ottimistica, del resto le due bombe del ’ 45 furono giocattoli rispetto ai mostri termonucleari di oggi, e comunque più volte ho incontrato, in una pratica di oltre 40 anni, derisione e superficialità rispetto ad affermazioni che a me paiono ovvie, cioè che la nostra dieta influenza in maniera decisiva la qualità del nostro sangue, la quale nutre e trasforma quella di tutte le cellule del corpo. Dirò subito che per i dubbiosi sensati ed educati ho diverse risposte con approfondimenti, mentre per eventuali jokers ironici e strafottenti il mio silenzio attesterà da solo il mio più totale disprezzo per l’ignoranza voluta e ricercata.

Comunque eccovi una storia vera, accaduta a Nagasaki nei giorni seguenti lo scoppio che uccise subito circa 70mila, e migliaia d’altri negli anni a venire, di malattia da radiazioni. Il dr. Akizuki, direttore del San Francesco Hospital di Nagasaki, ha salvato la vita di tutti i suoi pazienti sopravvissuti dopo il bombardamento atomico il 9 agosto 1945, prescrivendo una dieta speciale di zuppa di miso, riso, alghe, e ortaggi a radice.

Anche se nessuno a Nagasaki sapeva che fosse una bomba radioattiva, il dottor Akizuki avendo lavorato come radioterapista e riconosciuto il sintomo di eccesso di catarro, sintomo comune tra i sopravvissuti alla bomba, è stato spesso visto dopo ripetuta irradiazione di persone con cancro uterino e mammario. Ha scoperto che dando ai pazienti affetti da tumore una soluzione leggermente salina da bere migliorava la loro condizione. Aveva incontrato anche George Ohsawa, il padre della macrobiotica moderna, a Tokyo, e studiato il potere di guarigione del cibo.

"Mi sono sentito qualcosa di simile a una fiducia che sgorghi nel petto," il Dott Akizuki ricorda nel suo libro “Nagasaki 1945” (Londra, Quartet Books, 1981). "Ho dato ai cuochi ordini severi che, una volta fatte le palline di riso integrale dei pasti quotidiani, devono aggiungere un pizzico di sale in più, e di rendere salato ogni pasto, zuppa di miso ben densa ad ogni pasto, e di non usare mai zucchero. Quando non sono riuscito a fare seguire le mie istruzioni, li ho rimproverati senza tregua, dicendo: '’Non bisogna mai prendere qualsiasi zucchero, niente di dolce! distruggerà il tuo sangue con la malattia da radiazioni! " Grazie a questo metodo dietetico, tutti i pazienti e il personale sono sopravvissuti pur vivendo a contatto con ceneri letali del loro ospedale in rovina. I loro capelli hanno smesso di cadere, e non avevano più la nausea né sangue nelle feci. "È stato grazie a questo cibo che tutti noi abbiam potuto funzionare giorno dopo giorno, superando stanchezza o sintomi di malattia atomica e sopravvivere al disastro esenti da gravi sintomi di radioattività", ha spiegato il dottor Akizuki.

Il St. Francis Hospital è stato ricostruito, e per molti anni il dottor Akizuki è stato direttore dell’ 'Associazione per la Ricerca in Nagasaki Hibakusha [‘assoc. reduci e sopravvissuti alla bomba atomica ']. Nel corso degli anni, è divenuto più religioso, ma ha ancora attribuito la miracolosa sopravvivenza alla dieta. "Abbiamo una missione, di raccontare quello che è successo qui", ha scritto nella sua autobiografia. "Ecco perché sentiamo che Dio ci ha dato la vita, per sopravvivere fino ad ora."

