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Spaccare per noia PDF Stampa E-mail

5 Maggio 2015

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Da Comedonchisciotte del 3-5-2015 (N.d.d.)

 

A me il ragazzo intervistato dopo gli incidenti di Milano sta simpatico. È diventato il simbolo della violenza di Milano, il cattivo, lo stupido, il bastardo da coprire di insulti. C'è anche chi dice che è stato pagato per dire quello che ha detto in modo da gettare discredito sulle proteste anti-Expo. Nel bellissimo film Fumo di Londra, il primo di cui Alberto Sordi oltre a essere protagonista è anche regista, del 1966, c'è una scena emblematica. Sordi protagonista si trova a passare per un parco di Londra e assiste a uno scontro tra due bande di giovani, i mod e i rocker. Si ammazzano letteralmente di botte. Per nessun motivo particolare, solo la voglia di menare le mani. Assiste inorridito, vicino a lui il classico gentleman inglese che assiste pure lui ma del tutto indifferente. Gli chiede perché lo facciano. L'inglese risponde: nessun motivo particolare, ma noi alla loro età abbiamo fatto di peggio, abbiamo fatto la guerra.

Allora erano solo vent'anni dalla fine della seconda guerra mondiale, oggi di anni ne sono passati settanta e l'Europa occidentale non ha più mandato i propri giovani a morire in una guerra. I nostri morti in Iraq o in Afghanistan erano truppe di élite, volontari, le morti di alcuni di essi non hanno avuto il minimo impatto sull'opinione pubblica rispetto ai milioni morti nella seconda guerra mondiale, sono stati per lo più ignorati. Il filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila scrisse anni fa: "Forse il futuro prossimo porterà catastrofi inimmaginabili. Ma ciò che di sicuro minaccia il mondo non è tanto la violenza di moltitudini fameliche quanto la sazietà di masse annoiate". Profezia incredibilmente realistica e azzeccata.

Probabilmente è tutto qua il motivo di episodi come la devastazione di Milano del primo maggio. Lo vediamo da decenni negli stadi, lo abbiamo visto a Roma quando centinaia di olandesi ricchi e sazi con lo stomaco pieno di birra hanno violato la città santa.

Per quello il ragazzo intervistato a Milano mi è simpatico. Invece delle chiacchiere ipocrite di chi commentava e definiva idioti i black bloc dopo aver alzato le natiche dalle comode poltrone della Scala di Milano per poi tornarcisi a sedere, lui è stato sincero e onesto mostrandosi per quello che è: un orfano. Mi piace far casino, se avevo qualcosa in mano spaccavo tutto anch'io, ha detto. Senza nascondere il volto. Ogni tanto intercalava qualche parolaccia, al che il bravo cronista gli chiedeva di usare altro linguaggio e lui, stupito, gli ha detto, mostrando zero ipocrisia e un barlume di coscienza: scusi per le mie parole, ma quando parlo di argomenti che mi interessano mi scappano le parolacce, se non mi interessasse quello di cui parliamo non le direi.

È incazzato con le banche, dice, e non ha torto. Ma soprattutto, sorridendo sottolinea più volte: mi piace far casino e divertirmi. Il punto è tutto qui e se questo è il livello di divertimento, la colpa non è sua ma di chi lo ha educato al nulla, alla noia, al vuoto.

Meglio una terza guerra mondiale dove sfogare certi istinti? Ovviamente no. Ma ci sta un commento che è uscito fuori oggi su Facebook al proposito: "Comunque cari signori ultra 40enni che vorreste manganellare quei cretini dei no-expo, sappiate che questi sono figli della vostra generazione e se sono venuti su deficienti sarà l'ora di mettersi una mano sulla coscienza e capire cosa si è sbagliato".

Appunto.

 

Paolo Vites 

 
Dalla legge Acerbo all'Italicum PDF Stampa E-mail

4 Maggio 2015

 

 Da Comedonchisciotte dell’1-5-2015 (N.d.d.)

 

La serata tra il 26 ed il 27 ottobre 1922, nelle sale dell’Hotel Vesuvio di Napoli, il Consiglio Nazionale del partito fascista decide di passare all’azione: presenti Benito Mussolini, Michele Bianchi, Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi, Attilio Teruzzi, Giuseppe Bastianini e Achille Starace. La mobilitazione delle squadre fasciste scatterà il 27 e, occupate le località chiave del Centro-Nord Italia, l’ordine è di convergere velocemente verso Roma: un’eventuale opposizione da parte dell’esercito è contemplata ma sostanzialmente esclusa, anche perché le forze armate fedeli alla corona avrebbero poche difficoltà a soffocare il putsch e ad impedire ai fascisti di entrare nella capitale, qualora Vittorio Emanuele III firmasse lo stato d’assedio. Mussolini torna prontamente a Milano, capitale di quel nord dove il fascismo è germinato e cresciuto, e sosta a Roma cambiando treno solo pochi attimi, il tempo però sufficiente per un prezioso incontro, utile a costruire il retroterra politico fondamentale per il successo dell’azione pseudo-militare: in stazione Mussolini intrattiene un colloquio con Raul Palermi, il venerabile maestro della Gran Loggia d’Italia degli ALAM, ovvero l’obbedienza massonica di Piazza del Gesù (alias il Nazareno) che pratica il rito scozzese antico e accettato. Il rito scozzese ha dato i natali agli alti gradi della massoneria speculativa (dal terzo al 33esimo) fortemente intrisi di insegnamenti alchemici, gnostici, ermetici, cabalistici ed egizi e Piazza del Gesù non ha fama di radicati sentimenti democratici. Alla loggia di piazza del Gesù appartengono le figure di spicco del fascismo delle origini (Italo Balbo, Cesare Rossi, Giacomo Acerbo, Costanzo Ciano, Giuseppe Bottai, Edmondo Rossoni) ma soprattutto gli alti ufficiali delle forze armate (il generale Arturo Cittadini e l’ammiraglio Paolo Emilio Thaon di Revel) che ricopriranno un ruolo fondamentale nel convincere il re a non proclamare lo stato d’assedio per bloccare l’afflusso su Roma delle squadre fasciste. Quando Mussolini risale in carrozza alla volta di Milano riferisce infatti a Cesare Rossi, anch‘egli iniziato alla loggia degli ALAM, che Raul Palermi ha rassicurato che i comandanti della guarnigione di Roma ed il generale Arturo Cittadini, primo aiutante di campo del re, assisteranno i fascisti nel loro moto e sono fidati perché tutti membri della sua osservanza: il venerabile maestro si mostra di parola e nei successivi due giorni, il 28 ed il 29 ottobre 1922, lavorerà incessantemente per tessere i fili tra Quadrumvirato, Montecitorio, Viminale e Quirinale. Il 27 ottobre i fascisti di Pisa, Cremona e Firenze (dove il legame tra il partito e la loggia di Piazza del Gesù è simbiotico) entrano in azione, occupando le stazioni ferroviarie e gli snodi stradali; il 28 controllano Perugia e Mussolini pubblica sul Popolo d’Italia un proclama dove incita alla rivoluzione: gli uffici telegrafici sono invasi, le prefetture occupate, i treni requisiti per favorire il convergere su Roma delle milizie, i presidi militari smantellati grazie alla connivenza dell’esercito che spesso fornisce ai fascisti le armi. L’autorità dello Stato si sta squagliando e con lei il governo di Luigi Facta: il primo ministro alle 9 mattina del 28 si reca dal Quirinale per chiedere che sia proclamato lo stato d’assedio, il sovrano rifiuta ed alle 11.30 Luigi Facta presenta le dimissioni. Il 29 ottobre nasce e muore l’idea di un governo Salandra e il 30 ottobre, infine, Benito Mussolini, neppure 40enne, sale in camicia nera al Quirinale alle 11 di mattina, per poi farvi ritorno alle 19.30 con la lista dei ministri. L’attivismo di Raul Palermi termina qui? No, nelle successive settimane viaggerà tra Inghilterra e Stati Uniti d’America per informare i fratelli muratori sugli sviluppi della situazione italiana.

