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Demonizzare la Russia PDF Stampa E-mail

20 Luglio 2015

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 7-7-2015 (N.d.d.)

 

L'Unione Europea, sfruttando l'occasione offerta dalle vicende ucraine, si è accodata senza discutere alle strategie americane nei riguardi della Russia e di Putin che vengono presentati dai media occidentalisti come il più serio pericolo per la pace e la stabilità in Europa.

Una bella faccia di bronzo che se nel caso della Casa Bianca è fisiologica e affonda le sue radici nel retaggio ideologico della guerra Fredda e nella contrapposizione con l'Unione Sovietica, nel caso dei Paesi dell'Unione, che hanno deciso di imporre le sanzioni a Mosca, è semplicemente folle oltre che autolesionistico. Sia dal punto di vista politico che economico considerato che la Russia è il più importante e il più affidabile fornitore di petrolio e di gas dell'Unione Europea. E lo è ancora di più oggi dopo che Paesi come Libia e Iraq, una volta “laici” e stabili politicamente, sono finiti in mano alle milizie islamiche.

Nel caso degli Stati Uniti la strategia che da decenni si sta mettendo in atto è quella dell'accerchiamento della Russia che già caratterizzò la politica estera di Londra nel XIX secolo, quando la Gran Bretagna era la prima potenza globale. Il Grande Gioco di cui parlò pure Kipling e che si esplicava nell'impedire a Mosca l'accesso ai mari caldi. Una strategia che, gestita dagli Usa, oggi come durante la presidenza di Carter (1977-1980), vede il suo teorico in Zbigniew Brzezinski che, da immigrato polacco cattolico, ha più di una motivazione, storica e politica, per alimentare il suo astio verso la Russia che unitamente alla Germania si è più volte divisa il territorio della “sua” Polonia. Nel caso dei Paesi europei, quelli per intenderci che costituiscono il nocciolo duro originario dell'Unione (Germania, Francia e Italia), questo appiattimento sulle posizioni americane non ha ragione di essere, perché ignora volutamente la storia della Russia dopo il crollo del Muro di Berlino con tutti i tentativi da parte degli Stati Uniti di colonizzarla economicamente, assumendo il controllo del suo patrimonio energetico attraverso i vari oligarchi che furono riempiti di risorse finanziarie per comprare le aziende pubbliche, messe in svendita da Boris Eltsin e dal suo degno compare Egor Gaidar. Oligarchi che, molto spesso erano caratterizzati dall'avere un doppio o triplo passaporto con relativa nazionalità (russa, statunitense e israeliana) e che improvvisamente comparvero sulla scena facendo razzia di attività strategiche come petrolio e gas e costruendo un patrimonio immenso che condizionava, anzi aveva in pugno, la vita politica russa.

Una realtà contro la quale si mosse Vladimir Putin, una volta che prese il posto di Eltsin al Cremlino nel 2000. Da qui la campagna giudiziaria contro i vari Berezovsky, Gusinsky, Abramovich e soprattutto Khodorkovsky imprigionato e condannato per frode fiscale proprio quando stava per vendere alla Exxon la quota di maggioranza della Yukos, il colosso russo del petrolio e del gas. Una vicenda giudiziaria che innescò sulle due rive dell'Atlantico una incredibile campagna a favore di Khodorkovsky, presentato come un individuo dal comportamento cristallino, una vittima del “dittatore” Putin e come un sincero democratico. Una campagna che le autorità Usa cercarono di rafforzare con il blocco giudiziario dei beni della Yukos negli Stati Uniti. La solita pretesa missionaria di Washington di essere la guida morale e il gendarme del mondo e di conseguenza di imporre ad un governo straniero (nel caso la Russia) cosa fare o non fare all'interno del proprio territorio. Come se la Russia fosse un Paese, tipo l'Iraq o la Serbia, al quale imporre la propria volontà, attraverso una minaccia (o un attacco) militare, e non una potenza dotata di armi nucleari e in grado di reagire.

L'aggiramento della Russia da sud fu il primo passo della strategia perseguita da Brzezinski che convinse l'amministrazione Usa a favorire la caduta dello Scià in Iran nel 1979 che era già debole di suo e di sostituirlo con un governo islamico in maniera tale da provocare una sorta di effetto domino, una infezione, nelle repubbliche islamiche dell'Unione Sovietica e sui tempi lunghi un suo dissolvimento. Fu per reagire a questa strategiache l'Urss invase l'Afghanistan. Poi in Iran le cose non andarono esattamente come sperava Brzezinski ma nel frattempo un seme era stato gettato.

