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Kali yuga PDF Stampa E-mail

13 Aprile 2015

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Da Rassegna di Arianna del 7-4-2015 (N.d.d.)

 

Più che un’età di gestazione e trapasso, come scrisse Hegel, o l’epoca della compiuta peccaminosità, con Fichte, la nostra mi sembra l’annuncio del Kālī yuga finale, cioè l’avvio di un’epoca più che travagliata, caratterizzata da oscurità da un punto di vista spirituale (oscura è la dea Kālī), e da guerre sanguinose che potrebbero non risparmiarci (violenta è Kālī). Stiamo entrando a grandi passi, con buona probabilità, nell’ultimo yuga, cioè nell’ultimo periodo mondano, secondo la visione degli induisti, in cui la vita sarà a dir poco difficile. La mia sensazione è che sarà molto peggio di ciò che pensava lo stesso Julius Evola, in Rivolta contro il mondo moderno e nelle opere successive (Gli uomini e le rovine, ad esempio), in cui tracciava i contorni di un’epoca oscura – quella moderna – per certi versi corrispondente all’età del ferro di Esiodo e all’ultimo yuga indù.

I segnali del nostro Kālī yuga ci sono già tutti, non soltanto in altre aree geografiche del mondo, come il Medio Oriente e l’Africa settentrionale in fiamme, oppure nei Balcani profondi, ai confini con la Russia, ma anche qui, in Europa occidentale, in mezzo a noi. Quali sono questi segnali, percepibili con chiarezza nella “periferia” italiana dell’occidente neocapitalista?

Segnali endogeni

1)      Il primo segnale, che è anche il più importante e quello immediatamente percettibile, è squisitamente umano e la sola, angusta visione materiale del mondo, per dirla alla Evola, affermatasi con decisione nel passaggio fra il secondo e il terzo millennio, diminuisce l’uomo non solo nel senso della perdita di contatto con il sopramondo. L’iperindividualismo contemporaneo non implica un “farsi divinità”, ma, esattamente all’opposto, comporta una perdita d’identità, di dignità, di capacità critiche nel processo di adattamento dell’uomo a una nuova e più irrimediabile dimensione di servaggio: il servaggio nei confronti di un sistema assolutista, impersonale, dai tratti anti-umani, generato dal capitalismo del terzo millennio a prevalenza finanziaria. L’uomo non più uomo è destinato a popolare sia le nebulose urbane, nel nord e nel settentrione del mondo, sia le megalopoli nel sud e in oriente. Gli esseri umani si involvono con l’evolversi della “merce” capitalistica, che assume nuove forme, in funzione di una nuova, esasperata “creazione del valore” libera dai vincoli del passato, che prescinde dall’uomo. A questi uomini inconsapevoli del loro servaggio, abilmente manipolati grazie al cosiddetto progresso scientifico e alle nuove tecnologie a disposizione del potere, “aspre pene saranno inflitte dagli dei”, secondo l’Esiodo dell’età terminale del ferro. La nuova Kālī ha molte braccia, più della dea che ci mostra l’iconografia degli indù, e modella con violenza l’uomo secondo le necessità di un’età oscura, in cui le masse di servi, inconsapevoli, a testa bassa, andranno verso la fornace finale del mondo. Più banalmente, guardatevi intorno in questo scorcio d’inizio millennio, osservate coloro che vi circondano e cogliete le differenze fra ciò che potrebbe essere l’uomo, emancipato dal bisogno economico, non soggetto alla schiavitù, materiale e psicologica, del lavoro capitalistico, proiettato verso un futuro pur difficile ma evolutivo, e ciò che è veramente nei recessi della nostra società, sottomessa a una visione crematistica sempre più stringente (neocapitalismo). Le iniquità sociali che si approfondiscono oltre ogni limite conosciuto, sono il frutto di questa diminuzione artificiosa dell’essere umano, compresso in “stili di vita” neoservili, deprivato dell’autonomia di critica e della possibilità di sviluppare una propria visione del mondo.

2)      Il secondo segnale è la stretta neocapitalistica volta a “normalizzare” in senso ultraliberista i sistemi economici. Non esistono più i modelli capitalistici peculiari dell’Europa continentale, in relativa indipendenza rispetto a quello ultraliberista globale oggi dominante. L’universo piatto del neocapitalismo assolutista, su base finanziaria, si delinea così chiaramente. Non sono più ammesse deviazioni dall’unico modello e ciò implica la distruzione dei sistemi sociali e una rapida trasformazione nella struttura classista della società. Il processo di adattamento umano alla nuova strutturazione sociale è stato abbastanza rapido, e gli italiani sono stati, in tal senso, un popolo “cavia”. L’esperimento è riuscito e le precedenti classi subalterne – l’operaia e il cosiddetto ceto medio – sono state “smantellate”, in termini di coscienza di classe e di solidarietà, lasciando il posto a una neoplebe, sempre più pauperizzata e docile. Questo processo, come quello, ancor più cruciale e originario, di trasformazione dell’essere umano in qualcosa di diverso, sembra non conoscere soste.

3)     Il terzo segnale è la rivolta elitista contro lo stato, la nazione, la sovranità e ogni tipo di confine, che ha esplicato i suoi (peggiori) effetti in paesi “cavia” come l’Italia, stabilendo un ferreo governo sopranazionale – europeo in attesa di andare oltre – modificando in profondità le vecchie costituzioni dal punto di vista materiale e, in parte, anche da quello formale. Se ci sono istituzioni che decidono, queste si stabiliscono a un livello superiore a quello degli stati, pur essendo la loro formalizzazione ancora incerta e piuttosto fluida. Il processo non è ancora compiuto, ma potrà esserlo entro un decennio, e rappresenta come i precedenti un chiaro segnale di approdo a un’età oscura, forse terminale. A questo si può aggiungere la guerra sociale – in termini di diritti e di redditi – condotta dalle élite e dai loro governi-Quisling contro la classe neopovera dominata, un conflitto che sta squassando l’Italia e l’intera Europa mediterranea.