La maggioranza parlamentare su cui basa il governo è quella uscita dalle elezioni del 1921, dove il “blocco nazionale”, nella cui lista sono stati eletti i fascisti, governa a fianco di popolari, nazionalisti, liberali e giolittiani: Mussolini teme persino che gli sia giocato qualche colpo basso in occasione del voto di fiducia e chiede invano al re che gli sia firmato un decreto per lo scioglimento in bianco della Camera, prontamente rifiutatogli da Vittorio Emanuele III. Superato lo scoglio del voto alla Camera il 17 novembre, gli sforzi di Mussolini si concentrano quindi sulla modifica della legge elettorale, da riscrivere affinché entri a Montecitorio il maggior numero possibile di uomini fidati. L’operazione non è semplice, considerato che sono indispensabili i voti degli alleati di governo, in primis i popolari che propugnano il mantenimento del proporzionale. Mussolini, però, da grande tattico qual è (e infimo stratega), dosando sapientemente bastone e carota, accompagna al suicidio la Camera dei Deputati.

Falliti i tentativi di modificare la legge elettorale includendola nella materie delegate al governo e poi per decreto reale, a Mussolini non rimane che la via di una regolare approvazione da parte della Camera, dove è necessario superare la strenua difesa del sistema proporzionale da parte delle opposizioni (PSI e PCI in testa) e del partito popolare di don Luigi Sturzo. Per facilitare l’iter, Mussolini lascia cadere l’idea di abbinare alla riforma elettorale quella costituzionale. Le prime indicazioni di quella che sarà poi la “legge Acerbo” appaiono già nel novembre del 1922 sulle pagine del Popolo d’Italia, in un articolo di Michele Bianchi: sistema maggioritario con due terzi dei deputati alla lista che ottenga la maggioranza, rappresentanza proporzionale alle altre liste per il restante terzo dei posti, circoscrizioni allargate alle regioni. A stendere il disegno di legge nella primavera del 1923 è incaricato l’economista Giacomo Acerbo, abruzzese di nobile origine e affiliato alla Gran Loggia d’Italia degli ALAM: il 9 giugno 1923 Mussolini può già presentare a Montecitorio il disegno di legge, chiedendo che per il suo esame la presidenza della Camera nomini una commissione di 18 deputati, con l’impegno a riferire entro due settimane. Il dibattito sulla legge elettorale si infiamma e tutti gli occhi sono puntati sui popolari, gli unici in grado di affossare la riforma: se infatti i seguaci di don Luigi Sturzo sono minoritari in commissione, così non è in aula, dove possono aggregare facilmente una maggioranza contro il disegno di legge. L’azione dispiegata da Mussolini contro il PPI è duplice: a livello provinciale è data luce verde alla squadre fasciste affinché devastino circoli e sedi delle organizzazioni cattoliche, indicano grandi manifestazioni contro il PPI, sciolgano le amministrazioni popolari e commettano aggressioni ed intimidazioni contro religiosi e laici. Messe in moto le squadre, Mussolini può quindi concentrarsi sulla seconda e decisiva manovra: convincere il Vaticano ad allontanare dalla segreteria del PPI Don Luigi Sturzo, senza il quale il partito è acefalo e sottoposto alle potenti spinte centrifughe tra cattolici di sinistra e conservatori filo-fascisti. Creando una gravosa atmosfera di minacce e repressa violenza, il partito fascista lascia intendere al Vaticano che il ritiro del sacerdote siciliano è indispensabile per evitare la rottura dei rapporti e che siano scatenate “misure eccezionali e definitive contro il popolarismo”: il Vaticano cede ed il 10 luglio, lo stesso giorno che la legge Acerbo comincia ad essere discussa a Montecitorio, don Luigi Sturzo si dimette dal PPI. Il capogruppo alla Camera del PPI, Alcide De Gasperi, difetta totalmente del carisma e del polso di don Sturzo ed è incapace di domare le diverse pulsioni all’interno del partito, tanto più se messo di fronte ad un abile politico come Benito Mussolini, che si insinua con scaltrezza tra le fratture dentro il PPI: con un magistrale discorso tenutosi il 15 luglio 1923, Mussolini invita a votare la fiducia di governo sulla legge Acerbo rinunciando ai toni minacciosi, e dipingendo al contrario il fascismo come rispettoso del Parlamento, “elezionista”, in via di profonda trasformazione e normalizzazione, pregando i deputati di non irrigidirsi nella coerenza formale dei partiti ma di ascoltare il monito della coscienza ed “il grido incoercibile della nazione” (era pur sempre stato giornalista ed agitatore socialista e, a differenza dell’attuale premier, formulava pensieri superiori a 150 caratteri).

Il discorso di Mussolini sortisce l’effetto sperato di disorientare l’opposizione ed innescare la spinte centrifughe del PPI, facendo leva sui clerico-conservatori: un numero crescente di deputati del PPI annuncia che è disposta a votare la fiducia e tra espulsioni, dimissioni e allontanamento il popolarismo perde la sua ala destra. Si arriva così al voto di fiducia del 21 luglio 1923 che sancisce la clamorosa vittoria di Benito Mussolini: con 223 voti favorevoli e 123 contrari la legge Acerbo è approvata grazie alla decisione di un’assemblea rappresentativa che, tra intimidazioni ed interessi di piccolo cabotaggio, delibera la sua sostanziale soppressione. Il successivo pensiero di Mussolini è quindi aggregare una lista tale da conquistare la maggioranza relativa, superando il 25% dei voti espressi, ipotecando così i 2/3 della Camera (il Senato è di nomina regia e non rappresenta un ostacolo per Mussolini che ha già trovato un modus vivendi con il Re): si tratta quindi di formare il cosiddetto “listone” per le elezioni politiche del 1924. Prende quindi vigore il processo all’interno del fascismo iniziato già all’indomani del 1923 e concluso entro il 1929: il PNF si nazionalizza ed allo stesso tempo estingue, inglobando lo Stato. Le componenti del primo fascismo (1919-1922) sono espulse, per poi riaffiorare come un fuoco di paglia a Salò nel 1943: repubblicani, diciannovisti, interventisti, futuristi, sindacalisti, intransigenti e l’ala sinistra del partito.