Caduto il muro di Berlino, sotto la presidenza di Bush padre, il disegno di Brzezinski trovò nei repubblicani i suoi continuatori, a dimostrazione che esso era comunque funzionale agli interessi dell'establishment Usa. Ed il primo interesse era quello di impedire che si creasse una alleanza continentale tra la nuova Unione Europea e la Russia. Una alleanza nella quale la prima portasse la propria tecnologia e la seconda le materie prime energetiche. Un'alleanza in grado, sempre sui tempi lunghi, di insidiare il primato economico statunitense.

La scelta fatta fu quella di puntare sul risentimento delle repubbliche dell'ex Urss, divenute indipendenti, nei riguardi della Russia, di farle entrare nella Nato, e di favorire l'ascesa di politici fedeli a Washington in virtù di legami familiari e della doppia nazionalità, oltre che da cospicui finanziamenti. Caso emblematico fu quello di Mikhail Shakasvili in Georgia che guidò una delle tante rivoluzioni “colorate” e che poi ne assunse la presidenza. O il caso incredibile e recente dei tre ministri del nuovo governo ucraino, tutti e tre cittadini statunitensi imposti da Washington e funzionali alla richiesta delle autorità di Kiev di entrare nella Nato. E allora non bisogna stupirsi o protestare se la Russia, sentendosi minacciata, si sia ripresa la Crimea che l'ucraino Nikita Kruscev (capo dell'Urss dal 1953 al 1964) aveva regalato all'Ucraina togliendola alla Russia. Non ci si deve stupire se Putin abbia fomentato la rivolta delle regioni orientali dell'Ucraina nelle quali il russo è la lingua di riferimento. La richiesta di Kiev di entrare nella Nato (e l'appoggio che le ha dato l'Unione Europea, Italia inclusa) rappresenta infatti una vera e propria provocazione nei riguardi della Russia perché essa sposta ad Est gli equilibri geopolitici europei. Li sposta senza un motivo apparente che non sia quello esposto in precedenza. Perché la Russia non è né tanto meno può essere considerata un pericolo per l'Europa.

I tre governi a cui si faceva riferimento prima (Germania, Francia e Italia), tutto questo lo sanno benissimo eppure hanno scelto di sostenere una questione di principio, quella della intangibilità del territorio di un Paese che in passato hanno bellamente ignorato. Ricordiamoci ad esempio della guerra di aggressione della Nato contro la Serbia, supportata dalle basi collocate in Italia, gentilmente offerte dal governo dell'ex comunista D'Alema. Oggi invece, il cattivo è soltanto Putin e i governi di sinistra o di destra europei (la Gran Bretagna è sempre stata filo Usa) hanno dimostrato di essere perfettamente collocati su una linea che è autolesionistica per gli interessi dell'Unione.

Certo Putin non corrisponderà all'idea di un leader democratico che si ha in Occidente, quello insomma che lascia il potere reale nelle mani delle oligarchie finanziarie, alla cosiddetta “società civile”, ma è stato eletto dal suo popolo con maggioranze non da poco. Obama, da parte sua, continua a recitare un copione ad uso e consumo dei suoi maggiordomi, prontissimi a genuflettersi in attesa di ordini. «Putin sta ricreando un'atmosfera da guerra fredda», ha affermato alla riunione del G7. In realtà è vero l'opposto. Sono gli Stati Uniti che da un venticinquennio alimentano i venti di guerra in Europa e nel mondo, confidando nella propria superiorità tecnologica. Ed hanno scelto di usare l'Europa per destabilizzarla e per staccarla da una Russia che ne è l'alleato naturale.

Politici come Schroeder e Berlusconi (pur con tutti i suoi limiti e le sue colpe) lo avevano ben chiaro. I capi attuali no. Pure da questa debolezza deriva la crescente marginalizzazione dell'Europa nel mondo e la sua incapacità (perché ne mancano le premesse e le condizioni) di essere un soggetto unico in grado di incidere sul futuro.

 

Filippo Ghira 

 
Lo iPhone e il paradiso di Allah PDF Stampa E-mail

18 Luglio 2015

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Da Rassegna di Arianna del 7-7-2015 (N.d.d.)