Mentre procedeva la Guerra Fredda, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica hanno condotto test nucleari atmosferici, e la contaminazione degli alimenti è diventata una questione internazionale. Gli scienziati della McGill University di Montreal hanno iniziato una serie di esperimenti nel 1960, finalizzati ad identificare un alimento o nutriente che potrebbe aiutare a contrastare gli effetti delle radiazioni nucleari e ricadute. In una serie di articoli pubblicati sul Canadian Medical Association Journal, hanno riferito che alghe alimentari comuni come kombu e altre contengono sostanze, tipo l’alginato di sodio, che potrebbe ridurre dal 50 all’ 80 per cento la quantità di stronzio radioattivo assorbito attraverso il sistema digestivo. Entro la fine del 1980 e all'inizio del 1990, i ricercatori giapponesi, influenzati dall'esperienza del dottor Akizuki, hanno continuato la ricerca. K. Watanabe, esperto di oncologia da radiazioni presso il centro di ricerca sulle radiazioni della bomba atomica di Hiroshima University, ha riferito che le persone che mangiavano regolarmente miso furono trovate fino a cinque volte più resistenti alle radiazioni di quanto la gente non abituata a mangiare miso. Studi di laboratorio sui topi hanno inoltre confermato che il miso in particolare ha contribuito a proteggere l'intestino tenue dal male.

Nel frattempo, in Unione Sovietica, una serie di incidenti nucleari ha provocato l'ulteriore utilizzo di metodi alimentari per neutralizzare particelle radioattive. Nel 1990, l'Istituto Kushi, un centro educativo macrobiotico nel Massachusetts occidentale, ha organizzato un ponte aereo di diverse migliaia di chili di miso, alghe e altri alimenti disintossicanti destinati ai medici di Chelyabinsk e Chernobyl.

Le seguenti linee guida sono raccomandabili per aiutare a proteggere contro la radioattività dagli incidenti nucleari in corso in Giappone, ed eventuali futuri sinistri (scongiuri!). Nello spirito di non discostarmi troppo dalle abitudini Giapponesi di Akizuki ho tenuto alcuni ingredienti e piatti fortemente Orientali: il criterio comunque è adattabile anche a gusti più Mediterranei purché fondato su cibo vegetale/integrale semplice, con poche specialità indispensabili come miso ed alghe, peraltro non più esclusiva orientale, ma oggi raccolte o prodotte perfino in Italia.

CONSIGLI DIETETICI

Mangiare 1-2 scodelle di zuppa di miso ben condita ogni giorno. Preparare con miso d'orzo invecchiato per circa due anni e cucinare con alga kombu, che è più forte di wakame, l’alga che di solito accompagna la zuppa di miso. Diversi ortaggi a radice possono anche essere aggiunti alla zuppa.

Mangiare alghe quotidianamente. Queste includono:

Kombu / fucus, quella a più alto tasso di iodio naturale (cotta regolarmente in fagioli, cereali o piatti di verdura)

Wakame (in zuppe e insalate)

Arame (in piatti saltati in padella, insalate, involtini primavera)

Hiziki (in piatti saltati in padella, insalate, involtini primavera)

Dulse (più alta in ferro, preparata in insalata, in fiocchi /uso anche a crudo)

Nori (popolare in rotolini di Sushi, in fiocchi o come condimento)

Agar-agar (trasparente, addensante dalle proprietà gelificanti, per gelatine o aspic dolci o salati)

Mangiare riso ad ogni pasto in forma intera o idealmente trasformato in palle di riso ricoperte di alga nori con una piccola quantità di prugna umeboshi al centro.

Alimenti fermentati (tempeh, miso, shoyu, natto, umeboshi, crauti non cotti e altre verdure in salamoia)

Mangiare una varietà di verdure, tra cui:

Ortaggi a radice, come daikon, radice di loto, carote, bardana, pastinache.

Verdure verdi, ad alto contenuto di clorofilla

Verdure crocifere (broccoli, cavoli, cavolini di Bruxelles, rape, cavoli e varie crucifere, spinaci, cavolfiori, e foglie verdi scure), indivia, cicoria, scarola, crescione, cime di rapa cicoria radicchio e tarassaco

Verdure scure gialle e arancione (carote, patate dolci, patate, zucche, zucca invernale)

Mangiare semi di zucca, sesamo, girasole ed altre oleaginose; tutti con parsimonia

Usare olio di semi di sesamo o oliva, esso contiene una sostanza che aumenta piastrine del sangue (per combattere le infezioni). Usare gli oli con grande moderazione

Mangiare una moderata quantità di fagioli e fe derivati come il tofu e il tempeh

Ridurre al minimo o a zero il consumo di alimenti di origine animale (carne, pollame, uova, prodotti lattiero-caseari, pesce e frutti di mare), cereali raffinati, verdure tropicali, oli e grassi, frutta, zucchero, aromi, spezie, stimolanti e alcool.