Segnali esogeni

a)    Il primo segnale è la guerra, combattuta con le armi, ma sempre di più direttamente contro i popoli e le classi dominate. I non combattenti sono le prime vittime e le più numerose. È ormai chiaro che proprio contro di loro si puntano le armi. La violenza di Kālī si estende, ormai, in buona parte del pianeta e sempre meno sono i paesi non in guerra. La diplomazia è solo un fantasma che appare vanamente fra un conflitto e l’altro, o fra una fase e l’altra dello stesso conflitto. Non sono in vista nuove paci come quelle di Westfalia e la guerra diventa endemica, a macchia di leopardo nel mondo, nella misura in cui è coessenziale al neocapitalismo finanziario e alla sua piena affermazione. Lo stato di crisi economica permanente e lo stato di guerra permanente, pur “a bassa intensità” e a macchia di leopardo sul territorio, coesistono nella struttura di questo capitalismo invasivo, che penetra ovunque e sfrutta qualsivoglia risorsa per riprodursi (moltiplicazione dei mercati legali e illegali, dei prodotti finanziari, delle destabilizzazioni di stati e delle guerre).

b)    Il secondo segnale è la nuova divisione del mondo in blocchi che si profila, con esiti di scontro, intolleranza e nuove guerre. È l’effetto visibile della globalizzazione neoliberista, che non unifica, se non nel bisogno, nell’ingiustizia sociale e nella guerra, ma divide e cerca di imperare, distruggendo i vecchi confini e suscitandone dei nuovi, più insidiosi dei precedenti. Riapparirà prepotente, fra poco, lo spettro della guerra non convenzionale, la minaccia e il ricatto dell’olocausto nucleare, temporaneamente accantonati dopo il collasso del “mondo bipolare” Usa-Urss. Il pericolo è destinato a concretarsi quando si crede (come accade a coloro che manovrano gli Usa) di poter vincere in un conflitto nucleare (contro la Russia ancora non “normalizzata”) subendo danni limitati e, perciò, si cerca a ogni costo l’innesco (Ucraina). Sarà proprio uno scontro nucleare e non convenzionale a determinare la “profondità” del Kālī yuga al quale siamo condannati. Del resto, questo è l’unico evento non naturale che potrà provocare, in tempi non biblici o non cosmici, la fine della storia … e la scomparsa dell’ultimo uomo.

c)   Il terzo segnale è la virulenza dell’islam, simbolo di una barbarie sanguinaria a sfondo religioso-satanista. Un mostro (re)suscitato dalla pressione sulla “periferia economica” del mondo della globalizzazione neoliberista, che dovrebbe seminare il caos nei paesi non ancora occupati dal grande capitale finanziario – che finanzia e appoggia più o meno nascostamente la jihad – ma che di questo caos e del sangue dei popoli si nutre, per crescere e “emanciparsi” dai suoi finanziatori. Il discorso dell’islam in espansione violenta – aspetto inquietante e oscuro del nostro Kālī yuga – si confonde con quello della guerra neocapitalista. La guerra, estendendosi, lo alimenta e l’islam trionfante, nelle sue forme più pure, originarie e ortodosse, alimenta la guerra. Infatti, è proprio guerra uno dei significati di jihad e islam vuol dire sottomissione a dio, più concretamente abbandono in una prigione totalitaria in cui la luce, fra le sbarre, non penetra. Se Kālī è violenza, l’islam è la spada affilata in una delle sue tante mani.

Eugenio Orso 

 
Un saggio su Kalergi PDF Stampa E-mail

11 Aprile 2015

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Siamo immersi nella crisi, la cosiddetta crisi europea. È quella crisi che molti si ostinano a definire economica mentre in realtà è soprattutto finanziaria, è la decadenza culturale, è l'invasione di masse allogene, è la scomparsa perfino della finzione democratica, è la posizione prona di fronte al mondialismo, è la povertà dei popoli e infine lo struggente dibattersi dell'individuo, costretto a girare in tondo, in quella che non è neanche più un'agonia, mancando proprio l'agone, visto il nascondersi del nemico.

Questa crisi, secondo l'autore, è troppo pervasiva per essere semplicemente frutto del caso o di malagestione. Deve essere il risultato di un disegno, di una volontà. Come tutte le tesi, anche questa nasce quindi da una intuizione, da una sintesi. Ma onestà intellettuale vuole che le intuizioni vadano confermate o rigettate alla luce dei fatti. È seguendo questo filo che l'autore si è imbattuto in Richard Coudenhove Kalergi, il cosiddetto "padre dell'Europa", figura controversa ma certamente importante. La scarsità, la superficialità, così come la tendenziosità delle notizie esistenti in rete, lo hanno costretto ad indagare maggiormente. Da un'indagine storica e filosofica, condotta su documenti e testi in ogni lingua, alla ricerca dei contatti personali, dei flussi di denaro, delle partecipazioni, dei profili dei personaggi secondari della vicenda, dopo mesi di ricerche e traduzioni, è nato il saggio di Matteo Simonetti "La verità sul Piano Kalergi", edito da Radiospada.