Al loro posto è creato un partito-nazione il cui compito è assimilare “tutte le forze nazionali”, intendendo con questo termine “tutte quelle che si riconoscono genericamente nazionali, parte cioè di una comune collettività volontaristicamente intesa e quindi senza effettive divisioni al proprio interno”. In sostanza si aprono le porte a clerico-conservatori, nazionalisti, monarchici, burocrati, grande industria ed alta finanza, in un processo che in pochi anni cambia volto al partito: la maggior parte dei fascisti della prima ora, quelli che aspettano la “seconda ondata” che non verrà mai, lasciano il PNF entro il ’27, cala il numero di fascisti della piccola e media borghesia produttiva ed in parallelo aumenta l’incidenza degli “ex-fiancheggiatori” ora fascisti (industriali, agrari, professionisti ed impiegati dello Stato) e semplici opportunisti che si affrettano a tesserarsi.

La legge elettorale Acerbo, con la sua impostazione fortemente maggioritaria, è quindi propedeutica alla nascita del partito-nazione, una lista di sintesi nazionale, oppure, per usare un termine attuale, un Partito della Nazione. Il 25 gennaio 1924 la Camera è sciolta e le elezioni indette per il 6 aprile: il PCI, il PSI ed PPI si presentano autonomamente in tutte le circoscrizioni, demoralizzati e tentati dal disertare il voto, con l’unica eccezione del socialista Giacomo Matteotti che invita inutilmente all’unione delle sinistre. Mussolini, galvanizzato invece dalla riforma elettorale tagliata a sua misura, dà alla consultazione elettorale non il carattere di voto al PNF, bensì di un plebiscito nazionale a favore della sua persona e della politica finora perseguita: la Lista Nazionale o “il listone” è già epurata di intransigenti, “veteranisti e puristi” ed al loro posto sono imbarcati i più malleabili liberali, nazionalisti ed ex-popolari. Alle elezioni del 6 aprile il listone trionfa e, con il 60% delle preferenze espresse, elegge i parlamentati che voteranno di lì a breve le leggi fascistissime, ponendo le basi del regime.

La Legge Italicum, all’insegna della Gran Loggia d’Italia degli ALAM?

Molte sono le analogie tra la scalata al potere di Matteo Renzi e Benito Mussolini, che travalicano la semplice età anagrafica di 39 anni in cui diventano premier: entrambi salgono al Quirinale non sull’onda di un’elezione ma di un’oscura crisi di governo, entrambi trovano nel Quirinale un complice decisivo nell’assegnare loro l’incarico di primo ministro; entrambi dispongono di un esiguo numero di parlamentari loro strettamente fedeli e ciò nonostante riescono ad attuare riforme decisive per le sorti dello Stato; entrambi sono tentati da mettere subito in cantiere la riforma della Costituzione e della legge elettorale, ma mentre Mussolini procrastina la prima per facilitare il voto della seconda, Renzi le porta avanti insieme, pressato dalla necessita di abolire il bicameralismo perfetto che non è contemplato dallo Statuto Albertino.

Mussolini, sebbene anticlericale da giovane ed ateo fino alla morte, non nutrì mai simpatia verso la massoneria ma, memore dell’aiuto decisivo ricevuto durante la marcia su Roma, anche dopo l’autunno 1923, quando è dichiarata l’incompatibilità tra fascismo e libera muratoria, rimane in ottimi rapporti con la loggia di Piazza del Gesù, esprimendo simpatia per “un ordine nazionale che all’infuori di ogni settarismo serve la Patria con fedeltà al Governo nazionale”. Non esistono al momento fonti sufficientemente autorevoli per affermare con sicurezza che Matteo Renzi appartenga alla massoneria speculativa, ma quel che è certo è che i personaggi che lo hanno assistito nella fulminea carriera politica e la sua stessa azione politica sono riconducibili alla massoneria ed ai suoi principi. Massone di rito scozzese è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intimo degli ambienti nord-atlantici fin dagli anni ’70; massone è la maggioranza politica che lo insedia a Palazzo Vecchio, spodestando gli ex-PDS Leonardo Domenici e Graziano Cioni, ostili, secondo il piduista Licio Gelli, alle potentissimi logge massoniche di Firenze; massone è Denis Verdini, il braccio destro di Silvio Berlusconi che soprintende alla stesura ed all’esecuzione del Patto del Nazareno e che sarebbe pronto a votare l’Italicum per poi fondersi con i suoi fedelissimi nel futuro Partito della Nazione; di ispirazione massonica è il disegno delle riforme costituzionali che, nel silenzio assordante di media ed istituzioni ormai moribondi, sono attuate a colpi di fiducia da una Parlamento giudicato illegittimo dalla Corte Costituzionale, tendendo verso un assetto che ricalca punto per punto il “Piano di Rinascita Democratica” della loggia P26.

Per Benito Mussolini è vitale il sostegno della Gran Loggia d’Italia degli ALAM, mentre il Grande d’Oriente d’Italia, la loggia rivale di Piazza del Gesù da cui si distingue per posizioni meno conservatrici e più anti-clericali, si mantiene defilato, se non ostile. E nel caso di Renzi, quale loggia è stata determinante? Gli ALAM o Palazzo Giustiniani? Quasi sicuramente il supporto a Renzi proviene, come per Mussolini, dagli Antichi Liberi Accettati Muratori: di ambito conservatore, repubblicano e filo-israeliano sono infatti i primi contatti di Matteo Renzi negli USA (Michael Ledeen, Richard Perle, Ronald Spogli, Arthur Schneier, Martin Lipton, etc.); più coerente alla natura di catto-massone, sarebbe l’affiliazione o vicinanza di Renzi agli ALAM; chiaramente fascisteggiante è infine il disegno di un Partito della Nazione, motivo per cui, come nel 1922, sono gli ALAM gli indiziati numero uno nel sostegno a Renzi.