 

Vi racconto una storia successa a Firenze quasi sessant’anni fa. Si ricominciava a star benino, in quel dopoguerra. Non era ancora arrivato il boom, ma c’era la Vespa della Piaggio, erano i primi tempi della TV, al cinema furoreggiavano le tette di Marisa Allasio. E c’era un ragazzo di sedici anni, figlio di un artigiano del popolare quartiere di San Frediano, quello di Vasco Pratolini. Siccome era bravo a scuola, suo padre già lo sognava professore di liceo: così avrebbe avuto lo stipendio fisso senza dover sgobbare. La sua fidanzatina aveva la coda di cavallo e la gonna a campana. Ma a lui quelle prospettive di stipendio e di bella famigliuola non bastavano: gli parevano il Nulla. Lui amava la musica di Borodin e i romanzi di Kipling, sognava i deserti dell’Asia centrale e il Kyber Pass. In Ungheria c’era la rivolta, lui avrebbe voluto scappar di casa e correre sulle barricate a morire con i patrioti di Budapest. Perché la morte in riva al Danubio doveva attrarlo più di un futuro con lo stipendio e la famiglia?

Nell’Italia di oggi, molte famiglie non sanno più bene come arrivare alla fine del mese, gli italiani hanno paura di finire come i greci, il lavoro non c’è e quasi tutti sono convinti (ivi compresi quelli che non ne hanno mai cercato uno) che siano i migranti a portarglielo via, se metti due soldi in banca per risparmiarli alla fine dell’anno te ne ritrovi la metà. A sud (e ormai anche al nord) ci sono la mafia, la ‘ndrangheta e i viadotti autostradali che crollano. Il governo continua a parlare di “liberalizzazione”, quella cosa per cui lo stato cede i suoi beni ai privati che ne intascano gli utili e rovesciano costi e debiti sulla società. La gente non va nemmeno a votare, ma si pretenderebbe come del tutto naturale che il mondo intero abbracciasse i valori democratici nei quali noi non crediamo più. C’è corruzione dappertutto, eppure sono in tanti – specie i giovani – a cercar di entrare in politica, con la speranza d’imbattersi prima o poi in qualcuno che corrompa anche loro. I miti trasmessi dai media sono quelli dei guadagni facili, delle piscine olimpioniche, del danaro, del successo. C’è tanta gente che, anche se non lo dice, sotto sotto ammira quel tale che regalava milioni alle Olgettine. Ma se il lavoro non c’è e se ormai i titoli universitari sono svalutati e studiare non serve più a nulla, legger libri men che meno, che cosa resta a una famiglia con i nonni che vivono di una magra pensione, i figli precari o sottoccupati e i nipoti che ciondolano tra una scuola che non insegna più nulla e prospettive di lavoro inesistenti se non attaccarsi alla TV e masticar pop-corn come tanti Simpson? E i ragazzi, specie quelli del sud (ma non solo…), che debbono fare se non spacciare o scippare per comprarsi il costoso iPhone che tanto desiderano?

Poi magari arriva l’amico maghrebino che ti porta dal suo imam. Ed è lì che il velo ti cade dagli occhi. È lì che impari che l’Occidente/Modernità è solo una fabbrica di soldi per i pochi che ruotano intorno alle lobbies multinazionali e di miseria e ignoranza per gli altri. È lì che – dopo non aver neanche per un attimo pensato a riprendere in considerazione il Dio cristiano dei tuoi nonni o non esserti mai posto con serietà il problema della tua identità di cittadino di una repubblica “laica e democratica” - impari che Allah è grande e vuole che tu combatta per un mondo migliore dove più nessuno sia sfruttato, dove si rispetti la famiglia, dove la donna non sia più costretta a mostrarsi seminuda per diventare un oggetto di mercato, dove contino finalmente il coraggio, la fedeltà, l’onore e dove la battaglia sia la porta per la quale si accede al Paradiso…

Un messaggio religioso difficile, malinteso e incompreso? Senza dubbio. Ma siamo certi che gli orizzonti pratici offerti dalla nostra società libera e democratica siano migliori? Siamo certi che la prospettiva del danaro facile e della libertà assoluta di far quel che ci pare e piace – due obiettivi del resto sognati da tanti, ma raggiunti solo da pochissimi - sia più affascinante di quella del jihad per ragazzi (e magari anche per persone adulte e mature) che ormai erano rassegnati a vivacchiare ai margini di quella Società del Benessere che a loro non avrebbe mai dato nulla? Crediamo davvero che tanta gente senza prospettive e senza cultura, da noi, sia così contenta di venire a sapere che il nostro governo spende un miliardo all’anno per mantenere a far non si sa che cosa quattromila soldati in Afghanistan mentre non si trovano i soldi per la scuola, gli ospedali, le pensioni?

