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L'Europa è politica o non è PDF Stampa E-mail

1 Luglio 2015

 

Da Rassegna di Arianna del 30-6-2015 (N.d.d.)

 

Dovrò, per motivi di maggior impegno e di minore incompetenza, dedicare un po’ più di attenzione al califfo & Co. Solo due parole quindi sulla Grecia. Più che due parole, una doverosa e dolorosa dichiarazione di fede.

L’Europa è morta, viva l’Europa, dicevo pochi giorni fa. Lo ripeto. Se vogliamo salvare l’Europa e la sua unità (ch’è tutta da costruire), l’Unione Europea va abbattuta e rifondata. Non sono affatto un lettore devoto di “Repubblica”, ma quel che negli ultimi giorni ci hanno proposto su quel quotidiano Habermass, Krugman e la Spinelli è sostanzialmente esatto e sottoscrivibile. Che sia stato un crimine volontario o un tragico e grottesco errore, il fatto è che non si sarebbe mai dovuto procedere a una “unificazione” economica e monetaria dell’Europa senza prima aver messo a punto la sua unificazione politica. E non andiamo a tirar fuori alibi inappropriati: lo Zollverein non fu per nulla un precedente dell’unità tedesca, senza la forza e la lucidità politica della Prussia bismarckiana non sarebbe successo un bel niente. Ma nel caso della UE ha purtroppo vinto, una volta di più, il peccato originale della Modernità: il primato dell’economia. Ci siamo illusi – e qualcuno ha voluto illuderci – che dopo l’Eurolandia sarebbe arrivata deterministicamente, fatalmente, l’Europa.

Non era vero. E adesso, ha forse ragione chi paventa l’esito del plebiscito greco del 5 luglio. Perché i casi sono due: o la spunta Tzipras (mi chiedo poi perché lo si debba scrivere alla francese…); e allora è un salto nel buio che potrebbe davvero preludere a una tragica reazione a catena che coinvolgerebbe per prime Spagna, Portogallo e Italia; o la spuntano i partiti della destra che chiedono invece il reallineamento alla volontà dei banchieri che governano l’Eurolandia, i sacrifici ad ogni costo e il ritorno all’austerity, e allora nella migliore delle ipotesi il salto nel buio è solo rimandato.

Resta comunque certo e inevitabile che quest’Europa vada distrutta e rifondata. Ma come, con quali fasi, con quali metodi, questo è un altro discorso. Partiamo da poche semplici considerazioni e proviamo a ragionare.

Primo. A prescindere dai suoi stessi errori, non si doveva portare il governo Tzipras all’esasperazione e alla disperazione. Se l’Europa fosse quel che dovrebbe essere, non una “Unione” bensì una Comunità, la prima legge da rispettare sarebbe quella della solidarietà tra i paesi che ne sono membri. Quando in una qualunque comunità, dalla famiglia al condominio, c’è un debitore in cattive acque ma che dichiara di voler pagare, la prima misura è concedergli credito e respiro. Chi ha stabilito i ritmi e le scadenze di restituzione ai quali la Grecia dovrebbe sottostare? Si tratta delle ferme regola cosmiche o delle “ferree leggi del mercato”? Di pubbliche esigenze o d’interessi e di profitti privati, visto che a gestire l’euro sono, tramite la BCE, dei privati?

Secondo. Se è vero che un certo deficit è indice di salute economica, produttiva e politica, quando si eccede c’è pericolo: d’accordo. Ma l’ossessione del “pareggio di bilancio” non si è già rivelata una grottesca illusione fino dai tempi di Quintino Sella?

Terzo. Sarà senza dubbio vero che non ci sono soldi e che si debbono contenere le spese: ma allora, perché non rivediamo radicalmente e capitolo per capitolo i nostri capitoli di bilancio? Prendiamo l’Italia: se i dati e i calcoli proposti da Gino Strada sono veri, il nostro governo spende un miliardo di dollari all’anno per mantenere 4000 nostri militari in Afghanistan. E io ho fatto un sogno: una bella mattina di lunedì il Rottamatore si sveglia di buon’ora, più presto del solito; parte a razzo dalla sua Pontassieve, se corre alle 8,30 è già a Palazzo Chigi, convoca i ministri degli esteri e della Difesa e nel giro di poche ore dispone il ritiro dalle montagne e dai rocciosi passi afghani dei “nostri quattromila ragazzi”. Loro delusione per la perdita di sostanziose diarie, disperazione per la fine di ricche commesse militari e logistiche, sconcerto negli alti gradi delle nostre Forze Armate. E il miliardo così risparmiato lo passiamo alla Grecia (che con noi è già scoperta di parecchi altri soldi) per saldare la prima rata del suo disavanzo. Così, in un colpo solo, la facciamo finita con i postumi della nostra vergognosa complicità con l’aggressione di Bush all’Afghanistan nel 2001 e diamo una mano a una nazione sorella contro i pescicani della BCE.

 

Franco Cardini 

 
Tragicommedia greca PDF Stampa E-mail

30 Giugno 2015

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Se Alexis Tsipras avesse indetto il referendum qualche settimana o qualche mese fa, quando la situazione era gravissima ma non irreversibile, avrebbe compiuto un colpo di genio.

Adesso, con la situazione compromessa, l’idea è solo un colpo di testa.

Tsipras, praticamente, con un comportamento pilatesco, se ne sta lavando le mani e sta girando la patata bollente del suo fallimento politico al popolo greco: è il solo modo che ha per uscirne con le mani relativamente pulite.