Mussolini e Renzi sono entrambi convulsamente nominati premier a 39 anni, con uno scarto di due mesi di vantaggio per l’ex-sindaco di Firenze: l’establishment anglosassone, che ha interessi vitali in Italia data la sua centralità nel Mediterraneo, nell’uno e nell’altro caso impone ai potentati locali, legati per denaro e cultura a Londra e Washington, una svolta autoritaria che si giustifica nella criticità in cui versa la penisola. Nel caso di Benito Mussolini sono il biennio rosso (1919-1920) ed il timore che in Italia si instauri un governo comunista a spingere la City di Londra ad avvallare la marcia su Roma. Nel caso di Renzi è invece il biennio dello spread rosso (2011-2012) ad obbligare la finanza anglosassone ad intervenire: l’euro, anziché partorire gli Stati Uniti d’Europa, conduce l’Italia ad un passo dal default che, la storia insegna, quando si consuma è spesso accompagnato da stravolgimenti di alleanze e schieramenti. Renzi è quindi, come Mussolini nel 1922, l’uomo che garantisce lo status quo. Sia Mussolini che Renzi, infatti, si insediano in corrispondenza di situazione economiche-finanziarie molto cupe. L’economia del 1919-1922 è fiaccata da scioperi e agitazioni nelle campagne; i salari reali, fatto pari a 100 il 1913, sono a 101 nel 1922 e scendono a 92 entro il 1924; il bilancio è in disavanzo cronico ed i settori dell’alta finanza premono affinché sia instaurato un solido ed autoritario governo che persegua il pareggio di bilancio, obbiettivo rincorso da Mussolini fino al disastroso rientro della lira nel sistema aureo a “quota 90” (1927). Nel caso di Renzi la situazione è persino peggiore perché l’impossibilità dello Stato di emettere moneta e l’attuazione di politiche di austerità per distruggere la domanda interna e salvare il sistema a cambi fissi noto come “euro” ha prodotto un’esplosione del debito pubblico, della disoccupazione e la distruzione del 25% della base industriale. Renzi, come Mussolini, è incaricato di attuare improbabili risanamenti dei conti a colpi di fiducia, attingendo dalla cassetta del neoliberismo che contiene strumenti come privatizzazioni e precarizzazione del lavoro. Renzi, come Mussolini, sa però che la propria posizione è periclitante ed ha urgenza di blindarsi modificando in senso maggioritario la legge elettorale (abrogando anche il bicameralismo perfetto) e fissando le elezioni il prima possibile, previo lo scioglimento del Parlamento da parte del Presidente della Repubblica, versione aggiornata di Vittorio Emanuele III di Savoia. La modifica della legge elettorale, di cui uno dei più indefessi sostenitori era ed è Giorgio Napolitano, è infatti la stella polare dell’azione di Renzi sin dalla sua nomina a segretario del PD nel dicembre del 2013 e, durante una direzione del PD nel gennaio del 20148, un mese prima dell’ingresso a Palazzo Chigi, l’ex-sindaco di Firenze delinea già a grandi linee la riforma elettorale cui affibbia il nome “Italicum”: premio di maggioranza che porti al 53%-55% chi ottiene il 35% dei voti; ballottaggio se nessuna lista raggiunge questa soglia; mini-liste bloccate da sei candidati per ogni circoscrizione. La minoranza del PD insorge già allora, tanto più che Renzi, conscio probabilmente di non poter contare sui voti degli ex-DS, allaccia un canale diretto con Silvio Berlusconi, sigillato quegli stessi giorni dal Patto del Nazareno. È proprio grazie all’accordo sovrainteso da Denis Verdini se l’Italicum può superare il 27 gennaio 2015 l’unico vero scoglio che minaccia di affondare la riforma elettorale: il voto a Palazzo Madama, dove Matteo Renzi, senza i determinanti voti di Forza Italia, non è autosufficiente. Il Patto del Nazareno svolge però alla perfezione il suo scopo e l’Italicum è approvato con il sostegno decisivo di Silvio Berlusconi, che rinfaccia a Renzi di non avere più la maggioranza nella camera alta.

Il 31 gennaio l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale provoca la rottura (sostanziale o di facciata?) del patto del Nazareno, “dallo stantio odore di massoneria”, come lo definisce Ferruccio De Bortoli. L‘iter dell’Italicum è però ora in discesa: il 20 aprile 2015 Matteo Renzi epura dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera i dieci esponenti della minoranza interna al Pd, in modo da impedire che siano apportate modifiche alla riforma licenziata dal Senato (dove ora la maggioranza è in forse), e li sostituisce con deputati di fiducia (problema che non ha Mussolini, dato che l’ostruzionismo proviene solo dai deputati popolari, socialisti e comunisti). Quindi, fedele allo schema mussoliniano, Matteo Renzi indice un consiglio dei ministri lampo il 28 aprile 2015, che autorizza la questione di fiducia sulla riforma elettorale, poi posta lo stesso pomeriggio dal ministro per le riforme Maria Elena Boschi. L’approvazione dell’Italicum, tra minacce di voto anticipato e promesse di un posto nelle liste bloccate, è praticamente scontata ed il governo incassa già il 29 aprile la fiducia sul primo articolo della riforma, cui succedono senza intoppi le successive due in attesa del voto finale previsto per il 4 maggio.

Cosa prevede la riforma elettorale in votazione alla Camera, in cui più di un costituzionalista ravvisa peraltro forti criticità? In sostanza l’Italicum è una legge Acerbo edulcorata dal doppio turno che consente alla lista di maggioranza relativa il controllo della Camera in due riprese, anziché una: la lista che superi infatti il 40% dei voti espressi al primo turno ha infatti diritto ad un premio di maggioranza del 15%; se nessuna lista supera la soglia del 40%, i due partiti più votati si affrontano al ballottaggio ed al vincitore spettano comunque 340 deputati su 630 (circa il 55%). Gli effetti prodotti dall’Italicum sono quindi simili alla legge Acerbo: un lista che raccogliesse il 26% dei voti espressi al primo turno, con l’Italicum potrebbe conquistare il 55% dei deputati e con l’Acerbo il 66%. Le differenze sono quisquilie, tanto più se si considera che il minor numero di deputati di cui Matteo Renzi disporrebbe è compensato dall’incredibile facilità con cui l’ex-sindaco di Firenze sta ottenendo l’approvazione della riforma elettorale.

Abbiamo visto come Benito Mussolini, alle prese con il temibile PPI di don Luigi Sturzo che difende strenuamente il sistema proporzionale, deve ricorrere ad un’articolata manovra per ottenerne il voto di fiducia: squadre fasciste per intimorire le organizzazioni cattoliche; velate minacce al Vaticano affinché allontani don Sturzo dalla segreteria del PPI; sinuosa retorica per presentare il partito fascista come una forza sulla strada dell’istituzionalizzazione; blandizie verso i clerico-conservatori garantendo loro un futuro nel PNF. Il PPI, considerata la divisione delle sinistre e l’acerbità del PCI, è poi l’unica ma temile forza che possa contendere la vittoria elettorale al listone fascista: l’eliminazione politica di Don Sturzo travalica la semplice necessità di approvare la legge Acerbo e punta ad indebolire strutturalmente il popolarismo, privandolo della sua guida carismatica. Per Matteo Renzi la strada per l’approvazione dell’Italicum è stata invece spianata dal Patto del Nazareno, grazie a cui è stato superato senza colpo ferire il voto del Senato. Anche quando Silvio Berlusconi ha tolto per meri fini tattici il suo sostegno alla riforma elettorale, non sono mai mancati i potenziali voti per approvare la legge alla Camera: a riempire i vuoti dell’ala sinistra del PD si sono dichiarati disponibili i deputati di Denis Verdini ed una ventina di grillini, confermando che il M5S è un finto partito d’opposizione, creato per catalizzare il voto di protesta e sterilizzarlo, permettendo così a Matteo Renzi di governare indisturbato. La parte che fu del PPI nell’iter di approvazione della legge Acerbo è oggi giocata dagli ex-DS e dall’ala sinistra del PD che, sfilacciata ed acefala, non ha mai rappresentato una minaccia all’approvazione dell’Italicum neppure lontanamente paragonabile al pericolo che il popolarismo costituisce per la legge Acerbo: specialmente se si considera che Renzi non ha nessuno interesse ad inglobare l’elettorato della minoranza PD e può quindi attaccare frontalmente i suoi rappresentati.