Si tratta del primo saggio in italiano e del secondo al mondo su questo personaggio, il suo pensiero e le sue azioni, i quali spesso sono considerati alla stregua di una bufala internettiana, sminuite nel loro significato, non capite, non indagate, taciute.

Accanto a questo tacere c'è, a contrasto, il prestigioso "Premio Kalergi" consegnato, tra gli altri, a Van Rompuy e Angela Merkel, a testimonianza che in certi ambienti Kalergi è molto conosciuto.

I movimenti euroscettici, oggi in crescita, si fermano purtroppo al contingente, non hanno una visione d’insieme, non scorgono gli ampi disegni e così non riescono ad incidere.  Questo libro, saggio storico-filosofico tutto rivolto all’attualità, colma una lacuna enorme analizzando con minuziosità fatti e misfatti dal 1920 ad oggi, “La verità sul piano Kalergi” rivela ciò che coscientemente è stato celato ai popoli e agli individui circa la natura di questa Europa.

Il conte Kalergi, mente di rilievo, ma anche forse inconsapevole pedina, è la figura di spicco di questa costruzione artificiale. Con lui e tramite lui agiscono poteri nascosti, che in un piano dettagliato e tramite un’opera paziente forgiano, anche nella teoria, una nuova élite, un nuovo stile di vita, che in parte è già in atto e in parte deve ancora completarsi.

Il testo di Kalergi “Praktischer Idealismus”, mai tradotto in italiano e praticamente reso introvabile, cancellato dalla storia, è al centro di questa riflessione, così come la sua “applicazione” socio-politica.  I risultati di tale analisi sono tanto spiazzanti e preoccupanti quanto indubitabili dal punto di vista storico. Emerge un Kalergi razzista, antidemocratico, cultore della violenza e dell'eugenetica, propugnatore dell'ingegneria sociale. Non si capisce come, alla luce di tutto ciò, o forse lo si capisce davvero per la prima volta, i politici europei possano con orgoglio ritirare un premio che porta il suo nome.

Si tratta di una lettura scomodissima, quella di "La verità sul piano Kalergi", nella quale tutti i caratteri di questa Europa, cioè tecnocrazia, finanza dominante sulla politica, morte dei popoli e delle nazioni e sostituzione demografica, emergono col loro vero volto, quello di strumenti di una dominazione occulta. Gli attori all'opera sono tre, distinti solo per comodità: la massoneria; un certo ebraismo finanziario ma non solo; le potenze anglofone. Alla luce di queste scoperte l’Europa odierna si configura come elemento centrale del mondialismo. Gli sconfitti, manco a dirlo, sono i popoli europei, nemmeno convocati al tavolo al quale si gioca il loro destino. 

 
Cosa succede in Turchia? PDF Stampa E-mail

10 Aprile 2015

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Le ultime notizie provenienti dalla Turchia ci raccontano che il presidente Recep Tayyip Erdogan, dopo i recenti episodi di terrorismo e di tensione interna, culminati con una inspiegabile sparatoria contro il pullman del club calcistico Fenerbahce a Trebisonda, ha promulgato una dura legge antiterrorismo.

Il pacchetto repressivo prevede la possibilità del fermo preventivo di polizia esteso a 48 ore senza la convalida del magistrato di turno, un maggiore uso discrezionale dell' uso delle armi da fuoco da part degli agenti per sgomberare la piazza in caso di disordini (la legge classifica fionde e bottiglie come "armi” cui la polizia ha il dovere di rispondere anche col fuoco) e permette sempre agli agenti la perquisizione di case sospette senza un mandato della magistratura: in pratica d' ora in poi qualsiasi commissario o funzionario di pubblica sicurezza potrà, di sua iniziativa, mettere a soqquadro una casa "sospetta" o presunta tale.

Dall' uso all' abuso il passo è breve e non bisogna di certo scervellarsi per capire che la Turchia sta scivolando nella dittatura, se già non vi si trova immersa.

Riguardo la sorte della democrazia ad Ankara e dintorni a noi poco importa: non saremo certo noi a stracciarci le vesti per difendere un modello liberale d'origine anglosassone, degenerato in mezzo mondo in oligarchia e lobbies e che ormai non ha più nulla da dire nemmeno in Occidente, guscio vuoto e cartina di tornasole per fessi o poveri sognatori.

Quello che a noi interessa è il seguente quesito: la Turchia è potenzialmente a rischio destabilizzazione interna e quali scenari si aprirebbero in tal caso?

Circa il secondo quesito, ci sarebbe da tremare in caso affermativo e nemmeno osiamo immaginarne le conseguenze.

Circa il primo quesito, si potrebbe affermare che il pericolo di una deriva violenta (anche se necessariamente non destabilizzante) c' è.

Per quanto gli si debbano riconoscere molti meriti, specie economici, Erdogan sta spingendo troppo l' acceleratore sulla re-islamizzazione di una società come quella turca, che anche ai tempi dell' Impero Ottomano non ha mai conosciuto eccessi nella pratica religiosa.

L' Islam turco è sempre stato moderato; nei secoli scorsi i sultani avanzavano con alterna fortuna nell' Europa balcanica, tenendo sotto minaccia costante pure quella occidentale in una politica che era forse più di conquista territoriale e di bottino che di instaurazione della civiltà islamica: il sultano si accontentava di essere il Califfo dei musulmani senza mai imporre ai sudditi cristiani l'Islam.

Le popolazioni balcaniche mordevano il freno per le tasse, la mancata indipendenza e il malgoverno ottomano, non per l'imposizione del credo di Maometto; anzi, le chiese orientali autocefale prosperavano pur sotto la Sublime Porta.