Mettiamo quindi nel conto che accanto al furto, alla rapina, allo spaccio di droga, in alternativa al lavoro che non si trova o alle serate al pub o in discoteca ci sia qualcuno che cerca Dio; e, se ne trova uno diverso da quello della sua tradizione che non conosce più o che ha dimenticato, che ci si dia con poco discernimento ma con tutto il cuore. Sono stati sempre così, i convertiti. E ci sono sempre stati, anche nelle migliori famiglie e nei migliori periodi della storia, quelli che sono fuggiti di casa per cercar la Bella Morte. È uno sballo anche quello: come – diceva Lucio Battisti – “guidare nella notte a fari spenti per sapere – s’è poi tanto difficile morire”. D’altra parte, pare che anche il califfo paghi i suoi uomini, come si pagano i contractors. Il jihad, per molti, è anche un business.

Ma il problema non sta nel mondo musulmano. Sta qui, siamo noi. Se la Modernità, se la “Società dell’Avere”, altro non hanno potuto offrire come scopo alla vita se non il Nulla, allora si capiscono tante cose. Anche il ragazzino di sessant’anni fa che voleva andar a morire a Budapest. Anche i ragazzi d’oggi che partono dal Galles o dalla Normandia per finir tagliatori di teste e poi magari shuhadà, “martiri”, nella Santa Armata del califfo al cui comando stanno degli ufficiali irakeni saddamisti, cioè formalmente sunniti ma in realtà socialisti atei. Parigi poteva anche valer bene una messa per un cinico aristocratico calvinista del primo Seicento, ma lo iPhone non vale il Paradiso all’Ombra delle Spade.

Ecco perché quella strana famiglia di convertiti all’Islam, la famiglia di Giulia che adesso si chiama Fatima e del marito mujahid in Siria, non è una famiglia di mostri. Non è la famiglia Addams di Allah. È gente nostra, del nostro secolo che ha smarrito il senso della vita.

 

Franco Cardini 

 
Guai ai vinti! PDF Stampa E-mail

17 Luglio 2015

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Houston, 13 luglio 2015 - L’Urbe era stata vinta ed occupata e i danni di guerra, che all’epoca si pagavano in oro, erano stati fissati in ben 1000 libbre d’oro. Mentre si stava pesando - su pubblica piazza - il prezioso metallo da conferire al vincitore, i romani si accorsero che le bilance erano truccate. Quello che accadde allora rimase nella storia.

Infuriato per l’ardire degli sconfitti, il capo dei Galli Senoni, Brenno, sfilò allora la spada dal fodero e la gettò sul piatto della bilancia, in modo che il tributo dei vinti fosse ancor più pesante - ed iniquo - esclamando: Vae Victis - Guai ai vinti - facendo chiaramente intendere che le condizioni sono dettate dalla legge del più forte.

Verità o leggenda? Non possiamo garantire ai lettori che le cose si siano svolte esattamente così; quello che però siamo in grado di garantire è che – sia come sia - ventiquattro secoli dopo la storia si è ripetuta.  Magari non con le stesse parole, ma il senso non è cambiato di un niente.

Questa volta non ci sono danni di guerra da pagare, ma ‘danni di pace’. Danni provocati da scelte politiche nazionali e internazionali profondamente inique. Incapacità, furbizia, avidità, equamente condivise da diversi governi ellenici e dalla governance europea.

Abbiamo visto, poi, come i creditori esigano condizioni capestro, la Grecia si ribelli alle loro pretese, reputandole ingiuste, indicendo un referendum. La risposta unanime è stata, come sappiamo, il rifiuto di tali richieste. Ma l’Europa, nonostante o, più probabilmente, a causa di quella ribellione costringe la Grecia a un accordo che impone al Paese sacrifici molto più pesanti di quelli previsti dal piano che era stato respinto dai cittadini ellenici solo pochi giorni prima.

Guai ai vinti!