Arriviamo infatti ora all’ultima, macroscopica analogia, tra Benito Mussolini e Matteo Renzi: la riforma delle legge elettorale è la premessa per la radicale trasformazione del partito che li accompagna alla Presidenza del Consiglio e, più nel dettaglio, per la sua sublimazione in un partito-Stato, alias partito-nazione, alias Partito delle Nazione. A gettare le fondamenta teoriche della “nazionalizzazione-estinzione” del PNF è, all’indomani della Marcia su Roma, Dino Grandi, anch’esso affiliato alla Gran Loggia d’Italia degli ALAM ed in contatto con gli ambienti anglosassoni fin dalla campagna interventista del 1914-1915. Scrive Grandi: “Man mano che lo Stato si organizza e si rafforza e il Fascismo entra attraverso un processo di assorbimento osmotico in tutti i gangli nervosi dello Stato, i partiti scompaiono, anche il nostro”.

Il PD di Matteo Renzi che, in base agli ultimi sondaggi, conquisterà il 55% dei deputati di Montecitorio grazie al 37% dei voti espressi a fronte di un’astensione superiore al 40% (quindi con il voto favorevole del 22% del corpo elettorale) non potrà più esprimere nessuna politica di “parte”, salvo spingere all’insurrezione il restante 80% dei cittadini con diritto di voto. Si limiterà quindi all’amministrazione del potere, con un’attenzione particolare verso la propria base elettorale e tanta retorica nazional-popolare che Matteo Renzi già sfoggia: “L’Italia è un grande Paese e non prende né reprimende né lezioni”, “Avremo un ruolo leader nei prossimi vent’anni”, “Basta lezioni dall’Unione Europea”, etc. etc. Solleticato da Washington e Londra, Renzi ha anche accarezzato nel febbraio del 2015 l’idea di un intervento militare in Libia, per risvegliare l’ardore coloniale degli italiani. L’ex-sindaco di Firenze è intenzionato persino a completare il processo che a Mussolini balena solo nella mente: sciogliere formalmente il partito che presiede e rifondarlo attribuendogli un nome che espliciti chiaramente la sua funzione, ossia Partito della Nazione. Qualsiasi richiamo alla sinistra così scomparirebbe e sarebbe molto più facile inglobare, come fece il PNF dal 1922 in avanti, gli strati più moderati e conservatori della società italiana, espellendo gli “intransigenti” che non sarebbero più gli squadristi alla Farinacci ma gli ex-comunisti come Bersani e Cuperlo: si sfonderebbe quindi nell’elettorato della media borghesia, degli impiegati dello Stato e degli astensionisti interessati a ritorni economici dal loro tesseramento al PdN. La stella polare del Partito della Nazione, ennesima analogia con il PNF fascista, sarebbero però l’alta finanza (la grande industria è scomparsa) in tutte le sue forme (FMI, BCE, BlackRock, JP Morgan, Goldman Sachs) e le potenze anglosassoni, dove Washington prende le veci che Londra svolge per Mussolini.

In conclusione si può affermare che le analogie tra gli esordi di Benito Mussolini e Matteo Renzi non sono solo lapalissiane ma così stringenti da suscitare più di un interrogativo: leggendo “Mussolini il fascista; la conquista del potere 1921-1925” dello storico reatino Renzo De Felice, sembra di scorrere il copione dell’azione politica di Matteo Renzi che, punto per punto, ricalca le mosse di Benito Mussolini, dall’Italicum/Acerbo al Partito della Nazione/partito-nazione. È una portentosa coincidenza? Probabilmente, no. Uno degli studiosi con cui collabora a lungo Renzo De Felice (1929-1996) è infatti il filosofo, scrittore, intellettuale neo-conservatore Michael Ledeen (1941), che dallo storico reatino mutua in particolare il concetto di fascismo-movimento contrapposto a fascismo-regime: i due ne discutono insieme nel controverso libro edito da Laterza nel 1975 “Intervista sul fascismo”, poi tradotto in inglese col titolo “Fascism: An Informal Introduction to Its Theory and Practice”. Il proteiforme Ledeen non si limita allo studio della storia italiana, con un particolare focus su fascismo e Niccolò Macchiavelli (da cui estrapola l’idea della dittatura temporanea di un Principe virtuoso per risollevare una società in crisi), ma allarga i propri interessi al campo della politica e dei servizi segreti. Nella veste di intellettuale neo-conservatore partecipa infatti al pensatoio statunitense American Enterprise Institute, dove, attraverso illustri personaggi come Paul Wolfowitz, John R. Bolton, Frederick Kagan, è prima architettata “la guerra al terrore” contro Afghanistan, Iraq e “stati canaglia” vari e poi la sanguinosa destabilizzazione del Medio Oriente (Siria, Libia e nuovamente Iraq) con l’attiva collaborazione di Israele, Turchia e monarchie del Golfo. Il Levante e il vicino Oriente è un terreno che Ledeen conosce bene, considerato che negli anni dell’estenuante guerra tra Iran e Iraq del 1980-1988, quando gli USA ed Israele armano ora l’uno ora l’altro belligerante in modo da protrarre il conflitto, il nome dell’intellettuale neo-con spunta nell’affare Iran-Contras: Ledeen si accorda nel 1985 con le autorità di Tel Aviv per vendere segretamente armi a Teheran usando canali israeliani. Il ricavato è poi dirottato in Nicaragua per finanziare le operazioni sporche della CIA contro il sandinista Daniel Ortega. In quello stesso anno Leeden fa una capatina in Italia, balenando nella crisi di Sigonella: quando i caccia americani intercettano l’aereo su cui viaggiano i terroristi palestinesi dell’Achille Lauro, è Ledeen che sveglia Bettino Craxi all’hotel Raphael per chiedergli che il Boieng sia fatto atterrare a Sigonella. Sebbene Craxi acconsenta, l’inafferrabile Giulio Andreotti, con un democristiano “ci sono dei problemi”, salva l’onore dell’Italiano impedendo che la Delta Force americana agisca sull’isola siciliana come una polizia coloniale. Dichiarato già negli anni ’80 persona “non grata” dall’ammiraglio Fulvio Martini a capo del SISMI, non solo Ledeen non si allontana dall’Italia ma interferisce ancora con la politica nostrana, segnalando a Washington gli amici fidati di USA ed Israele: risale infatti al 2007 l’articolo che Ledeen scrive per l’influente rivista conservatrice National Review, dove racconta di aver avuto due anni prima (2005) uno scambio di battute con un giovane amico italiano sui vini del Bel Paese. Il commensale con cui discetta di bottiglie è un rampante e brillante politico toscano, appena rieletto alla presidenza della provincia di Firenze: Matteo Renzi. Abbiamo quindi uno storico del fascismo, studioso e collaboratore di Renzo De Felice, invischiato in traffici illegali d’armi, inserito nei servizi segreti americani e forse israeliani, neo-conservatore affiliato all’American Enterprise Institute, che diventa mentore di Matteo Renzi fin dal 2005 e, quasi sicuramente, ne segue passo dopo passo la scalata al potere. È lecito supporre che alla base delle incredibili somiglianze tra gli esordi di Benito Mussolini e Matteo Renzi, ci sia lo studioso del fascismo Micheal Ledeen? Sì, è lecito.