Costantinopoli era una città cosmopolita, con buona parte del commercio nelle mani di greci ed armeni, specie nel XIX secolo il capitale estero, nell'Impero, era il vero padrone dei primi timidi segnali di sviluppo.

Pure nelle campagne anatoliche, la Turchia profonda, la popolazione era sì tradizionalista ma non fanatica.

Il fatto stesso che Ataturk, colla sua laicizzazione imposta, divenne presidente anziché finire impiccato in piazza, dimostra molto sulla propensione equilibrata dell'Islam turanico.

Erdogan sta rompendo molti equilibri pluridecennali e se è vero che buona parte dell'Anatolia rurale è con lui, la Turchia "cittadina","urbanizzata", Istanbul, Ankara, Smirne, eccetera, da sempre la parte più dinamica della nazione, a malapena lo sopporta.

La continua imposizione di nuove norme sociali ispirate alla religione e la reislamizzazione dei costumi di una società che ha sempre avuto un alto tasso di laicismo nel DNA sta mettendo la nazione sotto pressione.

Oltretutto, immerso nella contraddizione tipica della nostra epoca, Erdogan ha atteggiamenti ambigui verso il confinante "Califfato": non lo combatte apertamente per non aiutare, di riflesso, i "peshmerga" e i curdi ma nemmeno lo appoggia; tiene sigillati i confini con la Siria ma allo stesso tempo permette qualsiasi traffico e mercimonio di foreign fighters, denaro, armi..eppure il Califfato non piace ad Erdogan ed Erdogan non piace al Califfato.

A che gioco stia giocando il presidente turco, francamente poco si capisce; se ipotesi si trattasse di una specie di conciliazione tra economia e sviluppo occidentale unito alla salvaguardia del costume islamico, tale gioco in Turchia, per le ragioni dette sopra, ha altissime probabilità di non riuscire.

Se mira a diventare un sultano repubblicano, deve fare i conti con una buona fetta del suo popolo, compresi vari movimenti, legali e non, che hanno usato e stanno usando il terrorismo.

La via del sultanato, per Erdogan, non sarà facile.

Monitoriamo con attenzione quel che avviene ed avverrà sulle due rive del Bosforo..

Simone Torresani

 
Su Naomi Klein e altro PDF Stampa E-mail

8 Aprile 2015

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Da Appelloalpopolo del 5-4-2015. Riproduciamo l’articolo e due commenti di particolare interesse (N.d.d.)     

 

La realtà sociale e culturale del nostro tempo presenta una strana contraddizione: da una parte l’organizzazione capitalistica della società mostra sempre più chiaramente i suoi limiti, la sua incapacità di assicurare la riproduzione sociale in termini sostenibili nel tempo. Appare via via più chiaro il fatto che il modo di produzione capitalistico, giunto alla fase attuale del suo sviluppo, non sa più assicurare i livelli di benessere e i diritti che erano stati garantiti ai ceti subalterni dei paesi occidentali per tutta una fase storica, e che esso, per continuare a sopravvivere, ha avviato pericolosi processi di dissoluzione dei legami sociali e di sconvolgimento di delicati equilibri ecologici. Allo stesso tempo però, e questo è l’altro lato della contraddizione, questi evidenti indizi di inceppamento dei meccanismi autoriproduttivi dell’attuale organizzazione sociale non suscitano un movimento politico che abbia chiara l’esigenza di superamento del capitalismo e sappia articolare tale esigenza inserendosi nelle linee di scontro che le crescenti complicazioni sociali fanno sorgere. Per usare un linguaggio d’altri tempi, crescono le difficoltà oggettive nella riproduzione del meccanismo sociale capitalistico, ma latitano le forze soggettive che dovrebbero iniziare la lunga e difficile lotta per una diversa organizzazione sociale.

Un piccolo esempio di questi problemi è fornito, a mio avviso, dalla pubblicazione in Italia dell’ultimo libro della celebre giornalista canadese Naomi Klein  e da alcune delle reazioni che esso ha suscitato. Il libro è interamente dedicato alla tematica del cambiamento climatico. La tesi fondamentale dell’autrice è che l’attuale organizzazione sociale non è ecologicamente sostenibile, e che, se vogliamo utilizzare davvero il poco tempo che ci resta per minimizzare gli sconvolgimenti causati dal cambiamento climatico ormai avviato, sono necessari mutamenti drastici nella società e nell’economia, e in particolare è necessario l’abbandono del modello socioeconomico neoliberista che è stato dominante negli ultimi decenni.

Ora, qui ciò che conta è naturalmente il fatto che una tesi simile sia sostenuta da una giornalista brava, ma soprattutto conosciuta in tutto il mondo, come Naomi Klein. Un personaggio simile, voglio dire, non è più una semplice opinionista come tanti o tante: quello che dice contribuisce a formare le convinzioni di una parte significativa dell’opinione pubblica mondiale. E d’altra parte, quello che scrive Naomi Klein è anche influenzato dalle evoluzioni dell’opinione pubblica. Basta leggere i ringraziamenti alla fine del libro (riempiono sette pagine, e pochissimi sono quelli strettamente privati) per capire che ciò che scrive Naomi Klein è la sintesi di elaborazioni, esperienze, lotte che vengono da tutto il mondo. Insomma, prese di posizione così nette da parte di un personaggio come Naomi Klein sono indice (insieme effetto e causa) di sommovimenti di grande importanza nella coscienza di settori non trascurabili dell’umanità contemporanea. Parti significative dell’opinione pubblica mondiale sono arrivate a convincersi che vi sia ormai una incompatibilità di fondo fra il capitalismo e il mantenimento di delicati equilibri ecologici, la distruzione dei quali può portare ad una gravissima crisi di civiltà; e che, di fronte ad una situazione “capitalism vs. the climate” (che è il sottotitolo dell’edizione inglese), si tratti ormai di scegliere.