La politica di Tsipras è stata un fallimento colossale fin da subito: impossibile "dialogare " con la Troika, impossibile ammorbidire le posizioni dei creditori, impossibile tentare di riformare dall'interno una istituzione tecnoburocratica e totalitaria come l' Unione Europea, impossibile sostenere di restare nell' euro ma al contempo di evitare la amara purga dei sacrifici, impossibile rilanciare l' economia con un Paese strozzato dal debito e prosciugato, che deve bruciare la residua ricchezza prodotta per ripagare gli interessi sul debito, in un circolo vizioso senza fine.

E ora che anche i macchinari non tengono più in vita il paziente, che fa il medico-taumaturgo?

Indice un referendum per il 5 luglio (così i mercati hanno una settimana di tempo per giocare al massacro) e chiede di approvare o respingere le risoluzioni dell'Eurogruppo e della Troika del 25 giugno.

Si tratta di due documenti altamente tecnici, roba da iniziati o superesperti e l'uomo della strada greco dovrebbe studiare pagine e pagine di documenti scritte in una lingua incomprensibile, per dire "Sì o No".

I referendum sono sempre stati fatti su questioni di principio, comprensibili anche ai più semplici uomini della strada: monarchia o repubblica? aborto o no? divorzio o no? caccia o no? eccetera.

Nessuno ha mai chiesto il parere dell'uomo comune su una materia così complessa come le misure di austerity per il debito e le politiche sulla sostenibilità di un Paese in una moneta unica, sul rapporto deficit/PIL, sulla iniezione di liquidità di meccanismi esterni salvastati ad un sistema bancario nazionale.

Che vincano i sì o i no, a questo punto poco importa: i greci si aspettino in ogni caso di essere massacrati dalla speculazione e rosi dalla miseria.

La Troika non perdona e come ha detto il presidente dell'Eurogruppo, Dijsselboem, "anche se un Paese esce dalla moneta unica, il debito resta!".

Un bel debito, con una Grecia ridotta alla dracma ma da pagare...in euro!

E bravo Tsipras, il "nuovo" della politica europea..o meglio l'ennesima "sòla", come dicono i nostri amici romani quando a un mercatino rifilano una patacca.

Che doveva fare un vero leader, in questi ultimi mesi?

Andare agli incontri un paio di volte pro forma, quindi sbattere la porta in faccia senza fare referendum e proclamare il default, cioè la sospensione unilaterale dei pagamenti sul debito, quindi ritornare alla dracma e ripartire daccapo.

Questa politica coraggiosa avrebbe anche significato l'uscita dall' Unione Europea.

Prendere la porta, salutare, dire addio, fare baracca e burattini e comportarsi come Islanda, Argentina ed Ecuador: tutto qua.

E comunque, la porta dei BRICS è sempre aperta..

Ma c'era da immaginarlo: Tsipras era appoggiato dai giornalisti di "Repubblica" e la sua "Lista", alle Europee del 2014, conteneva anche intellettuali della "intellighenzia"(di che?) europea.

Peggio per i greci, ma vediamo il bicchiere mezzo pieno: volete mettere, che gioia, che gaudio, che delizia, essere spogliati di tutto e ridursi alla fame proclamando dinnanzi al mondo: "Civis Europaeus sum?"

Simone Torresani 

 
NSA PDF Stampa E-mail

29 Giugno 2015

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 25-6-2015 (N.d.d.)

 

Gli Stati Uniti che spiano la Francia. Sono cose che tra alleati non si fanno. Meglio sarebbe dire tra l'imperatore e i suoi vassalli ma il fatto, o meglio la sua rivelazione all'opinione pubblica, non è andato giù a Francois Hollande che se ne è lamentato con Barack Obama.

Ma no, cosa dici, non è come sembra. Come nella barzelletta dove la moglie si giustifica con il marito che l'ha scoperta a letto con l'amante. Nel caso della Francia, la protesta è in fondo il frutto del rimpianto per una Grandeur ormai sfiorita, e che non tornerà più, e della necessità di stimolare l'orgoglio nazionale dei cittadini che, dopo la perdita dell'impero coloniale, non ha più molte occasioni di essere alimentato. I francesi, nonostante tutte le loro aspirazioni, come il ruolo svolto nella guerra contro Gheddafi, si devono accontentare di un ruolo di comprimari sullo scenario internazionale, solo che non lo possono ammettere apertamente.

Lo spionaggio in questione è quello operato dalla National Security Agency su tutte le comunicazioni via Internet francesi e degli altri Paesi europei ma in buona sostanza di tutto il mondo. Una realtà ben conosciuta dalle classi dirigenti francesi (ed europee) ma che, evidentemente, ha raggiunto livelli così imbarazzanti da costringere Hollande ad intervenire. Tranne poi lasciare cadere la questione nel dimenticatoio.

Uno spionaggio, quello, che riguarda tutte le comunicazioni via Internet e che si è andato ad aggiungere a quello esercitato da decenni su tutte le comunicazioni telefoniche del mondo, svolto dalla Nsa unitamente alle analoghe strutture, anche se di minori dimensioni, degli altri quattro Paesi di lingua inglese: Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Uno spionaggio effettuato tramite i satelliti e le centrali di ascolto collocate in tutto il mondo. Un sistema (indicato all'epoca come Echelon) basato non sul controllo del singolo telefono, fisso o cellulare che sia, ma su tutte le telefonate. Un sistema che venne reso noto ufficialmente da una interrogazione di un deputato britannico al Parlamento Europeo nel 1998 ma che era ben noto non solo agli addetti ai lavori (governi e membri dei servizi segreti) ma anche al grande pubblico.