Tutto il cibo deve essere ben cotto e non consumato crudo, almeno in questo frangente.

Bere tè bancha rametti (kukicha) e cuocere con acqua di fonte o di pozzo.

Cucinare con gas, carbone o legna, o di altra fonte di combustibile naturale. Evitare l’elettrico e il microonde.

Diversi anni fa, H. Furo, professore associato di Studi Giapponesi presso Illinois Wesleyan University, ha intervistato una trentina di sopravvissuti al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki (tra cui molti dei pazienti del dottor Akizuki) e ha scoperto che fino al 90 per cento hanno attribuito la loro salute e la longevità al miso e altri alimenti naturali. Dalle ceneri della seconda guerra mondiale, la loro esperienza di trasformazione continua ad offrire la speranza di una nuova generazione di sopravvissuti alle guerre nucleari, che non possano più ripetersi, e agli incidenti nucleari.

 

Roberto Marrocchesi 

 
A un passo dal vuoto PDF Stampa E-mail

6 Agosto 2015

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Una ventina d’anni fa, attraversando il Tibet in fuoristrada, una gigantesca frana, causata dalle piogge copiose che battono l’altipiano ad oltre 5.000 metri di quota, spazzò via la strada che stavamo percorrendo. Non si poteva più passare con le auto e fu necessario attraversare la frana a piedi con i bagagli in spalla. Dall’altra parte ci venne a prendere un camioncino telonato, tipo quelli per il trasporto dei soldati, con due panche montate lungo i lati, una di fronte all’altra. Salimmo con i bagagli, un pugno di occidentali – le frontiere del Tibet erano state appena aperte agli stranieri – e parecchi cinesi, attaccati all’esterno come un grappolo umano.

Preso posto sulle panche il camion partì. Potevo vedere pochissimo dell’esterno perché davanti avevo le altre persone sedute e sul fondo c’era il telone tirato giù e dietro i ragazzi cinesi e tibetani appesi fuori. Sentivo il camion correre velocemente, arrancare e slittare sul terreno fangoso, per via di quelle piogge torrenziali che avevano spazzato via più di un tratto della strada che stavamo percorrendo. Il telone sventolava per via del movimento del camion e ogni tanto si alzava fugacemente, tanto da far intravedere qualcosa del paesaggio circostante.

In uno di quei brevi flash mi resi conto di cosa stava accadendo. Il camion correva in maniera pazzesca, sbandando e slittando, su una strada di montagna, piena di buche e di pietre, tortuosa e coperta da uno strato di 20 o 30 centimetri di fango. Il problema era che a destra c’era la montagna e a sinistra un baratro di centinaia se non migliaia di metri. E la strada era larga come il camion.

Il viaggio era interminabile. Non sapevo se fosse meglio guardare o non guardare, sapere o non sapere. Non avevo mai provato un senso d’impotenza davanti ad una possibile catastrofe come allora.

Non potevo scendere e non avevo nessun controllo sulla situazione che mi avrebbe potuto portare facilmente a precipitare in uno strapiombo profondissimo.

Dovevo accettare il mio destino e affidarmi nelle mani del mondo spirituale.

Così feci, calmando i battiti del cuore e costringendomi a pensare esclusivamente pensieri positivi.  Dopo un tempo che mi parve infinito, il camion arrivò dove ci attendevano altri fuoristrada per proseguire il viaggio. Quella terrificante esperienza era finita.

Ma non per sempre; devo dire che da un po' di tempo provo nuovamente quel sentimento d’impotenza e di consapevolezza del pericolo come allora.

Non sono più su un camion che corre a perdifiato sul precipizio guidato da un autista probabilmente ubriaco, ma su un pianeta che corre a perdifiato verso nuovi olocausti guidato da leader sicuramente malvagi.

Le notizie sulle strategie criminali che stanno portando il mondo nuovamente sull’orlo di una guerra sono come quel fugace sollevarsi del telone di quel giorno. Tu guardi fuori e ti rendi conto che sei ad un passo dalla catastrofe. Non puoi far nulla perché chi è alla guida è irraggiungibile ed ha un piano che tu non puoi in alcun modo contrastare. Devi stare seduto su quella panca e sperare. O pregare.