Tutto questo è chiarito, fra l’altro, dal capitolo del libro dedicato ai “negazionisti”, cioè alle varie correnti di opinione, forti soprattutto negli USA, che appunto intendono negare o le tesi sull’esistenza del cambiamento climatico oppure le tesi che attribuiscono il cambiamento all’attività umana. Negli Stati Uniti tali correnti di opinione sono fortemente legate a vari settori del mondo conservatore. Il capitolo in questione è intitolato “La destra ha ragione”, e quello che Naomi Klein intende dire, con questo titolo, è che la destra USA si oppone alle tesi sul cambiamento climatico perché avverte correttamente che esse portano a mettere in discussione i principi del capitalismo neoliberista, e ovviamente è contraria a questo esito. Insomma, la coscienza che le tesi sul cambiamento climatico portano a rivedere profondamente, e in senso anticapitalistico, l’attuale organizzazione sociale, sembra essere sempre più diffusa nel mondo, in tutto l’arco delle opinioni politiche.

Se questo è davvero il senso del libro, è abbastanza chiaro quale dovrebbe essere, di fronte al movimento di coscienza di cui esso è segnale, l’atteggiamento di una forza politico-sociale anticapitalistica, e degli intellettuali che, marxisti o no, fanno riferimento ad una prospettiva di pensiero critico nei confronti dell’attuale organizzazione economico-sociale. Chiunque abbia una intenzionalità anticapitalistica dovrebbe sforzarsi di dare la massima diffusione a queste tesi e dovrebbe cercare di interagire con il movimento di opinione di cui esse sono indice, per aiutarlo a crescere su tutti i piani: sul piano del rigore intellettuale, su quello della capacità di proposta politica, sul piano organizzativo. Mentre sarebbe ovviamente un segno di immaturità politica mettersi a fare i maestri di marxismo che sottolineano con la matita, non saprei se rossa o blu, gli eventuali “errori”.

Faccio solo un esempio: da quanto scrive nel libro non è del tutto chiaro se Naomi Klein ritenga necessario il superamento del capitalismo in quanto tale o piuttosto della forma “neoliberista” che esso ha assunto negli ultimi decenni. Si tratta di una questione un po’ astratta, rispetto all’urgenza dei problemi, ma che non può essere trascurata. La scarsa chiarezza su questo punto potrebbe essere uno di quegli aspetti di ingenuità teorica che spesso hanno i movimenti allo stato nascente. Sarebbe però una ingenuità ancora maggiore quella di un marxista che rifiutasse di interagire con queste tematiche per via di tali insufficienze teoriche. Il compito di una realtà anticapitalistica seria sarebbe invece quello di discutere queste insufficienze, quando emergono, e soprattutto di mostrarne il collegamento con la realtà concreta: di mostrare cioè come il mantenere insufficienze e ambiguità teoriche sia alla fine di ostacolo all’attività pratica.

Quanto fin qui detto non rappresenta, è ovvio, nulla di particolarmente originale. L’intera tradizione politica dei partiti anticapitalisti, socialisti o comunisti, porta in questa direzione: di fronte all’emergere di una contraddizione nel meccanismo di riproduzione del capitale, si cerca di lavorare sulle linee di faglia che in tal modo si evidenziano per farne emergere le potenzialità anticapitalistiche. Rispetto alla realtà descritta da Naomi Klein, questa impostazione porterebbe appunto a quanto dicevamo sopra: un movimento politico-sociale anticapitalistico dovrebbe mettere la questione del cambiamento climatico al centro della propria agenda e cercare rapporti costruttivi con tutte le realtà (forze politiche, movimenti sociali, singoli intellettuali) che si stanno muovendo in questa direzione. Compresa naturalmente la stessa Naomi Klein.

Mi sembra si possa constatare che non è questo ciò che sta avvenendo. Naomi Klein è certo molto nota anche in Italia, il suo libro è stato recensito, e ne sono pure state organizzate affollate presentazioni, con la partecipazione dell’autrice. Non intendo cioè dire che essa venga ignorata. Quello che intendo dire è che mi sembra sia mancata la spinta a inserire tale questione nell’agenda da parte delle poche frange anticapitalistiche residue. Mi è capitato di leggere alcune recensioni piuttosto acide, da parte di intellettuali marxisti o comunque “critici”, il cui contenuto era in sostanza il fatto che l’anticapitalismo di Naomi Klein non appare conforme ai canoni marxisti, oppure che essa non indica un programma concreto per un eventuale movimento politico: come se questo non fosse appunto il compito di tutti gli anticapitalisti, che essi non possono certo delegare ad una giornalista, per quanto brava! Questo tipo di reazioni inducono fortemente il sospetto che l’anticapitalismo delle poche frange rimaste sia un semplice principio identitario inabile al confronto con la realtà, espressione di realtà incapaci di elaborare una autentica prospettiva politica e probabilmente, in fondo, anche scarsamente interessate ad una tale elaborazione. La situazione è dunque questa: da una parte un movimento che si origina da una delle fondamentali contraddizioni del capitalismo contemporaneo, spesso senza avere chiara coscienza teorica della natura del capitalismo stesso; dall’altra realtà anticapitalistiche che avrebbero gli strumenti intellettuali per interagire proficuamente con quel movimento, ma invece lo snobbano, arroccandosi in chiusure identitarie.