Un libro come “Il Negoziatore” (1989) di Frederick Forsyth ne parlava tranquillamente, offrendo oltretutto al lettore tutte le indicazioni per calcolare in quante ore la trascrizione di una telefonata fatta in Europa, intercettata da un satellite, poi filtrata dai computer e reputata interessante ai fini di quella specifica indagine, finiva sulla scrivania del funzionario addetto nella sede della Nsa a Fort Meade nel Maryland. Altri libri in precedenza, come “La Talpa” di John Le Carrè (1974), ne parlavano apertamente, senza però arrivare a dettagli tecnici.

Quello svolto dagli Usa su Internet è invece un sistema di spionaggio incentrato su una seconda base della Nsa che è situata nel deserto del Nevada e che, come quella di Fort Meade, occupa migliaia di dipendenti, tutti esperti nelle più avanzate tecnologie. Un sistema ancora più invasivo e subdolo di quello telefonico e che può avvalersi della collaborazione delle principali aziende americane del settore. Sia quelle produttrici di computer, Ibm, Apple ed Hewlett Packard, sia soprattutto quelle che producono sistemi informatici, in primo luogo la Microsoft. In buona sostanza, qualunque email inviamo ad un nostro amico o ad un'azienda per motivi di lavoro viene automaticamente intercettata dalla Nsa. Tutto prevedibile comunque.

I programmi Microsoft, tanto per citare quelli più usati, contengono in sé una chiave che permette alla casa madre (e quindi alla Nsa) di tenere costantemente sotto controllo i suoi utilizzatori. Ed è una chiave che si trasferisce automaticamente anche nei programmi pirata, quelli che vengono clonati da quanti non li vogliono pagare. Tanto che ai clienti abusivi arrivano di continuo comunicazioni nelle quali si ricorda che il programma in uso è illegale e che, quindi, stanno commettendo un reato. Di fatto si tratta dell'ammissione che tutti i programmi sono controllabili e controllati.

Non è un caso che anni fa, poi la cosa è stata dimenticata, la Microsoft annunciò che, a richiesta, i programmi in uso potevano essere “riparati” dalla sede centrale. Della serie: non ci sfugge niente. Non è difficile immaginare quale tipo di tecnologia avanzata ci sia dietro. Allo stesso tempo, è naturale concludere che essa sia di supporto alla concezione imperiale della quale gli Usa sono impregnati e che esercitano dal 1945.

In un mondo ormai totalmente globalizzato, diventa fondamentale infatti la necessità di conoscere in tempo reale cosa fanno e pensano i cittadini e i governi dei Paesi amici e nemici. E cosa stanno combinando i concorrenti delle proprie imprese nazionali. Il tutto per motivi economici ma anche ai fini del mantenimento della supremazia militare Usa. Non scordiamo che le aziende americane del settore sono legate mani e piedi all’apparato militare Usa e che Internet venne resa accessibile ai comuni cittadini dopo essere stata per anni una esclusiva del Pentagono.

Da questo fatto ne deriva un altro che è molto più di una ipotesi. E cioè che i sistemi operativi a disposizione delle alte sfere militari Usa siano molto superiori, quanto a potenzialità di applicazione, a quelle dei comuni mortali. Quello che semmai colpisce è il silenzio complice dei governi europei, compreso quello italiano, che all'epoca dell'avvio della Echelon telefonica avevano permesso l'installazione di stazioni di ascolto a terra sul territorio nazionale e che poi avevano taciuto sulla sua esistenza. Un silenzio a dir poco incredibile considerato che il sistema in questione, nato nell'epoca della Guerra Fredda in funzione antisovietica, venisse poi utilizzato per spiare anche i Paesi alleati della Nato. Quando nel 1998 emerse la vicenda, Romano Prodi, allora capo del governo, farfugliò imbarazzato: “Non so bene... forse sì.. mi dicono che in effetti c'è qualcosa..”. E Prodi non poteva non esserne al corrente, sia per il suo ruolo istituzionale sia per il suo essere professore universitario di economia e politica industriale e quindi dentro i processi tecnologici ed informativi.

La verità vera è che il silenzio dei governi europei sul sistema di spionaggio americano (Echelon Due) è ancora più grave del precedente. Esso è il segnale di un vassallaggio politico e mentale nei riguardi degli Usa. Al tempo stesso, è la conseguenza del fatto che gli europei non dispongono di una tecnologia propria e che si trovano costretti ad utilizzarne una americana e ad esserne dipendenti, con il rischio concreto di vedersi razziati i propri dati e i propri segreti industriali dalla Nsa e di conseguenza dai concorrenti di oltre oceano.

 

Filippo Ghira 

 
L'umanità non esiste PDF Stampa E-mail

27 giugno 2015

 

Da Appelloalpopolo del 25-6-2015 (N.d.d.)

 

1. Mi interrogo sull’umanità come soggetto collettivo, al quale si allude con espressioni del tipo “l’umanità si troverà di fronte…”, non come sentimento o criterio di condotta morale, al quale si allude con espressioni come “un po’ di umanità!” e simili; e intendo constatare che, come soggetto collettivo, l’umanità non esiste, al fine di trarne qualche corollario che consenta di rendere coerenti, chiari, rigorosi e sensati i ragionamenti politici.