Come racconta Varoufakis, in un’intervista al New Statesman, il nuovo Brenno, alias il presidente dell’Eurogruppo, in un certo momento del negoziato stava escludendo la Grecia dalla riunione, come se essa fosse di fatto già fuori dalla zona euro. All’obiezione di Varoufakis secondo cui ciò era illegale la risposta degli esperti fu che in fondo l’eurogruppo, non esistendo secondo la legge - non essendoci nessun trattato che lo abbia istituito – non sottostarebbe di fatto ad alcuna legge. Abbiamo di fronte dunque un gruppo - che non è previsto da alcun trattato e non risponde a nessuno e di cui nessun cittadino sa che cosa vi accade – che ha il potere assoluto di determinare la vita degli europei e “di decidere su questioni quasi di vita o di morte senza che alcuno dei suoi membri debba risponderne a nessuno”.

Nella stessa intervista Varoufakis parla apertamente di “totale mancanza di qualsivoglia scrupolo democratico da parte di coloro che si ergono a difensori della democrazia in Europa”. Costoro, continua Varoufakis - esattamente come Brenno ventiquattro secoli prima - ti guardano negli occhi e ti dicono “quello che dici è vero, ma noi ti schiacceremo comunque”.

Ma torniamo al nostro Brenno.

La vicenda non si concluse allora con la spada sulla bilancia e l’umiliazione dei vinti. Infatti - come chi ha ancor freschi i ricordi della storia antica rammenterà - da lì a poco sopraggiunse Marco Furio Camillo, ex console, allora esule, che, venuto a conoscenza dell’entità del riscatto, con un manipolo di guerrieri irruppe nella Roma occupata dal nemico e, affrontando di persona Brenno, disse, rispondendo al Vae victis del Gallo:

Non auro, sed ferro, recuperanda est Patria, vale a dire: non con l'oro, ma col ferro, si riscatta la Patria!

Di lì a poco i Galli vennero sgominati e cacciati da Roma, inseguiti da Furio Camillo ben oltre i confini dell’Urbe, tanto che Brenno fu costretto a rifugiarsi nel nord dell’Italia.

 Quanto il finale di quella storia sia drammaticamente diverso dall'esito delle vicende attuali è ben sintetizzato dalla reazione che Tsipras, durante le trattative con l'Eurogruppo, colto da sconforto, avrebbe avuto togliendosi la giacca e sfidando i suoi interlocutori-aguzzini con le parole: “prendetevi anche questa!”.

Tuttavia, nonostante la miseria dei tempi, forse le vicende attuali a qualcosa sono funzionali. Esse rendono, infatti, assolutamente palese - a chiunque abbia l’onestà intellettuale di riconoscerlo - che il percorso verso il superstato europeo, che passa attraverso la falsificazione delle regole, la sopraffazione da parte del più forte e l’annientamento di ogni forma di dissidenza - ma in modo politically correct, vivaddio, non con la forza delle armi – oggi ha gettato la maschera.

Abbiamo oggi tutti ben chiaro davanti agli occhi il volto, il ghigno mostruoso di un potere che è riuscito a costringere alla resa un intero Paese - obbligato a rinunciare alla propria sovranità - senza versare una sola goccia di sangue. È bastato, come 2400 anni fa, gettare sulla bilancia la spada del debito.

Senza lieto fine. Per ora.

 

Piero Cammerinesi 

 
Tutta colpa dei tedeschi? PDF Stampa E-mail

17 Luglio 2015

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Da Rassegna di Arianna del 14-7-2015

 

Chi urla che la Germania è il vero nemico dei popoli europei “è lui stesso il nemico”, parafrasando Brecht. Il nemico marcia, molto spesso, alla testa del malcontento generale, mimetizzato come un camaleonte sotto le bandiere degli oppressi. Costui è sempre in prima linea a manipolare e direzionare le “masse” scontente e vessate sull’obiettivo sbagliato. La Germania ha tante colpe, non quella di voler instaurare il IV Reich in Europa. Tutte frescacce diffuse e rilanciate da chi copre manovre politiche e militari, ben più pericolose, attuate contro la sovranità europea da presunti amici oltreatlantici. Non vedo divisioni tedesche all’opera mentre i marines continuano a sbarcare ai margini continentali con la scusa di qualche pericolo esterno. Per non parlare delle interferenze statunitensi sui governi più deboli dell’Ue, tenuti letteralmente in ostaggio dalla Casa Bianca. I sapientoni di tutte le cattedre e le cadreghe straparlano di nazismo finanziario tedesco perché non conoscono né la storia né l’economia. Andrebbero sepolti, seduta stante, nei luoghi dove vengono invitati a seminare la loro zizzania da quattro soldi e trenta denari.