L’Ucraina prima e la Siria ora sono tappe verso un conflitto che sembra inevitabile. Le strategie del terrore travestite da guerra al terrore stanno lentamente ma inesorabilmente contaminando le menti di intere popolazioni. Le notizie false e fuorvianti che vengono divulgate dai media hanno lo stesso orrendo timbro di quella propaganda che portò l’Europa ad un olocausto di quasi cento milioni di giovani vite nel secolo scorso.

Ogni giorno una colossale rete di menzogne si stende sull’umanità, a nascondere, come quel telone, il vero stato delle cose.

Per alcuni di noi il telone a tratti si alza fugacemente, facendoci intravedere la situazione reale.

Talvolta questo ci fa sentire più forti e consapevoli, anche se ci sono delle volte che forse vorremmo non averlo visto quell’abisso, quell’orrido che ci può inghiottire da un istante all’altro. Poi però ci calmiamo, mettiamo a regime il battito del cuore che ci sale in gola e ci diciamo che non è vero che siamo del tutto impotenti, che qualcosa possiamo fare con i nostri pensieri e con le nostre azioni, affinché questo camion arrivi sano e salvo a destinazione.

Ci rendiamo anche conto che maggiore consapevolezza significa maggiore responsabilità. Responsabilità anche nei confronti dei destini di coloro che si bevono tutte le quotidiane menzogne dei media, di coloro per i quali il telone del camion non si alza mai.

Allora comprendiamo anche il senso di questa corsa a un passo dal vuoto.

 

Piero Cammerinesi 

 
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5 Agosto 2015

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Da Appelloalpopolo dell’1-6-2015 (N.d.d.)

 

“Dobbiamo assicurarci che sia l’America a scrivere le regole dell’economia globale, e dovremmo farlo oggi mentre la nostra economia è in una posizione di forza. Se non saremo noi a scriverle, allora – indovinate un po’- sarà la Cina a farlo. E quelle regole saranno stabilite a vantaggio dei lavoratori e degli affari cinesi”.

Così Barack Obama, in un discorso tenuto l’8 maggio 2015 in una fabbrica della Nike a proposito del TTP – il Trattato di Partenariato Transpacifico, omologo al trattato che con altrettanta determinazione sta sponsorizzando sulla sponda atlantica del mondo, il TTIP.

L’affermazione è coerente con il discorso pronunciato un anno prima a West Point, quando Obama aveva ribadito la sua profonda fede nell’eccezionalismo americano:  “Gli Stati Uniti useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, se i nostri interessi supremi lo domandassero… L’opinione pubblica internazionale è importante, ma l’America non domanderà mai il permesso […] Credo nell’eccezionalismo americano con tutte le fibre del mio essere”. Si tratta di una visione del rapporto fra gli USA e il resto del mondo comune a tutta la classe politica americana, democratica o repubblicana che sia, salvo poche e ininfluenti eccezioni; una visione arrogante, squisitamente imperialista – tanto obsoleta quanto tenacemente radicata – dove non è concepibile uno spazio di relazioni reciprocamente soddisfacenti ma solo quello della prevalenza degli interessi americani.

John Walsh in un articolo su Counterpunch, ne analizza le pericolose implicazioni. Walsh si chiede retoricamente cosa dia agli Stati Uniti – un paese con 320 milioni di abitanti – il diritto di stabilire le regole in una regione che ne conta quasi dieci volte di più, e dove un paese come la Cina può vantare un PIL che espresso in termini di potere d’acquisto ha ormai superato quello americano. Un sorpasso che la recente iniziativa cinese di creare la Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti (AIIB) ha reso ancora più manifesto, non solo dal punto di vista economico ma anche politico: nata in contrapposizione alle istituzioni finanziarie occidentali del FMI e della Banca Mondiale – dove si pretende ancora ignorare le mutate condizioni geo-economiche e si continua ad attribuire ai paesi emergenti lo stesso ruolo marginale di settant’anni fa – in poco meno di un anno l’AIIB ha registrato la precipitosa adesione di 58 nazioni, fra cui, nonostante l’irritazione americana,  paesi come l’Inghilterra e Israele, Germania e Francia, l’Arabia Saudita  e persino (udite, udite!) l’Italia.