Avete mai avuto notizia che l’umanità abbia compiuto un’azione? Che abbia dichiarato una guerra o sia stata attaccata? Che si sia data una moneta? Che si sia organizzata politicamente? L’ONU è una organizzazione nata da un trattato stipulato tra Stati e non è espressione dell’umanità.

Avete mai ascoltato una persona sensata predicare qualche cosa dell’umanità? Attribuite un senso alle espressioni: “l’umanità è colta” o “l’umanità è analfabeta” o “l’umanità è pacifica” o “l’umanità è guerrafondaia”? Non credo. O almeno spero per voi di no.

Si badi che dell’umanità non si può predicare nulla anche se si aspira, come si deve, ad esprimere un giudizio sintetico di carattere statistico. Ciò non accade se si vuole predicare qualche cosa di uno o altro popolo. Allora si dirà e si dice spesso che un popolo è guerrafondaio o al contrario che è o è sempre stato pacifico; che esprime o ha espresso in altri tempi una grande cultura, ovvero che è un popolo di analfabeti e di pastori; che è un popolo composto da uomini alti e robusti; che è un popolo caratterizzato da un’educazione rigorosa o da alto livello di corruzione; e così via.

Perché possiamo predicare dei popoli, sia pure, come è ovvio, sul piano statistico, ciò che non possiamo predicare dell’umanità? Semplicemente perché i popoli esistono e l’umanità no. L’umanità è niente altro che un termine che designa l’insieme dei soggetti o meglio dei popoli che vivono sulla terra. L’umanità non è nemmeno una somma, perché, come da piccoli abbiamo appreso alle scuole elementari, non si possono sommare le mele con le pere e con le arance; i popoli, infatti, sono tutti diversi.

Si può “amare l’umanità”? E si può “amare un popolo”?

Se si intende per amore qualcosa come l’ammirazione – ammirare è uno dei significati del verbo amare – nel primo caso si deve rispondere di no e nel secondo di sì. Se qualcuno, mentre svolge un dialogo con voi, vi dichiarasse “io amo l’umanità”, cosa pensereste? Avreste una buona impressione di quella persona o vi insospettireste? Che significa amare l’umanità? Se, appunto, si intende per amore l’ammirazione, come si può ammirare l’insieme dei popoli o degli uomini che vivono sulla terra? Al contrario si può ammirare un popolo (sempre dal punto di vista statistico, naturalmente): per la cultura musicale e i costumi che esprime; o per il carattere guerriero e la capacità e volontà di resistere, anche combattendo per decenni, a invasioni di popoli meglio armati, più ricchi e più dotati sotto il profilo tecnologico; o per l’indole libertaria dei suoi membri; o per altre ragioni.

Se invece si utilizza il termine amare in senso proprio, mentre, talvolta, ha un senso l’espressione “amare un popolo”, per esempio quando si narra che un condottiero amava a tal punto il suo popolo, che si sacrificò per esso, non si può, salvo che si creda di essere Dio, “amare l’umanità”. Il filosofo Salvatore Natoli, che credo non sia cattolico né cristiano, ha scritto che “… al termine umanità è preferibile il termine evangelico prossimità. Il prossimo è: io, l’altro e l’altro accanto, perché l’umanità è astratta. Nel nostro secolo, in nome dalla umanità si sono commessi grandi delitti. È difficile commettere delitti di fronte alla prossimità”; e quando ha ammesso che “L’umanità non esiste, è incarnata in ogni uomo” ha alluso, con il riferimento all’umanità incarnata, all’altro e più preciso significato della parola, come criterio di condotta morale che dovrebbe essere nell’animo di ogni uomo (Salvatore Natoli, L’etica della vita quotidiana). Ma noi ci stiamo interrogando se esista o meno l’umanità come soggetto collettivo. E la risposta, ormai è chiaro, deve essere negativa.

Se poi consideriamo che negli ultimi anni le azioni politiche più criminali, ignobili, prepotenti e imperialistiche sono state compiute in nome dell’umanità – alludo alle guerre umanitarie – dobbiamo convenire con l’autorevole filosofo del diritto italiano Danilo Zolo, il quale ha collocato in epigrafe del suo importante libro “Chi dice umanità” una frase di Carl Schmitt: “Chi dice umanità cerca di ingannarti” (si pensi al preteso genocidio dei kosovari, mai avvenuto, o alle armi di distruzione di massa e alla alleanza tra Saddam e Al Qaeda, risultate, le une e l’altra, pure menzogne). Qui sembrerebbe che l’umanità sia invocata nell’altro significato, di minimo criterio morale di condotta che deve essere presente in ogni uomo. Ma è chiaro che chi non è dotato di quel minimo criterio di condotta è un “non uomo” e la guerra autorizzata dall’Onu o iniziata in nome dell’umanità dalla Nato diviene una guerra dell’umanità (nel senso di soggetto collettivo) o di una parte di essa contro “non uomini”. Non a caso gli ambienti angloamericani hanno definito e definiscono Milosevic, Saddam e Ahmadinejad come “nuovi Hitler”. Preciso soltanto che talvolta chi dice umanità non sta cercando di ingannare gli altri, bensì, senza ovviamente saperlo, sta ingannando se stesso – e questa, secondo il mio punto di vista, è la posizione di tanti amici che in buona fede difendono idee proposte e ideologie “umanitariste” – perché sta formulando proposizioni che, per principio – proprio perché l’umanità non esiste – non sono dotate di significato teorico e pratico.