È questa la situazione cui mi riferivo all’inizio, parlando del “latitare del fattore soggettivo”. Credo che questo blocco del “fattore soggettivo” sia indice di un mutamento profondo nelle forme di coscienza del nostro tempo, rispetto a quelle prevalenti nel Novecento; e credo che questo mutamento sia la causa vera delle difficoltà di costruzione di una seria forza politico-sociale di resistenza anticapitalista. Su questo dovremo tornare.

Marino Badiale

 

Caro Marino,

non ho letto il libro ma soltanto il tuo articolo e le recensioni che segnali. Tuttavia mi sembra di capire, correggimi se sbaglio, che si riproponga l’ennesimo “movimento globale”, sebbene non, come nel 2001, no-global poi (divenuto) new-global, bensì ecologista, senza peraltro precisare come dovrebbe organizzarsi e agire questo ipotetico movimento.

L’idea, è soltanto una idea o desiderio visto che non sembra esservi una concreta proposta, si espone dunque a queste obiezioni:

1) nella storia non sono mai esistiti movimenti globali. L’internazionalismo è stata al più un’alleanza di movimenti o partiti nazionali;

2) io e te conveniamo che non è costruibile nemmeno un movimento europeo volto allo smantellamento dell’Unione europea, che d’altronde cadrebbe e cadrà quando un partito nazionale di uno degli stati centrali deciderà che è giunta l’ora, per il proprio Stato e il proprio popolo, di mettere fine all’avventura unionista;

3) i movimenti ecologisti nazionali non hanno mai raggiunto livelli importanti in termini di consenso elettorale e quando hanno raggiunto livelli più o meno significativi sono al più riusciti ad allearsi con una o altra coalizione, recando un po’ di verde in uno o altro programma politico;

4) un movimento o partito nazionale che, avendo preso il potere, facesse pian piano – ossia con la lungimiranza strategica necessaria a mantenere il potere per avere la possibilità di attuare altre parti fondamentali del suo programma – sua tale idea, impiegherebbe una quarantina di anni a fare passi significativi nella direzione che segnali, sempre però che riesca a costruire una economia verde che soddisfi la gran parte del popolo;

5) un internazionalismo fondato su questa idea presupporrebbe, dunque, prima la presa del potere in uno stato nazionale, di un partito che ottenesse concreti e significativi successi. In tal caso esso riuscirebbe ad influenzare le politiche di altri stati;

6) un partito che vuole andare al potere negli stati nazionali, può al più collocare il problema ecologico in un spazio relativamente circoscritto della sua agenda. Soprattutto quando, andato al potere, dalla declamazione ideologica si passa ad affrontare i quotidiani problemi di disoccupazione, dell’ordine pubblico e della criminalità, della scuola, dell’università, delle pensioni, della sanità, dell’informazione, dell’organizzazione e ramificazione del consenso, di politica estera, di politica militare, sia pure si spera pacifica (tanto più che si può prevedere un ventennio di continuo aumento di guerre).

Perciò, il dubbio che l’autrice si sia posta sul piano dell’irrealtà e dell’ineffettualità resta. Spetta a lei, comunque, dimostrare che da qualche parte l’idea riuscirà a radicarsi, concretizzarsi e ad assumere caratteri realistici ed effettuali. Marx non fu soltanto un teorico, scrisse anche un manifesto e fu un militante (non un attivista). Vediamo dunque cosa l’autrice saprà fare sul piano dell’azione, oltre a vendere libri tradotti in tutto il mondo, sperando di non essere in presenza dell’ennesima teoria ineffettuale, priva di concretezza e realismo, del tipo di quelle alle quali ci hanno abituati tanti intellettuali moderni, che non hanno avuto alcuna incidenza sulla realtà, pur avendo avuto anni o un lustro o addirittura due di notorietà, rivelatasi ex post assolutamente immeritata.

Stefano D’Andrea

 

Caro Stefano,

probabilmente abbiamo immagini diverse del personaggio Naomi Klein: da quanto dici sembri considerarla una specie di leader politico (non sei l’unico, direi), e quindi le chiedi un programma politico concreto. Per me è essenzialmente una brava giornalista che ci informa sullo stato dell’arte riguardo ai dibattiti sul cambiamento climatico e alle lotte su questi temi in varie parti del mondo. La cosa interessante è che una brava giornalista, senza nessuna preparazione marxista, semplicemente studiando questo problema, è arrivata alla convinzione dell’insostenibilità del capitalismo. Per il resto, sono ovviamente d’accordo con te. Semplicemente, “il resto”, cioè un progetto concreto e sensato di conversione ecologica dell’economia, e l’azione politica per realizzarlo, è compito storico di noi tutti.

Ti segnalo un unico punto di possibile disaccordo fra noi: se è corretto quello che afferma la stragrande maggioranza dei climatologi, non abbiamo quarant’anni di tempo.

Un caro saluto

Marino 

 
Blocco del MUOS PDF Stampa E-mail

7 Aprile 2015

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Da Catania Oggi del 5-4-2015 (N.d.d.) 

 

Il quotidiano “Corriere della sera” nell’edizione di sabato 4 aprile apre la sua prima pagina con un editoriale a firma del politologo Angelo Panebianco dal titolo “Il Paese nelle mani del Tar”, in riferimento al “blocco” dell’impianto di comunicazione satellitare MUOS in territorio di Niscemi in Sicilia.