Se l’Europa vacilla è perché gli Usa la vogliono claudicante. Lo ha raccontato perfettamente Francesco Meneguzzo in questo pezzo “Crisi Grecia: Atene come arma degli Usa contro la Germania”. Noi lo diciamo, solitari e inascoltati, da anni. Scrive Meneguzzo, a proposito della sceneggiata greca, che si è trattato di: “Una manovra americana che rasenta la perfezione, una speculazione al ribasso destinata a un successo storico, a meno che la Germania tenga duro nonostante le impressionanti pressioni condotte anche dai soliti utili idioti delle sinistre europee: se alla Grecia verrà ristrutturato o tagliato il debito, la Germania subirà un salasso tale da mortificare qualsiasi speranza di ripresa sostenuta almeno nel breve termine, nonché qualsiasi ambizione extra-atlantica, anche perché è impensabile che possano contribuire significativamente altri paesi indebitati fino al collo come la Spagna e soprattutto l’Italia (e anche per la Francia avremmo qualche dubbio), mentre la Grecia rimarrà nell’eurozona, certamente vivacchiando ma lontanissima da tentazioni ‘strabiche’ verso Mosca o Pechino. Portando a una convivenza forzata e traballante, ma saldamente nel campo atlantico, e quanto più flebile sarà la voce della Germania, tanto più rapida e sicura sarà l’approvazione del trattato di partnership transatlantica (Ttip), nuova architrave del blocco occidentale e probabile gabbia e condanna per gli europei, tanto desiderata da Washington anche in chiave anti-russa e anti-cinese”.

Più chiaro di così non si può. Alla Germania può essere elevata l’accusa di non aver saputo disegnare un destino generale meno angusto di quello burocratico-contabile attuale. Berlino è mancante di una visione strategica del futuro, pur avendo accumulato i mezzi industriali ed economici per proiettarsi sulla scacchiera geopolitica regionale e intrecciare intese fuori dai tradizionali schemi atlantici. Non è riuscita a creare un asse con le potenze confinanti (Francia e Italia) per rinnovare le sue alleanze internazionali ad Est. Errore imperdonabile per un Paese che ha tutte le potenzialità per accrescere la sua sfera egemonica e contribuire ai mutamenti dell’ordine mondiale, richiesti dall’epoca in corso. Ma gli altri cosa hanno fatto? Gli utili idioti degli Usa, come afferma Meneguzzo. Allora smettiamola di addossare tutte le responsabilità ai crucchi e dividiamoci le dosi di vergogna e incapacità come si conviene. A cominciare da noi italiani che vantiamo una classe dirigente talmente inetta da fare concorrenza a quelle dei regimi africani dei tempi coloniali.

 

Gianni Petrosillo 

 
Morales e il papa PDF Stampa E-mail

15 Luglio 2015

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 Da Rassegna di Arianna del 14-7-2015 (N.d.d.)

 

Uno dei posters più drammatici della propaganda politica antinazista, prima delle elezioni del 1933 e poi dopo la fine dell’esperienza hitleriana, mostrava un “povero cristo”, un tedesco qualunque, crocifisso a una svastica. Il senso di quel messaggio era chiaro: i nazisti erano i nuovi assassini di Dio, il popolo tedesco era appeso al simbolo del loro partito in quanto strumento di violenza e di morte.

Non so se papa Francesco ha mai visto qualche riproduzione di una delle innumerevoli versioni di quell’intenso motivo propagandistico, sul significato e sul cattivo gusto del quale potremmo discutere a lungo. Certo, l’allusione al Cristo sulla croce, se non proprio blasfema, è poco rispettosa.

Ma non sembra certo l’intenzione del presidente boliviano Morales, che ha presentato giorni fa a un papa dall’espressione intensa e severa, forse preoccupata e forse imbarazzata, un oggetto che definire inquietante è decisamente eufemistico. Una croce di legno a forma di martello (oggetto peraltro richiamante la forma di una T maiuscola: il “Tau”, nella tradizione cristiana e soprattutto francescana segno salvifico, anzi uno dei modi più consueti per rappresentare la croce), alla base della quale è incastrata la raffigurazione di una falce.