2. Quale corollario deve trarsi dalla constatazione che l’umanità non è un soggetto della storia, non agisce, non subisce azioni, non si trova in una o altra situazione, dell’umanità non si può predicare nulla, l’umanità non si può né amare né ammirare ed è invocata dalle grandi potenze per ingannare i dominati?

Sotto il profilo del discorso politico, che è quello che interessa in questa sede, sembra che il corollario sia che, nell’esprimere ragionamenti e propositi politici, si deve evitare, nel modo più assoluto, l’uso del termine “umanità” (e delle espressioni che sovente lo sostituiscono), pena la insensatezza, teorica e pratica, di frasi che, altrimenti – ossia se in luogo di umanità si utilizzassero altri termini – avrebbero un preciso significato teorico e la capacità di esprimere un sensato proposito politico. L’uso del termine umanità fa scivolare il discorso verso il piano moralistico, religioso, buonista, stoltamente cosmopolita (confonde la realtà con un – peraltro opinabile – desiderio), ipocrita (unisce ciò che è diverso) e umanitarista; mentre si deve essere umanisti e realisti, non umanitaristi.

Reco soltanto un esempio, tra i tanti che sarebbe possibile addurre. Consideriamo il tema del cosiddetto picco del petrolio. Qui è necessaria una premessa. Il comune cittadino, sebbene tenti di informarsi e magari sia dotato di una robusta cultura, umanistica o invece scientifica, non è generalmente in grado di farsi una opinione fondata su solidi argomenti circa il già avvenuto raggiungimento del picco, ovvero circa l’imminenza del raggiungimento, ovvero circa l’insussistenza del problema, almeno per i prossimi due o tre decenni. Perciò, il cittadino ecologista o con tendenze apocalittiche finisce per “credere” che il picco sia stato o stia per essere raggiunto; e il cittadino scettico e quello cinico per “credere” che si tratti del solito allarme degli apocalittici. Credere, così come si crede in Dio. Tuttavia, un politico lungimirante ed accorto può muovere dal presupposto che il raggiungimento del picco è un evento possibile – così come, in generale sono possibili più limitate crisi energetiche, dovute ad altre cause – e pertanto, in considerazione di questa possibilità (oltre che di altre ragioni), può proporre una o altra strategia di politica energetica e di politica estera per il proprio paese.

Tanto premesso, ha senso domandarsi quali saranno le conseguenze del raggiungimento del picco del petrolio sull’umanità? No.

Infatti, nel momento in cui si verificheranno le più gravi conseguenze, alcuni popoli, mediante l’azione degli organi statali, si saranno preparati e avranno scelto, a seconda dei casi: di stipulare trattati bilaterali con stati produttori, i quali assicureranno le forniture necessarie e, eventualmente, di assicurare la difesa armata del trasporto del greggio; e/o di sostituire, tempestivamente e nella maggiore misura possibile, le fonti di energia tradizionali con altre fonti; e/o di perseguire una politica di risparmio energetico e di diffusione di una cultura spartana tra la popolazione. Altri stati si troveranno del tutto impreparati. E di questi alcuni, potendoselo permettere (o credendo di averne la possibilità) ricorreranno all’uso della forza, dichiarando guerre di aggressione, magari spinti dalle popolazioni non disposte a fronteggiare pacificamente la nuova situazione e a sopportare stoicamente le terribili conseguenze. Altri comprenderanno di non essere stati previdenti e si daranno da fare per arginare i danni e prendere tardivamente le opportune decisioni. Senza trascurare che alcuni stati conserveranno, per molti anni, le fonti di energia tradizionali di cui dispongono e le utilizzeranno per il proprio popolo, anche se ciò comporterà una notevole diminuzione delle entrate (a causa della diminuzione delle vendite); mentre altri stati dovranno sopportare tutte le conseguenze della carenza di energia.

Dunque, l’ipotesi del picco del petrolio non costituisce un problema dell’umanità. Perché questa non esiste. Perché non è e non sarà l’umanità a fronteggiare il problema, ad effettuare le scelte e a prendere le decisioni. Perché non tutti i popoli si trovano nella medesima situazione e quindi non tutti avranno lo stesso problema. E d’altra parte, le capacità, le tecnologie, la ricchezza e, ahimè, la potenza militare e la prepotenza dei popoli sono diverse. Quindi anche le strategie sono e saranno diverse.

3. Ciò che ho osservato per il picco del petrolio vale per tutti i possibili problemi politici. Perciò è bene svolgere ragionamenti che, nell’analisi, considerino soggetti collettivi reali (Unione europea, Stati Uniti, Cina, Giappone, Bric, Onu, Italia, Germania, ecc.) e, nella proposta, rispecchino la dimensione territoriale dell’azione politica che si vorrebbe svolgere: l’Italia. Non si tratta di essere necessariamente patriottici e sovranisti oppure nazionalisti. Si tratta di tutt’altro: senso del limite, onestà intellettuale; minimo realismo; esigenza di non ingannare noi stessi. La chiarezza del ragionamento politico e la purezza linguistica con la quale esso è espresso sono le uniche armi che possiamo contrapporre alla lobotomizzante scatola catodica: i migliori ci seguiranno.