Panebianco definisce subito come “una barzelletta inventata da qualcuno che ce l’ha con gli italiani” la sentenza del Tar e il sequestro della stazione statunitense da parte della Procura della Repubblica di Caltagirone, lamentando anche “il silenzio delle autorità nazionali”. Noi diciamo subito che ci stupisce questa sua “difesa d’ufficio” che riteniamo – è nostra opinione, pardon – non possa considerarsi a favore degli Italiani e (neanche a pensarlo…) dei Siciliani, ma (forse…) solo a favore degli Stati Uniti d’America che per questo marchingegno, pericoloso e aggressivo militarmente parlando, hanno speso miliardi di dollari.

Giorni prima di questo accalorato articolo di Panebianco, su questo giornale, noi abbiamo sottolineato il “quasi silenzio” da parte dei mass media sulla delicata vicenda, ben conoscendo le “ragioni” del silenzio assoluto delle competenti Autorità nazionali, ministero degli Esteri e ministero della Difesa: far passare sotto traccia un provvedimento inaspettato e, soprattutto, “inedito” in Italia, la presa di posizione di una Procura, che parte integrante è degli Organismi dello Stato, contro una struttura che italiana non è, ma “straniera” su terra italiana. Un episodio mai verificatosi che potrebbe avere conseguenze devastanti, con effetto “domino” incalcolabile.

Panebianco parla di “sicurezza nazionale” e di “impegni con l’alleato” (gli USA), e preferiamo pensare – non volendo fare torto al politologo, docente universitario e saggista – che gli sia sfuggito il ricordo del “Trattato di pace fra l’Italia e le Potenze Alleate ed Associate” di Parigi del 10 febbraio 1947, che all’articolo 50 comma 4 specifica “In Sicilia e Sardegna è vietato all’Italia di costruire alcuna installazione o fortificazione navale, militare o per l’aeronautica militare, fatta eccezione per quelle opere destinate agli alloggiamenti di quelle forze di sicurezza, che fossero necessarie per compiti d’ordine interno”. Quel Trattato, quell’articolo 50 (ovviamente…) sono stati disattesi sia dall’Italia che dagli Stati Uniti d’America, che li hanno considerati superati a seguito dei successivi Accordi e Protocolli bilaterali USA-Italia. Inutile chiedersi a cosa possano servire i Trattati se poi, a convenienza, non si tengono nel rispetto di ciò che è stato sancito e sottoscritto dalle parti in causa. Probabilmente Panebianco ha considerato marginale questo aspetto, probabilmente non ne ha tenuto conto perché – a suo avviso – andrebbe a discapito (o in discussione) la “sicurezza nazionale”.

Per Panebianco sono tutti da dimostrare i “rischi per la salute” che potrebbe comportare il MUOS, in special modo ”proprio in una fase in cui si profilano minacce gravissime per la vita (e dunque – si suppone – anche per la salute) degli italiani, in una fase in cui andrebbero accresciuti, e non indeboliti , tutti gli strumenti possibili di difesa, nonché la capacità di un partner affidabile per i suoi alleati militari”. Dopo quest’osservazione, ci vediamo costretti a chiederci: ma Angelo Panebianco conosce la reale portata della presenza statunitense in Sicilia, avviata sin da lontano 1950? Angelo Panebianco conosce il numero delle installazioni militari USA in Sicilia? Angelo Panebianco è consapevole che la Sicilia in oltre mezzo secolo è stata trasformata nell’arsenale più avanzato degli Stati Uniti d’America nell’area del Mediterraneo e oltre? E non si tratta di “arsenale difensivo”. Ci chiediamo ancora: Panebianco conosce cosa sono Sigonella, Augusta e la stessa Niscemi prima ancora del MUOS? Soprattutto, nel caso in specie: conosce cosa sia veramente il MUOS, o è convinto che sia esclusivamente un “sistema di difesa”?

Noi, in questa sede, non intendiamo rispolverare il folcloristico leit motiv della “non” applicata Autonomia della Sicilia, né ritenere corretti quanti si trincerano dietro alla circostanza occasionale, altrettanto folcloristica, che le basi militari esistenti in Sicilia siano Nato (oltreché italiane). Il MUOS, così come Sigonella (e altre installazioni) sono statunitensi a tutti gli effetti. Occorre ricordare che Sigonella – base italiana – “ospita” la Naval Air Station della VI Flotta Usa nel Mediterraneo, all’interno della quale insistono, nella massima autonomia, alti Comandi statunitensi e Global Hawks non di “pertinenza” italiana, né NATO, e armamenti e munizioni non noti. Non ci risulta poi (in merito agli Accordi bilaterali) che negli Stati Uniti d’America ci siano basi militari italiane. A quanto pare, gli Accordi e i Trattati USA-Italia sono stati sempre a senso unico, a discapito dell’Italia, da una punta all’altra dello stivale.

Siamo convinti – e lo abbiamo scritto innumerevoli volte – che il MUOS a Niscemi non sarà smantellato: è già realizzato e operativo in fase di collaudo. Non sarà il Tar, né la Procura di Caltagirone a mettere la parola “fine” a questa storia, e non solo per i miliardi di dollari spesi per gli impianti, ma in quanto gli USA hanno estrema necessità di avere a disposizione (magari quando potrà essere necessario) questa temibile “arma”. E se dovesse cadere il MUOS di Niscemi, fallirebbe l’intero sistema. Un sistema ideato e messo in atto (da una parte all’altra del globo) non certo per difendere gli Italiani (o i Siciliani) dall’ISIS e dal terrorismo.