È da escludere che le intenzioni del presidente Morales siano state polemiche o provocatorie: si può pensarne quel che si vuole, ma non si può non partire dalla certezza delle sue buone intenzioni, magari accompagnate – questo sì – da una certa intenzione di strumentalizzare in qualche modo la presenza del pontefice e di, esprimiamoci così, “tirarlo dalla sua”. Certo è che la croce/svastica della propaganda tedesca antinazista comportava un giudizio intransigente nei confronti del movimento hitleriano; al contrario, la croce/falce-e-martello del socialista Morales significa ben altro. E sale immediatamente alla mente la definizione, così comune tra i ceti subalterni dei paesi cattolici di una volta, di “Gesù primo socialista”. Il Cristo crocifisso su una falce e martello non è martirizzato da essa o a causa di essa: anzi, vi si appoggia come a un simbolo di salvezza. Nelle intenzioni di Morales il vecchio distintivo socialista, sempre associato alla bandiera rossa, è un segno di speranza, di solidarietà, di redenzione: una metafora della croce.

Papa Francesco ci ha detto e ripetuto che è necessario guardare il mondo con occhi nuovi; e il considerarlo “dalle periferie” è secondo lui il modo migliore per farlo e per comprenderlo. E allora è non solo inutile, ma inintelligente e fuorviante “giudicare” il gesto di Morales, che a noi può sembrare blasfemo o quanto meno inopportuno. Tale gesto va invece “compreso”: e per farlo dobbiamo fare una cosa che alla stragrande maggioranza di noi è quasi impossibile. Capire che cosa significa per i montanari e i campesinos andini quell’emblema al quale alcuni di noi guardano ancora con un po’ di nostalgia e di tenerezza nostalgica, mentre la maggioranza degli occidentali lo associano al totalitarismo sovietico e lo considerano pauroso e sinistro.

Ebbene: se andate in India, in Nepal, o in Cina, o se visitate qualche riserva indiana, v’imbatterete inevitabilmente in una o in più varianti della svastica; e ve ne saranno spiegati i vari, complessi e profondi significati. Ma la svastica nasce come simbolo sacrale. La falce e martello è invece moderna e politica: nasce come simbolo della dignità del lavoro e dell’ispirazione a una giustizia sociale che sul lavoro si fondi. L’America latina, un po’ come l’Africa, è una “periferia” poco toccata da quel ch’è accaduto nel down town occidentale; là, il ricordo e il valore della shoah, per esempio – con una mezza eccezione, forse, per l’Argentina – ha un valore mediatico e sociale molto meno pregnante di quanto non sia in Europa e negli stessi Stati Uniti. E la falce e martello non viene intesa unilateralmente come un simbolo di oppressione o di tirannia: al di là dell’appropriazione unilaterale e totalizzante da parte del comunismo sovietico, che le ha impresso un significato esclusivo, essa è restata a lungo – e lo è ancor oggi, dal Perù al Brasile al Cile – il segno del movimento dei lavoratori e al di là di ciò lo stemma degli oppressi, dei diseredati, di coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Papa Francesco ha recato in Bolivia il suo messaggio d’una Chiesa schierata tutta al fianco degli Ultimi. È stato un messaggio nuovo e sconvolgente per un continente dove essa ha troppo spesso assunto un atteggiamento polarizzante, troppo spesso compromesso con i gorilas militari e i ceti abbienti. E ha duramente pagato tale ambiguità: oggi, la Cristianità cattolica latino-americana è pesantemente penalizzata a vantaggio delle sètte protestanti che guadagnano terreno presentandosi come sostenitrici degli umili e dei poveri (e predicando spesso, come si è visto soprattutto in Guatemala, una “pace sociale” che è acquiescenza al sistema delle sperequazioni e dello sfruttamento).

Un papato socialista, quindi? Il problema non è questo. Qui si tratta d’intendere e di comprendere concretamente un linguaggio politico e sociale, addirittura religioso, che ci è in apparenza familiare ma al quale siamo abituati a conferire altri e differenti valori. Non è facile. Cominciamo col partire da qui: da questo papa accigliato e pensoso dinanzi a un Gesù appeso a un martello, mentre una falce è scolpita in un povero legno poco sotto i Suoi piedi. Quasi due secoli di storia del movimento operaio ci hanno insegnato, in senso generico, a considerare mondo cattolico e mondo delle rivendicazioni sociali come opposti e reciprocamente ostili. Non è un mistero per nessuno che alla crisi del sistema sovietico hanno molto contribuito papa Giovanni Paolo II e l’azione della Chiesa cattolica.