Ciò non significa che si debbano ostacolare o non si debbano promuovere, a seconda della ideologia alla quale si aderisce, una internazionale sovranista o una internazionale della decrescita, una internazionale socialista (vera, non quella che oggi esiste) o una internazionale antimoderna o una internazionale anticonsumistica o una internazionale della tutela dell’infanzia e così via. Ciascuna di queste internazionali può essere utile a far circolare propositi politici, esperimenti e risultati. Ma i propositi, gli esperimenti e i risultati saranno irrimediabilmente propositi, esperimenti e risultati di uno o altro popolo ed eventualmente di più popoli.

Stefano D’Andrea 

 
Ceto dirigente o dominante? PDF Stampa E-mail

25 Giugno 2015

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Da Appelloalpopolo del 2-6-2015 (N.d.d.)

 

Il concetto di classe, storicamente molto antico, emerge per la prima volta nell’opera di Tito Livio. Lo storico testimonia che nella società romana, in età monarchica, i cittadini erano divisi in cinque classi, al di fuori delle quali v’erano i proletari. La classe, dunque, era un gruppo sociale definito quanto al censo degli individui, che con il tempo comportava rango e status nella catena delle gerarchie. Perciò il termine, usato senza aggettivi, indica solitamente una classe sociale, che viene intesa in modi diversi e in rapporto alle altre. Nell’era moderna con lo sviluppo capitalista Marx la definisce all’interno dei rapporti di produzione. I proprietari dei mezzi di produzione e di scambio sono la classe dominante, che domina appunto sulle altre che dispongono soltanto della forza lavoro e, in ragione di questo possesso, esercita in esclusiva il potere politico. Quegli aspetti che Marx avrebbe considerato come sovrastrutturali rientrano invece nel concetto di “ceto” elaborato dal sociologo tedesco Max Weber (1864–1920), secondo cui la classe è status, distinzione sociale, derivante non tanto dal ruolo svolto all’interno del processo produttivo, quanto dal rango raggiunto all’interno della società nel suo complesso. Alla fine dell’Ottocento, in ambito conservatore, emerge la nozione di classe politica (Mosca, 1858 -1841) teorizzata nel concetto di élite (Pareto, 1848-1923). La classe politica è il gruppo dei pochi organizzati che, all’interno di qualsiasi sistema, democratico o socialista che sia, governa e ha la supremazia sull’insieme dei molti disorganizzati.

Mentre le diverse categorie formulate da sociologi e politologi, quali classe dominante, élite etc. hanno una precisa definizione teorica, “classe dirigente” sembra invece sfumare, definirsi al minimo, come un generico involucro che riesce a contenere i concetti sopra richiamati. Non solo i comuni parlanti e i giornalisti, ma anche gli stessi sociologi e gli storici trovano comodo usare l’espressione “classe dirigente” perché il concetto, pur essendo poco accessibile, è tuttavia capace di distendersi nel tempo e di incorporare gruppi sociali diversi, che acquisiscono gradualmente una carica di direzione e di guida. Fanno dunque parte della classe dirigente non solo i gruppi che detengono la supremazia economica e politica, ma anche quelli che emergono per preminenza professionale, accademica, culturale, o di rappresentanza sindacale, o di controllo degli apparati mediatici e, all’interno di questi, perfino coloro che intrattengono le masse con l’ “infosvago” (infotainment). Perciò, il potere politico e le funzioni amministrative sono soltanto un aspetto dello status di classe dirigente, la quale esercita, in quanto gruppo referente della comunità, poteri connessi alla cultura, all’informazione, all’istruzione, alla religione e così via. Una vera classe dirigente, indipendentemente da ruoli e funzioni, influenza l’intera collettività ed è sempre dominante. Ma non sempre il ceto dominante assurge a ceto dirigente. D’altra parte la scelta di attribuire una valenza positiva al termine “dirigente” e una negativa a quello “dominante” comporta un giudizio morale e politico sull’élite o sul notabilato che governa un paese.

Cosa distingue un ceto pienamente dirigente da uno soltanto dominante? Si potrebbe riconoscere dirigente il ceto che si fa Stato e si identifica con il popolo, o comunque si prodiga per averne il consenso, sia pure in assenza di istituti o di circostanze in cui possa essere espresso. Pur curando i suoi interessi, la classe dirigente ha l’abilità di farli coincidere con il bene pubblico o almeno di accordarli con esso, o di farli sembrare coincidenti. Il ceto dominante invece è del tutto estraneo al popolo, avulso dalla nazione, straniero per lo Stato, insensibile a un’idea qualsiasi di patria. Il baronaggio meridionale, per esempio, era ceto dominante ma non dirigente, perché ignorava il popolo borghese e opprimeva il popolo contadino, e non si identificava con lo Stato; al massimo era fedele all’idea monarchica, ma non alla dinastia regnante. Per quella classe parassita un re valeva l’altro; essenziale diventava per essa una qualsiasi istituzione che tutelasse e salvaguardasse i privilegi dei proprietari terrieri latifondisti. Perciò, una qualsiasi dinastia, autoctona o allogena che fosse, ma che si offrisse a garantire i privilegi, trovava il barone pronto a cambiare nastro e giubba: Borbone o Savoia per me pari sono. Storicamente dunque, tra i connotati del ceto dominante, oltre a una palese estraneità al popolo e allo stato, il più abietto è la slealtà e la fellonia istituzionale, l’avere come punto di riferimento i centri di potere esterni allo stato di appartenenza, e agitare questi come spauracchio per imporre scelte di politica sociale antipopolare: punto di approdo che l’attuale classe politica italiana sembra avere già raggiunto. Ma negli anni della Prima Repubblica, a partire dal dopoguerra e fino al compimento dell’ambigua operazione passata alla cronica come “mani pulite”, la classe politica espressa dai partiti sia di governo che di opposizione, compatibilmente e in convivenza con la condizione di paese vinto e occupato, fu ceto dirigente, se non altro per il fatto che il sistema elettorale proporzionale lo costringeva a restare ancorato, pur nella degenerazione clientelistica, agli interessi del territorio e della popolazione che lo esprimeva.