È il segno di un declino che lo stesso Obama ammette involontariamente: quel suo “dovremmo farlo oggi mentre la nostra economia è in una posizione di forza globale” implica la consapevolezza che quella posizione sta rapidamente cambiando.

L’approccio del gioco a somma zero (vinco io, perdi tu), quale traspare dalle parole del Nobel-sulla-fiducia, prevede che chi si trova in vantaggio stabilisce le regole a proprio favore. Questa è una logica che porta inevitabilmente al rancore, al sentimento di rivincita e prima o poi al conflitto. In un mondo multipolare, dai rapporti di forza instabili quale si va delineando oggi, essa è tanto anacronistica quanto pericolosa.

In questo mondo bellicoso l’unica strategia che possa sperabilmente assicurare una certa pace e prosperità per l’intero pianeta è quella del gioco a somma positiva: io vinco, tu vinci. Una strategia che sia la Cina che la Russia danno a intendere di voler perseguire nel loro rapporti con gli altri paesi emergenti, rapporti in cui si vuol far prevalere l’aspetto cooperativo e non quello competitivo. Quanto ciò sia dettato da contingenze tattiche piuttosto che da una vera e propria filosofia politica è materia opinabile; ma strumentale o sincera che sia, la via ragionevole e questa. Il discorso di Putin al Valdai International Discussion Club, il 24 ottobre dell’anno scorso a Sochi, che è stato largamente ignorato dai media occidentali benché meritevole di ben altra diffusione presso la nostra opinione pubblica, esprime un atteggiamento geopolitico antitetico alla visione che  caratterizza ogni presidenza statunitense, quella di Obama inclusa: il primato americano e il suo planetario destino manifesto.

Ora, nella retorica ufficiale la “predestinazione” viene comunemente estesa al popolo americano nel suo insieme, ma solo in quanto rappresentazione simbolica della Nazione; nella realtà il popolo americano è solo uno dei tanti strumenti a disposizione degli unici legittimi titolari dell’eccezionalismo: i gruppi elitari che detengono il potere e lo esercitano, direttamente o tramite le multiformi filiere politiche, burocratiche, militari e lobbistiche.

I due trattati transoceanici per cui tanto si sta adoperando il presidente Obama sono dunque progettati a esclusivo vantaggio di costoro e delle multinazionali che ne sono espressione. Si tratta di un ulteriore passo avanti nella costruzione di quel nuovo ordine mondiale che la globalizzazione sottintende, e che gli Stati Uniti – per destino manifesto, appunto – si immaginano chiamati a presiedere.

Alle popolazioni coinvolte spetta il ruolo passivo del consumatore culturalmente omogeneizzato e acquiescente, e in quanto tali è loro esclusa ogni partecipazione al progetto.

“I thought it wrong to consult the peoples about the structure of a community of which they had no practical experience“: ritenevo sbagliato consultare i popoli a proposito della struttura di una comunità di cui essi non hanno alcuna esperienza pratica. Questa singolare logica, sostenuta da uno dei padri fondatori dell’Europa, Jean Monnet, è la stessa che regge i negoziati TTIP/TTP: opacità, paternalismo, reticenze, contraffazioni.

Ai parlamentari non è consentito l’accesso alla documentazione, o se lo hanno è parziale e sotto vincolo di non pubblicizzazione. La gente dispone solo delle informazioni ufficiali, la cui attendibilità è assimilabile a quella di uno spot pubblicitario, e il dibattito pubblico viene accuratamente soffocato grazie anche alle compiacenti disattenzioni dei media. Per contro le multinazionali hanno accesso sistematico ai lavori e tramite le loro organizzazioni lobbistiche ne orientano la direzione a loro piacimento.