Il Partito della Nazione, nella sua gestazione e nei tratti che sta assumendo, è la versione aggiornata del fascismo-regime o partito-nazione che Dino Grandi e Benito Mussolini concepirono nel 1922-1923. Micheal Ledeen sta suggerendo a Matteo Renzi come resuscitarlo, passo dopo passo, fiducia dopo fiducia, giorno dopo giorno.

Federico Dezzani  

 

 

 
Morte della critica letteraria PDF Stampa E-mail

3 Maggio 2015

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 Da Appelloalpopolo del 29-3-2015 (N.d.d.)

 

Tramonto e resistenza della critica (Quodlibet, 2013, pp. 249, 22 euro) è l’ultima raccolta di saggi di Romano Luperini, nato nel 1940, uno dei più noti esponenti della “nuova critica marxista” del secondo Novecento. L’ultima nel senso che, come l’autore stesso dichiara introducendo il volume, non sarà seguita da altre, in parte per motivi anagrafici, in parte per ragioni culturali e politiche. Luperini è infatti convinto che oggi non vale più la pena scrivere critica, perché si viene letti soltanto da una cerchia ristrettissima di specialisti che, si direbbe, vagano come larve in una terra desolata di rovine: quelle della scuola, dell’università, dell’ambiente letterario e, più in generale, della “civiltà italiana”.

Questo snodo cruciale della riflessione di Luperini merita di essere approfondito e discusso.

L’età della globalizzazione, sostiene il critico, “rende sempre meno praticabili punti di vista nazionali”. In tale contesto la critica ha perso il ruolo di “traduzione, trasmissione, trapianto sia orizzontale (al presente, fra lettori e gruppi diversi e anche fra nazioni diverse) sia verticale (dal passato al futuro)” di un patrimonio inestimabile di valori non soltanto estetici ma anche etici. Dunque il destino di questa disciplina sembra intimamente legato al tramonto della nazione, soprattutto in un paese come l’Italia in cui il nesso fra letteratura, identità e storia risulta da sempre molto stretto: e oggi, infatti, “siamo senza racconto, senza mito e senza identità”. Ma dal momento che il ritorno a De Sanctis e al Risorgimento rappresenterebbe un’anacronistica battaglia di retroguardia, Luperini si sente vicino alla posizione di Auerbach, secondo il quale “la nostra casa filologica è la terra, non può più essere la nazione”. Il racconto critico, dice Luperini, dovrà essere “planetario”. Il suo mandato sociale consisterà nel dare voce alla moltitudine dei “marginali”, dei moderni ‘Ntoni Malavoglia di tutto il mondo: una moltitudine della quale il critico stesso fa parte in quanto intellettuale. Non a caso, per Luperini il paradigma del nuovo intellettuale-marginale è incarnato dal primo Saviano, l’outsider precario e privo di reti di protezione, “il ricercatore che si muove in scooter” nelle periferie degradate.

Alla prospettiva di Luperini si possono opporre due obiezioni.

La prima è che la moltitudine cosmopolita, proprio perché spogliata di ogni appartenenza particolare, finisce facilmente per essere inghiottita dalla Megamacchina mondiale dell’omologazione economica e tecnoscientifica: è, come riconosce Luperini stesso (si veda l’intervista rilasciata sul “Corriere della sera” il 20.8.2014), la sorte toccata a Saviano, ormai diventato uno dei vari miti televisivi d’oggi.

In secondo luogo, va obiettato che, come la massima parte della cultura contemporanea, Luperini ha il torto di dare per scontato quello che non lo è affatto, cioè il compiuto trionfo della globalizzazione e la fine delle nazioni. Nell’abbandono semi-ipnotico al fatalismo il critico neo-marxista appare maledettamente simile ai teorici tardo-novecenteschi del pensiero debole e del postmoderno da lui così aborriti.

Giampiero Marano

 
Il treno dei folli PDF Stampa E-mail

1 Maggio 2015

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Da Rassegna di Arianna del 29-4-2015 (N.d.d.)

 

 

[…] In molti ambiti del pensiero, si contrappongono due visioni teoriche, l’una ciclica e l’altra lineare, per esempio in astrofisica si confrontano due teorie, una che immagina l’universo in continua espansione, l’altra pensa che l’universo a un certo punto collassa in se stesso per tornare al big bang iniziale (quello che nella cosmologia induista o buddista è chiamato Kalpa o giorno di Brama, che rappresenta un ciclo cosmico). Cosi anche nella storia si scontrano due visioni una antica, platonica e ciclica (decadenza per un continuo allontanamento dagli dei, il processo s’interrompe per l’intervento degli dei o tramite le leggi della provvidenza, quindi ritorno agli dei) e una lineare che è tipica del cristianesimo (continuo procedere verso Dio) e della civiltà della tecnica (divenire sempre più simili a Dio).

Ora noi siamo pienamente inseriti in una visione lineare dello sviluppo, sia per condizionamento religioso sia tecnologico, felici viaggiamo su un treno che procede spedito, pieno di comodità, mentre fuori dai finestrini scorre un paesaggio meraviglioso che per la rapidità del moto non comprendiamo più. Il punto è che prima che il treno deragli o vada a sbattere saremmo completamente folli. Chiusi in quello scompartimento, con quell’aria artificiale fastidiosa alle narici, i continui annunci impersonali che con insistenza c’informano d’importanti accadimenti, il paesaggio oltre al finestrino che per la velocità si è ridotto a una macchia confusa, che cerchiamo di cogliere per un attimo ruotando rapidamente la testa per seguirlo. Restiamo fermi seduti non sappiamo più da quanto in quella poltrona calda e scomoda, con quei compagni di viaggio cui non sappiamo cosa dire, di cui non ci fidiamo e non ci piace l’aspetto e l’odore, c’è quella telecamera che ci osserva, di cui non capiamo lo scopo ma ci imbarazza, siamo soli in un treno che viaggia veloce, vorremmo urlare ma non possiamo, c’è un cartello con scritto “tacete”. Henri Laborit nel 1980, attraverso una serie di esperimenti con i ratti, sviluppò una teoria basata sul concetto dell’inibizione dell’azione, dimostrando che in condizioni di estremo stress (ovvero situazioni in cui l’animale non può lottare né fuggire per evitare una situazione spiacevole) i ratti producono somatizzazioni. Noi siamo in una società in cui non si può né fuggire ne lottare e allora ci ammaliamo, ma soprattutto perdiamo desiderio alla vita. Il nostro tempo è dominato dalla tecnica che non è uno strumento controllato dall’uomo, ma è diventato il soggetto della storia e l’uomo ne è il semplice funzionario. Le macchine ci chiedono una terminologia matematica di tipo binario, un linguaggio privo di sfumature, così noi (gli operatori) siamo selezionati e formati tramite un metodo altrettanto privo di sfumature, i quiz. Non illudiamoci, le macchine hanno superato le competenze umane, usiamo strumenti la cui conoscenza tecnica è prerogativa di poche industrie che possono ricattarci. Le macchine ci modificano (l’uso di un computer o di un telefonino modifica il nostro mondo di relazioni), portandoci a una regressione binaria del pensiero, ormai ragioniamo per schemi del tipo: buono-cattivo, bello-brutto, sano-malato……. Siamo prigionieri in un mondo dove l’umanesimo è morto, sostituito da logiche semplificate, dove siamo informati di tutto e al contempo dimentichiamo tutto, le conoscenze non si legano al piano etico ed emozionale (come posso farmi carico di tutto il male e il brutto di cui sono a conoscenza), tutto diviene indifferenza. Lentamente ci abituiamo e finiamo per non essere più responsabili di nulla, facciamo il nostro lavoro senza porci più domande, non siamo coscienti del nostro agire. Tutto questo avviene tra la folla ma in una sostanziale solitudine, ognuno è immerso nella propria rete di relazione che supera le distanze tramite gli strumenti tecnici (telefonini, computer libri, ebook), mentre restiamo indifferenti alla realtà contingente. Ci stiamo smaterializzando, l’altro diviene una realtà virtuale che può essere facilmente disconnessa, ancor più virtuale è la nostra relazione con le istituzioni, che diventano astratte e disumanizzate (entità con cui si comunica solo tramite la tecnica).