Questo ceto cominciò a dissolversi o a mutarsi geneticamente con l’abbandono del sistema proporzionale sorto nel 1946 e in vigore fino al 2005. I referendum radicali dei primi anni Novanta indetti contro le leggi elettorali miravano a distruggere il sistema dei partiti politici di storia e tradizione europea e rientravano nel disegno generale di americanizzare l’intera società. Passando dal proporzionale al maggioritario, il ceto politico cominciò la lunga marcia per sganciarsi progressivamente dalla necessità di conquistare il consenso popolare. La graduale deriva verso il maggioritario, il doppio turno, il premio di maggioranza, la preferenza finta o imposta, è stata la ventennale operazione per rendere inutili, “indifferenti” i risultati elettorali. La sua riuscita, che sembra concludersi ai giorni nostri, è la presa d’atto, il sigillo dell’avvenuta concentrazione e trasmigrazione della vera dominanza politica presso centri di potere stranieri.

Non che il consenso elettorale sia necessario per far nascere un ceto dirigente, ma questo non può fare a meno del legame con il popolo come imprescindibile per la saldezza delle istituzioni. La storia, infatti, ci offre casi di ceti autenticamente dirigenti non sorti dal consenso popolare. I senatori dell’antica Roma repubblicana furono certamente un ceto dirigente di altissimo livello politico tuttora insuperato nella storia europea, ma non erano eletti dal popolo come tutte le altre magistrature; erano essi la res publica, ma non potevano concepirla senza il popolo (senatuspopulusque). Anche oggi che il consenso popolare si esprime non solo ma soprattutto nelle elezioni, una classe politica che, pur non eletta, voglia ignorare il consenso popolare, sta progettando la sua metamorfosi in ceto dominante. Perfino il regime fascista, che rese inutili le elezioni, affinò e perfezionò lo strumento della propaganda ingannevole per farsi accettare dal popolo.

Alla luce di queste considerazioni è indubbio che, da almeno un ventennio, in Italia i governi sono formati da un ceto dominante, segmento ed espressione di una iperclasse apolide, i cui interessi coincidono con quelli della finanza sovranazionale. Nessun legame popolare coltiva questo notabilato eurounionista che, anno dopo anno, distrugge la Costituzione e ritocca la legge per rendere irrilevante e insignificante qualunque esito elettorale. A questa classe politica il consenso non serve. Non più eletta ma cooptata e designata dall’estero, essa rappresenta un baronaggio che si annida nella coalizione unica dei partiti di sinistra destra, nelle banche, nelle università e negli apparati massmediatici, estraneo al popolo e legato agli interessi stranieri. Come non vi è conflitto tra classi, scomparse o livellate dalla macelleria sociale, così non v’è conflitto all’interno della coalizione unica dei dominanti cooptati e designati, i quali non devono bilanciare poteri come in democrazia, ma vogliono innanzitutto sopravvivere politicamente, cioè conservare rendite e posizioni di potere. Le eventuali lotte accanite che scoppiano al loro interno, sono soltanto liti tra servi nel sottoscala su chi meglio serve i padroni euroatlantici dei piani alti.

Luciano Del Vecchio 

 
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24 Giugno 2015

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Da Rassegna di Arianna del 3-6-2015 (N.d.d.)

 

Scontento e ribellione verso l’Unione Europea quale è divenuta stanno montando inarrestabili; difficoltà economiche e sociali, aumento delle diseguaglianze, mutamenti profondi e incontrollati delle società, perdita di riferimenti culturali e radici: è questo il clima in cui matura il risentimento verso le Istituzioni europee e le politiche che esprimono, percepite come estranee e nemiche.

Di questo si sono avvantaggiati partiti e movimenti di tutti i Paesi che, cavalcando le paure e il malessere della gente, raccolgono sempre più consensi ad ogni elezione. Essi incarnano varie anime, dando voce alle diverse proteste al di là degli schemi tradizionali destra/sinistra che ormai hanno perso la capacità d’attrarre; ciò che emerge maggiormente è un rigetto degli establishment a cui si imputa l’attuale degenerazione della situazione, il disagio.

In comune hanno una dichiarata volontà di cambiamento, che per alcuni significa la fuga dal presente che spaventa per un ritorno a un passato in cui si vagheggia di ritrovare sicurezza e benessere; per altri la trasformazione di una società divenuta sempre più ingiusta, mettendo al centro la giustizia sociale, la solidarietà, il rifiuto del profitto come unico metro. Tutti additano Bruxelles come nemico.

Il fatto è che ciò contro cui si scagliano sono gli effetti e non la causa della situazione in cui versa l’Europa intera; la crisi economica e sociale ne ha solo inasprito le conseguenze che prima erano coperte da un benessere più o meno diffuso, o dalle aspettative di raggiungerlo; il non comprenderlo condanna alla sterilità e al sostanziale fallimento ogni tentativo di mutar le cose.