Ma c’è un rovescio della medaglia: e proprio latino-americano. Per esempio, la Compagnia di Gesù fu protagonista nel Settecento della resistenza armata degli indios delle reducciones del Guaranì contro gli schiavisti; e Bergoglio è un gesuita. Il regalo del presidente Morales vuole forse simbolicamente sottolineare l’avvìo di una nuova stagione della Chiesa cattolica: una stagione nella quale la croce e il movimento dei lavoratori non staranno più su opposte barricate, né avvertiti come tali.

 

Franco Cardini

 
Ricattabilità incrociata PDF Stampa E-mail

14 Luglio 2015

 

Le nuove rivelazioni di Wikileaks sulla base delle intercettazioni di Hacking Team stanno facendo emergere un panorama politico a dir poco ributtante.

Abbiamo dunque l’allora non ancora premier Matteo Renzi – leader della sinistra, vale la pena sottolinearlo - che racconta ad Adinolfi, oggi vicecomandante della Guardia di Finanza - peraltro amico di Berlusconi – la sua strategia per defenestrare Letta promettendogli il Quirinale se si dimette.

“Lui non è capace, non è cattivo, l'alternativa è governarlo da fuori. Berlusconi sarebbe sensibile a fare un ragionamento diverso" aggiunge il nostro futuro premier al telefono, parlando di Enrico Letta, all’epoca presidente del Consiglio. Anche se Napolitano è contrario - aggiunge il nostro – “Berlusconi è d’accordo”. E tutto ciò ancor prima del funesto patto del Nazareno.

Poi abbiamo la telefonata di Nardella, vice di Renzi quando il premier era sindaco di Firenze, con Adinolfi, dove si parla, neppure troppo velatamente, di attività e “conflitti d'interesse” di Giulio, figlio dell'allora presidente Napolitano. "Sanno qualcosa di lui". Adinolfi afferma del figlio di Napolitano: “Giulio oggi a Roma è potente, è tutto”. Poi aggiunge che il capo dello Stato sarebbe ricattabile perché “l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e [Enrico] Letta ce l’hanno per le palle, pur sapendo qualche cosa di Giulio”.

Ora, direte voi, dov’è la notizia?

Tutto questo per 'complottisti’ come noi – ma preferisco di gran lunga l’espressione anglosassone conspiracy theorists, teorizzatori della cospirazione – era scontato, non c’era certo bisogno di Wikileaks per avere un quadro del grado di corruzione e di menzogna sistematica di chi ci governa.

Sono anni che andiamo ripetendo – e ogni giorno escono nuove prove – che il potere è assolutamente autoreferenziale e si basa sulla reciproca ricattabilità dei suoi esponenti.

Nessuno arriva a sedere su poltrone di reale comando se non è ricattabile, se non ha qualche…ehm, diciamo così…debolezza, che so, amanti magari minorenni, pedofilia, appropriazione indebita di beni pubblici, vizietti di vario genere, insomma. Sarebbe troppo pericoloso se una persona onesta arrivasse in un posto di comando. Se, a un certo punto, non obbedisse più agli ordini – quelli che comandano veramente non sono certo quelli che appaiono – non ci sarebbe, poi, modo di farglieli eseguire e resterebbe solo la via del…deplorevole incidente.

La ricattabilità incrociata è pertanto la conditio sine qua non per accedere a posti di comando.

Avete notato quante volte sono state ‘salvate’, anche ricorrendo all’immunità parlamentare in maniera del tutto impropria, persone che, se avessero parlato, avrebbero potuto trascinare nella polvere potenti di primissimo piano? E quante volte abbiamo sentito la frase sussurrata o sibilata “se parlo io, casca il governo”?

Insomma, abbiamo una regola di accesso alla stanza dei bottoni che è esattamente l’opposto di quella che dovrebbe essere la condizione per poter servire lo stato, secondo le indicazioni - vecchie di quasi venticinque secoli - di Pericle nel suo famoso discorso riportato da Tucidide:

“Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così”.

Ecco, qui a Roma, noi non facciamo così.

Piero Cammerinesi 

 
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