Tutto questo ci farà ammalare, perché non possiamo più fuggire ne lottare, siamo impotenti, viviamo in un unico vasto e mondializzato apparato tecnico che ci utilizza cui non siamo preparati, ma soprattutto, ed è la cosa più grave, non abbiamo ancora sviluppato un’alternativa di pensiero. La metafora del treno in corsa che va verso un muro, è nota e spesso usata, ma quando lo immaginiamo ci vediamo sempre fuori dai vagoni, pensiamo che il treno sia la società umana che si schianta portando alla distruzione il mondo (quindi l’ennesimo fatto esterno che non ci riguarda direttamente, di cui siamo a conoscenza e che rimoviamo), qui v’invito a vedere la cosa da un punto di vista diverso. Noi siamo sul treno, e viviamo coscientemente l’approssimarsi dello schianto da dentro un vagone, ecco il punto, prima che si schianti la macchina (quindi la società e la natura), si schianterà la nostra psiche, la nostra coscienza umana, la nostra umanità, e non possiamo pensare di salvare la società e il mondo senza prima salvare l’uomo. Per realizzare ciò occorre farsi cosciente di non essere altro che una determinazione della natura che non è autorizzata a muoversi oltre quel limite, altrimenti la nemesi prima di distruggere il mondo, annienterà l’uomo. Si dice che l’economia domina il mondo ma è viziata dalla passione per il denaro, si dice che sarà superata dalla scienza-tecnica (ma l’economia non è già essa stessa una particolare scienza-tecnica?), che si afferma priva d’insane passioni. Non credo questo, la scienza-tecnica è viziata dalla più insana delle passioni, il narcisismo, il desiderio di conoscere e dominare, colpa per cui Adamo fu scacciato dal Paradiso Terrestre.

Una notazione per tutte, quando fu sperimentata per la prima volta la bomba atomica, gli scienziati non avevano completa certezza che la reazione si sarebbe limitata al materiale fissile o propagandosi avrebbe trasformato la terra in una supernova.

 

Bernardo Luraschi 

 

 

 
Il potere di creare moneta PDF Stampa E-mail

30 Aprile 2015

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Da Rassegna di Arianna del 14-4-2015 (N.d.d.)

 

Si può risolvere la crescente fragilità del sistema bancario tramite una regolamentazione più rigida? No, stando a quanto afferma un recentissimo report commissionato dal governo islandese. Sarebbe necessaria una soluzione molto più radicale: impedire alle banche commerciali di creare moneta. In altre parole, rinnegare il principio che ha orientato l'attività bancaria dal XVII secolo ad oggi.

La moneta, questa monopolizzatrice della vita quotidiana, rimane compresa da pochi. Dai più viene semplicemente data per scontata. Come notava Pound in Oro e Lavoro: “Quando uno vi domanda cosa sia la moneta, voi non sapete cosa siano i biglietti da dieci lire e i pezzi di venti centesimi che avete in tasca”. Ignoranza non beata se si considera che i rapporti di forza economici a livello nazionale e internazionale dipendono grandemente dai meccanismi sottostanti alla creazione della moneta. Un’analisi finalmente non banale è quella proposta da un recente report (qui il link: http://www.egaliteetreconciliation.fr/L-Islande-veut-redonner-le-monopole-de-la-creation-de-monnaie-a-sa-banque-centrale-32140.html) commissionato dal governo islandese e avallato dall’ex presidente dell’autorità per la vigilanza finanziaria del Regno Unito, Adair Turner. Tesi di fondo di tale indagine è che l’instabilità dell’odierno sistema finanziario sia ascrivibile alla capacità delle banche commerciali di creare moneta e, di conseguenza, potere d’acquisto. Il report parte da un dato assai indicativa: dal 1970 ad oggi ci sono state 147 crisi bancarie in 115 paesi. A tali crisi, in particolare a quella deflagrata nel 2008, si è risposto con una sempre più complessa, ma di dubbia efficacia, regolamentazione bancaria/finanziaria che, tuttavia, ha lasciato la natura del sistema bancario pressoché intatta.

Contrariamente a quanto comunemente pensato, la quantità di moneta in circolazione in un’economia non viene fissata dalla Banca Centrale. Certo, quest’ultima emette moneta, che sia metallica, cartacea o elettronica. Di fatto, però, la gran parte della massa monetaria circola sotto forma di depositi a vista che le banche commerciali sono in grado di creare dal nulla ogni volta che erogano un prestito. Come spiega la Banca d’Inghilterra (2014): “Quando una banca concede un mutuo, non lo fa consegnando al richiedente migliaia di sterline in banconote. Piuttosto, accredita il conto del richiedente con un deposito bancario pari al mutuo richiesto. In tale modo nuova moneta viene creata”. In altre parole, al prestito erogato corrisponde un nuovo deposito che non attinge a depositi esistenti. Questo meccanismo risulta estremamente vantaggioso per le banche che possono finanziare investimenti e prestiti (attivi) creando depositi (passivi) dal nulla. Se è vero che la banca paga un tasso di interesse sui depositi, è anche vero che tale tasso è di gran lunga inferiore rispetto a quello che pagherebbe finanziandosi direttamente sul mercato. Infatti, i clienti sono disposti ad accettare tassi pressoché nulli per due motivi. Primo, per mantenere i depositi “liquidi” ed attingervi per i propri pagamenti. Secondo, perché sanno che il rischio di perdere i propri depositi è praticamente nullo, presumendo un intervento governativo in caso di panico bancario e corsa agli sportelli. Ad esempio, nel 2008 il governo islandese si vide costretto a garantire interamente i depositi delle banche locali onde evitare un collasso dell’intero sistema. Intuitivamente, l’esistenza di simili “garanzie implicite” incoraggia pericolose prese di rischio da parte delle banche che tendono ad erogare prestiti a fronte di nuovi depositi, generando un’incontrollata espansione della massa monetaria circolante. Senza troppa considerazione per la realtà, ovviamente. Si consideri di nuovo il caso dell’Islanda, il cui sistema bancario è stato uno dei primi a essere travolto dal ciclone del 2008, come ben illustrato dal documentario Inside Job. Tra il 1986 e il 2006, il PIL islandese è cresciuto in media del 3.2% annuo; l’offerta di moneta da parte delle banche commerciali islandesi, invece, del 18.6% annuo. È legittimo sospettare che discrepanze di tale portata tra crescita dell’economia reale e della massa monetaria abbiano giocato un ruolo decisivo nella formazione delle recenti bolle speculative. Ed è altresì legittimo sospettare che puntare sulla mera regolamentazione bancaria sia una strategia affatto risolutiva. Che fare, dunque?