Senza voler andar troppo indietro nel tempo, l’Europa quale oggi conosciamo ha le sue radici nella duplice, immensa, occasione persa nell’ ‘89 per miope egoismo e vile sudditanza; un’occasione enorme e irripetibile di cui continuiamo a pagare tutte le conseguenze. Allora, la fine della Guerra Fredda rese possibile qualcosa d’impensabile: la nascita d’un grande soggetto politico europeo affrancato da condizionamenti e sudditanze.

Con lo sgretolamento dell’Urss, la scomparsa del ricatto nucleare rendeva inutile la Nato e toglieva ogni ragion d’essere alla motivazione ufficiale della tutela a Stelle e Strisce. Non solo: il processo d’aggregazione degli allora 12 Paesi della Ce era in fase assai avanzata; la fine della “giustificazione” (meglio scusa) di una sudditanza, avrebbe potuto dare una spinta decisiva a quell’aggregazione, costituendo finalmente una massa critica tale da non temere condizionamenti da alcuno. Le capacità economiche e produttive dei singoli Paesi, poste insieme e indirizzate da un unico progetto politico, sarebbero state uniche al mondo, proiettando influenza e sviluppo non solo ad Est, ma su tutto il bacino del Mediterraneo ed oltre.

Ma le cose andarono assai diversamente: Mitterrand, Thatcher e lo stesso Andreotti in Italia, temevano il potere di una Germania unificata e il peso politico ed economico che avrebbe potuto avere un simile organismo; così, da un canto stopparono il processo d’integrazione politica, dall’altro pensarono di imbrigliare Berlino togliendole il Marco e dandole una moneta che sarebbe stata di tutti. Pur di giungere all’unificazione, Kohl accettò Maastricht e il percorso che portò all’Euro.

Ciò che accadde dopo è sotto gli occhi di tutti: col tempo, per forza propria e miope inettitudine altrui, l’economia tedesca s’è impossessata dell’Euro, piegando progressivamente le Istituzioni di Bruxelles, vuote e prive d’anima politica, ai propri interessi, imponendo la sua egemonia economica sul Continente.

Ma quell’egemonia non si traduceva in un progetto complessivo, a Berlino bastava plasmare regole e norme a misura del proprio Sistema Paese. Per questo Washington, che aveva visto con apprensione la scomparsa della ragion d’essere della Nato e della sua tutela sull’Europa, ha lasciato fare. Quello che si dilatava a dismisura, inglobando Paesi su Paesi in una irragionevole corsa all’Est, non era un soggetto forte, capace d’esprimere una politica sua; era un ectoplasma di cui gli Usa continuavano ad avere saldamente il controllo, determinandone le scelte di fondo.

Nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa per non parlare in Asia, l’Europa in quanto tale non c’è stata; solo alcuni Paesi, come la Francia, hanno cercato di condurre un’agenda a sostegno dei propri interessi di bottega, ma mai in aperta contrapposizione con Washington, anche a costo di pagare pesanti scotti.

La crisi che abbiamo importato da oltre Atlantico ha messo a nudo limiti e inadeguatezza del Sistema: un gruppo di Paesi diversissimi, ingabbiati in regole astruse fatte a misura del Paese egemone, pesantemente condizionati da Istituzioni internazionali funzionali a Washington, sono stati nella gran parte massacrati, pagando altissimi costi economici e sociali.

Ma non è tutto: anche in assenza di un disegno politico complessivo, la forza delle cose stava disegnando una rete di rapporti sempre più fitti fra vari Paesi europei (Germania in testa e dietro Italia e Francia) e la Russia; era l’ovvia sinergia che nasceva fra Sistemi Paese naturalmente complementari: gli uni fortemente industrializzati e tecnologicamente avanzati, l’altra ricchissima di materie prima e bisognosa d’infrastrutture.

Quando Berlino ha formulato il progetto d’allargare la sua sfera d’influenza sui Paesi dell’Est, creando una partnership strategica con Mosca, Washington è intervenuta con tutto il suo peso e i suoi intrighi per sbarrare la strada: la maturazione d’un simile piano da cui sarebbe stata tagliata fuori, avrebbe fatto sorgere un fortissimo blocco economico e commerciale che, inevitabilmente, avrebbe presto assunto connotazioni politiche alternative.

Il resto è storia nota quanto recente: la sanguinosa crisi ucraina, le sanzioni che mordono gli europei ancor più dei russi, il blocco di progetti e investimenti in economie già provate da una crisi interminabile. È l’ultimo atto eclatante d’un servaggio subito passivamente, malgrado gli evidenti ed enormi danni che porta.

Per cambiare radicalmente questa Europa non basta dunque criticarla per quella che è divenuta, né attaccarne semplicemente le regole economiche dettate dagli egoismi di qualcuno; meno che mai pensare di tornare indietro in un passato superato anni luce dalle dinamiche economiche e sociali. È prima d’ogni cosa necessario porre fine al condizionamento che viene da oltre Atlantico; una sudditanza che impedisce ogni vera dinamica politica e, a caduta, economica.

Solo riacquistando un’indipendenza reale potrà essere data un’anima politica all’Europa, mettendo insieme i Paesi attorno a un progetto di sviluppo che superi i singoli egoismi. Indicare strade diverse, che non mettono al centro questo presupposto, è velleitario, è condannare alla sterilità una ribellione che potrebbe mutare le cose.

Finora così è stato, con tanti ringraziamenti da chi ne trae vantaggio da oltre Atlantico e nei palazzi del potere della Ue.

 

Salvo Ardizzone 

 
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