Non poniamo alibi di sorta, dunque. La progressiva militarizzazione statunitense della Sicilia è sotto gli occhi di tutti.

Infine: alla “difesa” del “patrio suol” non dovrebbe pensarci lo Stato italiano? Oppure dobbiamo ritenere che il Paese Italia per sopravvivere ha necessariamente bisogno di un “tutor”?

Avremmo tante altre cose da dire sull’articolo di Panebianco: non mancheranno occasioni.

 

Salvo Barbagallo 

 
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6 Aprile 2015

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Da Comedonchisciotte del 3-4-2015 (N.d.d.)              

 

[…] Ma una delle scatole nere non era risultata irrimediabilmente danneggiata ed illeggibile? Già isolato il DNA di tutti e 150 passeggeri 150, tutti e proprio tutti in così poco tempo?

Ma la migliore è quella del giornalista che ha visto il filmato da telefonino e dice che "dà i brividi". Come i video che-non-vi-faremo-vedere dell'ISIS raccolti dalla signora Katz ad uso e consumo dei meshuge goyim.

Telefonino questo, tra parentesi, trovato miracolosamente intatto anche se precipitato ad una velocità che non ha dato invece scampo alle enormi turbine dell'aereo, nell'impatto con la montagna. Trovato per giunta tra migliaia di frammenti di fusoliera, motori, carne umana e bagagli, nel più grande puzzle della storia risolto nel minor tempo assoluto. Alla Ravensburger sono ancora ammutoliti.

Ma si può credere a questa pagliacciata? Non ne ho scritto finora solo perché volevo vedere, come nello sketch di Totò su "Pasquale maledetto", questi stupidi fin dove volevano arrivare.

Sono giorni che va avanti la farsa a puntate, alla quale si aggiunge un capitolo al giorno, praticamente un feuilletton alla Gaston Leroux, e il livello del ridicolo è ormai vicino a tracimare. Manca solo un bimbetto che alzi la manina e riveli l'oscena nudità dell'Imperatore.

Un aereo è andato a schiantarsi su una montagna, si, ma di bugie, fate ingollare con l'imbuto ogni sera dai kapò dell'informazione, che non si vergognano di rendere sempre più ridicola la loro categoria di fronte a milioni di telespettatori.

Ormai abituati a mentire ed affabulare su tutto: sulla ripresa dell'economia, sulla bontà dell'Europa, sull'uscita dal tunnel, sulla bravura di Renzi, sull'onestà del PD e su D'Alema-che-non-è-indagato, non trovano alcuna incongruenza nella favola del pilota kamikaze perché depresso. Con nessuno che abbia chiamato terra con il telefonino: "Ehi, c'è un pazzo chiuso in cabina che vuole farci schiantare!" Su United 93 telefonavano a manetta, non dite che non è possibile. Non avete visto il film? Beh, capolavoro!

Eh sì, quanto mi è puzzata da subito la gita in montagna della cancelliera callipigia e di Hollande: ben due capi di stato aviotrasportati, con tutto l'ambaradan di sicurezza ed intelligence che la cosa comporta, e in men che non si dica, sul luogo del disastro, a dare una mano di propaganda europeista quanto mai inopportuna su un evento che era "soltanto" l'ennesima fatale sciagura aerea. O no?

Per non parlare del fetore che emana l'autopsia in diretta della mente del povero Lubitz. Il solito capro espiatorio sempre pronto in questi casi. Telediagnosticato di ogni tipo di sindrome depressiva - quando caso mai si tratterebbe di mass-murderer, dai soliti incompetenti che si permettono di parlare di psichiatria quando sarebbe meglio che parlassero di calcio, e poi e poi.

Abbiamo assistito alla costruzione di un personaggio perfetto in senso letterario da dare in pasto all'opinione pubblica che, per paura di vedersi appiccicare la lettera scarlatta del complottismo, non oserà mettere in dubbio la sua veridicità, nonostante un film argentino recente abbia praticamente raccontato, con mesi d'anticipo, la stessa identica storia grottesca di questo Gabriel Pasternak tedesco. C'è effettivamente un filo che lega gli sceneggiatori cinematografici e gli spin doctors. Da sempre. Sappiatelo.

E poi il ridicolo autodafé dei tedeschi che si sentono toccati nella loro preziosa infallibilità e ci fanno su le copertine lacrimogene autocommiseranti.

Chiediamoci piuttosto quanti sono ormai ultimamente gli aerei caduti, scomparsi, volatilizzati e le vittime sui cui tragici destini si stanno raccontando le versioni più assurde, quasi che chi le inventa volesse solo sadicamente prendersi gioco di una platea di boccaloni ontologicamente inferiori?

Perché i piloti delle linee aeree cominciano a rifiutarsi di volare dopo questi ultimi incidenti?

Ma credete davvero che, seppur in una linea aerea low cost, un pilota possa tenere nascosto uno stato mentale come quello che viene ora attribuito a Gabriel Pasternak, oops!, a Lubitz?  Hanno tentato pure di infilarci la storia che si era appena lasciato con la morosa. Manco la D'Urso.

Voi credete pure che le cose siano andate come vi stanno raccontando. Io sento puzza di spin lontano un chilometro. Non posso farci niente. Trascende ogni mio controllo. Da quella sera dell'undici settembre quando dissero di aver trovato, tra le macerie fumanti e il polverone di due grattacieli crollati, il passaporto intatto del "terrorista arabo", scusatemi tanto, ma non credo più a niente.

 

Barbara Tamperi 

 
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