Secondo il report in questione, la soluzione non può che essere radicale: separare la creazione e l’allocazione della moneta. In altre parole, proibire alle banche commerciali di creare moneta per finanziare i loro stessi attivi, ridimensionandole nel loro originale ruolo di intermediari finanziari. Più semplicemente, rinnegare il principio che ha orientato l’attività bancaria dal XVII secolo ad oggi. Una vera e propria rivoluzione centrata sull’introduzione di una Moneta Sovrana, controllata esclusivamente da una Banca Centrale indipendente, messa in circolazione tramite spesa pubblica, alleggerimenti fiscali o distribuzione di un dividendo nazionale (come già aveva proposto Douglas, teorico del Credito Sociale, nel primo Novecento). Certo, se possa esistere una Banca Centrale seriamente indipendente è discutibile, così come problematico sarebbe il ruolo del governo nell’allocazione della moneta. Ma riconoscere che vi sia qualcosa di sistematicamente sbagliato nell’attuale logica della moneta è già un gran passo avanti.

 

Benedetta Scotti 

 
Dal bail-out al bail-in PDF Stampa E-mail

28 Aprile 2015

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 27-4-2015 (N.d.d.)

 

Poco meno che di sfuggita, come un avvertimento doveroso ma tutto sommato di routine. E con il solito, comodissimo alibi del richiamo alle norme UE: della serie “ormai si è deciso così, lassù, e noi possiamo/dobbiamo soltanto adeguarci”. La comunicazione del governatore della Banca d’Italia, del resto, è arrivata nel corso di un’audizione al Senato e nell’ambito di un discorso più ampio, dal titolo fatalmente ponderoso di “Indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano nella prospettiva della vigilanza europea”.

Tra una riflessione e l’altra, ecco spuntare anche l’insidiosissimo promemoria su ciò che cambierà a partire dal primo gennaio 2016 in tema di salvataggi bancari, con l’entrata in vigore del Meccanismo Unico di Risoluzione delle Crisi (Single Resolution Mechanism, SRM). Lo scopo, secondo i proclami dei suoi sostenitori, consisterebbe nel non scaricare più esclusivamente sulle casse pubbliche i costi necessari ad evitare il fallimento degli istituti di credito ormai prossimi al crac, per introdurre invece una nuova disciplina in base alla quale le perdite vengono innanzitutto addebitate agli azionisti e alla clientela. Detto in sintesi, e utilizzando la neolingua della finanza internazionale di matrice angloamericana, si passerà dal vecchio bail-out al novello bail-in.

La formula è suggestiva, ma è fuorviante. Il messaggio che viene lanciato è che dal prossimo anno pagheranno i diretti interessati, anziché la generalità dei contribuenti. La verità, celata nelle pieghe di un intricato dispositivo che è impossibile condensare in poche righe (vedi lo schematico ma ampio riassunto del Sole 24 Ore, nell’aprile 2014), è molto meno limpida. E molto meno etica.

Cominciamo dalla cornice: il limite della responsabilità patrimoniale dei privati è l'otto per cento delle passività complessive della banca, mentre al di là di questo ammontare tornano in scena strumenti di portata, e di finanziamento, più generale. Da un lato il Fondo Unico di Risoluzione (Single Resolution Fund, SRF) che è alimentato dalle banche ma che andrà a regime solo nel 2025, e che a sua volta opera fino a un massimo di un ulteriore cinque per cento; dall’altro, superata invano anche questa soglia e sempre che gli organi comunitari ritengano di intervenire, c’è il famigeratissimo MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità che ci si compiace di definire “salva Stati” e che è a carico delle nazioni aderenti alla UE, con l’Italia al terzo posto tra i sottoscrittori, dopo Germania e Francia, a fronte di un impegno pari a ben 125 miliardi.

E adesso, finalmente, veniamo al quadro specifico: mettere sul medesimo piano gli azionisti e i clienti significa comunque fare un regalo, ingiustificato, agli azionisti stessi, che in quanto proprietari, e soli compartecipi degli eventuali utili, sono gli unici sui quali dovrebbero ricadere le possibili perdite. Certo: per clienti “corresponsabili” si intendono, almeno per ora, i titolari di obbligazioni emesse dalla banca in questione – a cominciare da quelle cosiddette “subordinate” che per il loro maggiore rendimento sono meno garantite rispetto ai crediti ordinari – e di depositi superiori ai centomila euro, ma stride comunque la pretesa di chiamarli a rispondere della cattiva amministrazione altrui, come se il mero fatto di essersi fidati di quel particolare istituto li rendesse complici del disastro anziché parti lese.

Da semplici clienti, in pratica, a pseudo soci. Soci di serie B o C, visto che sopporterebbero soltanto gli oneri. Laddove al contrario, se proprio si dovesse ammettere questa equiparazione coatta, sarebbe giusto che le perdite da essi subite venissero successivamente recuperate, almeno in parte, attraverso l’attribuzione di azioni del ricostituito capitale sociale.

Cosa fa Ignazio Visco, invece? Se la cava auspicando una più puntuale informazione sui rischi connessi a determinati impieghi: «Le banche dovranno, inoltre, adottare un approccio nei confronti della clientela coerente con il cambiamento fondamentale apportato dalle nuove regole, che non consentono d’ora in poi il salvataggio di una banca senza un sacrificio significativo da parte dei suoi creditori. La clientela, specie quella meno in grado di selezionare correttamente i rischi, va resa pienamente consapevole del fatto che potrebbe dover contribuire al risanamento di una banca anche nel caso in cui investa in strumenti finanziari diversi dalle azioni, il che fa venir meno la certezza del mantenimento del valore del capitale investito fino ad ora radicata nella consapevolezza dell’investitore».

Traduzione: un bell’avviso a mo’ di liberatoria, che chissà quanti comprenderanno fino in fondo, e avanti come al solito. Con l’ulteriore e non trascurabile aggravante, visto che le nuove norme si applicano anche ai rapporti costituiti in passato, di rendere inutili gli avvertimenti futuri per chi si ritrovi già impelagato in contratti, vedi le succitate obbligazioni, da cui non ha modo di uscire.

Il succo, tanto per cambiare, è che bisogna rastrellare risorse tra i cittadini comuni, in maniera tale da attenuare il più possibile l’aggravio sui grandi azionisti. E il nodo puntualmente ignorato è che il problema non è salvare le banche che non sanno badare a sé stesse, ma salvare le nazioni, e i rispettivi popoli, dai banchieri che lo sanno benissimo, come badare a sé stessi.

 

Federico Zamboni 

 
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