In pieno orgasmo da fine corsa, Obama vuole chiudere la partita dei trattati come “fiore all’occhiello” di un’amministrazione fallimentare, che tradendo tutte le aspettative ha solo confermato le politiche dell’amministrazione precedente, rendendo di fatto indistinguibile il suo mandato da quello di George Bush. Spinge per una loro approvazione al Congresso con procedura d’urgenza (fast track), il che limiterebbe il dibattito e impedirebbe la presentazione di emendamenti. Obama può contare sull’appoggio dei repubblicani e buona parte dei democratici, ma si è trovato tra i piedi l’opposizione della senatrice Elizabeth Warren – accademica ed economista – che giudica la procedura inaccettabile e accusa Obama di avere secretato il testo,  “imbavagliando” di fatto il Congresso.

(Fra i due, tra l’altro, c’è vecchia ruggine per l’insistenza della senatrice a chiedere il ripristino di una regolamentazione bancaria del tipo Glass-Steagal Act, la cui abolizione a opera di Clinton nel 1999 è all’origine, secondo molti, della crisi finanziaria del 2008. Una misura che Obama non ha nessuna intenzione di prendere, nonostante le sue roboanti dichiarazioni all’indomani dell’insediamento, qualche mese dopo la bancarotta Lehman Brother).

La reazione di Obama è stata quella di accusare la Warren e chi come lei avanza critiche e riserve, di “diffondere false notizie”. Fra i disfattisti ha incluso Lori Wallach, giornalista e attivista contro la globalizzazione, direttrice del Global Trade Watch, conosciuta per la meticolosità e serietà con cui conduce le sue inchieste. A questa reazione ha risposto l’avvocato e saggista Ralph Nader con una lettera aperta al Presidente, in cui lo sfida a un pubblico dibattito con i critici anziché limitarsi ad accusarli di allarmismo ingiustificato.

A fronte della massa di commenti inconsapevoli [?] da parte di giornalisti che presentano i negoziati come semplici accordi di promozione commerciale, poche voci in dissenso avvertono che si tratta invece di veri e propri trattati la cui attuazione comporterà seri rischi per l’ambiente, per la salute dei consumatori, per le condizioni di lavoro e per la sovranità stessa degli stati rispetto alle grandi multinazionali. Per fare chiarezza, chiede Nader “non sarebbe tempo che lei, signor Presidente, interagisse con i cittadini preoccupati e i loro rappresentanti, piuttosto che asserire unilateralmente che Elizabeth Warren sbaglia? Perché non confrontarsi in un dibattito televisivo con la senatrice?”.

Nader prosegue:

“[…] Esattamente come il NAFTA e il WTO, il TPP [e il TTIP] è un sistema sovra-nazionale di gestione autocratica che subordina il nostro sistema giuridico e lo elude a favore di tribunali segreti, le cui procedure sono in contrasto con il nostro concetto di processo aperto, giusto e indipendente. Questi accordi, come Lei sa, prevedono coercitive disposizioni sui diritti e i privilegi delle multinazionali. [Per contro] Le retoriche rassicurazioni sui diritti dei lavoratori, dell’ambiente e dei consumatori non stabiliscono alcun dispositivo altrettanto vincolante.

[…] Il pubblico sarebbe interessato ad ascoltare le Sue spiegazioni circa l’effetto negativo che precedenti analoghe esperienze hanno provocato sulla nostra economia e sui lavoratori americani.

[…] Lei sostiene che Elizabeth Warren è in errore sulla clausola “Investor-State Dispute Settlement”, che consente alle multinazionali di sfidare i nostri regolamenti sulla salute, sulla sicurezza e quant’altro citandoci in giudizio non nei nostri tribunali ma davanti a corti internazionali di arbitraggio. Bene, sarebbe una perfetta base per un dibattito pubblico, non crede?

[…] Negli anni è emerso perfettamente chiaro che sono pochissimi i legislatori o i presidenti che leggono realmente il testo di questi accordi […] i più si accontentano di memoranda preparati da funzionari dell’USTR o delle organizzazioni lobbistiche.

[…] Qualcuno potrebbe anche chiedersi come mai Lei non chiami questo accordo “trattato”, come fanno altri paesi. Forse perché un accordo richiede solo il 51% dei voti del Congresso, anziché i due terzi richiesti per la ratificazione di un trattato?

[…] Secondo il Washington Post lei ha descritto come “disinformazione” le critiche che circolano sul TPP, e affermato che le avrebbe “respinte molto duramente se avesse continuato ad ascoltare cose del genere”. Bene. Le respinga duramente davanti a decine di milioni di persone avendo come controparte la senatrice Warren. E se d’accordo, si assicuri che gli americani interessati abbiano prima una copia dell’accordo, in modo che i telespettatori siano un pubblico informato.”

La lettera chiude con la rituale formula anglosassone “I look forward to your response“, rimango in attesa della sua risposta.

Rimaniamo in trepida attesa anche noi: chissà che un dibattito pubblico negli USA non ne provochi uno anche qui. Dopotutto l’Obama locale ce l’abbiamo già, manca solo una Elizabeth Warren. Possibile che in tutto il Parlamento italiano non se ne riesca a trovare una?

 

Mauro Poggi 

 
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4 Agosto 2015

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Da Rassegna di Arianna del 29-7-2015 (N.d.d.)

 

Ezra Pound era un poeta: e i poeti, qualche volta (non sempre) vedono più lontano degli specialisti e dei “tecnici”, siano essi specialisti e “tecnici” della politica, dell’economia, della finanza, e perfino della scienza.

Quel che Pound aveva visto con folgorante chiarezza, pur nella modestia della sua cultura economica e finanziaria, era una cosa fondamentale, che, strano a dirsi, continua a sfuggire a molti economisti e a molti esperti del mondo finanziario; a meno che non sfugga loro intenzionalmente: ma allora ci troveremmo in presenza non di specialisti e di “tecnici” che, per un eccesso di specialismo, tecnicismo e riduzionismo, hanno perso di vista l’insieme, ma, molto più semplicemente e banalmente, di corrotti e traditori, che hanno venduto l’interesse generale in cambio di vantaggi personali. In breve, Pound si era reso conto che l’intera storia del mondo moderno è la storia di una lotta continua, incessante, senza quartiere, fra l’usura e il lavoro; guerra combattuta talvolta con le armi, più spesso con i tassi d’interesse sui prestiti che le banche concedono ai privati e perfino agli Stati sovrani, i quali ultimi, in cambio, cedono gradualmente quote della loro sovranità, indebitandosi sempre di più e accumulando un peso debitorio che, alla fine, li mette completamente alla mercé dei creditori.

Oggi la cosa è divenuta talmente palese, che anche l’uomo della strada ha finito per rendersene conto, o, quanto meno, per averne una certa qual consapevolezza, e sia pure incompleta e superficiale, sia pure priva di adeguati riscontri e conoscenze puntuali; negli anni Trenta del XX secolo ciò poteva anche non essere altrettanto evidente, specialmente per un poeta. Quel che aprì gli occhi a Pound non fu la crisi del 1929 in se stessa, ma la “scoperta” degli antichi statuti del Monte dei Paschi di Siena: di una banca, cioè, sorta proprio allo scopo di concedere prestiti a interesse moderato, e mirante non all’arricchimento sfrenato mediante il nodo scorsoio dell’usura nei confronti del debitore, ma avente lo scopo preciso di sostenere il piccolo commercio e la piccola impresa, di sostenere i singoli e le famiglie in difficoltà, in modo da promuovere, o contribuire a promuovere, il benessere e l’attività produttiva dell’intero corpo sociale.

Nella loro saggezza, i fondatori del Monte dei Paschi di Siena, nel tardo XV secolo, avevano visto e compreso che nessun privato e nessun gruppo sociale possono progredire e avvantaggiarsi, quando l’intera popolazione soffre nelle strette dell’indigenza; che la povertà sempre crescente dei molti non può finanziare, all’infinito, l’accumulo di ricchezza di pochi, o di pochissimi, pena il corto circuito dell’intera struttura sociale e l’insorgere di violenze, carestie, rivolte, guerre, le quali, comunque, ben difficilmente varranno a ripristinare l’armonia del corpo sociale, fin tanto che non si deciderà di agire sui meccanismi perversi della finanza – oggi diremmo: dell’economia virtuale e speculativa –  tendenti a distorcere il sano ed equilibrato rapporto fra lavoro, risparmio individuale e benessere collettivo.

Il vero conflitto, dunque, non è – come vorrebbe il marxismo – fra capitale e lavoro, perché il capitale e il lavoro sono i due termini di una sana e necessaria dialettica economico-sociale; il vero conflitto, conflitto malefico e puramente distruttivo, è quello fra lavoro ed usura, intesa, quest’ultima, nel senso più ampio del termine: ossia tutto ciò che vive, parassitariamente, a spese del lavoro, e non incrementa la produzione, anzi, la frena e la scoraggia, né favorisce il risparmio, bensì lo distrugge, perché sottrae capitali a chi produce e li fa crescere a vantaggio di chi non produce, non lavora, non risparmia (nel senso intelligente del termine), ma vuole accumulare una ricchezza sterile e mostruosa, tendenzialmente illimitata, la quale, come una piovra maligna, assorbe e divora, una dopo l’altra, tutte le parti sane della società, fino a togliere ogni speranza, non solo di lavoro, ma di un futuro qualsiasi, alle giovani generazioni.

San Bernardino da Siena, che tanto si era impegnato sul fronte della questione sociale, e tanto si era adoperato per il prestito a basso tasso d’interesse, scagliandosi contro usurai ed Ebrei, muore nel 1444; il Monte dei Paschi di Siena viene fondato nel 1472, con la precisa finalità di soccorrere il lavoro e di favorire il piccolo risparmio, vale a dire come un vero e proprio monte di pietà, con la missione di soccorrere le classi e le persone disagiate. Le due date non sono lontane, le finalità sono pressoché identiche, come pure il luogo: tutte queste sono delle mere coincidenze? Ed è forse una coincidenza il fatto che si sia messo il silenziatore sull’aspetto sociale ed economico  dell’apostolato di San Bernardino, così come si è scagliato l’anatema, o si è fatto cadere il velo dell’oblio, sulla dimensione sociale ed economica degli scritti di Pound e dei discorsi da lui pronunciati alla radio italiana durante la Seconda guerra mondiale, nei quali denunciava l’affarismo delle grandi banche e la volontà del governo americano di scendere in guerra, apparentemente per la difesa della libertà e della democrazia, ma in effetti per ripristinare il sistema mondiale della speculazione finanziaria e dell’usura, messo in crisi dal sorgere del modello alternativo rappresentato dal fascismo?  […]

Ecco perché il pensiero di Ezra Pound sulle questioni del lavoro, della produzione, del risparmio e dell’usura, anche se non è il pensiero di uno specialista e di un “tecnico”, ma di un dilettante, e, per giunta, di un dilettante che è soprattutto un poeta, che vede le cose – economia compresa - con l’occhio del poeta e nella prospettiva del poeta, non ha perso nulla della sua attualità; anzi, le vicende degli ultimi decenni sono state tali da evidenziare quanto egli sia stato lucido, e addirittura profetico, nel denunciar e il male dell’usura e nel richiamare i popoli dell’Europa alla loro vera tradizione, alla loro vera identità. Tradizione e identità che sono entrate definitivamente in crisi in quell’anno e in quel luogo, il 1694 a Londra, allorché venne fondata la prima grande banca di Stato, la Banca d’Inghilterra: la prima di quelle centrali del potere finanziario, che emettono moneta e prelevano il frutto del lavoro, in cambio di denaro virtuale, falso, immaginario, creando il meccanismo del debito e strangolando, poco alla volta, l’economia reale, fatta di persone, di famiglie, di imprese, di commerci, i quali, a un certo punto, soccombono per asfissia, affinché, nel deserto universale creato dall’usura, rimanga, trionfante e necrofila, una sola vincitrice: la borsa.

Resta solo da aggiungere che, dai tempi di Pound, i meccanismi dell’usura mondiale si sono enormemente perfezionati e ulteriormente ramificati, per esempio con la creazione delle agenzie di “rating”, vere e proprie centrali di potere finanziario “terroristico”, dai cui verdetti dipende la sorte di immense somme di denaro, spostate a vantaggio o a svantaggio non solo di singole imprese e società, ma di intere nazioni sovrane (o che s’illudono di essere ancora sovrane); e che il suo appello, pertanto, non ha perso nulla della sua drammatica urgenza, al contrario, è divenuto questione di vita o di morte…

 

Francesco Lamendola 

 
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